Ordinanza 
nei giudizi di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  24,  secondo
comma, del regio decreto  16  marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del
fallimento, del concordato preventivo  e  della  liquidazione  coatta
amministrativa), come sostituito dall'art. 21 del decreto legislativo
9 gennaio  2006,  n.  5  (Riforma  organica  della  disciplina  delle
procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5,  della  legge  14
maggio 2005, n. 80), promossi dal Tribunale ordinario  di  Lucca  con
tre ordinanze del 14 maggio 2008, otto del 25 giugno 2008, una del 27
giugno 2008 e tre del 2 luglio 2008, iscritte ai nn. da 312 a 314, da
347 a 349, da 387 a 395 del  registro  ordinanze  2008  e  pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 43, 46 e  51, 1ª  serie
speciale, dell'anno 2008; 
    Visti gli atti di intervento del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella Camera di consiglio del 22  aprile  2009  il  giudice
relatore Paolo Maria Napolitano; 
    Ritenuto che con quindici ordinanze, delle quali  due  depositate
il 14 maggio 2008, otto il 25 giugno 2008, una il 27  giugno  2008  e
tre il 2 luglio  2008,  aventi  comunque  tutte  analogo  tenore,  il
Tribunale ordinario di Lucca ha sollevato, in riferimento agli  artt.
3, primo comma, 24, secondo comma,  76  e  111,  primo  comma,  della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art.  24,
secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942,  n.  267  (Disciplina
del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta
amministrativa), come sostituito dall'art. 21 del decreto legislativo
9 gennaio  2006,  n.  5  (Riforma  organica  della  disciplina  delle
procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5,  della  legge  14
maggio 2005, n. 80); 
        che  il  giudice  a  quo,  in  ciascuna  delle  ordinanze  di
rimessione, riferisce di essere chiamato a decidere una  controversia
avente ad oggetto la declaratoria di inefficacia rispetto alla  massa
fallimentare di talune rimesse operate dal fallito sul proprio  conto
corrente bancario in epoca  anteriore  di  non  oltre  un  anno  alla
dichiarazione di fallimento o - in uno solo dei  casi  all'esame  del
rimettente -  in  epoca  successiva  a  tale  dichiarazione,  la  cui
provvista e' stata incamerata dall'istituto di credito; 
        che il giudice a  quo  riferisce,  altresi',  che  i  singoli
giudizi sono stati intrapresi mediante ricorso ai sensi dell'art. 24,
secondo comma,  della  legge  fallimentare,  nel  testo  -  all'epoca
vigente  -  introdotto  a  seguito  della  riforma  delle   procedure
concorsuali attuata col d. lgs. n. 5 del 2006; 
        che - dopo aver motivato sia in ordine alla ritualita'  della
introduzione dei vari giudizi a  quibus,  effettuata  utilizzando  la
disposizione censurata, sia in ordine alla indifferenza  rispetto  ad
essi della avvenuta entrata in  vigore  del  decreto  legislativo  12
settembre 2007, n. 169  (Disposizioni  integrative  e  correttive  al
regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonche' al decreto legislativo 9
gennaio 2006, n. 5, in materia  di  disciplina  del  fallimento,  del
concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa,  ai
sensi dell'art. 1, commi 5, 5-bis e 6 della legge 14 maggio 2005,  n.
