LA CORTE DI APPELLO 
    All'udienza del  21  ottobre  2008  ha  pronunziato  la  presente
ordinanza nella causa in grado di appello iscritta  al  n.  4589  del
Ruolo  Generale  Affari  Contenziosi  dell'anno  2006  vertente   tra
Giuseppe Grieco,  elettivamente  domiciliato  in  Roma,  viale  delle
Milizie n. 37 presso lo studio dell'avv. L. Zezza e S.  Galleano  che
lo rappresentano e difendono per delega in atti, appellante  e  Poste
Italiane S.p.A. in persona del  legale  rappresentante  pro  tempore,
elettivamente  domiciliata  in  Roma   viale   Mazzini   n.   134   e
rappresentato e difeso dall'avv. L. Fiorillo  per  procura  in  atti,
appellato. 
    La Corte, letti gli atti e le note  depositate  ed  esaminata  la
documentazione allegata, osserva quanto segue: 
        l'odierno appellante ha chiesto  la  riforma  della  sentenza
impugnata con la quale e' stata  respinta  la  sua  domanda  tesa  ad
ottenere  l'accertamento  della  nullita'  del  termine  apposto   al
contratto di lavoro stipulato con la societa' appellata  per  ragioni
di carattere  sostitutivo  di  personale  assente  con  diritto  alla
conservazione del posto. 
    Con il gravame ha reiterato tutte le ragioni poste  a  fondamento
del ricorso introduttivo  del  giudizio  rilevando  che  la  sentenza
impugnata ha motivato il rigetto con  argomentazioni  non  pertinenti
rispetto alla fattispecie dedotta in giudizio (la specifica  clausola
contrattuale apposta al contratto) e dunque con affermazioni che  sul
piano probatorio non sono conferenti. 
    Premesso, quindi, che le ragioni di doglianza formulate attengono
al mancato esame da parte della sentenza impugnata  delle  specifiche
ragioni poste  a  fondamento  della  domanda,  l'appellante  pone  in
evidenza che nel sistema del decreto legislativo 6 settembre 2001  n.
368 le ragioni di  carattere  tecnico,  produttivo,  organizzativo  e
sostitutivo devono rispondere ad una esigenza «speciale»  del  datore
di lavoro  (art.  1,  comma  1)  e  l'apposizione  del  termine  deve
risultare da atto scritto e motivato (art. 1, comma 2). 
    Nel caso in cui le ragioni non siano specifiche ovvero manchi  il
collegamento causale con l'assunzione,  e  l'onere  probatorio  della
sussistenza dei detti requisiti non sia compiutamente  assolto  dalla
parte datoriale su cui grava, il termine  sarebbe  nullo  e,  essendo
venuta meno la clausola limitativa della durata, il contratto sarebbe
a tempo indeterminato, posto che la sanzione  dell'inefficacia  della
clausola e' prevista proprio dal comma  2  dell'art.  1  della  legge
citata. 
    Pertanto, ha concluso per la declaratoria  dell'esistenza  di  un
rapporto di lavoro a tempo indeterminato  dal  4  ottobre  2003;  per
l'inefficacia, annullabilita' o nullita' del recesso  con  ordine  di
reintegrazione e condanna al risarcimento del  danno  in  misura  non
inferiore a cinque mensilita'.  In  alternativa  o  in  subordine  ha
chiesto il ripristino del rapporto e la condanna alla  corresponsione
delle retribuzioni mensili maturate,  anche  a  titolo  risarcitorio,
fino all'effettiva reintegrazione. 
    Poste Italiane S.p.A. si e' costituita ed ha  rilevato  che  deve
essere esclusa  la  necessita'  che  il  contratto  sia  sorretto  da
esigenze eccezionali e strettamente temporanee; che  sia  sufficiente
che sussistano oggettivamente ragioni di tipo organizzativo, tecnico,
produttivo  o,  appunto,  come  nel   caso   dedotto   in   giudizio,
sostitutivo;  che  tali  ragioni  devono  essere   reali   e   dunque
verificabili di tal che al lavoratore sia consentito di escluderne un
utilizzo abusivo. Dopo aver dedotto che tutte queste condizioni erano
state rispettate nel caso in esame,  ha  escluso  di  essere  rimasta
inadempiente all'obbligo  di  specificare  per  iscritto  le  ragioni
sostitutive, ed ha precisato di avere,  comunque,  chiesto  di  poter
procedere  all'istruttoria  testimoniale  sul  punto.   Quanto   alle
conseguenze  della  declaratoria   di   illegittimita',   l'appellata
sostiene che la sanzione non  potrebbe  essere  quella,  prospettata,
della convertibilita'  del  rapporto  mancando,  in  tal  senso,  una
previsione di legge.  Ne'  sarebbe,  nella  prospettazione  difensiva
della societa', applicabile al caso in esame  il  disposto  dell'art.
