IL TRIBUNALE Visti gli atti e i documenti del procedimento penale n. 9151/01 R.G.N.R. e n. /08 R.G. promosso contro: Prevedello Abdrea, nato a Ponte di piave (Treviso) il 9 maggio 1957; Melinato Elio, nato a Salzano (Venezia) il 2 gennaio 1938; Sacco Piergiorgio, nato a Serravalle Scrivia (Alessandria) il 2 luglio 1942; Pavanato Alessandro, nato a Cavarzere (Venezia) l'8 ottobre 1952, osserva quanto segue. § 1. Gli odierni imputati sono chiamati a rispondere nell'ambito del processo succitato del reato previsto e punito dall'art. 53-bis d.lgs. n. 22 del 1997 (ora art. 260, d.lgs. n. 152 del 2006 e successive modifiche). Secondo l'ipotesi accusatoria, i quattro imputati, in concorso tra loro, attraverso l'allestimento di mezzi ed attivita' continuativo organizzata, avrebbero effettuato un traffico illecito di rifiuti tossico nocivi, nella fattispecie costituiti da un ingente quantitativo di ceneri di pirite (8.084 tonnellate) provenienti dall'ex cantiere Perfosfafi di Portogruaro, destinandole ad un'attivita' non consentita, cioe' al miscelamento con altre ceneri di pirite site in un impianto di Mira, invece di destinarle in discarica di II categoria, tipo C. § 2. Il quadro normativo di riferimento. Il sottoprodotto (excursus normativo e giurisprudenza comunitaria). Il quadro normativo di riferimento per la fattispecie di reato in oggetto e' mutato sia a livello nazionale che comunitario. Il 29 aprile del 2006 e' infatti entrato in vigore il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante «Norme in materia ambientale» che ha inteso riordinare, tra l'altro, nella sua parte quarta, la materia della gestione dei rifiuti e della bonifica dei siti contaminati, con conseguente espressa abrogazione dell'intero decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (v. art. 264, lett. i d.lgs. n. 152/2006). Il fatto di reato contestato agli imputati va dunque sussunto sotto le disposizioni sanzionatorie del nuovo decreto; in particolare va richiamato l'art. 260, il quale non e' stato modificato dal successivo d.lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, recante disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. n. 152/2006, il cui testo coincide completamente con quello del previgente art. 53-bis, d.lgs. n. 22/1997. Nella Gazzetta Ufficiale europea del 27 aprile 2006 n. 114 e' stata pubblicata la direttiva 2006/12/CEE, entrata in vigore il 17 maggio 2006, che sostituisce ed abroga la precedente direttiva 75/442/CEE e le sue successive modifiche. Tale nuova direttiva costituisce dunque il nuovo punto di riferimento normativo per il trattamento dei rifiuti nell'ambito dell'Unione europea e riproduce sostanzialmente invariati i precetti, le definizioni e le nozioni del precedente assetto normativo. Sono dunque queste le disposizioni legislative che questo giudice e' chiamato ad applicare nel presente procedimento. La nuova direttiva comunitaria all'art. 1, comma 1, lett. a) definisce rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi». Analoga definizione e' contenuta nel nuovo testo nazionale all'art. 183, comma 1 lett. a): «qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'Allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi». Nell'ambito dell'ordinamento nazionale e' stata altresi' introdotta, al medesimo articolo, anche la definizione di sottoprodotto che non viene invece contemplata nella direttiva. Tale figura aveva gia' trovato una esplicita definizione sin dall'entrata in vigore dell'art. 14, d.l. 8 luglio 2002 n. 138 (Interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell'economia anche nelle aree svantaggiate), convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto 2002, n. 178, il quale aveva fornito l'«interpretazione autentica» dell'art. 6, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 22/1997, testo normativo in vigore al momento in cui si sarebbero verificati i fatti per cui e' processo, il quale aveva per primo recepito la nozione comunitaria di rifiuto, definito «qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi». L'art. 14 d.l. citato recita: «1. Le parole: ''si disfi'', ''abbia deciso" o ''abbia l'obbligo di disfarsi'' di cui all'art. 