IL TRIBUNALE 
    Ha emesso la seguente ordinanza. 
    Il Giudice, pronunciandosi a scioglimento della  riserva  assunta
nell'ambito del  processo  emarginato  nei  confronti  di  Casalenovo
Alfonso, nato a Botricello (Catanzaro) il 1° ottobre 1933; elettivam.
domicil. in Torino presso lo studio del difensore; difeso di  fiducia
avv. Paolo Micheletta del Foro di Torino; 
    Premesso che Casalenovo Alfonso  veniva  citato  a  giudizio  per
rispondere dei reati di cui  agli  artt.  81  cpv.,  582,  585  c.p.,
commessi in Moncalieri il 27 maggio 2004; 
        che all'udienza dibattimentale del 16 aprile 2008 il pubblico
ministero, essendo stata dichiarata inammissibile in  quanto  tardiva
ai sensi dell'art. 468 c.p.p. la lista dei  testimoni  depositata  il
14/4/08, chiedeva ai sensi  dell'art.  507  c.p.p.  l'escussione  dei
testimoni indicati nella propria lista, senza peraltro  indicare  ne'
le ragioni del mancato deposito in termini  della  lista  ne'  quelle
dell'assoluta necessita' richieste dall'art. 507 c.p.p.; 
    Rilevato  che  la  difesa  si  opponeva  all'accoglimento   della
richiesta, prospettando la violazione dell'art.  111,  secondo  comma
Cost. nella parte in cui prevede la  terzieta'  e  imparzialita'  del
Giudice  avanti   al   quale   il   processo   deve   svolgersi   nel
contraddittorio fra le parti, in condizioni di parita'; 
                            O s s e r v a 
    Come  riconosciuto  dalla  stessa   Corte   costituzionale,   fin
dall'entrata in vigore  del  codice  di  procedura  penale  del  1988
l'interpretazione dell'art. 507 c.p.p. e' stata oggetto di un  vivace
dibattito in dottrina e di  contrasti  nella  giurisprudenza  sia  di
merito sia di legittimita'. 
    In particolare, alcune pronunce della Corte di  cassazione  hanno
dato un'interpretazione restrittiva dell'art. 507 c.p.p., negando  al
giudice il potere di assumere d'ufficio le prove dell'accusa in  casi
- analogo a quello in esame - in  cui  il  pubblico  ministero  aveva
omesso di presentare tempestivamente la propria  lista  di  testimoni
(Cass., sez. III 3 gennaio 1991,Ventura; Cass., sez. III, 7  febbraio
1992, Sala); altra parte della  giurisprudenza  propende  invece  per
un'interpretazione piu' ampia, escludendo preclusioni per il  giudice
dipendenti dalla decadenza o inattivita' delle parti (Cass., sez. II,
10  ottobre  1991,  Paoloni;  Cass.,  sez.  II,  23   ottobre   1991,
Marinkovic). 
    Dopo  alcune  oscillazioni,  e'  prevalso   l'orientamento   meno
restrittivo, consacrato nella sentenza 6 novembre - 21 novembre 1992,
n. 11227 delle sezioni unite penali della  Cassazione,  la  quale  ha
statuito che: 
        a) il potere del giudice di assunzione, anche  d'ufficio,  di
mezzi di prova ben puo' essere esercitato anche se si tratti di prove
dalle quali  le  parti  siano  decadute  -  per  mancata  o  irritale
indicazione  nella  lista  di  cui  all'art.  468  c.p.p.  -  dovendo
intendersi per prove «nuove» ai  sensi  dell'art.  507  tutte  quelle
precedentemente non disposte, siano esse preesistenti o sopravvenute,
conosciute ovvero sconosciute; 
        b)  tale  potere  suppletivo   non   trova   ostacolo   nella
circostanza che non vi sia stata alcuna  acquisizione  probatoria  ad
iniziativa  delle   parti,   dato   che   la   locuzione   «terminata
l'acquisizione delle prove» indica non il presupposto per l'esercizio
del  potere  del  giudice  ,  ma  solo  il  momento   dell'istruzione
dibattimentale a partire dal quale - nell'ipotesi normale in cui tali
acquisizioni vi siano state - puo' avvenire l'assunzione delle  nuove
prove. 