1419 c.c. e cio'  perche'  :  1)  il  termine  apposto  aveva  natura
essenziale; 2) diversamente, la  societa'  non  avrebbe  concluso  il
contratto;  3)  la  relativa   clausola   era   stata   espressamente
sottoscritta dal lavoratore. 
    Quanto alle conseguenze economiche, ad avviso dell'appellata,  le
retribuzioni sarebbero,  in  ipotesi,  dovute  solo  dalla  effettiva
ripresa del servizio o, al piu', dalla messa in  mora  da  parte  del
lavoratore mediante offerta  della  propria  prestazione  lavorativa,
nella specie realizzatasi  solo  con  la  notificazione  del  ricorso
introduttivo del giudizio. 
    Nel corso di questo giudizio di  gravame  e'  entrato  in  vigore
l'art. 21 del d.l. n. 112/2008, come convertito in legge n. 133/2008,
che ha introdotto nel decreto legislativo n.  368/2001  l'art.  4-bis
che titola: «Disposizione transitoria concernente l'indennizzo per la
violazione delle norme in materia di apposizione  e  di  proroga  del
termine» e dispone che «1. Con riferimento ai soli giudizi  in  corso
alla data di entrata in vigore della presente disposizione,  e  fatte
salve le sentenze passate in giudicato, in caso di  violazione  delle
disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore  di  lavoro  e'
tenuto  unicamente  a  indennizzare  il  prestatore  di  lavoro   con
un'indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un  massimo
di sei mensilita' dell'ultima retribuzione globale  di  fatto,  avuto
riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio  1966,
n. 604, e successive modificazioni». 
    Tutto cio' premesso in fatto, la Corte rileva che  l'art.  1  del
d.lgs. n. 368/2001, che regola pacificamente la fattispecie  oggi  in
esame, trattandosi di contratto stipulato il 3 ottobre 2003 (v.  doc.
1 in atti Grieco), nel testo ratione temporis applicabile,  prescrive
al primo comma  (oggi  art.  1  n.  1  per  effetto  delle  modifiche
introdotte dalla legge 24 dicembre 2007, n. 247)  che  E'  consentita
l'apposizione di un termine  alla  durata  del  contratto  di  lavoro
subordinato a fronte di ragioni  di  carattere  tecnico,  produttivo,
organizzativo o sostitutivo. Al secondo comma (oggi n. 2) poi prevede
che L'apposizione del termine e' priva di  effetto  se  non  risulta,
direttamente  o  indirettamente,  da  atto  scritto  nel  quale  sono
specificate le ragioni di' cui al comma 1. Per semplicita' espositiva
si continuera' a fare riferimento nella motivazione all'articolazione
in commi vigente all'atto della stipula del contratto e  come  citata
dalle parti nelle loro difese. 
    Questa   Corte   si   e'   gia'   occupata   della   legittimita'
dell'apposizione del termine in fattispecie analoghe e degli  effetti
conseguenti ed ha  ritenuto  che  il  legislatore,  nel  recepire  la
direttiva 1999/70/CE e ridisegnare la disciplina del lavoro  a  tempo
determinato, ha introdotto una clausola molto ampia di legittimazione
del contratto a termine, che per la sua generalita' viene a  superare
l'impostazione della normativa antecedente in vigenza della quale  le
assunzioni a termine erano vietate salvo che in ipotesi tassative. 
    Tuttavia, con la previsione  contenuta  nel  richiamato  comma  2
della medesima norma, il legislatore, a  fronte  dell'ampiezza  delle
possibilita' nelle quali e' possibile concludere un contratto a tempo
determinato di cui alla clausola generale  dettata  nel  primo  comma
dell'art. 1 e  alla  maggiore  autonomia  concessa  alle  parti,  ha,
tuttavia, espressamente stabilito un  onere  di  specificazione,  per
iscritto, delle ragioni a carico del datore di lavoro. 
