IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la presente ordinanza sul ricorso numero di registro generale 3259 del 2006, integrato da motivi aggiunti, proposto da Tecnital S.p.A., rappresentato e difeso dall'avv. Giuseppe Aliquo', con domicilio eletto presso il suo studio in Catania, via M. Scammacca n. 46. Contro Ufficio territoriale del Governo - Prefettura di Catania, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliata per legge in Catania, via Vecchia Ognina n. 149 presso la sua sede; per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia: con il ricorso e con i primi motivi aggiunti al ricorso: della nota prot. n. 6069/2006/15000/U.A./Area I bis del 9 settembre 2006, comunicata con nota del 29 settembre 2006, con la quale la Prefettura di Catania ha rilasciato informativa antimafia che attesta la sussistenza del «pericolo di condizionamento da parte della criminalita' organizzata...» nei confronti della impresa ricorrente, dei relativi allegati, nonche' del successivo provvedimento reso con nota prot. n. 6069/2006/15000/U.A./Area I bis del 14 novembre 2006 della Prefettura di Catania e del relativo allegato n. 1 contenente le informazioni rese dalla Questura di Catania e di tutti gli atti presupposti, connessi e conseguenziali, anche se non conosciuti; con i II motivi aggiunti al ricorso: della nota prot. n. 6069/2006/15000/U.A./Area I bis del 10 gennaio 2007, comunicata con nota del 16 gennaio 2007, con la quale la Prefettura di Catania ha rilasciato informativa antimafia che attesta la sussistenza del «pericolo di condizionamento da parte della criminalita' organizzata...» nei confronti della impresa ricorrente, e del relativo allegato contenente le informazioni rese dalla Questura di Catania e di tutti gli atti presupposti, connessi e conseguenziali, anche se non conosciuti; e per il risarcimento del danno. Visto il ricorso ed i motivi aggiunti, con i relativi allegati; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ufficio territoriale del Governo - Prefettura di Catania; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 febbraio 2009 il dott. Salvatore Gatto Costantino e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; I n f a t t o La societa' Tecnital S.p.A., ha proposto ricorso giurisdizionale di fronte a questo Tribunale avverso gli atti con i quali la Prefettura di Catania ha attestato la sussistenza del pericolo di condizionamento da parte della criminalita' organizzata nei suoi confronti. Espone, in fatto, che la suddetta Autorita' adottava gli atti impugnati, in quanto il socio di maggioranza della ricorrente (detentore del 700/o delle quote societarie) geom. Russello, era stato tratto in arresto per reati ex art. 416-bis del codice penale. La societa' Tecnital impugnava i suddetti provvedimenti con il ricorso notificato il 22 novembre 2006, depositato il 27 novembre 2006, che risultava affidato ad articolate censure; nel gravame proponeva anche domanda di risarcimento del danno. Si costituiva, a difesa delle Amministrazioni resistenti, l'Avvocatura distrettuale dello Stato. In sede cautelare, veniva respinta dal Tribunale la domanda di sospensione degli effetti degli atti impugnati, nella camera di consiglio del 19 dicembre 2006, con ordinanza n. 1968. depositata il 21 dicembre 2006. Nelle more del giudizio, l'Assemblea dei soci adottava atti di modifica dello Statuto volti a scindere, nella titolarita' delle quote sociali, i diritti sociali patrimoniali da quelli amministrativi. I primi venivano mantenuti in capo ai soci; mente i secondi affidati alla gestione di esperti esterni, nominati dagli ordini professionali di Catania, allo scopo di separare la gestione dell'impresa dalla disponibilita' dei rispettivi soci ed evitare cosi' ogni possibilita' di influenza di questi ultimi. A nulla valevano tali accorgimenti rispetto alla posizione della Autorita' che continuava a ritenere sussistenti i pericoli di condizionamento. Il giudizio penale che riguardava il geom. Russello si concludeva con la sentenza della Corte di assise di appello di Caltanissetta n. 8/08 del 23 luglio 2008, depositata il 21 ottobre 2008, con la quale si confermava la sentenza di proscioglimento precedentemente intervenuta in primo grado. A questo punto, la Prefettura di Catania attestava che non sussistevano piu' i pericoli di condizionamento mafioso. Alla udienza pubblica del 12 febbraio 2009, trattenuto in decisione il giudizio, con sentenza pronunciata nella stessa data della presente ordinanza, questo Tribunale ha rigettato la domanda di annullamento degli atti impugnati; ha dichiarato il difetto di giurisdizione su parte della domanda di risarcimento del danno; ha riservato di pronunciarsi sulla rimanente parte della domanda di risarcimento del danno, previa la proposizione di una questione di legittimita' costituzionale in ordine alle norme di cui agli art. 10, legge 31 maggio 1965, n. 575, della legge 17 gennaio 1994, n. 47, dell'art. 4 del decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490, e dell'art. 10 del d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252, nella parte in cui non prevedono un appropriato indennizzo a tutela dei livelli occupazionali dell'azienda e della integrita' del valore del relativo patrimonio di esperienza e competenza posseduto, in favore di quelle imprese per le quali, ritenuti inizialmente sussistenti i rischi di condizionamento mafioso, si accettino, all'esito definitivo del giudizio penale, come assenti tali rischi, in relazione agli artt. 2, 3, 41, 42 e 97 della Costituzione; I n d i r i t t o