Ricorso della regione Emilia-Romagna, in persona del Presidente della Giunta regionale, legale pro-tempore, sig. Vasco Errani, autorizzato con deliberazione della Giunta Regionale n. 36 del 18 gennaio 2010, rappresentata e difesa per mandato speciale a margine dal prof. Avv. Giandomenico Falcon, dal prof. Franco Mastragostino e dall'avv. Luigi Manzi, ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest'ultimo in Roma, via Confalonieri, n. 5, contro il Presidente del Consiglio dei Ministri per la declatoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 15, comma 1 lett. b), comma 1 lett. c), comma 1 lett. d), comma 1 lett. e) f) g), del decreto-legge 25 settembre 2009 n. 135, convertito con modificazioni, con legge 20 novembre 2009, n. 166, recante «Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della Corte di Giustizia delle Comunita' europee» (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 274 del 24 novembre 2009 - Suppl. ord. n. 215) di modifica, sostituzione e integrazioni all'art. 23-bis del D.L. n. 112/2008, convertito con la legge n. 133/2008, sulla disciplina dei Servizi Pubblici Locali, per violazione degli artt. 117, comma 1, 2, 4, 6, 114, 118 e 119 Cost. Premessa di ordine generale sulla presente impugnazione. L'art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009, convertito con modificazioni con la legge 20 novembre 2009, n. 166, introduce una profonda revisione del quadro generale di disciplina dei servizi pubblici locali di tipo economico. La disposizione innova l'art. 23-bis del decreto-legge n. 112/2008, che a sua volta aveva riscritto la disciplina di riferimento, integrando l'originaria previsione contenuta nell'art. 113, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267. La «riforma» della «riforma» viene giustificata in nome della pretesa attuazione di obblighi comunitari in materia di servizi pubblici locali e sulla base delle competenze statali finalizzate alla tutela della concorrenza, ma, come vedremo, essa e' passibile di fondamentali censure di incostituzionalita', laddove la rigida disciplina innovativamente prevista dal legislatore statale non appare, nelle disposizioni che qui si censurano, affatto improntata ad assicurare obiettivi di tutela della concorrenza, ma a perseguire altre e diverse finalita', che si pongono al di fuori dei titoli di competenza statale, che risultano in contrasto con la stessa disciplina comunitaria e che si traducono nella lesione delle potesta' regionali/locali di imprimere, secondo valutazioni ad esse Comunita' spettanti, una pertinente ad adeguata organizzazione e gestione dei servizi pubblici nel territorio di riferimento, in una materia - quella dei servizi pubblici locali e di organizzazione degli enti locali - nella quale le Regioni sono dotate di competenza legislativa piena, ai sensi dell'art. 117, comma 4, Cost., i, salvi i profili di cui all'art. 117, comma 2, lett. p). Preliminarmente alla esposizione delle specifiche ragioni di impugnazione, va osservato come cose del tutto diverse siano la tutela della concorrenza da un lato, i principi della privatizzazione delle risorse pubbliche dall'altro. La tutela della concorrenza e' un principio comunitario (e oramai costituzionale) che riguarda l'organizzazione dei mercati e presuppone, percio', che un mercato esista e che l'apparato pubblico debba assicurare le regole di competitivita' tra le imprese. In questi termini vale, al riguardo, la competenza esclusiva dello Stato, oltre che l'incombente e prevalente normativa comunitaria. Essendo questa una competenza di scopo - o, se si vuole, una materia «finalistica» - la Corte ha anche di recente ricordato che l'esclusivita' non va, pero', intesa come esclusione a priori del legislatore regionale, ma comporta una valutazione in concreto della strumentalita' di ogni legge, statale o regionale che sia, rispetto alle finalita' di tutela. La privatizzazione delle risorse pubbliche ha come sua ragione giustificativa la miglior utilizzazione di tali risorse. Ad essa dunque puo' farsi ricorso per ragioni del tutto estranee alla tutela della concorrenza, la quale, pero', dovra' essere assunta come metodo della privatizzazione, affinche' questa non favorisca determinati operatori, a