Ordinanza nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario) e «per derivazione» degli artt. da 2 a 17 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonche' in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'art. 2 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), promosso dal Tribunale ordinario di Napoli, nel procedimento vertente tra Orofino Francesco ed altri nella qualita' di eredi di Nuzzo Giovanna e la Banca di Roma s.p.a., con ordinanza del 4 maggio 2006 iscritta al n. 183 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, 1ª serie speciale, dell'anno 2009. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 2010 il giudice relatore Paolo Grossi. Ritenuto che il Tribunale ordinario di Napoli, in composizione collegiale, nel corso di un procedimento in materia societaria, con ordinanza emessa il 4 maggio 2006 (pervenuta a questa Corte solo il 4 giugno 2009), ha sollevato - in riferimento all'art. 76 della Costituzione, «nella parte in cui, in relazione al giudizio ordinario di primo grado in materia societaria, non indica i principi e criteri direttivi che avrebbero dovuto guidare le scelte del legislatore delegato» - questione di legittimita' costituzionale dell'art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario), e, «per derivazione», degli artt. da 2 a 17 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonche' in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'art. 2 della legge 3 ottobre 2001, n. 366); che il rimettente rileva come nell'art. 12 della legge n. 366 del 2001 il legislatore si sia limitato ad indicare le materie nelle quali il Governo poteva intervenire, l'obiettivo di rendere piu' rapida ed efficace la definizione dei procedimenti, il divieto di modificare la competenza per territorio e materia, la tendenziale collegialita' del procedimento, la possibilita' di valutare l'atteggiamento delle parti in sede di tentativo di conciliazione e di dettare regole che favorissero la riduzione dei termini e la concentrazione del procedimento; che - ritenuta l'insufficiente determinazione da parte del legislatore delegante dei «principi e criteri normativi che avrebbero dovuto guidare l'operato del legislatore delegato» - il Tribunale rimettente denuncia la genericita' e parzialita' di tali criteri che (rispetto all'unico obiettivo dichiarato di voler assicurare una piu' rapida ed efficace definizione di procedimenti nelle materie individuate) avrebbe di fatto lasciato libero il legislatore delegato di creare un nuovo modello processuale, che esula completamente dallo schema del procedimento ordinario disciplinato dal codice di procedura civile; che la rilevanza della questione nel giudizio a quo discenderebbe dal fatto che «dalla pronunzia della Corte costituzionale dipende l'applicabilita' dell'intera nuova disciplina processuale alla concreta fattispecie»; che, in subordine «e per l'ipotesi in cui la Corte dovesse ritenere costituzionalmente legittimo l'art. 12 della legge n. 366/2001», il Tribunale ordinario di Napoli ha sollevato questione di legittimita' costituzionale «degli artt. 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, l0, 11, 12, 13, 14, 15, 16 e 17 del decreto legislativo n. 5 del 2003, per contrasto con l'art. 76 della Costituzione, in quanto emanati eccedendo dai principi e criteri direttivi dettati dalla legge n. 366 del 2001»; che - secondo quanto afferma al riguardo il rimettente -, per evitare il sospetto di incostituzionalita' della legge delega, la si dovrebbe necessariamente interpretare nel senso che il legislatore delegante, indicando il principio di «concentrazione del procedimento», abbia fatto evidentemente riferimento alle scansioni previste nel processo ordinario, che si svolge attraverso la successione di piu' udienze fisse ed obbligatorie; per cui il principio ispiratore della legge delega avrebbe dovuto essere riempito dal legislatore delegato solo attraverso la riduzione dei termini previsti nel giudizio di cognizione ordinario per la fissazione di tali udienze e per il deposito di memorie e comparse difensive; che, viceversa, il decreto legislativo - lungi dal «concentrare» l'attuale rito ordinario - ha in realta' introdotto nell'ordinamento un'anticipazione del diverso rito prefigurato dal testo redatto dalla commissione ministeriale per la riforma del processo civile; che e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilita' o per la manifesta infondatezza delle sollevate questioni. Considerato che questa Corte - ripetutamente investita del vaglio di costituzionalita' di identiche questioni, sollevate dal medesimo giudice - ne ha dichiarato la manifesta inammissibilita', escludendo che (considerate le modalita' e le argomentazioni con le quali le questioni sono state prospettate) tra di esse corra il (pur asserito) nesso di subordinazione logico-giuridica della seconda alla prima ed affermando, invece, la radicale contraddizione tra l'interpretazione «subordinata», esposta dal rimettente a sostegno della legittimita' della legge di delega (da esso compiutamente argomentata e quasi «suggerita» alla Corte) e la diversa lettura della medesima norma premessa alla questione «principale» (ordinanze n. 208, n. 22 e n. 21 del 2008; n. 343 e n. 70 del 2007; n. 360 e n. 209 del 2006); che anche le presenti questioni (sollevate in modo uguale alle precedenti e trattate separatamente perche' pervenute alla Corte con tre anni di ritardo) presentano gli stessi difetti di prospettazione, in quanto il rimettente, non solo non adempie l'obbligo di ricercare un'interpretazione costituzionalmente orientata di ciascuna delle norme impugnate, ma propone, nel medesimo contesto motivazionale, due opzioni ermeneutiche sostanzialmente alternative, cosi' inammissibilmente demandando alla Corte la scelta fra queste; che, peraltro, sebbene l'art. 54, comma 5, della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita' nonche' in materia di processo civile), abbia abrogato tutte le censurate norme del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonche' in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'art. 2 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), tuttavia lo ius superveniens non ha alcuna influenza rispetto alla definizione della presente questione, giacche' il successivo comma 6 del medesimo art. 54 dispone espressamente che le norme abrogate continuano ad applicarsi alle controversie pendenti alla data di entrata in vigore della stessa legge, tra le quali anche il giudizio a quo; che le questioni, pertanto, sono manifestamente inammissibili. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.