    Tale autorevole orientamento giurisprudenziale veniva  sottoposto
al vaglio della Corte costituzionale, che con la  nota  sentenza  111
del  1993  dichiarava  non  fondata  la  questione  di   legittimita'
costituzionale dell'art. 507 c.p.p. - e dell'art.  468  dello  stesso
codice - in riferimento a tutti o alcuni degli artt. 2,  3,  24,  25,
76, 77, 101, 102, 111 e 112 della Costituzione. 
    In sintesi, la Corte costituzionale osservava che se e' vero  che
l'esigenza  di  accentuare  la  terzieta'  del  giudice   -   percio'
programmaticamente  ignaro  dei  precedenti  sviluppi  della  vicenda
procedimentale - ha condotto ad introdurre di massima un criterio  di
separazione  funzionale  delle  fasi  processuali   allo   scopo   di
privilegiare il metodo orale di raccolta delle prove, concepito  come
strumento  per  favorire  la  dialettica  del  contraddittorio  e  la
formazione nel  giudice  di  un  convincimento  libero  da  influenze
pregresse, e' pero' anche vero  che  tale  opzione  metodologica  non
poteva far trascurare che fine primario ed ineludibile  del  processo
penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita' e che
ad  un  orientamento  improntata  al  principio  di  legalita'  (art.
25, secondo comma Cost.) - che  rende  doverosa  la  punizione  delle
condotte penalmente sanzionate - nonche'  al  connesso  principio  di
obbligatorieta'  dell'azione  penale  non  sono  consone   norme   di
metodologia processuale  che  ostacolino  in  modo  irragionevole  il
processo di accertamento del fatto storico necessario  per  pervenire
ad una giusta decisione. Di talche', il nuovo codice, se ha prescelto
la dialettica del contraddittorio dibattimentale ed il  metodo  orale
quali criteri maggiormente rispondenti all'esigenza di ricerca  della
verita' ha, pero', nel contempo provveduto a temperarne la portata in
riferimento  agli  elementi  di  prova  non  compiutamente   (o   non
genuinamente) acquisibili con tale  metodo,  adottando  per  essi  un
principio di non dispersione degli elementi di prova. 
    La Corte costituzionale quindi concludeva che, non esistendo  nel
nuovo codice di rito di un principio dispositivo in materia di prova,
il potere conferito al giudice dall'art.  507  c.p.p.  e'  un  potere
suppletivo, si', ma non certo eccezionale, anche  se  poi  la  stessa
Corte  avverte  la  necessita'  di  spiegare  la  tecnica  usata  dal
legislatore ed osserva che il  fatto  che  il  potere  attribuito  al
giudice dall'art. 507 c.p.p. «sia connotato da  un  criterio  che  la
norma pleonasticamente definisce  di  assoluta  necessita'  -  e  che
peraltro la delega neppure prevede - si spiega  considerando  che  il
suo  esercizio  si  colloca  in  una  fase  in   cui   e'   terminata
l'acquisizione delle prove che siano state svolte ad iniziativa delle
parti (artt. 468, 493, 495) o su indicazione del giudice (art.  506);
di talche' le nuove prove la cui possibile esistenza ed esperibilita'
emerga dal  materiale  a  disposizione  del  giudice  sono  soggette,
rispetto a quelle inizialmente richieste dalle  parti,  ad  una  piu'
penetrante  e  approfondita  valutazione  della  loro  pertinenza   e
rilevanza che e' correlativa alla piu' ampia conoscenza dei fatti  di
causa che il giudice ha ormai conseguito in tale momento». 
    E conclude che  sarebbe  contraddittorio  da  un  lato  garantire
l'effettiva obbligatorieta' dell'azione penale contro le negligenze o
le deliberate inerzie del pubblico ministero  conferendo  al  giudice
per le indagini preliminari il potere di disporre che costui  formuli
l'imputazione (art. 409, comma 5 c.p.p.  9  e  dall'altro  negare  al
giudice dibattimentale il potere di  supplire  ad  analoghe  condotte
della parte pubblica. 
    La   Corte   costituzionale,    dunque,    ha    fatto    propria
l'interpretazione estensiva cui  erano  pervenute  le  sezioni  unite
della  suprema  Corte,  ritenendo  che  una  diversa  interpretazione
contrasterebbe non solo con la direttiva 73 della  legge  delega,  ma
anche con le norme costituzionali richiamate in epigrafe. 