scapito di altri. La privatizzazione non ricade in specifiche competenze ne' della Comunita' europea, ne' dello Stato. Inoltre, trattandosi di un trasferimento ai privati di risorse costituite a spese della collettivita', e' un processo che va attentamente valutato in termini di benefici di ritorno alla collettivita' stessa. Quindi, si giustifica soltanto laddove l'ingresso del privato sia una garanzia di maggiore efficienza della gestione del bene privatizzato. La questione della privatizzazione dei servizi pubblici locali con valenza economica, in parte ricade nella tutela della concorrenza, in parte nella privatizzazione delle risorse, ma le due prospettive restano distinguibili e da distinguere nei termini sopra indicati. Perche' solo per ragioni di concorrenza lo Stato e' abilitato ad intervenire con legge, non anche per ragioni attinenti all'efficienza del servizio (a meno che non si ricada nella determinazione dei livelli essenziali, o nel coordinamento della finanza pubblica). Quest'ultima - l'efficienza del servizio - infatti, deve essere valutata in concreto dagli Enti esponenziali della collettivita' che acquisiscono il servizio, mentre disciplinarne le forme di esercizio in via generale ed astratta non puo' che contravvenire al principio di sussidiarieta', oltre che al riparto delle materie che a quel principio si ispira. Lo Stato, naturalmente, puo' legiferare: a) per assicurare la concorrenza laddove si apra il servizio ai privati; b) per garantire i livelli essenziali delle prestazioni; c) ponendo norme di principio sul coordinamento finanziario, laddove si tratti di limitare il costo dei servizi rispetto al bilancio pubblico. Per il resto, le modalita' di erogazione dei servizi pubblici locali devono rientrare nella competenza e responsabilita' politica delle comunita' territoriali, alle quali compete la scelta anche delle modalita' di erogazione e dei modelli di gestione. La pretesa riforma contenuta nelle recenti disposizioni, introdotte con decretazione d'urgenza, di modifica di altre disposizioni non adeguatamente ponderate (si ricorda, infatti, che l'art. 23-bis e' maturato nel corso di una estate, precisamente tra il giugno e l'agosto 2008), confonde ad avviso della Regione i due piani, che vanno, invece, mantenuti nettamente distinti. E questa confusione nasce da un presupposto errato: che i principi della tutela della concorrenza comportino la necessaria privatizzazione delle risorse pubbliche, allo scopo di favorire l'insorgere di mercati concorrenziali, anche laddove essi attualmente non ci siano. Questo, a ben vedere, significa non tutelare la concorrenza, ma favorire la presenza di operatori privati, affidando loro le risorse pubbliche che sono patrimonio delle collettivita' territoriali. Cosi' si contravviene a un ordine logico che, almeno per quanto riguarda i settori nei quali non e' gia' presente un mercato concorrenziale (ad es. servizio idrico), dovrebbe muovere dall'obiettivo fondamentale e irrinunciabile della qualita' dei servizi, (il livello di diffusione, il livello delle prestazioni, il livello delle tariffe, la trasparenza della gestione, la democraticita' dei controlli e degli indirizzi, ecc.) Sotto questo profilo, le norme sul superamento della gestione in house sono palesemente orientate a favorire un ingiustificabile processo di «svendita» (trattandosi di vendita obbligatoria e, quindi, fuori dalle condizioni di mercato) del patrimonio pubblico capitalizzato nel valore delle societa' pubbliche, che hanno avuto in affidamento i servizi, senza alcuna valutazione delle conseguenze che questo processo avrebbe sulla qualita' dei servizi. Questo non corrisponde al principio comunitario di tutela della concorrenza, ma ad una «credo ideologico» circa la migliore capacita' delle Imprese private di gestire non l'impresa in se', ma gli interessi pubblici. Questa opzione e' meramente ideologica, in quanto essa e' estranea sia alla costituzione comunitaria - nella quale e' indiscusso il diritto delle amministrazioni di gestire direttamente i propri servizi pubblici, sia alla Costituzione italiana, nella quale - fermo il diritto di iniziativa economica privata - e' pienamente ammessa l'impresa pubblica, in particolare finalizzata