IL TRIBUNALE A scioglimento della riserva assunta all'udienza del 6 ottobre 2008, rileva quanto segue. Bolognini Riccardo, con ricorso depositato il 1° aprile 2008, premesso di essere stato assunto con contratto a termine alle dipendenze della C.I.S. S.p.A., con mansioni di operaio di livello II B, dal 1° giugno 2005 al 30 novembre 2005, con proroga al 30 maggio 2006; che, a giustificazione della previsione del termine (e della successiva proroga), era stata addotta la seguente motivazione: «per esigenze straordinarie connesse all'aumento temporaneo dei servizi prestati ai comuni consorziati»; che con lettera del 28 dicembre 2005 la C.I.S. S.p.A. aveva comunicato al lavoratore il conferimento del ramo d'azienda avente ad oggetto la gestione dei pubblici servizi alla C.I.S. S.r.l.; che la giustificazione addotta era generica, in quanto non indicava quali erano i servizi oggetto del dedotto aumento ne' i comuni che ne erano interessati e non consentiva in concreto di stabilire l'entita' dell'aumento di lavoro, l'intervallo temporale in cui si articolava e, in conseguenza, il numero e la durata delle assunzioni a termine giustificate da tale fattore; tutto cio' premesso, ha chiesto, nei confronti della C.I.S. S.r.l. la declaratoria della nullita' della clausola appositiva del termine, l'accertamento dell'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin dal 1° giugno 2005, l'accertamento del suo diritto a vedersi riconosciuta l'anzianita' contrattuale dal 1° giugno 2005 e la conseguente condanna del datore di lavoro al pagamento della somma corrispondente alle retribuzioni non percepite a far data dalla messa in mora, ossia dal 22 novembre 2006, oltre accessori di legge. Nel costituirsi in giudizio, la C.I.S. S.r.l., per dimostrare il fondamento giustificativo dell'apposizione del termine, ha prodotto scrittura privata del 31 marzo 2004, con la quale erano state poste le basi per la costituzione di una societa' consortile denominata «Manutenzione Ambientale Urbana», con lo scopo di coordinare l'attivita' di manutenzione delle aree urbane, affidando l'esecuzione dei relativi servizi ai soci. L'aumento temporaneo dei servizi sarebbe disceso dal fatto che, nelle more della costituzione della societa' consortile, la societa' C.I.S. avrebbe dovuto garantire provvisoriamente lo svolgimento dei servizi stessi. La resistente ha aggiunto che il ricorrente sarebbe risultato inidoneo per impieghi operativi nell'ambito delle attivita' svolte dalla societa' C.I.S., con conseguente pericolo per l'incolumita' sua e dei suoi colleghi. Cio' posto, quanto alla rilevanza della questione che si va a prospettare, si osserva che la scrittura privata del 31 marzo 2004 nulla prevede, quanto allo svolgimento provvisorio, da parte della societa' resistente dei servizi altrimenti destinati ad essere posti a carico della costituenda societa'. L'accordo sindacale del successivo 9 dicembre 2004 da' atto dell'attivazione da parte della resistente di non precisati «nuovi servizi» e, nel quadro della riorganizzazione aziendale programmata, prevede la copertura dei posti vacanti da attuarsi prioritariamente con la trasformazione dei contratti a tempo determinato in essere in contratti a tempo indeterminato e, per le attivita' di nuova istituzione (anche in questo caso non precisate in alcun modo) l'assunzione di personale «in funzione delle definizioni anche temporali, che verranno date ai servizi di volta in volta affidati». Anche in questo caso, manca ogni specificazione idonea a dimostrare la riconducibilita' causale del contratto del quale si discute a specifiche esigenze organizzative del datore di lavoro. Quanto all'affermata inidoneita' al lavoro del ricorrente, la relazione del dr. Brettoni ribadisce che il Bolognini, al momento della visita medica, non si presentava in condizioni psico-fisiche ostative al rilascio del certificato di idoneita' alla mansione. Cio' posto, l'art. 1, comma 1 del d.lgs. n. 368/2001 prevede che e' consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. Il comma 2 aggiunge che l'apposizione del termine e' priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1. Ritiene il giudicante che il generico riferimento all'aumento temporaneo dei servizi non risponda alle esigenze di specificazione contenute nell'art. 1, comma 2 del d.lgs. n. 368/2001. La scelta legislativa di imporre un generale onere di specificazione comporta invece