    In conseguenza, questa Corte ha tratto il convincimento  che  per
la stipulazione di un valido contratto a termine, le ragioni  di  cui
al  comma  1  non  possono   essere   tautologicamente   ripetute   o
semplicemente determinate senza precisione, con  una  giustificazione
che si risolva sostanzialmente in una letterale riproposizione  delle
cause di cui al primo comma; in tali  casi  sarebbe,  infatti,  eluso
l'onere  di  specificazione  di  cui  al  comma  2.  Ed  ha  ritenuto
necessario, perche' possa dirsi assolto  l'onere  di  specificazione,
che dalle ipotesi generali indicate dal legislatore, in via astratta,
nella  prima  parte  della  norma  (ragioni  di  carattere   tecnico,
produttivo,   organizzativo   o   sostitutivo),   si    passi    alla
determinazione delle esigenze che, nel caso concreto,  legittimano  e
motivano il ricorso ad una assunzione a  termine,  cosi'  da  rendere
controllabile da parte del giudice la reale sussistenza delle stesse. 
    Trattandosi di una specificazione necessaria, ai sensi di  legge,
nell'ambito del testo negoziale, e' stato affermato che si tratta  di
un elemento essenziale e di un requisito necessario della fattispecie
delineata dal legislatore per  la  valida  apposizione  del  termine.
Qualora dette ragioni non siano  state  specificate  (o  siano  state
insufficientemente  o   tautologicamente   esplicitate)   nel   testo
contrattuale ne ha tratto  la  conseguenza  della  invalidita'  della
clausola contenente  il  termine  per  carenza  di  un  suo  elemento
essenziale di carattere formale. 
    Nei casi in cui, invece,  le  ragioni  delle  parti  siano  state
formalmente e sufficientemente  specificate  nello  scritto,  ma  sia
risultato accertato, in seguito all'istruttoria, l'insussistenza  dei
fatti posti a fondamento delle stesse (e quindi delle stesse esigenze
dichiarate), la clausola contenente il termine e'  stata  considerata
illegittima per l'assenza del presupposto legale  necessario  per  la
sua validita', cioe' per il difetto, nel caso concreto, delle ragioni
di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo di  cui
al comma 1 cit. 
    Osserva  in   proposito   questa   Corte   che   questa   opzione
interpretativa raccoglie le indicazioni dell'Accordo quadro  allegato
alla direttiva 1999/70 CE, della  quale  il  decreto  legislativo  n.
368/2001  costituisce  attuazione,  che,  nella  clausola   3   delle
definizioni,  recita:  ai  fini  del  presente  accordo,  il  termine
lavoratore a tempo determinato indica una persona con un contratto  o
un rapporto di lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro e
il  lavoratore  e  il  cui  termine  e'  determinato  da   condizioni
oggettive,  quali  il  raggiungimento   di   una   certa   data,   il
completamento di un compito specifico o il verificarsi di  un  evento
specifico. 
    L'assenza  di  quelle  condizioni  obiettive  che   siano   state
specificate  e  formalmente  dichiarate  dalle  parti  come   ragioni
giustificative del termine, determina, in conclusione,  l'invalidita'
della relativa clausola, come del resto sancisce l'art.  1,  comma  1
cit., che vuole consentita l'apposizione di un  termine  alla  durata
del contratto solo a fronte delle ragioni nello stesso elencate. 
    In altri termini, il requisito formale di cui al comma 2  citato,
e' assolto quando siano  inseriti  nel  testo  contrattuale  elementi
sufficienti per il controllo sulla reale  sussistenza  delle  ragioni
menzionate  e  per  consentire  al  lavoratore  di  averne   contezza
effettiva e al giudice, in caso di contrasto, di verificarne la reale
consistenza e di individuare le reali esigenze alle quali  il  datore
di lavoro ha inteso sopperire con la  stipulazione  del  contratto  a
tempo determinato. 
    Il legislatore - consentendo una maggiore autonomia  delle  parti
rispetto al passato, con la previsione, in  via  astratta  (in  luogo
delle ipotesi tassative), della amplissima e  generale  casistica  di
cui  all'art.  1,  comma  l  -  ha  posto  il   suddetto   onere   di
specificazione al fine di evitare che la  clausola  del  termine  sia
utilizzata anche laddove  non  ricorrano  reali  esigenze  aziendali,
vincolando, quindi, tale  liberta'  alla  effettiva  esistenza  delle
ragioni giustificatrici. 
    Allo stato e per quanto e' dato delibare ai fini dell'esame della
questione di conformita' a Costituzione, la clausola  appositiva  del
termine di scadenza al contratto di lavoro dedotto  in  giudizio  non
reca quegli elementi di specificazione che,  come  si  e'  detto,  ne
legittimano l'apposizione. 
    L'assunzione  e'  stata  disposta  per  «ragioni   di   carattere
sostitutivo correlate alla  specifica  esigenza  di  provvedere  alla
sostituzione di personale inquadrato nell'Area operativa e addetto al
servizio recapito, presso la Regione Sud, assente  con  diritto  alla
conservazione del posto di lavoro nel periodo dal 1° ottobre 2003  al
31 dicembre 2003. Resta inteso che il  rapporto  di  lavoro  a  tempo
determinato si estinguera', anche anticipatamente rispetto al termine
finale del 31 dicembre 2003 ove le esigenze di sostituzione dovessero
venir meno per il rientro in servizio del personale assente». 