alla gestione dei servizi pubblici: al punto che non solo la Costituzione non contiene alcuna limitazione, ma addirittura prevede (art. 43) che per ragioni di utilita' generale (cioe' di interesse pubblico) possano addirittura essere trasferiti alla gestione pubblica imprese gia' in regime di iniziativa privata. E', peraltro, evidente l'interesse della Regione ad impugnare tali disposizioni: a) su un piano generale onde opporre ad una visione ideologica, priva di qualsiasi riscontro oggettivo, una diversa interpretazione degli interessi della propria comunita'; b) sul piano piu' direttamente giuridico, al fine di poter esplicare la propria competenza legislativa in materia di servizi pubblici, che e' lo strumento con cui la Costituzione garantisce la sua autonomia politica. I precedenti giurisprudenziali costituzionali sui Servizi pubblici locali. La riforma contiene numerose disposizioni, la cui compatibilita' con la Carta costituzionale deve essere messa in discussione, soprattutto a proposito dei canoni che regolano il riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni. Al riguardo, si deve ricordare che gia' la Corte costituzionale si e' pronunciata sul punto, con la sentenza n. 272/2004. In quell'occasione, la Regione Toscana aveva impugnato le disposizioni di riforma dell'art. 113 del TUEL, contenute nell'art. 14 d.l. 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, n. 326. Ad avviso della Regione, quelle disposizioni violavano l'art. 117 della Costituzione, in quanto introducevano una disciplina dettagliata ed autoapplicativa dei servizi pubblici locali, materia che l'art. 117 non contempla fra quelle riservate alla legislazione esclusiva dello Stato e che, quindi, spetta alle Regioni disciplinare, nel rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. La Corte ha accolto solo in parte le contestazioni avanzate. Infatti, ha affermato che: a) l'intervento legislativo statale in una materia come quella dei servizi pubblici locali, non espressamente prevista nell'art. 117 Cost., si giustifica solo alla luce della competenza esclusiva che lo Stato ha in materia di «tutela della concorrenza», la quale, stante la sua trasversalita', puo' abbracciare qualsiasi attivita' economica; b) tuttavia, l'ambito di operativita' della competenza legislativa statale attinente alla «tutela della concorrenza» e' definito anche attraverso il rispetto del principio di proporzionalita' e adeguatezza, nel senso che l'intervento legislativo statale non puo' essere talmente dettagliato da escludere qualsiasi possibilita' di regolazione da parte della Regione; c) pertanto, sono state ritenute illegittime, sotto il profilo costituzionale, sia le disposizioni statali dirette a disciplinare i servizi pubblici locali privi di rilevanza economica, sia le disposizioni dirette a disciplinare aspetti dei servizi pubblici locali di rilievo economico, ma con esasperato taglio applicativo e di dettaglio. Tale orientamento e' stato recentemente confermato con la sentenza n. 307/2009, nella quale codesta Corte ha precisato che la disciplina statale sulle modalita' di affidamento dei servizi pubblici a rilevanza economica e' costituzionalmente legittima, in quanto riconducibile alla materia «tutela della concorrenza». Nella stessa decisione, e' anche affermato che «Le competenze comunali in ordine al servizio idrico, sia per ragioni storico-normative, sia per l'evidente essenzialita' di questo alla vita associata delle comunita' stabilite nei territori comunali, devono essere considerate quali funzioni fondamentali degli enti locali, la cui disciplina e' stata affidata alla competenza esclusiva dello Stato dal novellato art. 117. Cio' non toglie, ovviamente, che la competenza in materia di servizi pubblici locali resti una competenza regionale, la quale risulta in un certo senso limitata dalla competenza statale suddetta, ma puo' continuare ad essere esercitata negli altri settori, nonche' in quello dei servizi fondamentali, purche' non sia in contrasto con quanto stabilito dalle leggi statali». Alla luce di quanto sopra esposto e dei parametri indicati dalla stessa Corte, si sollevano, pertanto, i seguenti profili di illegittimita' costituzionale delle disposizioni contenute nella «riforma» dei Servizi pubblici locali del 2009. 