Con la presente ordinanza, a scioglimento della riserva contenuta nella sentenza pronunciata nella medesima udienza, cui si e' fatto cenno nella parte in fatto, il Collegio solleva questione di legittimita' costituzionale degli artt. 10, legge 31 maggio 1965, n. 575, della legge 17 gennaio 1994, n. 47, dell'art. 4 del decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490, e dell'art. 10 del d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252, nella parte in cui non prevedono un appropriato indennizzo a tutela dei livelli occupazionali dell'azienda e della integrita' del valore del relativo patrimonio di esperienza e competenza posseduto, in favore di quelle imprese per le quali, ritenuti inizialmente sussistenti i rischi di condizionamento mafioso ex art. 4, decreto legislativo e 10 d.P.R. ed emesse le corrispondenti certificazioni dell'Autorita', si accertino, all'esito definitivo del giudizio penale, come assenti tali rischi, in relazione agli artt. 2, 3, 41, 42 e 97 della Costituzione; Sulla rilevanza della questione. La questione che il Collegio intende sottoporre al vaglio della Corte costituzionale e' direttamente rilevante ai fini della decisione sulla domanda di risarcimento del danno, nella parte in cui su di essa questo TAR e' fornito di giurisdizione. Invero, va precisato che, in applicazione dell'istituto delle informazioni antimafia al Prefetto, nell'attuale assetto normativo, la domanda di risarcimento del danno andrebbe sicuramente respinta: come si e' ritenuto nella sentenza pronunciata inter partes contestualmente alla presente ordinanza, infatti, nel contesto della situazione personale del principale socio della societa' ricorrente, che e' stato sottoposto ad una misura cautelare restrittiva della liberta' personale, le informazioni antimafia che sono state rilasciate dalla Prefettura di Catania e ritualmente impugnate con l'odierno ricorso introduttivo e relativi motivi aggiunti, non avrebbero potuto avere se non il contenuto di cui la parte ricorrente si duole. Correlativamente, gli atti con i quali le Amministrazioni locali hanno proceduto ad escludere la ricorrente dalle gare, o a revocare gli affidamenti nelle more a suo favore disposti, sono atti dovuti, in quanto nessuna valutazione differente da quanto ritenuto dall'Autorita' certificante poteva effettuarsi da parte delle Amministrazioni locali. Il Collegio osserva che, se la normativa di cui si sospetta la incostituzionalita' non ostasse all'accoglimento di un qualsiasi tipo di risarcimento nei confronti della societa' ricorrente, si potrebbe disporre nei suoi confronti il pagamento di una indennita', ossia di una somma avente natura ed importo «inferiore» a quello oggetto del risarcimento e tale pronuncia sarebbe comunque possibile in relazione al petitum, in quanto la domanda attorea potrebbe essere accolta in parte, ai sensi dell'art. 112 c.p.c. In relazione a cio', come affermato pacificamente dalla giurisprudenza, il giudice non travalica i limiti delle domande o delle eccezioni delle parti «quando una domanda tendente ad ottenere un effetto piu' ampio venga accolta per un effetto minore, ma non diverso qualitativamente (Cass. n. /11419 del 1993)» come ad esempio «quando, richiesta la declaratoria di nullita' del contratto, il giudice ne pronunci l'annullamento» (Corte di cassazione n. 16708/2002; 11157/1996); analogamente, il giudice puo' esaminare una questione non espressamente formulata, ma da ritenersi tacitamente proposta per essere in rapporto di necessaria connessione con quelle espressamente formulate, delle quali costituisca l'antecedente logico (cfr. Cass. sez. lav. 12 marzo 2004, n. 5134); ed inoltre il giudice non incorre nel vizio di extra-petizione in ordine alle ragioni della decisione, quando la pronuncia giudiziale rimanga nell'ambito della fattispecie prospettata dalle parti, anche se la decisione afferisca a una questione non espressamente formulata, ma implicitamente contenuta nel thema decidendum (Cass. civ. 6 maggio 2005, n. 9504; cfr. anche Cass. civ. III, 11 ottobre 2006, n. 21745; Consiglio di Stato, IV, 23 settembre 2004, n. 6217; cfr. anche TAR Catania, sent. 13 marzo 2008, n. 467/08). Sulla non manifesta infondatezza della questione. A giudizio del Collegio la questione non e' manifestamente infondata, per piu' ordini di ragioni che sono esposte a seguire. I) E' opportuno premettere, per chiarezza espositiva, che le informative antimafia, possono essere classificate, secondo le categorie di elaborazione giurisprudenziale, «in tre diverse tipologie a seconda delle circostanze che siano maturate a carico della impresa: a) quando la nota prefettizia comunichi la sussistenza, a carico dei soggetti responsabili dell'impresa, delle cause di divieto o sospensione dei procedimenti indicate nell'all. 1 del citato decreto legislativo (ex art. 10, legge 31 maggio 1965, n. 575 e succ. mod.; b) quando la nota prefettizia contenga informazioni relative ad eventuali tentativi di infiltrazioni mafiose tendenti a condizionare le scelte o gli indirizzi delle societa' o imprese interessate; c) quando la informativa, pur non raggiungendo la soglia di gravita' delle prime due (id est: circa i requisiti soggettivi e oggettivi), e' caratterizzata da elementi che denotano il pericolo di collegamenti fra l'impresa e la criminalita' organizzata (c.d. informativa «atipica» o «supplementare»), elementi che sono comunque valutabili discrezionalmente dalla p.a. in ossequio alle generali esigenze di buon andamento ed imparzialita' dell'azione amministrativa; quest'ultima tipologia