80), il quale ha, fra l'altro, abrogato la disposizione  censurata  -
il rimettente ha sollevato questione di  legittimita'  costituzionale
del ricordato art. 24, secondo comma, della legge fallimentare  nella
parte in cui dispone che, salva diversa previsione, alle controversie
che derivano dal fallimento si  applicano  le  norme  previste  dagli
artt. da 737 a 742 del codice di procedura civile, regolanti il  rito
camerale; 
        che, quanto alla rilevanza  della  questione,  il  rimettente
argomenta in ordine alla  applicabilita'  della  norma  censurata  ai
giudizi a quibus, rilevando che la azione  proposta  in  ciascuno  di
essi rientra fra quelle, derivanti dal fallimento, che, se instaurate
successivamente al 16 luglio 2006, sono soggette al rito camerale; 
        che, quanto alla non manifesta infondatezza della  questione,
essa e' prioritariamente  dedotta  con  riferimento  alla  violazione
dell'art. 76 Cost.; 
        che il rimettente, infatti, osserva che la legge di delega 14
maggio 2005, n. 80 (Conversione  in  legge,  con  modificazioni,  del
decreto-legge 14 marzo 2005,  n.  35,  recante  disposizioni  urgenti
nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale  e
territoriale. Deleghe al  Governo  per  la  modifica  del  codice  di
procedura civile in materia di processo di cassazione e di  arbitrato
nonche' per la riforma  organica  della  disciplina  delle  procedure
concorsuali), ha conferito al Governo il  potere  di  «modificare  la
disciplina del fallimento», nel rispetto del criterio direttivo volto
a «semplificare la disciplina attraverso  l'estensione  dei  soggetti
esonerati dall'applicabilita' dell'istituto e  l'accelerazione  delle
procedure applicabili alle controversie in materia»; 
        che il rimettente deduce da cio' che l'intervento legislativo
delegato deve ritenersi circoscritto «nei limiti  dell'oggetto  della
disciplina del processo fallimentare»; 
        che,  in   altri   termini,   esso   sarebbe   rivolto   solo
all'accelerazione  delle  procedure  applicabili   ai   ricorsi   per
dichiarazione  di   fallimento   e   alle   successive   controversie
endofallimentari, con esclusione dei processi ordinari  semplicemente
derivanti dal fallimento; 
        che, a comprova di cio', il rimettente rileva che nessuno dei
restanti principi e criteri direttivi della delega appare  consentire
una nuova disciplina processuale delle azioni ordinarie che  derivano
dal fallimento; 
        che, pertanto,  ad  avviso  del  rimettente,  il  legislatore
delegato, nell'estendere a tutte le azioni derivanti  dal  fallimento
il modello camerale, avrebbe ecceduto i limiti della delega; 
        che,  prosegue  il  rimettente,  la  disposizione   censurata
sarebbe,  comunque,  incostituzionale  anche   con   riferimento   ai
parametri dettati dagli artt. 3, 24,  secondo  comma,  e  111,  primo
comma, Cost.; 
        che, quanto al primo profilo, essa violerebbe il canone della
ragionevolezza nell'imporre il modello processuale  camerale  «al  di
fuori dell'ambito funzionale di esso  proprio»,  in  particolare  con
riferimento  a  controversie  «involgenti  la   tutela   di   diritti
soggettivi»; 
        che il  rito  camerale  costituirebbe,  infatti,  un  modello
processuale  neutro,  privo  di  regolamentazione  delle  fasi  della
cognizione, rimesso alla discrezionalita' del giudice e  destinato  a
concludersi  con  un  provvedimento,  in  forma   di   decreto,   non
suscettibile di giudicato; 
        che, per il rimettente, esso sarebbe idoneo  alla  tutela  di
«mere e specifiche» facolta',  la'  dove  garanzia  fondamentale  dei
processi a cognizione piena, siano essi speciali o  ordinari,  e'  la
predeterminazione delle forme e la copertura dell'accertamento  della
situazione soggettiva col giudicato; 
        che la scelta del legislatore delegato sarebbe viziata  anche
per disparita' di trattamento fra  situazioni  analoghe,  determinata
solo  dal  fatto  che  la  azione  sia  connessa  ad  un   fallimento
pronunciato prima o dopo il 1° gennaio  2008,  ovvero  che  essa  sia