la necessita' di verificare quando in concreto esso possa dirsi assolto. Al fine di evitare che tale verifica non poggi su alcuna base obiettiva, e' necessario prendere le mosse dalla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dalla CES, dall'UNICE e dal CEEP e dal contenuto dell'accordo medesimo, dal quale emerge, in primo luogo, che l'utilizzazione dei contratti di lavoro a tempo determinato basata su ragioni oggettive e' un modo per prevenire gli abusi (punto 7 delle considerazioni generali) e, in secondo luogo, che il contratto deve essere determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico (clausola n. 3). Appare allora evidente, in una lettura della norma interna coerente con il significato della fonte sovraordinata, che la specificazione delle ragioni impone (non solo il riscontro obiettivo, ma anche) la puntualizzazione di quale sia l'evento concreto che giustifica l'apposizione del termine. Al contrario, il mero riferimento all'esistenza di un temporaneo aumento di lavoro non e' altro che una modalita' appena piu' articolata di esprimere le esigenze sostitutive, nulla aggiunge alla generica previsione del comma 1 dell'art. 1 e, in definitiva, non consente di predeterminare le ragioni che giustificano la conclusione del contratto a tempo determinato e di esercitare alcun controllo preventivo sulla stessa obiettiva esistenza delle ragioni poste a fondamento della scelta negoziale. Peraltro, nella specie, come s'e' visto, a riprova del carattere tautologico dell'espressione, e' pure mancata la prova (e, a ben guardare, sinanche la deduzione) dei servizi che sarebbero «aumentati» nei previsto arco temporale di durata del contratto de quo. Alla stregua di tali premesse, alla luce deI consolidato orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimita', il ricorrente avrebbe diritto alla declaratoria di nullita' della clausola appositiva del termine, all'accertamento dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e a ottenere la condanna del datore di lavoro alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal giorno dell'offerta della prestazione lavorativa sino all'intervento di una legittima causa di risoluzione del rapporto (Cass. 15628/2001; Cass. 12985/2008). Queste, in conclusione, nel caso concreto sarebbero state le conseguenze della eventuale declaratoria di illegittimita' del contratto,conseguenze oggi precluse per effetto dell'entrata in vigore dell'art. 21, comma 1-bis del decreto-legge n. 112/2008, convertito con modificazioni nella legge n. 133/2008 che ha introdotto nel decreto legislativo n. 368/2001 l'art. 4-bis. La norma concentra la tutela del lavoratore assunto con contratto a tempo determinato, nullo per violazione degli art. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368/2001, nella corresponsione di un indennizzo compreso tra un minimo di 2,5 mensilita' e un massimo di sei mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto. Non solo, quindi, sarebbe esclusa la possibilita' di ripristinare il rapporto di lavoro, ma l'indennita' riconoscibile sarebbe necessariamente limitata nel minimo a 2,5 e nel massimo a 6 mensilita'. Argomentato in ordine alla rilevanza, deve osservarsi a questo punto che appare non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 21 comina 1-bis della legge n. 133/2008, per contrasto con gli artt. 3, 24 comma 1, 111 comma 1 e 117 comma 1, della Costituzione, nel significato che assumono anche per effetto delle proclamazioni contenute nell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e negli artt. 20 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, alle quali la Corte costituzionale ha indubbiamente assegnato il valore di parametro di riferimento nel giudizio di costituzionalita' (v. Corte cost. n. 135/2002), implicitamente riconoscendo che i diritti e le liberta' fondamentali derivanti dalle fonti di convenzioni e trattati sovranazionali, affiancandosi quali valori-diritti alla dignita' delle persone, compongono un quadro di proclamazioni assimilabili al livello costituzionale. In particolare, si osserva, quanto al contrasto con l'art. 3 della Costituzione, che tutti i poteri pubblici, anche quelli di rango costituzionale, possono e devono essere esercitati unicamente per il perseguimento dei fini in relazione ai quali il potere e' attribuito. E' questo il connotato dei poteri costituzionali delle moderne democrazie