e' fondata, in materia di lotta antimafia, su fatti e vicende aventi valore sintomatico ed indiziario, che prescindono da valutazioni di carattere strettamente penalistico (T.A.R. Campania Salerno, sez. I, 7 maggio 2004, n. 375). In proposito, la Sezione ha avuto modo di affermare recentemente (TAR Catania, I, 16 gennaio 2009, n. 88/2009) che il sistema della informativa disciplinato dall'art. 10, comma 2 e 7 del d.P.R. 3 giugno 1998 e dall'art. 4, comma 4 e 6 del decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490, costituisce uno degli strumenti piu' importanti ed avanzati di cui l'apparato amministrativo pubblico dispone per difendere le istituzioni e, conseguentemente, la collettivita', da organizzazioni criminali come la mafia (cfr. TAR Calabria, Reggio Calabria, 31 gennaio 2007, n. 69), che si caratterizzano per il peculiare «mimetismo» che consente loro di agire, per lo piu', non militarmente contro le istituzioni democratiche, ma sforzandosi di condizionarne l'operato, piegandolo ai propri interessi ed aumentando cosi', per tale tramite, la propria capacita' eversiva e di controllo criminale del territorio. Affinche' questo strumento di tutela sia realmente efficace, pero', e' necessario che sia utilizzato con estrema attenzione e rigore, perche' il suo meccanismo incide nel delicato equilibrio, proprio dell'Ordinamento democratico, che sussiste tra diritti di difesa e di liberta' di impresa da un lato, ed esigenze di politica preventiva, di pubblica sicurezza e repressiva, dall'altro. Il rischio concreto di un cattivo uso di questo potere e', pertanto, che una immotivata ed irrazionale compressione dei diritti di difesa da un lato e di liberta' di impresa dall'altro, cosi' come l'adozione di una politica repressiva criptica, opaca e poco trasparente, finisca per rendere inefficace il contrasto alla criminalita' organizzata sul piano della protezione dei poteri della p.a. dai tentativi di condizionamento: in altri termini, si corre il rischio, inaccettabile, di allontanare la societa' civile dalle Istituzioni democratiche, producendo disaffezione rispetto alla cultura della legalita', che va promossa e non imposta e che e' vitale solo in quanto sorretta da un convinto sostenimento. In definitiva, l'uso non appropriato del potere interdittivo rischia di compromettere il rapporto di fiducia della comunita' proprio verso quelle Istituzioni che piu' sono chiamate a tutelarla, tutte quelle volte in cui sia utilizzato senza che i destinatari della misura siano effettivamente posti in grado di comprenderne appieno il significato, sia per la sostanziale correttezza dell'apprezzamento di merito dell'Autorita', sia per la efficace e trasparente rappresentazione di tale apprezzamento. II) Richiamate queste brevi premesse in ordine all'istituto di riferimento, il Collegio puo' passare all'esame della fattispecie sottoposta all'odierno giudizio, ai fini della trattazione del requisito della non manifesta infondatezza della questione. Come ritenuto in sede di pronuncia sulla domanda di annullamento, la informativa antimafia contenuta nel provvedimento del 9 settembre 2006, impugnato con il ricorso e con i primi motivi aggiunti, ha tratto origine da una circostanza che, in se', e' tale da giustificare il giudizio di sussistenza del rischio di condizionamenti di tipo mafioso sugli assetti della societa'. Il titolare del 70% delle quote azionarie della parte ricorrente, geom. Russello, e' stato infatti soggetto ad una misura cautelare restrittiva della liberta' personale per il reato di cui all'art. 416-bis del codice penale, che, nel quadro del sistema normativo di cui all'art. 10, comma 7 del d.P.R. n. 252 del 3 giugno 1998 e' certamente da ritenersi come una fonte tipica da cui desumere la sussistenza dei presupposti di un possibile condizionamento (per effetto del richiamo contenuto a tale fattispecie nell'art. 51, comma 3 bis del codice di procedura penale, di cui alla lettera «a» dell'art. 10 menzionato). In presenza di tali presupposti, dunque, derivano necessariamente le corrispondenti misure interdittive, aspetto questo che non revoca in dubbio neppure parte ricorrente, le cui censure, si sono appuntate su una pretesa insufficiente istruttoria, in relazione al rapporto tra il geom. Russello e la societa' di cui detiene la maggioranza del pacchetto azionario, che, secondo parte ricorrente, sarebbe stato «neutralizzato» dalle modifiche societarie della disciplina dei diritti sociali (aspetto quest'ultimo che, pero', il Collegio ha giudicato insufficiente a sostenere le censure di annullamento degli atti impugnati). Con il ricorso introduttivo e con i successivi motivi aggiunti, la parte ricorrente ha introdotto la domanda di risarcimento del danno, poiche' per effetto delle impugnate misure interdittive ha perduto occasioni di lavoro, per l'avvenuta rescissione di contratti gia' stipulati e per l'avvenuta esclusione da gare o revoca di aggiudicazioni gia' disposte. Il Collegio, ritenuta la propria giurisdizione solo per queste ultime fattispecie, (e, piu' precisamente: sulla domanda di risarcimento per il danno esistenziale e su quella per il risarcimento per l'esclusione dalla gara per l'ampliamento ed adeguamento della discarica per rifiuti non pericolosi di contrada Impazzo di Gela, per la revoca aggiudicazione dei lavori di «avvio degli impianti consortili di depurazione I stralcio - collettore emissario, tratto B-G») ha poi osservato che il rigetto della domanda di annullamento, che costituisce il presupposto logico e giuridico della domanda di risarcimento, avrebbe