1. Illegittimita' costituzionale dell'art. 15, comma 1 lett. b) del D.L. n. 135/2009, convertito, con mod. con la legge n. 166/2009, nella parte in cui modifica il comma 3 dell'art. 23-bis del d.l. n. 112/2008, per violazione degli artt. 117, commi 1, 2 e 4 e 114 e 118 Costituzione. L'art. 15, del d.l. n. 135/2009, modifica il comma 3 dell'art. 23-bis, d.l. n. 112/2008. Il nuovo testo dispone che «in deroga alle modalita' di affidamento ordinario di cui al comma 2, per situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l'affidamento puo' avvenire a favore di societa' a capitale interamente pubblico, partecipata dall'ente locale, che abbia i requisiti richiesti dall'ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta «in house» e, comunque, nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla societa' e di prevalenza dell'attivita' svolta dalla stessa con l'ente o gli enti pubblici che la controllano». La disposizione appare come un'ingiustificata invasione, da parte del legislatore statale, della competenza legislativa regionale, nel momento in cui si ponga attenzione al fatto che introduce un modello alternativo di gestione per i servizi pubblici locali che risultino, in concreto, caratterizzati da elementi che escludono un mercato di riferimento. La disposizione lascia intendere che ci possono essere dei servizi pubblici locali economici in astratto, i quali perdono tale rilevanza in concreto, poiche' «peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato». In questi casi, e' direttamente il legislatore statale ad imporre il modello di gestione (la societa' in house). Ora, nel momento in cui il legislatore ha riguardo, come condizione applicativa della disposizione introdotta, all'assenza di un mercato di riferimento ed alla perdita, in concreto, della rilevanza economica del servizio, arriva a negare il suo titolo di legittimazione a legiferare, che, come si e' detto, e' legato alla «tutela della concorrenza», la quale si giustifica solo in presenza di attivita' che hanno un mercato di riferimento. In pratica, il legislatore statale puo' legiferare fin quando il servizio pubblico locale presenti una rilevanza economica in astratto e in concreto; viceversa, solo il legislatore regionale puo' intervenire per dettare la disciplina dei servizi pubblici locali privi di rilievo economico ab origine o che non hanno, per situazioni di fatto contingenti e concrete, un mercato di riferimento. Inoltre, bisogna sottolineare che anche ammesso (ma non concesso) che la tutela della concorrenza possa giustificare in generale la limitazione della gestione diretta del servizio pubblico, potra' poi essere rilevante per lo Stato che vi siano sistemi di verifica idonei ad accertare la reale sussistenza di condizioni di fatto che impediscano il ricorso al mercato e, quindi, alla gestione ordinaria del servizio, e consentano di ricorrere ad una gestione in deroga; ma non potra' mai essere rilevante per lo Stato imporre un determinato modello di gestione da parte dell'ente locale. Non e' certo funzionale alla garanzia della concorrenza spingersi oltre, arrivando anche a dire quali modelli eccezionali ed in ogni caso non concorrenziali (dato che si e' accertata l'impossibilita' di ricorrere al mercato) gli enti locali debbano scegliere per gestire il servizio: appare, cioe', sicuramente illegittimo vincolare la forma di gestione ove si riconosca che non vi e' obbligo di ricorrere al mercato. E', quindi, evidente che lo Stato, attraverso tale disciplina, nella misura in cui e' intervenuto per ragioni non riconducibili alla tutela della concorrenza, ma attinenti, piuttosto all'efficienza del servizio, imponendo una scelta obbligatoria della forma di gestione alternativa (precludendo ad esempio, la gestione diretta) in ambiti non concorrenziali, e' andato ben oltre il titolo della propria competenza esclusiva, e cio' in violazione dell'art.117, comma 2, ed ha invaso ambiti di pertinenza delle scelte regionali/locali, in violazione dell'art.117, comma 4, nonche' dell'art.114, violando l'autonomia organizzativa degli enti locali, quanto al miglior soddisfacimento dei servizi di propria titolarita' e dell'art.118 cost. quanto