    Orbene,  osserva  questa  Corte  che  le  ragioni  di   carattere
sostitutivo  non  sono  precisate  nel  concreto  e  con  riferimento
specifico alla struttura alla quale il Grieco sarebbe  stato  addetto
(filiale  di  Salerno  2  -  Sala  Consilina),  tale  non   potendosi
considerare il generico riferimento ad  una  esigenza  di  provvedere
alla sostituzione  di  personale  inquadrato  nell'Area  operativa  e
addetto al servizio di recapito presso la  Regione  Sud  con  diritto
alla conservazione del posto. Come e' noto la «Regione Sud» comprende
un'area  ben  piu'  vasta  di  quella  di  destinazione  (filiale  di
Salerno), ne' e' stato, neppure indirettamente, precisato  se  e  per
quali specifiche  aree  della  regione  tali  esigenze  si  sarebbero
manifestate. 
    La genericita' delle espressioni  utilizzate  non  evidenzia,  in
questa fase di delibazione, l'individuazione del  nesso  causale  tra
l'assunzione del Grieco e le concrete esigenze della  Societa'  Poste
Italiane, con specifico riferimento al preciso ambito  organizzativo.
Non e' dato conoscere neppure numericamente l'incidenza delle assenze
sull'organico della filiale di destinazione di tal che e'  interdetto
al lavoratore in prima battuta, e al giudice poi,  di  verificare  la
effettivita'  delle  ragioni  giustificatrici  per  esercitare   quel
controllo che, quanto  meno  ex  post,  deve  essere  effettuato  dal
giudice in relazione alla sussistenza  della  causale  giustificativa
della limitazione temporale del rapporto. 
    Peraltro, nel caso in esame, tale verifica appare preclusa  anche
a  causa  della  estrema  genericita'  delle  circostanze  di   prova
articolate dalla societa' appellata nella memoria di primo  grado,  e
reiterate in appello, che tautologicamente ripetono la  causale  gia'
riportata nel contratto senza null'altro aggiungere neppure in via di
allegazione (cfr. memoria Poste I pagg. 2 e 11). 
    Va precisato che nel  caso  in  esame,  contrariamente  a  quanto
dedotto dalla societa' nella memoria di costituzione in giudizio, non
e' stata concordata alcuna clausola che  attribuisca  al  termine  di
durata il valore di pattuizione essenziale. 
    Sicche', a prescindere dalla efficacia di una pattuizione di  tal
fatta,  accedendo  alla  proposta  interpretazione  della   normativa
applicabile al  caso  concreto,  conseguenza  della  declaratoria  di
nullita' del termine, prima dell'entrata in vigore della legge n. 133
del 2008, sarebbe il ripristino del rapporto. 
    Questa Corte in altre decisioni ha gia' statuito che la  nullita'
della clausola non travolge l'intero  contratto  prevalendo,  in  una
prospettiva interpretativa delle norme conforme ai  principi  dettati
dalla direttiva comunitaria, il principio di conservazione degli atti
e,  dunque,  la  persistenza  di  un  rapporto  di  lavoro  a   tempo
indeterminato tra le parti. In tal senso si e' pronunciata di recente
la suprema Corte che ha affermato che «l'art. 1 del d.lgs. n. 368 del
2001, anche anteriormente alla modifica introdotta dall'art. 39 della
legge n. 247 del 2007, ha confermato il  principio  generale  secondo
cui  il  rapporto  di  lavoro  subordinato  e'  normalmente  a  tempo
indeterminato,  costituendo  l'apposizione  del  termine   un'ipotesi
derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una
clausola generale legittimante l'apposizione del termine "per ragioni
di  carattere  tecnico,  produttivo,  organizzativo  o  sostitutivo".
Pertanto, in caso di insussistenza delle ragioni  giustificative  del
termine, e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente  la
mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia
di nullita' parziale  del  contratto  e  di  eterointegrazione  della
disciplina contrattuale, nonche'  alla  stregua  dell'interpretazione
dello stesso art. 1  citato  nel  quadro  delineato  dalla  direttiva
comunitaria 1999/70/CE (recepita con il richiamato  decreto),  e  nel
sistema generale dei profili  sanzionatori  nel  rapporto  di  lavoro
subordinato, tracciato dalla Corte cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del
2005, all'illegittimita' del termine ed alla nullita' della  clausola
di apposizione dello stesso consegue l'invalidita' parziale  relativa
alla sola clausola e l'instaurarsi di un rapporto di lavoro  a  tempo
indeterminato e  cio'  anche  nel  caso  in  cui  tra  le  parti  sia
intercorso un unico contratto a termine» (v. Cass. 12985/2008). 