dovuto comportare, a rigore, il rigetto anche di quest'ultima. Tuttavia, tale soluzione e' apparsa del tutto insoddisfacente al Collegio per piu' ordini di ragioni. All'esito del giudizio penale, in primo grado e con conferma in appello, il geom. Russello e' stato pienamente prosciolto da ogni accusa, essendo le ipotesi di reato a lui ascritte fondate su elementi che si sono rivelati inconsistenti. Inoltre, la difesa della societa' ricorrente ha puntualmente ricostruito anche precedenti vicende giudiziarie del geom. Russello, che era gia' stato coinvolto altre volte in inchieste penali dalle quali e' sempre emerso come del tutto estraneo alle vicende contestategli. Ordunque, nella fattispecie odierna, emerge che, all'esito di un procedimento penale che ha riguardato il proprio maggiore azionista, e dal quale quest'ultimo e' uscito scagionato, la societa' ricorrente ha comprovato di avere perso importanti occasioni di lavoro e di guadagno, con conseguenze intuibili in termini di occupazione delle maestranze e dei dipendenti, nonche' in termini di conservazione del patrimonio e dell'esperienza aziendale (in un sistema di lavori pubblici in cui tutto cio' rappresenta un preciso valore in termini di qualificazione), e di immagine. Tuttavia, essendo legittima l'attivita' dell'Autorita' (che, come si e' visto sopra, in costanza dei presupposti di fatto entro i quali si e' svolta la vicenda, non poteva che emettere le informative impugnate), questa deminutio patrimoniale non puo' trovare alcuna tutela, alla luce dell'attuale normativa. Infatti, non e' previsto alcun tipo di risarcimento o di reintegrazione per l'impresa che, sottoposta legittimamente a misure interdittive per effetto della informativa antimafia ex art. 10 d.P.R. n. 252/1998 e art. 4 decreto legislativo n. 490/1994, subisce perdite aziendali e danni patrimoniali quando poi, all'esito del necessario procedimento penale, conclusosi dopo l'emanazione delle informative, si accerta che i presupposti di ordine penale, per i quali l'informativa e' stata rilasciata, non erano sussistenti ab origine. A tale proposito, e' stato infatti autorevolmente ritenuto che «e' pacifico che nella complessa materia, delimitata dall'art. 1, legge 31 maggio 1965, n. 575, siano state introdotte cautele e garanzie piu' avanzate di quelle meramente penalistiche, al fine di proteggere la collettivita' da fenomeni criminosi di vasta portata, spesso incidenti sull'esercizio di attivita' economiche e imprenditoriali, in misura tale da alterare interi settori dell'economia nazionale. Alla gravita' della situazione sono state pertanto contrapposte - soprattutto nel delicato settore degli appalti pubblici - misure eccezionali, che anche in presenza di soli elementi indiziari, circa la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, consentono di limitare la libera iniziativa di impresa, pur costituzionalmente garantita, ma da bilanciare (in conformita' all'art. 41, commi secondo e terzo, Cost.), con principi di pari rango costituzionale, quali la sicurezza e il corretto indirizzo dell'attivita' economica; quanto sopra, nei termini previsti dal legislatore e quindi, per quanto qui interessa, in base al prudente apprezzamento del Prefetto e degli organi di polizia, il cui giudizio - ove espresso nei termini di legge - e' sindacabile solo per illogicita' manifesta o travisamento dei fatti» (Consiglio Stato, sez. VI, 25 giugno 2008, n. 3214). Il Collegio, dunque, e' ben consapevole che l'attuale assetto normativo dell'istituto( di riferimento e' frutto di delicati equilibri tra opposti interessi (quello pubblico alla prevenzione ed alla repressione di quel particolare fenomeno criminale che e' dato dalle associazioni a delinquere di stampo mafioso, e quello privato alla liberta' di impresa e di tutela della proprieta') che sono intimamente governati dalla discrezionalita' legislativa, la quale a sua volta e' chiamata a confrontarsi con problematiche ed esigenze di particolarissima delicatezza e complessita'. Tuttavia, anche considerando gli ampi margini di discrezionalita' di cui gode il legislatore e le peculiari esigenze cui deve fare fronte, il Collegio non puo' non cogliere che l'attuale assetto normativo e' gravemente lacunoso laddove nulla prevede in merito al caso in cui le realta' aziendali ed imprenditoriali sane sono di fatto esposte ad effetti distorsivi e lesivi del tutto ingiusti che non solo lo stesso legislatore certamente non vuole, ma che, in definitiva, proprio in quanto ingiusti, compromettono l'efficacia e l'efficienza dell'applicazione concreta dell'istituto. In altre parole, il Collegio sospetta di incostituzionalita' la normativa in esame, laddove consente, di fatto, l'applicazione di misure interdittive alla partecipazione a gare ed all'affidamento di appalti della p.a. in maniera provvisoria (ossia fino all'accertamento dei fatti in sede penale), senza pero' prevedere alcuna forma di indennizzo per le imprese che risultino poi estranee a tali accertamenti, e quindi provocando una perdita definitiva patrimoniale e di valori aziendali. Cio' e' lesivo, al contempo, sia dei principi costituzionali di tutela della liberta' di impresa (art. 41), di tutela del diritto di proprieta' che il precedente presuppone ed al quale e' quindi connesso (art. 42), sia del principio di imparzialita', efficenza ed efficacia dell'azione amministrativa (art. 97). Infatti, non tutelando le imprese «incolpevoli» dalle conseguenze inevitabilmente lesive che il legittimo esercizio del potere in questi casi comporta temporaneamente (ma con effetti