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni, di seguito denominato: ''decreto legislativo n. 22'', si interpretano come segue: a) ''si disti'': qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attivita' di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22; b) ''abbia deciso'': la volonta' di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22, sostanze, materiali o beni; c) ''abbia l'obbligo di disfarsi'': l'obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorita' o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all'allegato D del decreto legislativo n. 22. / 2. Non ricorrono le fattispecie di cui alle lettere b) e c) del comma 1, per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni: a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente; b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto legislativo n. 22». Come e' noto, la disposizione e' gia' stata oggetto di aspre critiche e di plurimi rilievi di sospetta incostituzionalita' per l'inopinata restrizione della nozione comunitaria di rifiuto. Con riferimento alle questioni di legittimita' costituzionale gia' sollevate ci si limita a rinviare all'ordinanza della Consulta n. 288 del 3 luglio 2006 con la quale e' stata disposta la restituzione degli atti ai giudici a quibus ai fini di una nuova valutazione circa la rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni sollevate alla luce dello ius superveniens. La categoria dei sottoprodotti ha invero trovato ingresso anche nell'ambito della giurisprudenza comunitaria la quale con la sent. sez. VI, 18 aprile 2002, n. C-9/00, Palin Granit Oy ha per la prima volta introdotto il concetto di sottoprodotto limitandolo pero', tenuto conto del noto principio di interpretazione estensiva della nozione di rifiuto, al caso di riutilizzo certo di un bene o materiale, senza trasformazione preliminare, nel corso del processo di produzione. Nella successiva sent. 11 settembre 2003 C-114/01, Avesta Polarit Chrome Oy viene sostanzialmente ribadito il medesimo principio: laddove la utilizzazione dei residui non e' necessaria nel processo di produzione, se per sfruttare o commercializzare i residui stessi in maniera diversa e' necessaria una loro trasformazione preliminare, si tratta di rifiuti di cui il detentore si disfa. La disposizione contenuta nell'art. 14 del decreto-legge sopra citato e' stata poi mantenuta in vigore dalla legge 15 dicembre 2004, n. 308, la quale, nel conferire al Governo la delega per il riordino della legislazione in campo ambientale, aveva comunque stabilito, all'art. 1, comma 26 che l'art. 14 dovesse rimanere «fermo», nonostante che tale disposto normativo fosse stato un mese prima censurato dalla Corte di giustizia delle Comunita' europee con sentenza 11 novembre 2004 in causa C -457, Niselli. Detta sentenza ribadisce al punto 33 che «l'ambito di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del verbo ''disfarsi''. Esso deve essere interpretato alla luce della finalita' della direttiva 75/442, che, ai sensi del suo terzo ''considerando'', e' la tutela della salute umana e dell'ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell'ammasso e del deposito dei rifiuti ...». Al successivo punto 34 evidenzia come «la direttiva 75/442 non suggerisce alcun criterio determinante per individuare la volonta' del detentore di disfarsi di una determinata sostanza o di un determinato materiale. In mancanza di disposizioni comunitarie, gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalita' di prova dei diversi elementi definiti nelle direttive da essi trasposte, purche' cio' non pregiudichi l'efficacia del diritto comunitario». Al punto 44 afferma «Puo' tuttavia ammettersi un'analisi secondo la quale un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non e' principalmente destinato a produrlo puo' costituire non un residuo, bensi' un sottoprodotto, del quale l'impresa non ha intenzione di disfarsi ai sensi dell'art. 1, lett. a) primo comma della direttiva 75/442 ...». Al punto 45 chiarisce i limiti dell'apertura: «Tuttavia, tenuto conto dell'obbligo di interpretare in maniera estensiva la nozione di rifiuto, per limitare gli inconvenienti ed i danni inerenti alla loro natura», il ricorso alla figura del sottoprodotto «dev'essere circoscritto alle situazioni in cui il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale ma certo senza previo trasformazione e avvenga nel corso del processo di produzione». Al punto 46 ribadisce che il bene non deve essere sottoposto ad «operazioni di trasformazione preliminare». Vi sono stati tuttavia due successivi arresti della Corte di giustizia con due decisioni dell'8 settembre 2005, in C-416702 e C-121/03 pronunciate ex art. 226 del Trattato (procedure di contestazione della Commissione) e non ex art. 234 (pronuncia su questione pregiudiziale) nelle quali ha ritenuto che residui dell'attivita' zootecnica accumulati dall'impresa in attesa di un successivo utilizzo avrebbero potuto essere utilizzati anche «per il fabbisogno di operatori economici diversi da chi l'ha prodotto». Sarebbe dunque sottoprodotto e non rifiuto anche il residuo produttivo destinato dal suo produttore a terzi, cioe' all'esterno dell'impresa che lo ha generato. Va peraltro considerato che tali ultime due pronunce sono state precedute da un'ordinanza del 15 aprile 2004 in causa C-235/02, Saetti Frediani nella quale la Corte di giustizia ha enunciato il principio (punto 48) secondo cui un residuo di produzione (nella fattispecie si trattava del coke da petrolio di Gela) utilizzato con certezza «per il fabbisogno di energia della stessa impresa produttrice e di altre industrie non costituisce rifiuto ai sensi della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975 n. 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991 n. 91/156/CEE». Dunque, in queste decisioni sembrerebbe ravvisarsi una ulteriore apertura del giudice comunitario circa il concetto di sottoprodotto nel senso di una sua estensione all'ipotesi di utilizzo del residuo di produzione da parte di soggetti terzi rispetto all'impresa produttrice. Frattanto e' entrato in vigore il decreto legislativo n. 152/2006 il quale nell'art. 183, comma 1, lett. n) introduceva la definizione di sottoprodotto; per tali si devono intendere «i prodotti dell'attivita' dell'impresa che, pur non costituendo l'oggetto dell'attivita' principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell'impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo». Nell'ambito della medesima lettera veniva poi stabilito che tali prodotti sono sottratti alla normativa sui rifiuti a condizione che si tratti di «sottoprodotti di cui l'impresa non si disfi, non sia obbligata a disfarsi, e non abbia deciso di disfarsi ed in particolare i sottoprodotti impiegati direttamente dall'impresa che li produce o commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l'impresa stessa direttamente per il consumo o per l'impiego, senza la necessita' di operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo» ... «L'utilizzazione del prodotto dev'essere certa e non eventuale.» ... «L'utilizzo del sottoprodotto non deve comportare per l'ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle delle normali attivita' produttive». Senonche' nel corpo di tale lettera n) venivano altresi' prese in espressa considerazione - nel quarto periodo - proprio le ceneri di pirite, particolare categoria di sottoprodotto non soggetto alle disposizioni sui rifiuti, definite «polveri di ossido di ferro, provenienti dal processo di arrostimento del minerale noto come pirite o solfuro di ferro per la produzione di acido solforico e ossido di ferro, depositate presso stabilimenti di produzione dismessi, aree industriali e non, anche se sottoposte al procedimento di bonifica o ripristino ambientale». Dal tenore complessivo dell'art. 183, lett. n), d.lgs. n. 152/2006, previgente, emerge dunque che quando un residuo produttivo: 1) proviene da attivita' di impresa (e dunque non di consumo); 2) scaturisce dall'attivita' produttiva in via continuativa (cioe' come un materiale tipico di quella produzione); 3) non viene abbandonato dall'impresa (che dunque non se ne disfa); 4) lo reimpiega direttamente oppure lo commercializza a condizioni per lei economicamente favorevoli e 5) senza attivita' preliminare di trasformazione (che cioe' «faccia perdere al prodotto la sua identita»); 6) viene effettivamente e certamente riutilizzato in altro ciclo produttivo (circostanza che deve essere attestata con dichiarazioni scritte delle imprese di partenza e di arrivo); 7) il suo utilizzo non comporta per l'ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle legate alle normali attivita' produttive, tale residuo non e' piu' rifiuto. E' quindi intervenuta la sentenza della Corte di giustizia UE del 18 dicembre 2007 in causa C-263/05, anch'essa emessa a seguito di ricorso per inadempimento ai sensi dell'art. 266 CE proposto dalla Commissione delle Comunita' europee contro la Repubblica italiana per avere adottato e mantenuto in vigore l'art. 