stata o meno proposta prima di tale data; 
        che risulterebbe, altresi', violato l'art. 24, secondo comma,
Cost., posto che la norma censurata avrebbe l'effetto di  esporre  le
parti   a   regole   processuali   legate   a   incerte    «direttive
giurisdizionali» variabili secondo la competenza dei  singoli  uffici
giudiziari; 
        che la disposizione censurata sarebbe, infine,  in  contrasto
con l'art. 111 Cost., il quale impone  che  il  giusto  processo  sia
regolato per legge onde perseguire il fine suo proprio, «apparendo  -
la ricordata generalizzata  estensione  del  modello  camerale  -  in
contrasto con l'intima essenza  dello  stesso  principio  del  giusto
processo»; 
        che  il  rimettente  conclude  affermando  che  non   e'   in
discussione in astratto la  compatibilita'  costituzionale  del  rito
camerale, quanto la sua giustificata congruita' rispetto alla  natura
del processo in cui tale rito si svolge; 
        che e' intervenuto in  tutti  i  giudizi  il  Presidente  del
Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e  difeso  dalla  Avvocatura
generale dello Stato, concludendo per la infondatezza della questione
proposta; 
        che, per la difesa pubblica, non sarebbe dubbio che la azione
proposta nel giudizio a quo, essendo volta alla determinazione  della
massa fallimentare, deve  essere  fatta  rientrare  nel  concetto  di
«procedura concorsuale» di cui alla delega; 
        che, quanto agli altri profili dedotti, l'Avvocatura nega che
il  procedimento  camerale  fornisca  minori  garanzie  rispetto   al
giudizio ordinario, essendo regolato dal codice di rito,  assicurando
la  tutela  delle  parti  in  causa  e  potendo  condurre,  come   da
consolidata giurisprudenza, ad  una  decisione  dotata  di  forza  di
giudicato. 
    Considerato che con quindici ordinanze, tutte di analogo  tenore,
il Tribunale ordinario di Lucca ha  sollevato,  in  riferimento  agli
artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, 76 e 111, primo comma, della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art.  24,
secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942,  n.  267  (Disciplina
del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta
amministrativa), come sostituito dall'art. 21 del decreto legislativo
9 gennaio  2006,  n.  5  (Riforma  organica  della  disciplina  delle
procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5,  della  legge  14
maggio 2005, n. 80), nella parte in  cui  esso  dispone  che,  «salva
diversa previsione, alle controversie che derivano dal fallimento  si
applicano le norme previste dagli artt. da 737 a 742  del  codice  di
procedura civile»; 
        che il rimettente dubita  della  legittimita'  costituzionale
della disposizione censurata in  quanto,  a  suo  avviso,  la  stessa
confliggerebbe: a) con l'art. 76 Cost., poiche' la delega legislativa
contenuta nell'art. 1, comma 6, della legge 14  maggio  2005,  n.  80
(Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14  marzo
2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito  del  Piano  di
azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe  al
Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia  di
processo di cassazione e di arbitrato nonche' per la riforma organica
della disciplina delle procedure concorsuali), consentiva al  Governo
di  intervenire,  al  fine  di  accelerarle,  solo  sulle   procedure
applicabili ai  ricorsi  per  dichiarazione  di  fallimento  e  sulle
successive controversie endofallimentari  e  non  anche  su  tutti  i
processi ordinari semplicemente  derivanti  dal  fallimento;  b)  con
l'art. 3 Cost., in quanto irragionevolmente impone il rito camerale -
che  egli  ritiene  regolato   da   una   disciplina   rimessa   alla
discrezionalita' del giudicante e  destinato  a  concludersi  con  un
provvedimento non suscettibile di passare in giudicato - anche al  di
fuori del suo ambito  funzionale,  in  controversie  coinvolgenti  la
tutela di diritti soggettivi ed in quanto portatrice di disparita' di
trattamento, essendo essa applicabile o meno  in  funzione  del  dato