irreversibili sul piano economico ed organizzativo), l'istituto normativo, nella sua attuale consistenza, comporta restrizione della liberta' di impresa, compressione del correlativo diritto di proprieta' ed, al contempo, una corrispondente caduta di credibilita' delle pubbliche autorita' e dei pubblici poteri, con la inaccettabile conseguenza, tra l'altro, del rischio di allontanare cosi' da esse, parti anche importanti della «societa' civile». III) A riprova di quanto sopra, il Collegio osserva che, sul piano del rapporto tra la misura autoritativa a natura interdittiva della p.a. e il contenuto del diritto di impresa (art. 41 Cost.) e di proprieta' (art. 42 Cost.) che il primo presuppone, si determina un evidente parallelismo con la piu' risalente fattispecie dell'espropriazione per fini di pubblica utilita', ed, in particolare, con quel particolare effetto di compressione solo temporanea che sulla proprieta' privata esplicano i cd. «vincoli preespropriativi» la cui apposizione senza indennizzo e' legittima solo se contenuta entro predeterminati limiti di tempo. In merito, l'insegnamento della giurisprudenza della Corte costituzionale, ha consentito di fissare chiari principi di diritto, ai quali si e' informata anche la legislazione piu' recente, principi che qui e' opportuno richiamare in quanto sono direttamente conducenti ai fini della proposizione della odierna questione. L'istituto della proprieta' privata e' garantito dalla Costituzione e regolato dalla legge nei modi di acquisto, di godimento e nei limiti di tali facolta', e tale garanzia e' menomata qualora singoli diritti che all'istituto si ricollegano (secondo il regime di appartenenza prefigurato dalla legge di riferimento) vengano compressi o soppressi senza indennizzo, mediante atti di imposizione che, indipendentemente dalla loro forma, conducono tanto ad una traslazione totale o parziale del diritto, quanto ad uno svuotamento di rilevante entita' ed incisivita' del suo contenuto, pur restando intatta l'appartenenza del diritto e la sottoposizione a tutti gli oneri, anche fiscali, riguardanti la proprieta' fondiaria (sent. n. 55 del 29 maggio 1968). In forza della «clausola sociale» che connota il regime dominicale, contenuta nell'art. 42, secondo comma della Costituzione, il legislatore puo' escludere la proprieta' privata di cene categorie di beni, cosi' come puo' imporre, sempre per determinate categorie di beni, talune limitazioni in via generale, ovvero autorizzare imposizioni a titolo particolare, con diversa gradazione o diverse, maggiori o minori, ampiezze delle restrizioni di particolari facolta' di godimento o di disposizione, ma tali imposizioni non possono eccedere, senza indennizzo, quella portata al di la' della quale il sacrificio imposto venga ad incidere sul bene oltre cio' che e' connaturale al diritto dominicale, quale viene riconosciuto nell'attuale momento storico (sent. n. 20 e 119 del 1967). Sulla medesima linea interpretativa si collocano poi le ulteriori note pronuncie con le quali la Corte ha sancito la illegittimita' dei vincoli a tempo indeterminato ed ha previsto che il legislatore debba comunque contenere il sacrificio della proprieta', optando tra una durata di tempo predeterminata entro cui limitare il suddetto sacrificio, o un indennizzo (sent. n. 5/1980 e n. 92/1982. Si richiamano anche Corte cost. n. 6/1966 e n. 179/1999). In particolare, con la surichiamata sentenza n. 179/99, la Corte ha sancito la illegittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, n. 2, 3 e 40 della legge n. 1150/1942 e 2, primo comma della legge n. 1187/1968, nella parte in cui non prevede l'obbligo di indennizzo nel caso di permanenza dei vincoli urbanistici una volta superato il primo periodo di ordinaria durata temporanea, quale determinata dal legislatore entro limiti non irragionevoli. In quest'ottica, riportando l'esame alla fattispecie odierna, i suddetti principi - maturati nell'ambito dell'espropriazione e della tutela del diritto di proprieta' - suggeriscono al Collegio che si debba pervenire anche nel caso delle informative antimafia a conclusioni non dissimili in ordine alla necessita' che l'ordinamento appresti forme, anche indennitarie, di ristoro delle posizioni di coloro che subiscono incolpevolmente una compressione temporanea dei propri diritti di iniziativa economica e di proprieta' privata, per effetto della legittima attivita' di prevenzione della pubblica amministrazione, una volta accertata, nelle competenti sedi penali, la loro completa estraneita' ai fatti che, a suo tempo, giustificarono l'adozione dei provvedimenti interdittivi. IIIa) In primo luogo, a cio' conduce l'esame comparativo delle disposizioni costituzionali di cui agli artt. 41 e 42 della Carta. Entrambe le disposizioni prevedono che la liberta' di iniziativa economica ed il diritto di proprieta' possano subire limitazioni per legge, volte ad assicurarne un uso sociale e non confliggente con la dignita' e la liberta' della persona umana; solo la seconda, a differenza della prima, prevede la possibilita' di esproprio: cio' rende ancora piu' stridente con lo spirito dei Costituenti la temporanea limitazione per atto della pubblica autorita' dell'esercizio della attivita' di impresa, con un contenuto sostanzialmente espropriativo delle utilita' che a detta attivita' si riconnettono, senza indennizzo, quando cio' accade senza alcuna responsabilita' da parte della impresa. Sotto altro profilo, gli artt. 41 e 42 sono avvinti da una relazione di omogeneita' strutturale, in quanto tutelano liberta' a