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138, divenuto in seguito a modifica legge 8 agosto 2002, n. 178. La Corte, dopo avere ricordato al punto 33 della pronuncia che il termine disfarsi e quindi la nozione di rifiuto non possono che essere interpretati in senso restrittivo, svolge un excursus (punti 34-39) delle pronunce da essa emanate in materia e dei principi in esse individuati che si riassumono come segue: A) uno degli indizi per stabilire «se una sostanza od un oggetto e' qualificabile come rifiuto e' accertare se esso sia un residuo di produzione o di consumo, se cioe' un prodotto non e' stato ricercato in quanto tale»; B) «il metodo di trasformazione o le modalita' di utilizzo di una sostanza non sono determinanti per stabilire se si tratti o no di un rifiuto»; C) «la nozione di rifiuto non esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica»; D) «in determinate situazioni un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di estrazione o di fabbricazione che non e' principalmente destinato a produrlo puo' costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale il detentore non cerca di ''disfarsi'' [...] ma che intende sfruttare o commercializzare [...] a condizioni ad esso favorevoli, in un processo successivo, a condizione che tale riutilizzo sia certo, senza trasformazione preliminare e intervenga nel corso del processo di produzione o di utilizzazione»; E) ulteriore criterio utile per stabilire se una sostanza sia qualificabile o meno come rifiuto e' «il grado di probabilita' di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare»; la probabilita' e' alta nel caso in cui «il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo»; F) tuttavia «se per tale riutilizzo occorrono operazioni di deposito che possono avere una certa durata, e quindi rappresentare un onere per il detentore nonche' essere potenzialmente fonte di quei danni per l'ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare, esso non puo' essere considerato certo ed e' prevedibile solo a piu' o meno lungo termine, cosicche' la sostanza di cui trattasi deve essere considerata, in linea di principio, come rifiuto». Quindi, prendendo le mosse dai principi cosi' enucleati e ponendosi nella scia sino a quel momento tracciata, la Corte di giustizia al successivo punto 50 cosi' statuisce: «un bene, un materiale o una materia prima risultante da un processo di fabbricazione che non e' destinato a produrlo puo' essere considerato come un sottoprodotto di cui il detentore non desidera disfarsi solo se il suo riutilizzo, incluso quello per i bisogni di operatori economici diversi da colui che l'ha prodotto, e' non semplicemente eventuale, ma certo, non necessita di trasformazione preliminare e interviene nel corso del processo di produzione o di utilizzazione». Il giudice comunitario conclude quindi dichiarando che la Repubblica italiana e' venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell'art. 1, lett. a), della direttiva 75/442/CEE. Successivamente, il 13 febbraio 2008 e' entrato in vigore il d.lgs. 16 gennaio 2008 n. 4 il quale, ha introdotto modifiche significative al decreto legislativo n. 152/2006. Per quanto e' qui di interesse l'art. 2, comma 20 del decreto legislativo correttivo ha interamente riscritto l'art. 183 ed anche la definizione di sottoprodotto che ora si trova collocata alla lettera p), eliminando completamente l'espressa menzione delle ceneri di pirite. La nuova definizione delineata dalla novella e' senza dubbio in linea con la normativa comunitaria essendo piu' precisa, dotata di maggiore chiarezza e maggiormente restrittiva. Essa ha altresi' recepito i criteri indicati dalla giurisprudenza comunitaria sopra ricordati. Infatti, secondo l'art. 183, comma 1, lett. p) nuova formulazione: «sono sottoprodotti le sostanze ed i materiali dei quali il produttore non intende disfarsi ai sensi dell'art. 183, comma 1, lettera a), che soddisfino tutti i seguenti criteri, requisiti e condizioni: 1) siano originati da un processo non direttamente destinato alla loro produzione; 2) il loro impiego sia certo, sin dalla fase della produzione, integrale e avvenga direttamente nel corso del processo di produzione o di utilizzazione preventivamente individuato e definito; 3) soddisfino requisiti merceologici e di qualita' ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli autorizzati per l'impianto dove sono destinati ad essere utilizzati; 4) non debbano essere sottoposti a trattamenti preventivi o a trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualita' ambientale di cui al punto 3), ma posseggano tali requisiti sin dalla fase della produzione; 5) abbiano un valore economico di mercato». § 3. Le