LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa iscritta al n. R.G. 263/2008 promossa da Wanderling Massimo elettivamente domiciliato in Genova via Bacigalupo n. 4/21, presso lo studio dell'avv. Gianemilio Genovesi che lo rappresenta e difende per mandato a margine del ricorso in appello, appellante; Contro Masia & C. S.r.l. elettivamente domiciliato in Genova, piazza Portello n. 2, presso lo studio dell'avv. Carlo Pesce che la rappresenta e difende unitamente all'avv. Carlo Cardillo per mandato a margine della memoria difensiva, appellato. La Corte, letti gli atti e sentiti i difensori nella pubblica udienza di discussione O s s e r v a Massimo Wanderling ha proposto appello contro la sentenza del Tribunale di Genova con la quale e' stata respinta la domanda da lui proposta per la dichiarazione di illegittimita' del licenziamento a lui intimato da Masia & C. S.r.l., e le conseguenti domande risarcitorie. Si e' costituito l'appellata eccependo preliminarmente la improcedibilita' dell'appello per non essere stato rispettato il termine di dieci giorni previsto dall'art. 435, comma 2 del c.p.c., per la notifica all'appellato del ricorso e del decreto di nomina del relatore e di fissazione dell'udienza di discussione. In effetti, il decreto presidenziale di fissazione dell'udienza di discussione e' stato comunicato all'appellante in data 5 maggio 2008 mentre la notifica e' avvenuta in data 3 giugno 2008, quando l'udienza di discussione era fissata per il 3 dicembre 2008. Questa Corte ha altre volte ritenuto fondata detta eccezione, in adesione alla recente sentenza n. 20604 del 30 luglio 2008 delle sezioni unite della Corte di cassazione. Con essa, discostandosi da un precedente orientamento delle stesse sezioni unite (numeri 6841 e 9331 del 1996) e' stato ritenuto che gli effetti del tempestivo deposito del ricorso e la tempestivita' dell'impugnazione non si stabilizzano, in mancanza di valida notifica all'appellato del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione, nel termine imposto dalla legge. E' stato cosi' superato l'indirizzo giurisprudenziale che imponeva al giudice d'appello che avesse rilevato qualsiasi vizio della notifica del ricorso in appello e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione, o anche la sua inesistenza, di indicarlo all'appellante ex art. 421 c.p.c. e, facendo applicazione dell'art. 291 c.p.c., assegnare un termine, necessariamente perentorio, per effettuare o rinnovare la notifica. E' stato inoltre escluso che il carattere ordinatonio del termine di dieci giorni che la legge impone all'appellante, per la notifica a controparte del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione, contrasti con la conclusione raggiunta. Infatti «la chiara formulazione degli articoli 153 e 154 c.p.c. e una interpretazione» ''costituzionalmente orientata'' anche di tali norme nel rispetto della ''ragionevole durata'' del processo, portano a condividere l'assunto che la differenza tra termini ''ordinatori'' e termini ''perentori'' risieda nella prorogabilita' o meno dei primi, perche' mentre i termini perentori non possono in alcun caso ''essere abbreviati o prorogati, nemmeno sull'accordo delle parti'' (art. 153 c.p.c.), in relazione ai termini ordinatori e' consentito, di contro, al giudice la loro abbreviazione o proroga, finanche d'ufficio, sempre pero' ''prima della scadenza'' (art. 154 c.p.c.)» ... «pertanto, scaduto il termine ordinatorio senza che si sia avuta una proroga - come e' avvenuto nella fattispecie in esame - si determinano, per il venir meno del potere di compiere l'atto, conseguenze analoghe a quelle ricollegabili al decorso del termine perentorio» (Cass. s.u. 20604/08). I difensori dell'appellante hanno sollecitato la Corte ha rimeditare il ricordato orientamento, proponendo in questo, e in analoghi giudizi trattati nella medesima udienza odierna, le considerazioni che sinteticamente vengono di seguito riassunte. 