contenuto patrimoniale ed economico, che, nel primo caso, assumono l'aspetto dinamico della iniziativa economica, ossia della utilizzazione dei beni di cui si e' proprietari o se ne ha la legittima disponibilita' a fini produttivi, mentre nel secondo sono assunti nella loro dimensione paradigmatica di un diritto «statico» ossia conservativo. In questo senso, il diritto di liberta' di iniziativa economica non puo' prescindere dal diritto di proprieta', essendo una forma particolare di utilizzazione dei beni tutelati da quest'ultima posizione di diritto e quindi le limitazioni all'esercizio del primo non possono non tradursi in corrispondenti violazioni, oltre che dell'art. 41, anche dei principi di cui all'art. 42 della Costituzione. Sotto questo aspetto, in altri termini, la disciplina di cui si sospetta la illegittimita' consente alla pubblica autorita' l'esercizio di atti di imposizione che, indipendentemente dalla loro forma, conducono tanto ad una traslazione totale o parziale del diritto (se si considerano le utilita' perdute dell'azienda), quanto ad uno svuotamento di rilevante entita' ed incisivita' del suo contenuto, pur restando intatta l'appartenenza del diritto e la sottoposizione a tutti gli oneri, anche fiscali, riguardanti la proprieta' economica dei beni aziendali. IIIb) Inoltre, e' opportuno richiamare espressamente il testo dell'art. 41 Cost. il quale prevede che «L'iniziativa economica privata e' libera. Non puo' svolgersi in contrasto con l'utilita' sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana». Alla luce di tale disposizione, le limitazioni alla liberta' di impresa che derivano dalla legge n. 575/1965 e dai successivi provvedimenti normativi prima richiamati hanno, in linea di principio, natura di norme attuative dell'art. 41, in quanto i tentativi di infiltrazioni mafiose ed i condizionamenti di tale genere sono sicuramente elementi che limitano la liberta' della iniziativa economica privata ed, al contempo, la pongono in contrasto con l'utilita' sociale e recano evidente danno alla liberta' ed alla sicurezza ed alla dignita' umana. Tuttavia, se cio' giustifica pienamente, sul piano costituzionale il limite alla attivita' di impresa di cui al sistema normativo in esame, laddove effettivamente i tentativi di condizionamento sussistono, quando invece le condizioni per la loro apposizione si rivelano, ex post, come inesistenti ab origine, sulla base di elementi di fatto e circostanze che sono apprezzate dal giudice competente a tale riguardo, allora si deve ritenere che, nel periodo di tempo che si e' reso necessario agli accertamenti, l'attivita' economica e' stata compressa e limitata per fini di pubblico interesse (ossia l'interesse ad accertare l'esistenza o meno dei condizionamenti) ma senza che ne ricorressero effettivamente i presupposti e dunque in maniera ingiusta e non corrispondente ai limiti di cui al citato art. 41. In maniera non dissimile, a giudizio del Collegio, la Corte ha gia' ritenuto che la compressione del diritto di proprieta' in vista di una procedura ablativa fosse illegittima in quanto comprime a tempo indeterminato o comunque senza convenienti limiti di tempo il diritto di proprieta'. In quest'ultimo caso, il ragionamento della Corte ha tratto le mosse dalla assenza di una determinata circostanza di tempo entro la quale consentire la compressione del diritto, come elemento di irragionevolezza della norma. Tuttavia, quello che nella fattispecie dei vincoli a natura espropriativa e' costituito dall'elemento temporale, nel caso delle informative interdittive e' sostituito dalla definitivita' della perdita delle utilita' che sono riconnesse alla attivita' di impresa che viene limitata. In altre parole, nei fatti si verifica un vero e proprio «esproprio» di attivita' economiche, senza indennizzo, che non trova alcuna giustificazione nella previsione costituzionale. IIIc) Ne derivano sia un danno per l'impresa, sia un danno per i posti di lavoro che essa garantisce ai dipendenti, in violazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione, in quanto i dipendenti sono a loro volta del tutto estranei alla vicenda del datore di lavoro e dunque risentono in maniera del tutto incolpevole delle conseguente dirette dell'attivita' della pubblica autorita'. Ne deriva anche un danno per le ragioni di interesse pubblico, con violazione dell'art. 97 della Costituzione, perche' una volta che l'imprenditore dimostra in giudizio la propria estraneita' ai fatti contestatigli, avendo pero' definitivamente perso occasioni di lavoro e di produzione, si produrra' evidentemente disaffezione e caduta di fiducia del privato e dell'opinione pubblica nei confronti delle Istituzioni e dell'Autorita', con tutto cio' che tale gravissima conseguenza comporta in ambiti territoriali ove le organizzazioni criminali, da tali circostanze, possono trarre ovvi profitti in termini di controllo di fatto del territorio. IV) Si rendono utili poche ulteriori osservazioni, sotto il profilo della violazione dell'art. 3 della Carta. A giudizio del Collegio, la normativa in esame implica, come si e' visto prima, un grave vulnus ai principi di cui agli artt. 41, 42 e 97 della Costituzione. Tuttavia, la suddetta normativa, nella parte di cui si dubita della legittimita' costituzionale, e', prima ancora, irrazionale e quindi viola il principio di cui all'art. 3, per piu' radicali ordini di motivi. La circostanza che un operatore economico incolpevole venga sottoposto ad accertamenti per reati associativi di stampo mafioso e, durante tale periodo, gli vengano interdette