    La  questione  dell'interpretazione  dell'art.  507  c.p.p.,   in
verita' mai del tutto sopita, e' tornata di attualita' dopo  la legge
cost.  23 novembre  1999,  n.  2  che  ha  introdotto  i  commi primo
e secondo dell'art. 111 della Costituzione, i quali - com'e'  noto  -
stabiliscono, per quanto di interesse: 
        «La  giurisdizione  si  attua  mediante  il  giusto  processo
regolato dalla legge. 
    Ogni processo si svolge nel  contraddittorio  tra  le  parti,  in
condizioni di parita', davanti ad un giudice terzo ed imparziale». 
    Ebbene, nel 2006 le sezioni unite della Corte di cassazione  sono
state chiamate nuovamente a dirimere il contrasto che,  sia  pure  in
termini  episodici,  era  insorto  con  riferimento   all'ambito   di
applicazione dei poteri officiosi di natura probatoria  del  giudice,
atteso che alcune sezioni continuavano ad  escludere  in  particolare
che questi poteri potessero essere esercitati  nei  casi  di  inerzia
delle parti. 
    La suprema Corte (sentenza 17 ottobre 2006 n. 41281) ha  rilevato
che sull'assetto codicistico  non  ha  influito  la  recente  riforma
dell'art. 111 Cost., che avrebbe accentuato esclusivamente quello che
costituisce il principio  fondante  del  processo  accusatorio  -  la
formazione della prova nel contraddittorio delle  parti  -  ma  nulla
avrebbe innovato sul principio dispositivo che, pur essendo  uno  dei
principi cui si ispirano i sistemi accusatori, non li caratterizza in
modo cosi' decisivo come i criteri che riguardano la formazione della
prova. 
    Ha  affermato  poi  che  la  norma  dell'art.  507  c.p.p.   mira
esclusivamente  a  salvaguardare  la  completezza   dell'accertamento
probatorio sul presupposto  che,  se  le  informazioni  probatorie  a
disposizione del giudice sono piu' ampie, e' piu'  probabile  che  la
sentenza sia equa e che il giudizio si mostri aderente ai fatti. 
    Cio' consente, ad avviso delle Sezioni Unite della Cassazione, di
eliminare l'equivoco secondo cui l'acquisizione d'ufficio delle prove
da parte del giudice fa  venire  meno  la  sua  terzieta',  apparendo
incomprensibile che possa non essere  considerato  terzo  un  giudice
scrupoloso  che  intende  giudicare  a  ragion  veduta  e   non   con
informazioni conoscitive insufficienti, ben sapendo che e'  possibile
colmare almeno una parte delle lacune esistenti. 
    Ed aggiungono che questo potere (da esercitare solo  in  caso  di
assoluta necessita!) non e' un residuo del principio inquisitorio, ma
piuttosto vale a fondare un processo veramente giusto. 
    I giudici di legittimita' quindi concludono  che,  dal  punto  di
vista dell'adeguamento ai principi costituzionali e dello scopo della
norma, e' evidente che all'art.  507  c.p.p.  possa  essere  dato  il
significato piu' ampio conforme  alla  formulazione  letterale  della
norma,  osservando  da  un   lato   che   la   locuzione   «terminata
l'acquisizione delle prove» si  riferisce  al  caso  normale  in  cui
acquisizione  vi  sia  stata  e  precisando,  dall'altro  lato,   che
l'iniziativa del giudice dev'essere  assolutamente  necessaria,  cio'
che consentirebbe di evitare che  l'esercizio  del  potere  in  esame
avvenga in modo troppo esteso o addirittura arbitrario. 
    L'interpretazione nettamente maggioritaria e dominante sancita  e
ribadita dalle sezioni unite della Corte di cassazione, quale  questo
Giudice ritiene di aderire, attesa la autorevolezza della  decisione,
contrasta tuttavia con l'art. 111 Cost. in quanto lede  il  principio
della  terzieta'  e  imparzialita'  del  giudice,   che   costituisce
ineludibile strumento di attuazione e di garanzia del giusto processo
delineato dalla carta fondamentale. 
    Non convincono, in  particolare,  le  argomentazioni  secondo  le
quali sarebbe piu' terzo un giudice che acquisisca d'ufficio l'intero
materiale probatorio piuttosto che un giudice che,  attenendosi  alla
legge, valuti gli elementi di prova portati alla sua attenzione dalle
parti ed acquisiti nel rispetto del codice di  rito  e  decida,  solo
all'esito  dell'effettiva   acquisizione   dibattimentale,   se   sia
indispensabile provvedere ad un'integrazione nei casi di necessita'. 