1) Nessuna dilatazione dei tempi del processo consegue al mancato rispetto del termine di dieci giorni fissato dal comma secondo dell'art. 435 c.p.c. per la notifica all'appellato del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza di discussione. A tal fine assumono rilievo il termine non superiore a sessanta giorni entro il quale deve essere fissata l'udienza di discussione e il termine di venticinque giorni che deve essere rispettato a difesa dell'appellato, ma non quello di dieci giorni per la notifica del ricorso e del decreto; quest'ultimo sarebbe essenzialmente rivolto all'ufficio - retaggio dei lavori preparatori della legge 533/1973 che prevedevano che alle notifiche provvedesse la cancelleria - affinche' l'udienza di discussione non venga fissata in termini cosi' brevi da rendere difficoltosa la notifica all'appellato. 2) La decadenza dalla possibilita' di compiere l'atto e' conseguenza che la legge ricollega solo alla consumazione dei termini perentori, non di quelli ordinatori. 3) La sanzione del mancato rispetto del termine di dieci giorni previsto dal comma 3 dell'art. 435 c.p.c., non puo' essere rinvenuta nell'improcedibilita' del ricorso; tale sanzione infatti consegue nei soli casi previsti dalla legge, e una estensione a diverse fattispecie violerebbe il principio di legalita' che presiede alle conseguenze sanzionatoria eventualmente scaturenti da determinate condotte. 4) L'equiparazione degli effetti dell'inutile decorso del termine dell'art. 435, comma secondo c.p.c. a quelli propri del decorso di un termine perentorio, si espone a rilievi di' legittimita' costituzionale - anche per il tramite dell'art. 6 CEDU quale norma interposta ex art. 117 Cost. - qualora, come nel caso, il termine a difesa posto dall'art. 435, comma 3 c.p.c. sia stato rispettato, perche' in contrasto con il diritto vivente, consolidato dalla precedente giurisprudenza di legittimita' e di merito, cosi' pregiudicando «retroattivamente» i valori costituzionali del diritto alla difesa, del giusto processo e della tutela dell'affidamento nel processo, quantomeno con riguardo ai giudizi in corso alla data di pubblicazione della sentenza 20604/08 della Corte di cassazione. La situazione processuale determinatasi nel presente giudizio di appello e' caratterizzata dal fatto che il contraddittorio tra le parti si e' realizzato nel rispetto del termine a difesa previsto dall'art. 435, comma 3 c.p.c., ma in violazione degli ulteriori termini previsti dai commi 1 (fissazione dell'udienza) e 2 (termine per la notifica) del medesimo articolo. La questione preliminare che si pone e' quella degli effetti che conseguono qualora la notifica del ricorso e del decreto di fissazione d'udienza venga effettuata con ritardo, ma nel rispetto dei del termine a difesa previsto dal comma 3. L'appellante ritiene che a cio' non consegua la sanzione della decadenza e dell'improcedibilita' del giudizio, per non essere espressamente prevista dalla legge. La Corte reputa errate entrambe le affermazioni. Quanto alla prima, circa le conseguenze preclusive derivanti dall'inutile decorso del termine ordinatorio non tempestivamente prorogato, alla piana interpretazione letterale degli articoli 153 e 154 c.p.c., che pone in evidenza come la distinzione con i termini perentori risiede unicamente nel fatto che i primi e non i secondi sono prorogabili, nei modi e nei tempi di legge, non puo' utilmente opporsi - come e' stato fatto dal Tribunale di Genova in una recente pronuncia che ha affrontato la questione in discussione - che l'art. 154 c.p.c., nel prevedere la derogabilita' dei termini ordinatori esclude che cio' possa avvenire quanto il termine sia posto a pena di decadenza, da cio' traendo la conseguenza che la decadenza consegua solo al decorso dei termini non prorogabili, cioe' i perentori. Tale interpretazione, che porta a considerare innocua processualmente la violazione di tutti i termini non specificamente qualificati dalla legge come perentori, non