ceneri di pirite. Tale essendo il panorama legislativo e giurisprudenziale, e' bene a questo punto evidenziare che le ceneri di pirite costituiscono il necessario ed inevitabile residuo del procedimento industriale di fabbricazione dell'acido solforico. Tale sostanza, fin dai primi anni del secolo scorso, e' stata utilizzata su larga scala per la preparazione, dei concimi chimici (perfosfati) destinati all'agricoltura; essa, piu' in generale, rappresenta inoltre uno dei piu' importanti prodotti intermedi di tutta l'industria chimica di base. L'acido solforico veniva ottenuto attraverso il c.d. arrostimento del minerale pirite in forni speciali a seguito del quale il residuo solido che ne derivava era costituito, appunto, dalla cenere di pirite. Negli anni che hanno preceduto il secondo conflitto mondiale furono realizzati in Italia circa cento stabilimenti di varia potenzialita' per la produzione di acido solforico a partire dalle piriti. Solamente verso i primi anni '70 la materia prima pirite e' stata sostituita dallo zolfo - proveniente dalla desolforazione dei gas naturali e dei prodotti petroliferi - che e' divenuto l'ingrediente di base per la produzione dell'acido solforico attraverso l'impiego di una diversa tecnologia. Si possono cosi' trovare ancora oggi depositi (piu' o meno controllati) di queste ceneri in varie zone del Paese ed anche i depositi di Portogruaro e di Mira rientrano in questo generale quadro storico. Attualmente la naturale destinazione delle ceneri e' il conferimento del materiale a cementifici italiani ed esteri. Questi ultimi rappresentano infatti i destinatari «naturali» delle ceneri di pirite, poiche' dette polveri sono ricche di ossidi di ferro che costituiscono un additivo fondamentale nella produzione del cemento. Tale pratica di utilizzo risale agli inizi del secolo scorso e si protrae tutt'oggi. Le ceneri vengono mescolate tal quali, senza alcun trattamento preventivo alle altre materie prime e successivamente la miscela (c.d. farina) viene inserita in speciali forni la cui temperatura viene spinta oltre i 1400 gradi C°; il materiale cosi' ottenuto, dopo essere stato raffreddato, viene macinato e prende il nome di cemento. Fatta questa doverosa premessa per meglio inquadrare il fenomeno, appare subito chiara una caratteristica del residuo produttivo ceneri di pirite: esse non derivano da un processo produttivo attuale ma derivano sempre da attivita' industriali non piu' esistenti da anni, tanto da essere le stesse raccolte, come recava lo stesso art. 183, lett. n) d.lgs. n. 152/2006, in stabilimenti «dismessi» od in aree di diverso tipo («industriali e non»), segno evidente del fatto che le ceneri sono state nel corso degli anni accantonate in svariate localita' e con le piu' diverse modalita' e non piu' utilizzate. § 4. La problematica della successione di leggi nel tempo in tema di sottoprodotto e la loro applicazione al caso in esame. Tanto premesso, questo giudice e' dunque chiamato ad analizzare la questione della successione delle leggi che hanno sinora variamente regolato la materia dei rifiuti e dei sottoprodotti in relazione al caso in esame. Avuto riguardo al tempus commissi delicti contestato, la prima norma di riferimento nella successione normativa e' l'art. 6, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 22/1997 sopra citato. Non v'e' dubbio che, in relazione a tale assetto normativo, le ceneri di pirite, per l'aspetto storico e fattuale che le caratterizza, sopra descritto, rientrassero a pieno titolo nel concetto di rifiuto in quanto residuo produttivo di cui l'originario detentore si era disfatto o aveva deciso di disfarsi. Nelle more del procedimento penale e' poi entrato in vigore l'art. 14, d.l. 8 luglio 2002 n. 138. Come e' noto, la sedicente norma di «interpretazione autentica» aveva condotto di fatto ad una restrizione della nozione di rifiuto; tale innovazione normativa va pero' applicata tenendo presente che il criterio interpretativo piu' corretto in materia di rifiuti e' quello di non pregiudicare l'efficacia del diritto comunitario. Ora, nel caso di specie, la notevole distanza temporale fra la produzione delle ceneri di pirite ed il loro impiego in diverso ciclo produttivo conduce a ritenere che il residuo produttivo, per dirla con le parole del primo comma della disposizione in esame, era stato sottoposto ad «attivita' di smaltimento o di recupero». Inoltre, la congiunzione «e» utilizzata nel secondo comma nella locuzione «possono essere e