    Queste,  in  conclusione,  nel   caso   concreto   sarebbero   le
conseguenze  della  eventuale  declaratoria  di  illegittimita'   del
contratto, conseguenze oggi  precluse  per  effetto  dell'entrata  in
vigore dell'art. 21-bis del decreto legge n. 112/2008, convertito con
modificazioni nella legge n. 133/2008 che ha introdotto  nel  decreto
legislativo n. 368/2001 l'art. 4-bis. 
    Non solo, quindi, sarebbe esclusa la possibilita' di ripristinare
il  rapporto  di  lavoro,  ma  l'indennita'   riconoscibile   sarebbe
necessariamente  limitata  nel  minimo  a  2,5  e  nel  massimo  a  6
mensilita'. 
    Questa Corte ritiene che non si possa  dubitare  della  rilevanza
della questione di legittimita' costituzionale del piu' volte  citato
art. dell'art. 21, comma 1-bis della legge n. 133/2008, sulla  scorta
di quanto osservato con riferimento alla vicenda dedotta in giudizio,
per quanto e' necessario e consentito ai fini della delibazione della
questione di costituzionalita', e della  non  manifesta  infondatezza
della questione di legittimita' costituzionale per contrasto con  gli
artt. 3, 24, primo comma, 111, primo comma e 117, primo comma,  della
Costituzione, nel significato che assumono anche  per  effetto  delle
proclamazioni contenute nell'art. 6  della  Convenzione  europea  dei
diritti dell'uomo, e negli artt. 20 e  47  della  Carta  dei  diritti
fondamentali dell'Unione europea proclamata a  Nizza  il  7  dicembre
2000, alle quali la Corte costituzionale ha  indubbiamente  assegnato
il   valore   di   parametro   di   riferimento   nel   giudizio   di
costituzionalita'  (v.  Corte  cost.  n.  135/2002),   implicitamente
riconoscendo che i diritti e le liberta' fondamentali derivanti dalle
fonti di convenzioni e trattati sovranazionali,  affiancandosi  quali
valori-diritti alla dignita' delle persone, compongono un  quadro  di
proclamazioni assimilabili al livello costituzionale. 
Contrasto con l'art. 3 della Costituzione. 
    Va considerato che tutti i poteri pubblici, anche quelli di rango
costituzionale, possono e devono essere esercitati unicamente per  il
perseguimento dei fini in relazione ai quali il potere e' attribuito.
E' questo  il  connotato  dei  poteri  costituzionali  delle  moderne
democrazie poiche' si tratta di poteri discrezionali  ma  non  liberi
nei  fini,   secondo   la   definizione   di   accreditata   dottrina
costituzionalista. 
    Ne consegue che gli organi cui sono affidate le massime  funzioni
nelle  quali  si  esprime  la  sovranita'  dello  Stato  non  possono
espletare le potesta' loro attribuite per scopi diversi da quelli cui
le funzioni stesse sono finalizzate, tantomeno in via strumentale per
ledere diritti e principi stabiliti dalla Costituzione. 
    Tale finalita' e' vietata dalla nostra Costituzione. 
    In particolare, il potere legislativo, subordinato com'e' al pari
degli altri  poteri  costituzionali  all'impero  delle  norme  e  dei
principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, incontra  nel
suo  esplicarsi,  il  limite   della   legalita'   costituiti   dalla
ragionevolezza dell'intervento legislativo (cfr. Corte costituzionale
7 luglio 1964 n. 72, 15 luglio 1991 n. 346). 
    Tanto  premesso,  questa  Corte  osserva  che   la   disposizione
denunciata e' stata introdotta, per i contratti regolati dal  decreto
legislativo n. 368/2001, rispetto ai quali sia pendente  un  giudizio
circa la  legittimita'  del  termine  apposto,  una  regolamentazione
diversa rispetto a quella in via generale applicabile ai contratti  a
termine, secondo  quanto  generalmente  affermato  in  materia  dalla
giurisprudenza di merito e di legittimita'. 