puo' essere condivisa per ragioni di carattere letterale e sistematico. Se la violazione del termine ordinatorio fosse innocua, non si comprenderebbe perche' la legge ne disciplini dettagliatamente condizioni e limiti di prorogabilita'. Inoltre, come anche ha posto in rilievo la Corte di cassazione nella piu' volte ricordata sentenza n. 20604/08, una interpretazione costituzionalmente orientata della norma, nel rispetto del principio di ragionevole durata del processo, impone di attribuire rilevanza alla violazione di termini anche quando effetti preclusivi non siano espressamente previsti dalla legge. Che all'inutile decorso del termine ordinatorio consegua la decadenza e' conclusione condivisa dalla Corte costituzionale la quale, con ordinanze 117/2003 e 127/2004, ha ritenuto la manifesta inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 269 secondo comma c.p.c., prospettata sotto il profilo della violazione degli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, per la mancata previsione di un termine perentorio per la chiamata in causa da parte del convenuto, come invece e' previsto nel caso in cui la chiamata venga fatta dall'attore o dal terzo chiamato. La Corte ha rilevato «che la richiesta di proroga di termini ordinatori come quello in esame, puo' utilmente formularsi solo prima della scadenza, ai sensi dell'art. 154 c.p.c. nella interpretazione tuttora prevalente della Corte di cassazione; che invece, come riferisce il giudice remittente, la richiesta di concessione di un nuovo termine per la citazione del terzo e' stata formulata dal convenuto alla prima udienza, quando era gia' decorso il termine, ormai non piu' prorogabile, che avrebbe consentito la citazione nel rispetto dell'art. 163-bis c.p.c.; che la intervenuta decadenza del convenuto dal potere di chiamare in causa terzi determina quindi il difetto di rilevanza della questione nel giudizio a quo». E' altresi' infondata l'ulteriore affermazione dell'appellante per la quale, se non espressamente prevista, la improcedibilita' del ricorso non potrebbe essere dichiarata. Il mancato rispetto del termine previsto dall'art. 435 comma secondo c.p.c. determina la preclusione dalla possibilita' di potere validamente notificare il ricorso di impugnazione e il decreto di fissazione dell'udienza, con la conseguenza che il complesso atto unitario di introduzione del giudizio di impugnazione, caratterizzato da una fase iniziale di deposito del ricorso e di una successiva di instaurazione del contraddittorio, non si perfeziona, cosicche' gli effetti prodromici e preliminari conseguenti alla edictio actionis non si stabilizzano in assenza di una valida vocatio in ius, e l'impugnazione, anche se valida e tempestiva al momento del deposito del ricorso, non si perfeziona, con la conseguenza dell'improcedibilita' del giudizio di appello, pur se ritualmente instaurato. Dalle considerazioni sopra esposte deriva la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 435, comma 2 c.p.c. che viene di seguito prospettata, dal momento che l'accoglimento dell'eccezione determinerebbe una pronuncia di mero rito declaratoria dell'improcedibilita' dell'appello. Quanto alla non manifesta infondatezza del dubbio di illegittimita' costituzionale si richiama l'insegnamento della Corte costituzionale medesima la quale ha affermato che: «Nel delineare i principi informatori della disciplina legislativa della giurisdizione con riferimento ai diritti delle parti, la Costituzione, all'art. 24, riconosce i diritti della difesa come valori primari, che, in quanto tali, godono dell'immediata garanzia costituzionale quali diritti inviolabili ai sensi dell'art. 2 della medesima Carta fondamentale (v. sent. numeri 98 del 1965, 125 del 1979, 18 del 1982, 243 del 1989, 329 del 1992). Tuttavia, i diritti della difesa, nei quali va ricompreso anche il cosiddetto diritto al giudizio (v. sent. numeri 220 del 1986, 123 del 1987), si traducono in specifiche e concrete situazioni