casuale dell'epoca di dichiarazione del fallimento o di instaurazione
delle controversie  stesse;  c)  con  l'art.  24  Cost.,  poiche'  la
adozione del rito camerale comprimerebbe il diritto di  difesa  delle
parti; d) con l'art. 111 Cost., dato che la  estensione  del  modello
camerale alle azioni che derivano dal fallimento, senza  che  si  sia
tenuto  conto  delle  «caratteristiche   dell'accertamento   che   si
richiede»,   violerebbe   il   principio   del   «giusto   processo»,
necessariamente «regolato per legge»; 
        che, attesa la  identita'  della  questione  di  legittimita'
costituzionale sollevata con ciascuna  delle  ordinanze  indicate,  i
relativi  giudizi  vanno  riuniti  per  essere  definiti  con   unica
decisione; 
        che non ha  incidenza  sulla  ammissibilita'  della  presente
questione di legittimita' costituzionale il fatto che la disposizione
normativa censurata sia stata oggetto di  integrale  abrogazione  per
effetto della entrata in vigore dell'art. 3,  comma  1,  del  decreto
legislativo 12 settembre 2007, n.  169  (Disposizioni  integrative  e
correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonche' al decreto
legislativo 9 gennaio 2006,  n.  5,  in  materia  di  disciplina  del
fallimento, del concordato preventivo  e  della  liquidazione  coatta
amministrativa, ai sensi dell'art. 1, commi 5, 5-bis e 6 della  legge
14 maggio 2005, n. 80), dato che il rimettente, con  motivazione  non
implausibile, precisa  che,  malgrado  la  avvenuta  abrogazione,  la
disposizione censurata continua ad essere rilevante nei vari  giudizi
a quibus in quanto tuttora applicabile ai procedimenti iniziati, come
quelli in argomento, anteriormente alla data di entrata in vigore del
d. lgs. n. 169 del 2007; 
        che la questione sollevata dal Tribunale ordinario  di  Lucca
e' manifestamente infondata; 
        che, infatti, quanto alla  dedotta  violazione  dell'art.  76
Cost.  per  avere,  come  asserito  dal  rimettente,  il  legislatore
delegato ecceduto i limiti della delega legislativa ad esso conferita
con la legge n. 80 del 2005, basti osservare che il principio in base
al quale e' stata adottata  la  disposizione  censurata,  nell'ambito
della modifica della «disciplina del fallimento», contenuto nell'art.
1, comma 6, lettera a), numero 1, della citata legge di delega n.  80
del 2005, prevedeva espressamente che si dovesse provvedere nel senso
di «semplificare la disciplina attraverso [...] l'accelerazione delle
procedure applicabili alle controversie in materia»; 
        che frutto di  petizione  di  principio  e'  la  affermazione
contenuta nelle ordinanze di rimessione, e sulla quale e'  incentrata
la motivazione della  pretesa  violazione  dei  limiti  della  delega
legislativa,  secondo  la  quale   l'ampiezza   dell'intervento   del
legislatore delegato doveva essere contenuta nel  solo  ambito  della
accelerazione   «delle   procedure   applicabili   ai   ricorsi   per
dichiarazione  di   fallimento   e   alle   successive   controversie
endofallimentari con [...] esclusione di ogni riferimento ai processi
ordinari semplicemente derivanti dal fallimento»; 
        che, al contrario, le predette  espressioni  «disciplina  del
fallimento» e «procedure applicabili alle  controversie  in  materia»
hanno  una  valenza  semantica  talmente   ampia   da   ricomprendere
certamente nel loro ambito il riferimento a  tutti  i  processi  che,
come quelli di cui ai  giudizi  a  quibus,  in  quanto  volti  a  far
dichiarare  la  inefficacia  rispetto  alla  massa  fallimentare   di
determinati atti dispositivi, originano dalla procedura  fallimentare
e in essa trovano il loro naturale alveo; 
        che anzi - a  differenza  di  quanto  riferito  dallo  stesso
rimettente onde avvalorare la sua tesi - fra i principi ed i  criteri
direttivi in base ai quali esercitare  la  delega  vi  e'  l'espresso
richiamo anche alla disciplina di azioni diverse  rispetto  a  quella
svolta con ricorso per  dichiarazione  di  fallimento,  la'  dove  si
indica fra i compiti del legislatore  delegato,  al  numero  6  della