poiche' si tratta di poteri discrezionali, ma non liberi nei fini, secondo la definizione di accreditata dottrina costituzionalista. Ne consegue che gli organi cui sono affidate le massime funzioni nelle quali si esprime la sovranita' dello Stato non possono espletare le potesta' loro attribuite per scopi diversi da quelli cui le funzioni stesse sono finalizzate, tantomeno in via strumentale per ledere diritti e principi stabiliti dalla Costituzione. In particolare, il potere legislativo, subordinato com'e' al pari degli altri poteri costituzionali all'impero delle norme e dei principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, incontra nel suo esplicarsi, il limite della ragionevolezza dell'intervento legislativo (cfr. Corte cost. n. 72/1964 e n. 346/1991). Tanto Premesso, va aggiunto che la disposizione denunciata e' stata introdotta, per i contratti regolati dal decreto legislativo n. 368/2001, rispetto ai quali sia pendente un giudizio circa la legittimita' del termine apposto, una regolamentazione diversa rispetto a quella in via generale applicabile ai contratti a termine, secondo quanto generalmente affermato in materia dalla giurisprudenza di merito e di legittimita'. Per effetto dell'entrata in vigore della legge n. 133 del 2008, infatti, ove sia pendente un giudizio (e salvi dunque solo i giudicati), la tutela accordata ai contratti a tempo determinato, stipulati nella vigenza del decreto legislativo n. 368 del 2001 e che siano illegittimi in quanto stipulati in violazione dell'art. 1, 2 e 4 del decreto stesso, e' limitata al solo pagamento di una «indennita' di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604 e successive modificazioni». La norma censurata non contiene alcun riferimento all'obbligo per il datore di lavoro, pur previsto dall'art. 8 della legge n. 604/1966, di procedere al pagamento dell'indennizzo solo ove non provveda nel termine di tre giorni a riassumerlo, ma limita il richiamo ai soli criteri da seguire per l'esatta quantificazione dell'indennita'. Cosi' facendo il legislatore ha ridotto la tutela accordata, avendo riguardo al solo discrimine temporale della attuale pendenza di un giudizio. Per tutti quei contratti a termine stipulati nel regime del decreto legislativo n. 368/2001 il cui ricorso introduttivo della lite sia stato depositato successivamente all'entrata in vigore della legge n. 133/2008 (che ex art. 1, ultimo comma e' entrata in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e, dunque, per essere stata pubblicata sul S.O. n. 196 alla Gazzetta Ufficiale n. 195 del 21 agosto 2008, dal 22 agosto 2008) le conseguenze restano quelle gia' previste e sopra diffusamente riportate (ripristino del rapporto e risarcimento del danno). Il discrimine per individuare la normativa applicabile e', dunque, del tutto casualmente ancorato al fatto che il lavoratore avesse o meno iniziato un giudizio. Ritiene il giudicante che non vi sia alcun elemento per ritenere che la scelta del legislatore sia stata determinata da un meditato ripensamento delle tutele da accordare, in generale, ai contratti a tempo determinato. Sono noti i principi affermati dal giudice delle leggi il quale in piu' occasioni ha precisato che ben puo' il legislatore applicare alla stessa categoria di soggetti, trattamenti differenziati in momenti diversi nel tempo. La Corte costituzionale ha, infatti, ancora di recente, ribadito che tale scelta non contrasta di per se' con il principio di eguaglianza posto che proprio il fluire del tempo costituisce un elemento diversificatore delle situazioni giuridiche. La demarcazione temporale consegue, come effetto naturale, alla generalita' delle leggi e non comporta, di per se', una lesione del principio di parita' di trattamento sancito dall'art. 3 della Costituzione (v. Corte cost. n. 234/2007 e ordinanze nn. 342/2006, 216/2005 e 121/2003). Tuttavia la legge in esame non rappresenta una rimeditazione complessiva degli effetti con riferimento alla generalita' dei soggetti, canone di eguaglianza che deve permanere ove il tempo determini una modifica della disciplina, ma, piuttosto, contiene la previsione di una deroga temporalmente limitata delle conseguenze generali rispetto ad un contenzioso definito (cause pendenti alla data del 22 agosto 2008), ma certo non esaurito per il futuro. E' ben possibile che il legislatore detti norme aventi contenuto concreto e particolare dalle quali