giuridiche soggettive soltanto a seguito della loro articolazione in diritti e pretese attinenti al processo o, piu' precisamente, soltanto in conseguenza della disciplina legislativa delle attivita' e dei procedimenti connessi con l'esercizio della giurisdizione. Per tale ragione questa Corte ha costantemente sottolineato il principio secondo il quale l'effettiva garanzia dei diritti della difesa riposa sull'esercizio, non irragionevole, dell'ampia potesta' discrezionale che il legislatore possiede in relazione all'opera di conformazione del processo (v. sent. numeri 89 del 1972, 49 del 1979, 100 del 1987, 82 del 1992, ord. numeri 37 e 38 del 1988, 517 del 1990). In riferimento allo svolgimento di tale discrezionalita' politica, questa Corte ha costantemente affermato che il legislatore, ove riconosca la sussistenza in concreto di uno specifico interesse pubblico che ne giustifichi l'adozione, puo' legittimamente imporre all'esercizio di facolta' e di poteri processuali limitazioni temporali immutabili e irreversibili, per il fatto che i termini perentori, cui sono connaturali i caratteri dell'improrogabilita' e dell'insanabilita', tendono a garantire, oltre alla fondamentale esigenza di giustizia relativa alla celerita' o alla speditezza dei processi, un'effettiva parita' dei diritti delle parti in causa mediante il contemperamento dell'esercizio dei rispettivi diritti di difesa (v. spec. sent. n. 106 del 1973 e ord. n. 900 del 1988, nonche' sent. numeri 138 del 1975 e 63 del 1977).» (C. cost. sent. n. 471/1992). Nel caso di specie si dubita che la previsione del termine di dieci giorni per la notifica all'appellato del ricorso e del decreto di fissazione d'udienza, sia assistita da ragioni tali da giustificarla e da giustificare, in caso di suo vano decorso, la preclusione che ne deriva e che non differisce da quella risultante dal decorso di un termine perentorio. Infatti quel termine non e' funzionale a ridurre i tempi del processo nella sua fase iniziale, che conseguono alla data di fissazione dell'udienza di discussione da parte del Presidente della Corte di appello. Neppure appare adeguata la ragione che e' stata ipotizzata dalla Corte di cassazione, nell'ordinanza interlocutoria del 10 luglio 2007 con la quale si e' detto che il rispetto del termine di dieci giorni «consente di rinnovare le notifiche eseguite ma viziate in tempo utile per l'udienza di discussione»; infatti, quando la notifica ancorche' viziata sia esistente, alla parte dovra' essere assegnato dal giudice un termine perentorio per rinnovarla (articoli 291 e 421 c.p.c.). Neppure quel termine appare finalizzato ad assicurare adeguati termini a difesa dell'appellato, poiche' questi sono definiti dal comma 3 dell'art. 435 c.p.c. La sola funzione concreta che puo' essere attribuita a quel termine appare essere quella di impedire che l'udienza di discussione possa essere fissata dal Presidente della Corte di appello in tempi cosi' brevi da rendere perfino difficoltosa la notifica all'appellato. Ma se tale e' lo scopo, non sembra ragionevole gravare l'appellante di un onere di notifica in termini prestabiliti, non per la loro brevita' - che comunque e' idonea a consentire di provvedere all'adempimento - ma per la gravita' delle conseguenze derivanti dal mancato rispetto del termine, comportanti la perdita del diritto all'azione, senza che cio' appaia in alcun modo giustificato da ragioni di equilibrio tra i poteri delle parti o di celerita' del processo. Per tutte le sovraesposte ragioni l'art. 435, comma 2 c.p.c. nella parte in cui fissa all'appellante un termine per provvedere alla notifica del ricorso e del decreto, appare in contrasto con gli articoli 24 e 111 della Costituzione, poiche' esso comporta, quale sanzione della sua decorrenza, il pregiudizio del diritto alla difesa, come diritto ad agire in giudizio, senza che ricorrano motivi ragionevoli che possano giustificare tale effetto, cosi' violando il diritto al giusto processo.