le attivita' economiche con la p.a. come controparte, e', come si e' detto, conforme allo spirito, oltre che alla lettera, dell'art. 41 della Cost. Non lo e', invece, la circostanza che, perdute definitivamente durante tali periodi, le opportunita' di lavoro e di impresa che erano nella propria sfera giuridica, all'imprenditore risultato estraneo alle fattispecie contestategli non sia riconosciuto alcun indennizzo di cio' che, per effetto della legittima attivita' della p. a., gli e' stato definitivamente «espropriato». Tale fattispecie costituisce, ad avviso del Collegio, un caso manifesto di eccesso di potere legislativo per «incoerenza» e «irragionevolezza», che appare evidentemente sussistere sotto diversi e concorrenti ordini ermeneutici di indagine dei valori costituzionali di riferimento, perche' non e' in alcun modo giustificata da nessuno degli scopi di tutela della norma ed e' pertanto eccessiva ed immotivata. IVa) Se l'interprete si pone nell'ottica del sindacato sull'eccesso di potere legislativo per violazione delle norme costituzionali di «scopo», allora risulta sicuramente violata la tutela costituzionale della liberta' di impresa, perche' si consente al potere autoritativo della p.a. di comprimerla, senza indennizzo, sulla base di presupposti che, come si e' visto, sono fortemente discrezionali e comunque affidati a circostanze che si possono verificare senza le precise garanzie proprie degli accertamenti penali (Consiglio di Stato, 3214/08, cit.) e cio' ad (ingiustificata) differenza del sistema di tutela che e' apprestato al diritto di proprieta' nella sua dimensione «statica» ex art. 42 Cost. A tale ultimo proposito, la manifesta disparita' di trattamento tra le due fattispecie, non trova giustificazione nelle diversita' dei presupposti, perche', a stretto rigore, la compressione temporanea della liberta' di iniziativa economica comporta la perdita definitiva delle corrispondenti attivita' e puo' portare anche al fallimento della Impresa, laddove la compressione temporanea del diritto di proprieta' non comporta, in linea di principio, la perdita definitiva delle corrispondenti utilita', ma solo la loro sospensione. IVb) Tale ottica diviene ancora piu' incisiva se l'interprete si colloca sul piano della piu' recente giurisprudenza della Corte, che, secondo attenta dottrina, si e' caratterizzata dagli anni '80 ad oggi, per l'uso sempre piu' esteso del criterio di ragionevolezza della norma di legge, attraverso un processo di autonomizzazione del giudizio di ragionevolezza rispetto al principio di eguaglianza e con l'accostamento sostanziale e fattuale del giudizio di ragionevolezza al giudizio di merito (cfr. sent. n. 991/1988, sent. n. 179/1999 - prima richiamata - sent. n. 104/2003, sent. n. 204/2004). Peraltro, il Collegio e' ben consapevole che, sul medesimo piano ermeneutico, la giurisprudenza della Corte non esita a stigmatizzare il ricorso eccessivo da parte dei giudici remittenti del criterio del c.d. tertium comparationis, ossia del giudizio di disparita' di trattamento e di irragionevolezza della norma censurata: cio', a seconda dei casi, per la «particolarita' del profilo considerato» (sent. n. 180/2004), per la diversita' di ratio (sent. n. 168 - 340/2004), per la non omogeneita' e non comparabilita' del terzo normativo invocato (sent. n. 136/2004, 335/2007, 325/2008), per non manifesta irragionevolezza della disparita', ricollegata a profili temporali (n. 208/2008), per il carattere derogatorio della normativa presa a comparazione (sent. n. 192/2008), per la situazione emergenziale o eccezionale che ha giustificato una particolare normativa (sent. n. 92/2008, 318/2008). Tuttavia, dall'analisi succintamente riportata della giurisprudenza della Corte, il Collegio trae il convincimento che la odierna questione non si presta ad essere respinta sotto alcuno dei profili appena indicati, essendo palese la violazione dell'art. 3 della Costituzione, nei termini proposti, come conseguenza non voluta dal legislatore; ed essendo altresi' palesi i gravi effetti che tale illegittimita' comporta specialmente sul piano della tutela dei valori costituzionali della liberta' di impresa e di tutela dell'azione della p.a. nei confronti di quel particolare fenomeno criminale che e' costituto dalle organizzazioni mafiose. D'altronde, se pure la Corte e' attenta a non eccedere nel giudizio sull'eccesso di potere legislativo, non sono comunque mancati i casi in cui ha ammesso tale sindacato, con riferimento, ad es., alla mancata inclusione di fattispecie simili all'interno di una specifica normativa di privilegio (sent. n. 113/2004), o alla esistenza di un tertium comparationis eccezionale, ma comunque omogeneo alla normativa di riferimento (sent. n. 167/2008) e cosi' via. Piu' in generale, appare manifesto al Collegio che la fattispecie odierna giustifichi un giudizio di illegittimita', ex art. 3 della Costituzione, della normativa in esame, sia in termini di incoerenza del sistema normativo censurato, che di irragionevolezza. Rispettivamente, le norme censurate appaiono incoerenti in una ottica di sindacato intrinseco con riferimento al tertium comparationis costituito dal complesso delle tutela in tema di vincoli preespropriativi e tutela della proprieta' (essendo il diritto di proprieta' e quello di iniziativa economica strettamente correlati tra loro, in diverse dimensioni di utilita', rispettivamente statica e dinamica dei beni economici). Sotto altro aspetto, le medesime norme sono da censurare sotto il profilo del sindacato estrinseco, ossia in termini di