sono effettivamente ... riutilizzati» indica che per escludere il materiale o la sostanza dal novero dei rifiuti il riutilizzo deve essere attuale (rispetto al momento della sua produzione) e non solo potenziale. Riguardato in tale prospettiva il caso in esame sarebbe stato senz'altro riconducibile alla previgente normativa disciplinante la gestione dei rifiuti anche successivamente alla entrata in vigore dell'art. 14 del decreto-legge citato. Come gia' evidenziato, la disciplina di cui all'art. 14 d.l. n. 138/2002 e' rimasta immutata, grazie alla legge n. 308/2004, sino alla entrata in vigore del d.lgs. n. 152/2006 il quale, all'art. 183 lett. n), quarto periodo, aveva esplicitamente statuito che le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del decreto legislativo. Appare evidente che tale articolo introduce nel panorama legislativo una sicura norma di favore per gli odierni imputati, ai quali, in ossequio a quanto stabilito dall'art. 2, comma 4, c.p., potrebbe essere applicata la norma richiamata, con conseguente proscioglimento dai reati loro ascritti con la formula perche' il fatto non sussiste, difettando per il materiale o per la sostanza di cui si tratta il requisito dell'essere rifiuto. Per contro, la definizione di sottoprodotto attualmente in vigore, contenuta nell'art. 183, lett. p), d.lgs. n. 152/2006, novellato dal d.lgs. n. 4/2008 e piu' in linea con la disciplina comunitaria, non consente assolutamente di collocare le ceneri di pirite di cui al caso in esame nella nozione di sottoprodotto per le ragioni gia' esposte. Ed anzi, si puo' dire che la nuova norma, tra tutte quelle che si sono succedute nella materia, e' quella che meno lascia adito a dubbi, delineando con chiarezza il percorso che deve essere seguito per affermare che le ceneri di pirite costituiscono a tutti gli effetti un rifiuto. Da quanto sin qui osservato in relazione alle norme succedutesi, sia applicando le norme che si sono avvicendate prima del previgente art. 183, comma 1, lett. n), quarto periodo, sia applicando la normativa attualmente in vigore le ceneri di pirite ricadrebbero nella disciplina della norma incriminatrice; mentre solo nella vigenza dell'art. 183 nel testo anteriore alla novella il residuo non poteva essere fatto rientrare nella disciplina che regola la materia dei rifiuti. Ed allora si comprendono le ragioni per cui la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 183, comma 1 lett. n), quarto periodo d.lgs. n. 152/2006, cioe' la formulazione previgente dell'articolo, e' sicuramente attuale. Fintantoche' l'art. 183 previgente non viene espunto dall'ordinamento giuridico, questo giudice sara' tenuto ad applicarlo ai sensi dell'art. 2, comma 4 c.p. in quanto norma piu' favorevole agli imputati, essendo l'unica che statuisce expressis verbis che le ceneri di pirite non sono un rifiuto. § 5. Il contrasto del previgente art. 183, lett. n), quarto periodo, d.lgs. n. 152/2006 con gli artt. 11 e 117 Cost. Come gia' detto, il legislatore italiano nella disposizione normativa contenuta nell'art. 183, comma 1, lett. n) previgente «fotografa» la problematica connessa alle ceneri di pirite che presenta la peculiarita' «storica» appena evidenziata: cosi' facendo pero' abbandona completamente uno di principali cardini della normativa comunitaria vigente in materia di rifiuti rappresentata dal concetto di «disfarsi»: quando il produttore e/o detentore «si disfa» di un determinato residuo produttivo e non lo reimpiega o lo commercializza, allora si ha necessariamente un rifiuto e non un sottoprodotto (art. 1, comma 1, lettera a) della direttiva 2006 dicembre CE). Stabilire che un residuo va considerato sottoprodotto da sottrarre alla disciplina dei rifiuti a prescindere dal fatto che l'impresa produttrice se ne e' gia' disfatta e' operazione che contrasta con il diritto comunitario. E' agevole prevedere l'obiezione che tale ragionamento risulta viziato all'origine poiche' assume a punto di riferimento il produttore originario e non l'attuale detentore, che spesso si trova - come nella vicenda per cui e' processo - a gestire tali depositi per sfruttare commercialmente dette ceneri ed alienarle a cementifici: tale argomentazione e' suggestiva, tuttavia va sempre tenuto presente che il criterio in base al quale adottare l'interpretazione piu' corretta in materia di rifiuti e' quello di non pregiudicare l'efficacia del diritto comunitario che in questo settore si basa sul generale principio di interpretazione