    Per effetto dell'entrata in vigore della legge n. 133  del  2008,
infatti, ove  sia  pendente  un  giudizio  (e  salvi  dunque  solo  i
giudicati) la tutela accordata  ai  contratti  a  tempo  determinato,
stipulati nella vigenza del decreto legislativo n. 368 del 2001 e che
siano illegittimi in quanto stipulati in violazione dell'art. 1, 2  e
4  del  decreto  stesso,  e'  limitata  al  solo  pagamento  di   una
«indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di
sei mensilita'  dell'ultima  retribuzione  globale  di  fatto,  avuto
riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio  1966,
n. 604, e successive modificazioni». 
    La norma censurata non contiene alcun riferimento all'obbligo per
il datore  di  lavoro,  pur  previsto  dall'art.  8  della  legge  n.
604/1966, di procedere al  pagamento  dell'indennizzo  solo  ove  non
provveda nel termine di  tre  giorni  a  riassumerlo,  ma  limita  il
richiamo ai soli criteri  da  seguire  per  l'esatta  quantificazione
dell'indennita'. 
    Cosi' facendo il legislatore  ha  ridotto  la  tutela  accordata,
avendo riguardo al solo discrimine temporale della  attuale  pendenza
di un giudizio. 
    Per tutti quei contratti  a  termine  stipulati  nel  regime  del
decreto legislativo n. 368/2001 il  cui  ricorso  introduttivo  della
lite sia stato depositato successivamente all'entrata in vigore della
legge n. 133/2008 le conseguenze restano quelle gia' previste e sopra
diffusamente riportate (ripristino del rapporto  e  risarcimento  del
danno). 
    Il  discrimine  per  individuare  la  normativa  applicabile  e',
dunque, del tutto casualmente ancorato al  fatto  che  il  lavoratore
abbia o meno iniziato un giudizio. 
    A giudizio di questa Corte che  non  vi  e'  alcun  elemento  per
ritenere che la scelta del legislatore sia stata  determinata  da  un
meditato ripensamento delle tutele  da  accordare,  in  generale,  ai
contratti a tempo determinato. 
    Questa Corte e' ben  a  conoscenza  dei  principi  affermati  dal
Giudice delle leggi il quale in piu' occasioni ha precisato  che  ben
puo' il legislatore applicare  alla  stessa  categoria  di  soggetti,
trattamenti differenziati in momenti  diversi  nel  tempo.  La  Corte
costituzionale ha, infatti, ancora  di  recente,  ribadito  che  tale
scelta non contrasta di per se'  con  il  principio  di  eguaglianza,
posto che  proprio  il  fluire  del  tempo  costituisce  un  elemento
diversificatore  delle   situazioni   giuridiche.   La   demarcazione
temporale consegue, come effetto  naturale,  alla  generalita'  delle
leggi e non comporta, di  per  se',  una  lesione  del  principio  di
parita' di trattamento sancito dall'art.  3  della  Costituzione  (v.
Corte cost. 234/2007 e ordinanze 342/2006, 216/2005 e 121/2003). 
    Tuttavia la legge in esame non si compendia  nella  rimeditazione
complessiva  degli  effetti  con  riferimento  alla  generalita'  dei
soggetti, canone di eguaglianza  che  deve  permanere  ove  il  tempo
determini una modifica della disciplina, ma, piuttosto,  contiene  la
previsione, di una sorta  di  moratoria  delle  conseguenze  generali
rispetto ad un contenzioso  temporalmente  definito  (cause  pendenti
alla data del 22 agosto 2008), ma certo non esaurito per il futuro. 
    Questa Corte non dubita che il legislatore  abbia  il  potere  di
dettare norme aventi contenuto concreto  e  particolare  dalle  quali
possano derivare effetti nei riguardi dei procedimenti giudiziari  in
corso ovvero sui provvedimenti giurisdizionali. Non  e'  ravvisabile,
in via generale, un'illegittima invasione  da  parte  della  funzione
legislativa nell'ambito riservato  dalla  Costituzione  all'autorita'
giudiziaria, posto che la norma di diritto sostanziale che regola una
situazione anche pregressa, senza violare il giudicato,  non  sottrae
al giudice alcuna controversia, ma gli fornisce, appunto,  la  regola
di diritto che egli deve applicare. Ma  con  la  norma  in  esame  il
legislatore non ha regolato diversamente - come bene avrebbe potuto -
gli effetti rispetto a tutti i contratti stipulati da una certa  data
in poi, ma ha scelto, ad avviso di questa Corte in maniera del  tutto
irragionevole,  di  limitarne  gli  effetti  alle  sole  controversie
pendenti. 
    Non e' infatti ravvisabile alcuna giustificazione  razionale  nel
fatto che la disposizione modifichi la regola sostanziale rispetto ad
una categoria di soggetti,  riducendo  la  tutela  mentre  pendono  i
giudizi, proprio e solo per il fatto di  avere  una  causa  in  corso
(che' se avessero tardato a proporla, il loro diritto  sarebbe  stato
fatto salvo). 