al principio di sussidiarieta', che vede nel sistema regionale-locale, in base a quanto stabilito dallo stesso legislatore statale per la gran parte dei servizi pubblici locali, il livello di allocazione delle scelte di organizzazione e gestione dei servizi da rendere a favore delle comunita' di riferimento. La disposizione statale, dunque, dovrebbe limitarsi a disporre che nel caso considerato l'affidamento puo' avvenire secondo le modalita' di gestione diretta previste dalla legislazione regionale o, in mancanza, scelte dagli enti locali titolari del servizio». Di qui l'illegittimita' costituzionale della disposizione impugnata. 2. Illegittimita' costituzionale dell'art.15, comma 1 lett.c), che introduce il comma 4-bis nell'art 23-bis del d.l. n. 112/2008, per violazione dell'art. 117 comma 6 Cost. La lett. c), comma 1, dell'art. 15 del d.l. n. 135/2009, introduce nell'art. 23-bis, del d.l. n. 112/2008, un comma 4-bis, il quale dispone che «i regolamenti di cui al comma 10 definiscono le soglie oltre le quali gli affidamenti di servizi pubblici locali assumono rilevanza ai fini dell'espressione del parere di cui al comma 4». In altri termini, la disposizione in questione affida al regolamento governativo il compito di individuare una soglia oltre la quale l'affidamento di un servizio pubblico locale in forma derogatoria (ossia a societa' in house), per assenza in concreto di un mercato di riferimento, deve essere assoggettato alla funzione consultiva e di verifica svolta dall'Autorita' garante della concorrenza e del mercato. La ricorrente Regione non contesta - ovviamente - la circostanza che una volta stabilito (legittimamente o meno) di consentire alle amministrazioni locali la gestione autonoma del proprio servizio solo in circostanze particolari, ed una volta introdotto un parere dell'autorita' antitrust per la verifica dell'esistenza di tali circostanze, vi sia una soglia al di sotto della quale tale parere non e' richiesto. La Regione ritiene tuttavia che le determinazioni relative a tale soglia non possano che essere assunte in sede regionale, entro limiti fissati direttamente dalla legge statale, trattandosi di determinare un livello di efficienza del servizio, che solo a livello regionale puo' essere concretamente e correttamente apprezzato. E che risulti invece illegittimo spostare sulla fonte regolamentare parte di tale disciplina, alla luce della disposizione di cui all'art.117, comma 6 cost. e dei principi enunciati dalla giurisprudenza costituzionale, che consente al Governo di intervenire con fonti secondarie solo in materie di esclusiva competenza statale. In sostanza, si contesta in radice che lo Stato possa arbitrariamente individuare una soglia oltre la quale l'affidamento del servizio assuma rilevanza rispetto alle regole di concorrenza che presiedono il mercato e che per questo solo motivo debba essere oggetto del parere di cui al comma 4. Invero, la stessa modalita' derogatoria delineata dal comma 3, in base alla disciplina comunitaria esorbita dalla applicazione delle regole della concorrenza (autoproduzione), sicche' non risponde ad alcuna logica affermare che la rilevanza o meno dell'affidamento dipenda da un valore economico. E comunque, come si e' piu' sopra rilevato, non spetta allo Stato stabilirlo. Per quanto possa rilevare, puo' essere osservato che tale soglia e' stata fissata, stando allo schema di regolamento approvato dal Consiglio dei Ministri in data 17 dicembre 2009, nel valore economico del servizio oggetto dell'affidamento superiore a 200.000,00 €, (mentre e' comunque richiesto il parere a prescindere dal valore economico del servizio qualora la popolazione interessata sia superiore a 50.000 abitanti). Ad avviso della ricorrente Regione, la soglia in tal modo stabilita non e' suscettibile di rappresentare alcun livello di efficienza del servizio, ne' appare uno strumento in grado di fissare la appropriatezza, la qualita', il controllo e il rispetto dei parametri della concorrenza e, quindi, il grado di concorrenzialita'. La soglia suddetta e' espressione di un apprezzamento ex ante del tutto forfettario, che invade ambiti di valutazione che debbono necessariamente essere rimessi alle competenze regionali, uniche realta' capaci di effettuare una siffatta ricognizione delle situazioni locali, che risponda ad elementi concreti, parametrati sulle singole realta', e non su un criterio stabilito a priori in maniera del tutto astratta ed apodittica. 