possano derivare effetti nei riguardi dei procedimenti giudiziari in corso ovvero sui provvedimenti giurisdizionali. Non e' ravvisabile, in via generale, un'illegittima invasione da parte della funzione legislativa nell'ambito riservato dalla Costituzione all'autorita' giudiziaria, posto che la norma di diritto sostanziale che regola una situazione anche pregressa, senza violare il giudicato, non sottrae al giudice alcuna controversia, ma gli fornisce, appunto, la regola di diritto che egli deve applicare. Ma con la norma in esame il legislatore non ha regolato diversamente - come bene avrebbe potuto - gli effetti rispetto a tutti i contratti stipulati da una certa data in poi, ma ha scelto in maniera del tutto irragionevole, di limitarne gli effetti alle sole controversie pendenti. Non e' infatti ravvisabile alcuna giustificazione razionale nel fatto che la disposizione modifichi la regola sostanziale rispetto ad una categoria di soggetti, riducendo la tutela mentre pendono i giudizi, proprio e solo per il fatto di avere una causa in corso, mentre se avessero tardato a proporla, il loro diritto sarebbe stato fatto salvo. Con l'aggravante che proprio per il modo in cui interviene «con riferimento ai soli giudizi in corso», il comma 1-bis dell'art. 21 della legge n. 133 del 2008 finisce per amplificare ulteriormente, anche sul piano dell'utilizzo degli strumenti processuali di tutela e pertanto sul piano del diritto alla difesa e dell'«equo processo» (artt. 3, 24 comma 1 e 111, primo comma, 117 Cost.), gli effetti, gia' illustrati e per loro stessi discriminatori, dell'intervento provvedimentale mirato alle applicazioni del sistema sanzionatorio relativo agli artt. 1, 2 e 4 del decreto legislativo n. 368 del 2001. Va poi sottolineato il contrasto con gli artt. 24, primo comma, 111, primo comma e 117, primo comma della Costituzione. Va premesso che, dal complessivo tenore delle norme richiamate e dall'interpretazione che delle stesse ha ripetutamente offerto la Corte costituzionale, emerge con evidenza l'esistenza, nel nostro ordinamento costituzionale, di un principio immanente del giusto processo, che, proclamato dall'art. 111, primo comma Cost., si manifesta in maniera complessa e poliedrica e che ha stretta correlazione con il diritto ad agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi (art. 24, primo comma Cost.), con il diritto ad disporre di regole giuste nel processo (art. 111, primo comma Cost.), a tutela del contraddittorio, della terzieta' ed imparzialita' del giudice (art 111, secondo comma Cost.), con il diritto del cittadino di vedere esercitato il potere legislativo da parte dello Stato e delle Regioni non solo nel rispetto della Costituzione italiana ma anche dei vincoli dettati dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (art. 117, primo comma Cost.). L'art. 4-bis del decreto legislativo n. 368/2001 viola il principio costituzionale del giusto processo perche' nel corso del procedimento giudiziario modifica la tutela sostanziale accordabile al diritto azionato senza che siano ravvisabili ragioni oggettive e generali che sostengono tale scelta dei legislatore. Ritiene infatti il giudicante che nel caso in esame l'intervento legislativo determini un'alterazione della condizione di parita' nell'esercizio del diritto di difesa tra la parti in causa, condizione che, al contrario, deve essere sempre assicurata. Ed infatti, e' evidente che il legislatore, a fronte del consistente contenzioso pendente in tutti gli uffici giudiziari italiani, e' intervenuto allo scopo di favorire una definizione delle controversie in termini di minor impatto economico per le parti datoriali, senza che tuttavia tale scelta risulti sorretta da quelle imperiose ragioni d'interesse generale, che, ad esempio, la Corte europea di Strasburgo richiede come condizione per superare il divieto d'ingerenza in tal senso si legga l'ordinanza della Corte cass. n. 22260/2008, relativamente all'art. 1, comma 218, legge n. 266/2005). Ed, infatti, nessuna traccia di cio' e' riscontrabile nel procedimento legislativo che ha condotto all'approvazione ditale disposizione. E' sintomatico, anzi, che la norma, inizialmente pensata proprio per definire il contenzioso dei contratti a termine con Poste Italiane S.p.A., sia stata in corso d'opera estesa a tutti i contratti a tempo determinato, proprio per rimediare ad una evidente violazione, quanto