estensiva della nozione di rifiuto per tutelare la salute umana e l'ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell'ammasso e del deposito di tali materiali. Del resto, la stessa normativa nazionale pone a base della disciplina generale dei sottoprodotti l'impresa che li produce, facendo riferimento ad essa per tutto quanto concerne i presupposti (elencati al § 3) che debbono ricorrere per sottrarre il sottoprodotto stesso alla disciplina della parte quarta del d.lgs. n. 152/2006. In quest'ottica non sembra avere pregio neppure l'eventuale rilievo secondo cui tali accumuli di ceneri di pirite distribuiti sul territorio non sarebbero mai stati «abbandonati» nel senso giuridico del termine dal produttore originario, essendo il residuo stato oggetto, anche negli anni in cui si produceva l'acido solforico, di conferimenti ai cementifici «a pie' di impianto» e che solo il surplus di produzione ne avrebbe determinato l'accantonamento in previsione di un loro futuro utilizzo. Va infatti evidenziato il dato fattuale (recepito puntualmente dal legislatore nazionale laddove menziona «stabilimenti dimessi» ed «aree industriali e non») che tale accantonamento, raccolta, allocazione che dir si voglia di questi materiali e' assai risalente nel tempo (almeno trent'anni): tale aspetto non fa dunque che sottolineare come per un lungo intervallo temporale l'utilizzo di tali ceneri non fosse affatto certo o probabile, e che le decisioni sul suo destino non fossero cosi' scontate. E' dunque questo il dato obiettivo che dev'essere preso in considerazione, che non fa altro che sottolineare come la normativa di cui si intende qui chiedere lo scrutinio costituzionale pare porsi in contrasto non solo con il requisito del «non disfarsi» del residuo da parte del produttore originario (cosa che invece avviene nel momento in cui egli raccoglie il materiale in una determinata area che viene chiusa o messa in sicurezza e li' lasciata per anni), ma anche con l'ulteriore requisito dell'utilizzo certo ed effettivo del residuo produttivo nella fase in cui questo viene alla luce (dovendosi come gia' detto fare riferimento al produttore originario), come invece e' stato piu' volte evidenziato dalla giurisprudenza comunitaria. Non solo: l'art. 183, lett. n) nella parte in cui dispone la deroga alla parte quarta del d.lgs. n. 152/2006 per le ceneri di pirite «anche se sottoposte a bonifica o ripristino ambientale» appare in contrasto con il principio generale secondo cui l'utilizzo di un sottoprodotto deve avvenire senza che cio' arrechi pregiudizio per l'ambiente e la salute (art. 4 direttiva 2006/12/CE). Infatti, se le ceneri sono sottoposte a bonifica o ripristino ambientale e' probabile che il materiali raccolti possano essere contaminati e dunque pericolosi per l'uomo o per l'ambiente. In conclusione, si ritiene che la disposizione in oggetto - art. 183, comma 1, lett. n), quarto periodo, d.lgs. n. 152/2006 - per le considerazioni sopra esposte contrasti con gli artt. 11 e 117 della Costituzione. Con l'art. 11 Cost., laddove questo stabilisce che lo Stato italiano deve osservare la limitazione di sovranita' derivante dalla sua partecipazione a ordinamenti internazionali, quale quello della Comunita' europea e con l'art. 117, primo comma Cost., come novellato dalla legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3, che nel suo primo comma impone allo Stato di esercitare la sua potesta' legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario. Sotto tale profilo occorre sottolineare che ai sensi dell'art. 130 R n. 2 del Trattato CE (divenuto in seguito a modifica, art. 174 n. 2 CE) la politica della Comunita' in materia ambientale mira ad un elevato livello di tutela ed e' fondata sui principi, in particolare, della precauzione e dell'azione preventiva, sul principio di correzione, anzitutto alla fonte, dei danni causati all'ambiente nonche' sul principio «chi inquina paga». Dunque il legislatore italiano nell'introdurre nell'ordinamento giuridico interno una norma in contrasto con tali principi e con la direttiva sopra citata ha altresi' violato il generale obbligo di leale cooperazione di cui all'art. 10 (ex art. 5) del Trattato CE laddove viene previsto che «gli Stati si astengono da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del presente trattato». § 6. Il ricorso alla Corte costituzionale. Tanto premesso, si ritiene che lo strumento piu' corretto per giungere ad eliminare ai fini del decidere tale contrasto tra