200.000,00 € e' pochissimo per alcuni mercati e tanto per altri. Alcuni affidamenti, poi - ci si riferisce a quelli affidati per vent'anni, che non sono infrequenti - non sono valutabili in tali termini (200.000,00 annuali o in valore assoluto?). Vi saranno, cosi', affidamenti di servizi dello stesso tipo che, se tenuti al di sotto della soglia indicata dal regolamento governativo, non dovranno essere verificati dall'Autorita' antitrust. In pratica, gli enti locali, accertata in concreto l'assenza di un mercato di riferimento, se riusciranno a contenere l'affidamento al di sotto della soglia regolamentare, potranno tranquillamente evitare la gara e gestire in house il servizio, senza che nessuna autorita' tecnica possa valutare la sussistenza dei requisiti legittimanti la deroga. La conseguenza in questo caso e' paradossale: il quadro ordinamentale e' composto dalla disciplina del legislatore statale, dall'intervento regolativo del Governo e dall'autonomia organizzativa dell'ente locale, tre soggetti che intervengono sui servizi pubblici locali, mentre e' del tutto assente qualsivoglia ruolo della Regione, pur trattandosi di gestione di servizi locali la cui concorrenzialita' manchi quantomeno in concreto, e cioe' di un ambito in cui vi e' competenza legislativa esclusiva regionale, uno spazio del quale la Regione rivendica competenza piena e non solo integrativa di quella statale. 3. Illegittimita' costituzionale dell'art.15 comma 1 lett.d), che ha sostituito i commi 8 e 9 dell'art. 23-bis prevedendo un regime transitorio per gli affidamenti in atto dei SPL di rilievo economico, per violazione degli art.114, 118, 117 commi 1, 2 e 4 e 119 Cost., nonche' del principio di tutela dell'affidamento connesso alla responsabilita' regionale. La lettera d) del c. 1 dell'art. 15, sostituendo il comma 8 dell'art. 23-bis, introduce un regime transitorio per gli affidamenti in atto dei servizi pubblici locali di rilievo economico. Ad avviso della Regione, la disposizione risulta incostituzionale sotto diversi profili. a. quanto al comma 8, lettera a), come sostituito. Tale disposizione stabilisce che «il regime transitorio degli affidamenti non conformi a quanto stabilito ai commi 2 e 3 e' il seguente: a) le gestioni in essere alla data del 22 agosto 2008 affidate conformemente ai principi comunitari in materia di cosiddetta "in house" cessano, improrogabilmente e senza necessita' di deliberare da parte dell'ente affidante, alla data del 31 dicembre 2011. Esse cessano alla scadenza prevista dal contratto di servizio a condizione che entro il 31 dicembre 2011 le amministrazioni cedano almeno il 40% del capitale attraverso le modalita' di cui alla lettera b) del comma 2». Qui la legge anticipa la conclusione del rapporto contrattuale, ma solo per alcune gestioni, colpendo, in particolare, le imprese pubbliche o semi pubbliche, le quali hanno ricevuto l'affidamento nel rispetto della legislazione precedentemente vigente e comunque conformemente ai principi comunitari. Questa e' solo apparentemente una norma a favore della concorrenza; in realta' essa introduce disposizioni piu' rigide della normativa comunitaria di cui si afferma l'attuazione, incidendo direttamente su profili di efficienza del servizio - poiche' non par dubbio che la cessazione anticipata del rapporto contrattuale si rifletta sugli investimenti programmati nel lasso di tempo di durata del rapporto e riguardi, quindi, direttamente l'efficienza e la qualita' del servizio - intervenendo pregiudizialmente in un ambito rispetto al quale la Regione ha sempre avuto un ruolo fondamentale. Al di la' della violazione del principio di uguaglianza e di liberta' di iniziativa economica, che riguarda piu' propriamente gli operatori economici che hanno fatto affidamento su una certa durata della gestione del servizio affidato, cio' che rileva in questa sede per la Regione ricorrente e' la circostanza che tale disposizione incide sull'assetto di sistema regionale degli affidamenti, ledendo il ruolo della