irragionevolezza, se si prendono a riferimento i criteri di bilanciamento dei valori costituzionali prima indicati e, soprattutto, se si esamina la congruita' dei mezzi (misure interdittive e perdita definitiva delle opportunita' aziendali) rispetto ai fini (tutela della p.a. e delle imprese dai tentativi di infiltrazione mafiosa). IVc) Ancora recependo gli insegnamenti di una accorta dottrina, il Collegio rammenta che l'attuale Stato costituzionale e' storicamente la forma piu' evoluta dello Stato di diritto, proprio perche' ha la capacita' di mediare al suo interno il «problema» metagiuridico della legge «ingiusta» trasformandolo in quello, proprio della scienza del diritto, della legge «illegittima», conferendo cosi' dignita' giuridica all'aspirazione della comunita' a perseguire concretamente un ideale di giustizia sostanziale delle proprie norme, che diviene valore fondante dell'unita' repubblicana. Per tale ragione ed in tale ottica, il remittente osserva che l'odierna questione costituzionale che si propone alla decisione della Corte, implica una vera e propria questione di «giustizia» della legge, sotto quel profilo che e' tipico di tale giudizio negli ordinamenti democratici moderni, ossia il giudizio della illegittimita' della legge per sua irragionevolezza, da apprezzarsi con riferimento quindi non gia' a criteri autoreferenziali, ossia fondati su soli parametri logici e/o normativi intrinseci, ma con riferimento a quelle norme di valore che la Costituzione possiede e che sono capaci di orientare l'evoluzione giuridica secondo modelli di giustizia sostanziale che, pur senza sconfinare nel merito legislativo, trovano comunque nella Carta la loro rappresentazione plastica, ossia non cristallizzata, bensi' possibile di evoluzione, in risonanza armonica con la crescita e con la maturazione della societa'. Il richiamo di tale importante principio appare necessario al Collegio tanto piu' ove la questione proposta attiene direttamente alla necessita' di rendere effettiva la difesa dei consociati e della societa' civile, da parte dello Stato e delle sue Istituzioni repubblicane, contro quei fenomeni criminali che, come la mafia, si pongono all'esterno dell'Ordinamento e confliggono gravemente con esso, tanto da potersi considerare come veri e propri «nemici» del sistema di giustizia sociale che e' delineato dai costituenti e cosi' sancito nella Carta. Integra il parametro di giudizio cui fa riferimento il Collegio proprio quella nozione di «utilita' sociale» che l'art. 41 della Carta pone, al contempo, quale limite alla liberta' di iniziativa economica e quale modalita' di essa. L'utilita' sociale, ad avviso del remittente, non puo' essere considerata esigenza tale da giustificare una compressione cosi' radicale, sia pure contenuta entro limiti di tempo, del diritto di impresa, con la correlativa perdita definitiva delle connesse utilita', in relazione ad operatori economici incolpevoli, perche' da tale compressione non deriva alcun vantaggio, ne' per la societa', ne' per l'Autorita' che e' chiamata a proteggerla. Al contrario, tale «utilita» fonda il giudizio di disvalore delle norme in esame, nelle parti denunciate: infatti, l'«utilita' sociale» dell'art. 41 della Cost. (secondo l'insegnamento della piu' autorevole dottrina e delle pronuncie della stessa Corte) e' intesa come un «principio-valvola» che consente l'adattamento dell'Ordinamento al mutare dei fatti sociali, ed anche come «concetto di valore intriso di giustizia sociale, che partecipa dei caratteri dei valori costituzionali ed e' teso alla realizzazione di quel progetto di trasformazione della societa' italiana voluto dal secondo comma dell'art. 3 della Carta» e che in questo senso assegna al giudice costituzionale il ruolo di verificare in primo luogo i fini effettivamente perseguiti dalla legge ed in secondo luogo l'idoneita' dei mezzi predisposti a perseguirli (ruolo sempre svolto dalla Corte con grande prudenza, ma altresi' con attento equilibrio e apertura sin dalla sent. n. 14/1964). Anche sotto questo profilo, pertanto, le norme in esame sono irrazionali, in quanto, contrastando con l'utilita' sociale quale «modo» di svolgimento della liberta' di iniziativa economica, ne comprimono immotivatamente l'esercizio senza che (come accennato prima) ne derivi un effettivo beneficio ne' alla collettivita', in termini di sicurezza e di tutela del mercato, ne' all'azione dei pubblici poteri, che, al contrario, rischiano di essere indeboliti dall'applicazione di tali norme, nel mantenimento di un effettivo controllo del territorio rispetto all'emergenza della criminalita' organizzata e nei rapporti con la c.d. «societa' civile» (da cio', la violazione degli artt. 3 e 41 della Costituzione). Per tutte queste ragioni, pertanto, il Collegio sente di dover revocare in dubbio la legittimita' costituzionale delle norme in esame, nella parte in cui, in violazione degli artt. 2, 3, 41, 42 e 97 della Costituzione, non prevedono l'obbligo di un appropriato indennizzo a tutela dei livelli occupazionali dell'azienda e della integrita' del valore del relativo patrimonio di esperienza e competenza posseduto, a favore di quelle imprese per le quali, ritenuti inizialmente sussistenti i rischi di condizionamento mafioso ex art. 4 del decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490, ed art. 10 del d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252, ed adottati i necessari provvedimenti interdittivi, risultino poi del tutto assenti tali rischi, in base all'accertamento contenuto in sentenze passate in giudicato.