norma interna e norma comunitaria e, dunque, il conseguente contrasto con le norme della Costituzione sia il ricorso al giudice delle leggi. Non si possono infatti condividere le considerazioni secondo cui, ricorrendo tale antinomia, il giudice nazionale e' ammesso comunque a disapplicare la norma interna in favore di quella comunitaria. E' stato infatti sostenuto che la direttiva 75/442 e succ. mod. e la direttiva 2006/12 debbono considerarsi a tutti gli effetti come direttive autoapplicative, quantomeno sotto il profilo della nozione di rifiuto: la controprova di tale assunto risiederebbe nel fatto che la definizione di rifiuto e' stato infatti recepita dal legislatore nazionale del 1997 prima e del 2006 dopo ricalcando pedissequamente la norma comunitaria. Questo e' in realta' un argomento che prova troppo: invero non risulta che le direttive in questione attribuiscano in via chiara e diretta diritti in capo ai cittadini sicche' esse hanno la necessita' di essere fedelmente recepite dagli ordinamenti nazionali per diventare efficaci nei confronti dei soggetti intrastatali. Sul punto si fanno comunque proprie le osservazioni cui e' pervenuta la Suprema Corte di cassazione, sez. III, con l'ordinanza n. 1414 del 16 gennaio 2006: la possibilita' di procedere alla disapplicazione di una norma nazionale in quanto ritenuta incompatibile con il diritto comunitario e' possibile solo nella misura in cui la norma di diritto comunitario abbia efficacia e diretta applicazione nell'ordinamento giuridico dello Stato membro, cosa che avviene esclusivamente nel caso: 1) di alcune norme del Trattato CE, 2) dei regolamenti, 3) di alcuni tipi di direttive precise e non condizionate per la loro applicazione ad alcun provvedimento ulteriore - tra le quali non puo' essere annoverata ne' l'originaria direttiva 75/442 e succ. mod. ne' tantomeno l'attuale direttiva 2006/12 - e, infine, 4) delle decisioni rivolte ai singoli o agli stati membri. Cio' vale a maggior ragione per le pronunce della Corte di giustizia emanate in tema di sottoprodotti e sopra richiamate: la sentenza della Corte emanata ai sensi dell'art. 234 del Trattato e' sentenza interpretativa, vincolante solo per il giudice rimettente e ovviamente non ha alcun effetto caducatorio sulla norma nazionale; in altri termini si puo' dire che l'interpretazione della norma comunitaria resa dalla Corte di giustizia ha la stessa efficacia delle disposizioni interpretate (v. Corte cost. sent. 11 luglio 1989 n. 389) sicche' nel caso di specie trattandosi di norme contenute in direttive classiche, gli effetti della sentenza non potranno mai riverberarsi automaticamente al di fuori del procedimento nell'ambito del quale essa e' stata pronunciata. Deve infine essere affrontata in questioni degli effetti in malam partem di una eventuale sentenza di accoglimento della Consulta. In realta', come e' gia' stato osservato in occasione di analoghe ordinanze di rinvio alla Corte nell'ambito della medesima materia, la eventuale caducazione della norma piu' favorevole al reo, qual e' quella contenuta nell'art. 183, lett. n) d.lgs. n. 152/2006 in tema di ceneri di pirite non comporterebbe una violazione del principio di irretroattivita' della norma penale previsto dall'art. 25, secondo comma Cost.: invero, da un lato la pirite doveva infatti qualificarsi senza dubbio come rifiuto quantomeno all'epoca del sequestro dell'area avvenuto il 22 marzo 2002, non essendo ancora stato emanato all'epoca l'art. 14, d.l. 8 luglio 2002, n. 138, poi convertito, recante un'interpretazione autentica e restrittiva della nozione di rifiuto e dall'altro lato l'art. 51, d.lgs. n. 22/1997 era gia' entrato in vigore prima dei reati contestati. Inoltre l'accoglimento della questione potrebbe incidere comunque sulle formule di proscioglimento o sui dispositivi della sentenza penale e si rifletterebbe comunque sullo schema argomentativo della motivazione della sentenza (cfr. ex plurimis: sent. Corte cost. n. 148 del 1983). § 7. Rilevanza e non manifesta infondatezza della questione. Sul secondo requisito si rimanda a quanto sopra esposto. Circa la rilevanza nel presente processo si richiamano le osservazioni di cui al § 4: essa e' indubitabile poiche' il reato contestato agli imputati presuppone la riconducibilita' delle condotte poste in essere in tesi accusatoria dagli imputati alla norma incriminatrice originariamente contenute nell'art. 53-bis del d.lgs. n. 22 del 1997 poi trasposte nell'art. 260 del d.lgs. n. 152/2006.