Regione, anche di tipo legislativo, nel definire la durata degli affidamenti medesimi. Occorre ricordare, infatti, che gia' con la prima legge regionale sul servizio idrico integrato, la n. 25/1999, emanata in attuazione della legge Galli n. 36/1994 e contenente anche norme sul servizio rifiuti, in attuazione del d.lgs n. 22/1997, la Regione Emilia Romagna, nell'esercizio del potere di regolazione ed organizzazione delle funzioni amministrative relative ai predetti servizi, aveva previsto la stessa durata del regime transitorio e degli affidamenti. Questa era fissata in relazione alla suscettivita' dei soggetti affidatari di esprimere un livello adeguato, «industriale», in termini di efficienza, efficacia ed economicita', di effettuazione del servizio, secondo parametri di valutazione del livello di adeguatezza che comportava la salvaguardia delle gestioni in essere da parte delle Autorita' d'ambito. Si consentivano cosi' durate piu' o meno lunghe degli affidamenti in relazione al possesso di tali requisiti di efficienza, efficacia ed economicita', in relazione alla legittimita' degli affidamenti in essere rispetto alla normativa comunitaria, e alla maggiore o minore dimensione degli ambiti serviti. Tale durata la Regione ha fissato - conformemente alla normativa comunitaria, al dicembre 2011, consentendo un anno in piu' rispetto alla scadenza ora fissata dalla normativa statale (2010); ma anche un anno di differenza comporta conseguenze rilevanti sotto il profilo organizzativo delle gare, dei bandi e quant'altro necessario per avviare i nuovi affidamenti. La Regione ha in tal modo svolto un ruolo attivo nella costruzione di un sistema industriale di effettuazione dei piu' importanti fra i servizi pubblici locali, quale il servizio idrico integrato e il servizio rifiuti, assumendo una funzione di coordinamento degli enti locali e delle Autorita' d'ambito nel frattempo dalla stessa legge regionale istituite, funzione che essa intende mantenere e continuare ad espletare. E' del tutto evidente che su tale assetto incide gravemente e rigidamente la disposizione statale sopra menzionata, laddove si mette nel nulla, mediante l'automatica e unilaterale cessazione dei rapporti in corso ad una data molto ravvicinata, una scelta organizzativa posta in essere correttamente sulla base del diritto vigente e in conformita' alla disciplina comunitaria; ad esse sono poi seguite le scelte che le imprese (pubbliche o semi pubbliche che siano) hanno a loro volta effettuato, proprio facendo affidamento su quel quadro ordinamentale di riferimento, come regolato dalla Regione. Sotto tale profilo e', quindi, evidente la violazione delle disciplina legislativa legittimamente stabilita dalla Regione in base ai suoi livelli di competenza (violazione dell'art.117 comma 4) e della responsabilita' della Regione nei confronti del variegato panorama delle societa' pubbliche o semi pubbliche affidatane dei servizi pubblici, che a tale assetto si sono correttamente attenute. b. Sotto un secondo profilo, la disposizione impugnata e' costituzionalmente illegittima per contrasto con il diritto comunitario, con conseguente violazione dell'art.117, comma 1: non si comprende, infatti, perche' alcune gestioni, che la stessa disposizione definisce «affidate conformemente ai principi comunitari in materia di cosiddetta in house», debbano necessariamente terminare entro il 31 dicembre 2011, a meno che non si trasformino in affidamenti a societa' mista, laddove le Amministrazioni (e loro societa' in house) debbono necessariamente cedere almeno il 40% del proprio capitale. Si ricordi che nel diritto comunitario il modello organizzativo dell'autoproduzione dei servizi attraverso affidamenti in house e' stato ritenuto in linea con i principi del Trattato, tra cui, come noto, vi e' quello della tutela e promozione della concorrenza. Ed infatti, a cominciare dalla nota pronuncia della Corte di Giustizia delle Comunita' Europee, sentenza Teckal, del 18 novembre 1999, in causa C-107/98, alla Stadt Halle, dell'11 gennaio 2005, in causa C-26/3, fino alla piu' recente sentenza Associazione Nazionale Autotrasporto Viaggiatori del 6 aprile 2006, in causa C-410/04, il diritto delle Amministrazioni di erogare in proprio