meno, dell'art. 3 della Costituzione. Ma anche nel testo approvato, ed oggi esaminato, non sono rintracciabili quelle ragioni oggettive a tutela di un interesse generale che, in ipotesi, avrebbero potuto giustificarne l'adozione. Al contrario, si potrebbe dire che i'inesistenza di una simile ratio e' in re ipsa per il solo fatto che la ridotta tutela e' limitata temporalmente ai soli giudizi pendenti e nessuna ragione di interesse generale risulta in qualche modo esplicitata neppure nei lavori parlamentari. Con cio', e senza che per questo sia ravvisabile alcuna esigenza concreta a cui il legislatore abbia inteso sopperire, viene ribaltata la stessa ordinaria ed elementare logica del processo «equo» e improntato all'effettivita' della tutela giurisdizionale; giacche' sarebbe logico, al contrario di quel che discende dalle previsioni del comma 1-bis dell'art. 21 della legge n. 133 del 2008, che nei «giudizi in corso» le certezze sulla difesa dei propri diritti tanto piu' siano acquisite, e non passibili di essere rimesse in gioco da capo, quanto piu' il processo sia pervenuto in una fase avanzata e sfociato in pronunciamenti esecutivi, o perfino eseguiti. Analoghe considerazioni valgono con riferimento alla violazione deli'art. 117, primo comma Cost. Nell'esaminare la rilevanza della questione con riguardo all'art. 117, primo comma, Cost., si puo' dare valore interpretativo ai principi contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), sia in relazione ai parametri costituzionali di cui tenere conto che alle norme censurate (cfr. Corte cost. n. 505/1995; ord. n. 305/2001), ben potendosi richiamare, per avvalorare una determinata esegesi, le indicazioni normative, anche di natura sovranazionale (cfr. di recente Corte cost. n. 349/2007 ma anche Corte cost. n. 231/2004). In taluni casi la Corte costituzionale ha richiamato norme della CEDU, svolgendo argomentazioni espressive di un'interpretazione conforme alla Convenzione (cfr. sentenze n. 376 del 2000 e n. 310 del 1996), ovvero richiamando dette norme, e la ratio ad esse sottesa, a conforto dell'esegesi accolta (cfr. sentenze n. 299 del 2005 e n. 29 del 2003) che risultava cosi' avvalorata anche in ragione della sua conformita' con i «valori espressi» dalla Convenzione, «secondo l'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo» (v. sentenze n. 299 del 2005; n. 299 del 1998). Si e' infatti sottolineato come un diritto garantito da norme costituzionali sia «protetto anche dall'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti (...) come applicato dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo» (cfr. sentenza n. 154 del 2004). Avvalorata e confermata la possibilita' di utilizzare il parametro richiamato per valutare la compatibilita' della norma censurata con l'art. 6 della CEDU e dunque con l'art. 117, primo comma Cost., ancora una volta si deve rilevare che, come piu' volte statuito anche dalla Corte di Strasburgo (cfr. per tutte Scordino c. Italia, 29 marzo 2006), gli Stati aderenti alla Convenzione devono astenersi dall'esercitare ingerenze normative finalizzate ad ottenere una determinata soluzione delle controversie in corso, salvo che l'intervento retroattivo sia giustificato da motivi di carattere imperioso e generale. Ne consegue che nel caso in esame il legislatore, con una disposizione che non interpreta norme di legge esistenti ma muta il quadro normativo di riferimento, esclude quelli che nel diritto vivente sono i normali effetti della declaratoria di illegittimita' del termine apposto al contratto e cosi' impedisce al giudice di adottare la tutela prevista dall'ordinamento generale (tutela irragionevolmente temporaneamente sospesa). In tal modo la norma in esame determina una ingiustificata modificazione della tutela dei diritti azionati e incide, come si e' evidenziato, solo e soltanto sui giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge realizzando una inammissibile intromissione del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia allo scopo d'influire sulla risoluzione di una specifica categoria di controversie. In conclusione, ed alla luce delle esposte considerazioni, ritiene il giudicante di dover ritenere rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale della norma indicata in dispositivo in relazione ai profili sopra esposti. Il giudizio in corso deve quindi essere sospeso e gli atti rimessi alla Corte costituzionale.