    Con l'aggravante che proprio per il modo in  cui  interviene  con
riferimento ai soli giudizi in corso, il  comma  1-bis  dell'art.  21
della legge n. 133 del 2008 finisce  per  amplificare  ulteriormente,
anche sul piano dell'utilizzo degli strumenti processuali di tutela e
pertanto sul piano del diritto alla  difesa  e  dell'«equo  processo»
(artt. 3, 24, primo  comma  e  111,  primo  comma,  117  Cost.),  gli
effetti,  gia'  illustrati  e   per   loro   stessi   discriminatori,
dell'intervento provvedimentale mirato alle applicazioni del  sistema
sanzionatorio relativo agli artt. 1, 2 e 4 del decreto legislativo n.
368 del 2001. 
Contrasto con gli artt. 24, primo comma,  111,  primo  comma  e  117,
primo comma della Costituzione. 
    Va Premesso che, dal complessivo tenore delle norme richiamate  e
dall'interpretazione che delle stesse  ha  ripetutamente  offerto  la
Corte costituzionale, emerge con  evidenza  l'esistenza,  nel  nostro
ordinamento costituzionale, di  un  principio  immanente  del  giusto
processo,  che  proclamato  dall'art.  111,  primo  comma  Cost.,  si
manifesta  in  maniera  complessa  e  poliedrica  e  che  ha  stretta
correlazione con il diritto ad agire in giudizio a tutela dei  propri
diritti ed interessi (art. 24, primo comma Cost.), con il diritto  ad
avere regole giuste nel processo (art. 111,  primo  comma  Cost.),  a
tutela del contraddittorio,  della  terzieta'  ed  imparzialita'  del
giudice (art 111, secondo comma Cost.), con il diritto del  cittadino
di vedere esercitato il potere legislativo da  parte  dello  Stato  e
delle regioni non solo nel rispetto della  Costituzione  italiana  ma
anche  dei  vincoli  dettati  dall'ordinamento  comunitario  e  dagli
obblighi internazionali (art. 117, primo comma Cost.). 
    L'art.  4-bis  del  decreto  legislativo  n.  368/2001  viola  il
principio costituzionale del giusto processo perche'  nel  corso  del
procedimento giudiziario modifica la tutela  sostanziale  accordabile
al diritto azionato senza che siano ravvisabili ragioni  oggettive  e
generali che sostengono tale scelta del legislatore. 
    Questa  Corte  ritiene  che  nel  caso  in   esame   l'intervento
legislativo determini  un'alterazione  della  condizione  di  parita'
nell'esercizio del diritto di difesa tra la parti in causa,  rispetto
al diritto azionato, condizione di parita' che,  al  contrario,  deve
essere sempre assicurata. 
    Ed  infatti,  e'  evidente  che  il  legislatore  a  fronte   del
consistente contenzioso  pendente  in  tutti  gli  uffici  giudiziari
italiani e' intervenuto allo scopo di favorire una definizione  delle
controversie pendenti in termini di minor impatto  economico  per  le
parti datoriali, senza che tuttavia tale scelta risulti  sorretta  da
quelle imperiose ragioni d'interesse generale, che,  ad  esempio,  la
Corte europea di Strasburgo richiede come condizione per superare  il
divieto d'ingerenza (in tal senso si legga  l'ordinanza  della  Corte
cass. n. 22260/2008 relativamente all'art. 1, comma 218, legge n. 266
/2005). 
    Ed,  infatti,  nessuna  traccia  di  cio'  e'  riscontrabile  nel
procedimento legislativo che ha  condotto  all'approvazione  di  tale
disposizione.  E'  sintomatico,  anzi,  che  la  norma,  inizialmente
pensata proprio per definire il contenzioso dei contratti  a  termine
con la societa' qui appellata, sia stata in corso  d'opera  estesa  a
tutti i contratti a tempo determinato, proprio per rimediare  ad  una
evidente violazione, quanto meno, dell'art. 3 della Costituzione. 
    Ma anche  nel  testo  approvato,  ed  oggi  esaminato,  non  sono
rintracciabili quelle ragioni oggettive  a  tutela  di  un  interesse
generale che, in ipotesi, avrebbero potuto giustificarne l'adozione. 
    Al contrario, si potrebbe dire che 1'inesistenza  di  una  simile
ratio e' in re ipsa per il  solo  fatto  che  la  ridotta  tutela  e'
limitata temporalmente ai soli giudizi pendenti e nessuna ragione  di
interesse generale risulta in qualche modo  esplicitata  neppure  nei
lavori parlamentari. 