    La vulnerabilita' dell'argomentazione della Corte di legittimita'
risiede, ad avviso di questo Giudice,  nel  fatto  che  nel  caso  di
specie - caso che l'esperienza quotidiana  delle  aule  di  giustizia
dimostra essere tutt'altro che raro - il  giudice  non  si  trova  di
fronte ad un materiale probatorio insufficiente o lacunoso, bensi' di
fronte all'inesistenza  della  prova  a  causa  dell'inammissibilita'
della lista testimoniale del p.m. 
    Ed altro aspetto di vulnerabilita' deriva dall'osservazione, piu'
volte ribadita dalla  suprema  Corte,  secondo  la  quale  il  potere
previsto dall'art. 507 c.p.p.  e'  da  esercitare  solo  in  caso  di
assoluta  necessita':  si  dimentica  infatti  che,  in  mancanza  di
assunzione di prove dell'accusa, l'assoluta necessita' e' in re ipsa,
essendo evidente che se il Giudice non facesse ricorso  all'art.  507
c.p.p., dovrebbe giocoforza pronunciare una sentenza  di  assoluzione
per non essere stata raggiunta la prova del fatto contestato. 
    E' questa oggettiva ed innegabile  considerazione  che  induce  a
dubitare fortemente della legittimita' costituzionale  dell'art.  507
in esame, in specie dopo l'introduzione dell'art. 111 Cost.,  che  di
certo  non  ha  costituzionalizzato  il  principio  dispositivo   nel
processo penale,  ma  ha  comunque  circondato  l'acquisizione  delle
prove, legittimamente utilizzabili per  l'affermazione  della  penale
responsabilita' di un individuo, di garanzie oggettive  e  soggettive
che   verrebbero   inevitabilmente   meno,   qualora   si    aderisse
all'interpretazione dell'art. 507 c.p.p. fatta propria dalle  sezioni
unite penali della Corte di cassazione. 
    Trattasi di interpretazione  abrogante  non  solo  dell'art.  468
c.p.p., in quanto vanificherebbe  la  sanzione  dell'inammissibilita'
prevista dalla norma per il mancato deposito nei termini della  lista
dei testimoni e per la  mancata  indicazione  delle  circostanze,  ma
altresi' dello stesso art. 507 c.p.p., poiche' non vi e' dubbio che -
cosi' interpretato - l'art. 507 c.p.p. consentirebbe, anzi imporrebbe
al giudice (atteso il richiamo all'obbligatorieta' dell'azione penale
e alla funzione fondamentale del processo  penale  di  ricerca  della
verita'), di disporre sempre e in ogni  caso  l'assunzione  d'ufficio
delle prove  e  cio'  non  solo  quando  la  lista  testi  sia  stata
depositata tardivamente, ma anche quando  non  sia  stata  depositata
affatto. 
    E tutto cio', quindi,  anche  nei  (numerosi)  casi  in  cui  nel
fascicolo del dibattimento non sia presente alcun atto  che  consenta
al giudice di orientarsi nella vicenda processuale sottoposta al  suo
esame, cosicche' egli spesso si troverebbe ad esercitare i poteri  di
cui all'art. 507 c.p.p. e disporre l'istruttoria  testimoniale  senza
essere  a  conoscenza  dell'identita'  dei  testimoni,   della   loro
qualifica, delle circostanze su cui sono chiamati a riferire e senza,
in definitiva, essere in grado di effettuare  una  seria  e  motivata
valutazione sulla rilevanza e pertinenza degli stessi. 
    La  sua  decisione  pertanto,  lungi   dall'essere   maggiormente
scrupolosa,  sarebbe  invece  meramente  formale  e  si  porrebbe  in
contrasto con  il  principio  della  terzieta'  e  imparzialita'  del
giudice,  che  costituisce  principio  cardine  del  processo  penale
delineato  dalla  carta  fondamentale  come  «processo  giusto»  alle
condizioni dettate dalla legge. 
    Per  quanto   sopra   detto,   la   questione   di   legittimita'
costituzionale pare  non  manifestamente  infondata  e,  quanto  alla
rilevanza nel presente giudizio, essa deriva dall'adesione di  questo
giudice  all'interpretazione  espressa  dalle  sezioni  unite   della
suprema Corte; interpretazione che tuttavia, per quanto finora detto,
solleva dubbi di incostituzionalita' della norma dell'art. 507 c.p.p.