lettera a) del comma 6 dell'art. 1 della legge n.  80  del  2005,  la
riduzione del termine  di  decadenza  per  l'esercizio  della  azione
revocatoria; 
        che  non  v'e'  dubbio,  per   altro   verso,   che   tramite
l'applicazione alle controversie in materia fallimentare delle  norme
previste dagli artt. da 737 a 742 del  codice  di  procedura  civile,
risulti  soddisfatto  dalla  norma  censurata  il   principio   della
semplificazione e della accelerazione delle procedure imposto in sede
di delega legislativa; 
        che le restanti censure, concernenti la  asserita  violazione
degli artt. 3, 24 e 111 Cost., che sarebbe realizzata  attraverso  la
adozione del rito camerale quale «forma»  processuale  applicabile  a
tutte  le  azioni  che  derivano  dal  fallimento,   possono   essere
congiuntamente esaminate; 
        che  la  asserita  violazione  dell'art.  3  Cost.   per   la
disparita' di trattamento di situazione identiche - al di la' di  una
certa  perplessita'  argomentativa,  essendo  essa   cronologicamente
riferita, in termini di irrisolta alternativita', ora  alla  data  di
dichiarazione del fallimento ora  a  quella  di  instaurazione  della
controversia regolata dal rito camerale - non  sussiste,  essendo  il
diverso regime normativo  applicabile  alle  controversie  dovuto  al
naturale fluire del tempo  che,  per  consolidata  giurisprudenza  di
questa Corte, e' valido discrimine fra situazioni analoghe (da ultimo
ordinanza n. 212 del 2008); 
        che le  argomentazioni  svolte  dal  rimettente  al  fine  di
dimostrare la violazione  dell'art.  24,  secondo  comma,  Cost.,  in
ordine  ad  una  affermata  variabilita',  a   seconda   dell'ufficio
giudiziario adito,  delle  regole  processuali  applicabili  al  rito
camerale,  appaiono  non  suffragate  da  alcun  elemento   obiettivo
desumibile  sia,  positivamente,  dall'ordinamento   normativo   che,
empiricamente, dalla sua concreta prassi applicativa; 
        che, viceversa, piu' volte questa Corte ha ribadito la  piena
compatibilita'   costituzionale   della   opzione   del   legislatore
processuale, giustificata da comprensibili esigenze di  speditezza  e
semplificazione, per il rito camerale (ex multis: sentenza n. 103 del
1985, ordinanza n. 35 del 2002), anche in  relazione  a  controversie
coinvolgenti la titolarita' di diritti soggettivi; 
        che, in particolare, come  gia'  in  passato  osservato,  «la
giurisprudenza di questa Corte  e'  costante  nell'affermare  che  la
previsione del rito camerale per  la  composizione  di  conflitti  di
interesse  mediante  provvedimenti  decisori  non  e'  di   per   se'
suscettiva di frustrare il diritto di difesa, in  quanto  l'esercizio
di quest'ultimo puo' essere modulato dalla legge  in  relazione  alle
peculiari esigenze dei vari procedimenti  [...]  purche'  ne  vangano
assicurati lo scopo  e  la  funzione»  (sentenza  n.  103  del  1985,
ordinanze n. 121 del 1994 e n. 141 del 1998); 
        che,   piu'   nello   specifico,    puo'    escludersi    sia
l'irragionevolezza della scelta legislativa  sia  la  violazione  del
diritto di difesa sia, infine, la violazione della regola del  giusto
processo garantita dall'art. 111, primo comma, Cost., ove il  modello
processuale  previsto  dal  legislatore,  nell'esercizio  del  potere
discrezionale di cui egli e' titolare in materia (da ultimo  sentenza
n. 221 del 2008), sia tale da assicurare il  rispetto  del  principio
del  contraddittorio,  lo  svolgimento   di   un'adeguata   attivita'
probatoria, la possibilita' di avvalersi  della  difesa  tecnica,  la
facolta' della impugnazione -  sia  per  motivi  di  merito  che  per
ragioni di legittimita' - della decisione assunta, la attitudine  del
provvedimento conclusivo del giudizio ad acquisire stabilita', quanto
meno «allo stato degli atti»; 
        che tutte queste condizioni non  risultano  contraddette  nel
caso della applicazione del rito camerale ai procedimenti in  materia
fallimentare. 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti  alla
Corte costituzionale.