    Con cio', e senza che per questo sia ravvisabile alcuna  esigenza
concreta a cui il legislatore abbia inteso sopperire, viene ribaltata
la  stessa  ordinaria  ed  elementare  logica  del  processo  equo  e
improntato all'effettivita' della  tutela  giurisdizionale;  giacche'
sarebbe logico, al contrario di quel che  discende  dalle  previsioni
del comma 1-bis dell'art. 21 della legge n. 133  del  2008,  che  nei
giudizi in corso le certezze sulla difesa dei  propri  diritti  tanto
piu' siano acquisite, e non passibili di essere messe  nuovamente  in
gioco, quanto piu' il processo sia pervenuto in una fase  avanzata  e
sfociato in pronunciamenti esecutivi, o perfino eseguiti. 
    Analoghe considerazioni valgono con riferimento  alla  violazione
dell'art. 117, primo comma Cost. 
    La Corte osserva che, nell'esaminare la rilevanza della questione
con riguardo all'art. 117, primo comma, Cost., si  puo'  dare  valore
interpretativo ai principi contenuti nella  Convenzione  europea  dei
diritti dell'uomo (CEDU), in relazione ai parametri costituzionali di
cui tenere conto con riguardo alle norme censurate (v. Corte cost. n.
505/1995; ord. n. 305/2001), ben potendosi richiamare, per avvalorare
una determinata esegesi, le indicazioni normative,  anche  di  natura
sovranazionale (v. di recente Corte cost. n. 349/2007 ma anche  Corte
cost. n. 231/ 2004). 
    In taluni casi la Corte costituzionale ha richiamato norme  della
CEDU,  svolgendo  argomentazioni  espressive  di   un'interpretazione
conforme alla Convenzione (v. sentenze n. 376 del 2000 e n.  310  del
1996), ovvero richiamando dette norme, e la ratio ad esse sottesa,  a
conforto dell'esegesi accolta (v. sentenze n. 299 del 2005  e  n.  29
del 2003) che risultava cosi' avvalorata anche in ragione  della  sua
conformita'  con  i  «valori  espressi»  dalla  Convenzione,  secondo
l'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo  (v.  sentenze  n.
299 del 2005; n. 299 del 1998). 
    Si e' infatti sottolineato come un  diritto  garantito  da  norme
costituzionali sia protetto anche dall'art. 6 della  Convenzione  per
la salvaguardia dei diritti (...) come applicato dalla giurisprudenza
della Corte europea di Strasburgo (v. sentenza n. 154 del 2004). 
    Avvalorata  e  confermata  la  possibilita'  di   utilizzare   il
parametro richiamato  per  valutare  la  compatibilita'  della  norma
censurata con l'art. 6 della CEDU e  dunque  con  l'art.  117,  primo
comma Cost., ancora una volta si deve rilevare che, come  piu'  volte
statuito anche dalla Corte di Strasburgo  (cfr.  per  tutte  Scordino
contro Italia, 29 marzo 2006), gli Stati  aderenti  alla  Convenzione
devono astenersi dall'esercitare ingerenze normative  finalizzate  ad
ottenere una determinata soluzione delle controversie in corso, salvo
che l'intervento retroattivo sia giustificato da motivi di  carattere
imperioso e generale. 
    Ne consegue  che  nel  caso  in  esame  il  legislatore,  con  la
disposizione in esame non interpreta norme di legge  esistenti,  muta
temporaneamente il quadro normativo di  riferimento,  esclude  quelli
che nel diritto vivente sono i normali effetti della declaratoria  di
illegittimita' del  termine  apposto  al  contratto  e  impedisce  al
giudice di adottare  la  tutela  prevista  dall'ordinamento  generale
(tutela irragionevolmente temporaneamente sospesa). 
    In conclusione la norma in  esame  determina  una  ingiustificata
modificazione della tutela dei diritti azionati e incide, come si  e'
evidenziato, solo e soltanto sui giudizi pendenti alla  data  di  sua
entrata in vigore, realizzando una  inammissibile  intromissione  del
potere legislativo nell'amministrazione della  giustizia  allo  scopo
d'influire  sulla  risoluzione  di   una   specifica   categoria   di
controversie. 
    Alla  luce  delle  esposte  considerazioni,  la   Corte   ritiene
rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita'
costituzionale della norma indicata in dispositivo  in  relazione  ai
profili sopra esposti. 
    Il giudizio in corso  deve  quindi  essere  sospeso  e  gli  atti
rimessi alla Corte costituzionale .