il servizio a favore delle proprie comunita' locali non solo non e' precluso dalle regole sulla concorrenza, ma e' espressamente affermato e riconosciuto dalla Comunita' Europea. Diviene, pertanto, evidente la profonda contraddizione che caratterizza la disposizione statale impugnata: si sacrifica, in nome della tutela della concorrenza, una formula organizzativa che e' stata istituita secondo modelli ritenuti compatibili con tale esigenza di tutela. D'altronde, secondo il diritto comunitario il fenomeno dell'autoproduzione e' estraneo alla materia della concorrenza ed alternativo rispetto all'esternalizzazione, con l'effetto che solo in questo secondo caso e' necessario rispettare le regole poste a tutela della concorrenza. La scelta organizzativa fra le due opzioni e' demandata in via esclusiva all'ente locale titolare delle funzioni. Il legislatore statale non puo' ingerirsi in tale scelta imponendo una delle due opzioni all'ente in quanto, procedendo in tal modo, esorbita dalla propria potesta' legislativa in materia di tutela della concorrenza. e. per contrasto con i criteri di distribuzione della competenza legislativa tra Stato e Regioni e per ingiustificato e travisato esercizio del titolo di competenza statale attinente alla «tutela della concorrenza», con violazione, quindi, dell'art. 117 commi 2 e 4 Cost.: e' vero che spetta allo Stato la disciplina di determinanti aspetti dei servizi pubblici locali di rilievo economico in virtu' del titolo competenziale «tutela della concorrenza», tuttavia, tale disciplina non puo' essere cosi' dettagliata da essere auto-applicativa ed escludere qualsiasi successivo intervento regionale e locale. Codesta Ecc.ma Corte costituzionale, infatti, nella richiamata sentenza n. 272/2004 ha precisato che «il criterio della proporzionalita' e dell'adeguatezza appare quindi essenziale per definire l'ambito di operativita' della competenza legislativa statale attinente alla «tutela della concorrenza» e conseguentemente la legittimita' dei relativi interventi statali. Trattandosi, infatti, di una cosiddetta materia-funzione, riservata alla competenza esclusiva dello Stato, la quale non ha un'estensione rigorosamente circoscritta e determinata, ma, per cosi' dire, «trasversale» (cfr. sentenza n. 407 del 2002), poiche' si intreccia inestricabilmente con una pluralita' di altri interessi - alcuni dei quali rientranti nella sfera di competenza concorrente o residuale delle Regioni - connessi allo sviluppo economico-produttivo del Paese, e' evidente la necessita' di basarsi sul criterio di proporzionalita-adeguatezza al fine di valutare, nelle diverse ipotesi, se la tutela della concorrenza legittimi o meno determinati interventi legislativi dello Stato. Nella disposizione qui in contestazione in piu' occasioni si entra nel dettaglio, senza che tale scelta risulti funzionale ad una maggiore promozione della concorrenza nel settore. Come si e' piu' sopra rilevato, si stabilisce che per evitare la cessazione anticipata del contratto di servizio con le societa' in house, le Amministrazioni locali di controllo debbano cedere almeno il 40% del capitale ad un socio, attraverso procedure competitive ad evidenza pubblica, che abbiano anche ad oggetto, «allo stesso tempo, la qualita' di socio e l'attribuzione di specifici compiti operativi». La disposizione fissa condizioni di privatizzazione molto rigide, che riducono il campo di azione di un eventuale legislatore regionale ed il potere di scelta degli enti locali: procedura di evidenza pubblica, almeno il 40% del capitale, attribuzione di specifici compiti operativi al socio selezionato. Cio', pero', non sempre assicura la promozione e la tutela della concorrenza. Infatti, i privati potrebbero non avere interesse ad acquistare, a volte con un notevole impegno economico, un pacchetto di azioni significativo (almeno il 40%), ma che difficilmente garantira' loro il controllo sulla societa', e avere in cambio solo singoli e specifici compiti operativi e non l'intera gestione (a volte, unica condizione per poter rientrare degli investimenti fatti per «comprare» la qualifica di socio). Al contrario, in alcuni casi la situazione gestionale di fatto potrebbe essere piu' consona ad una privatizzazione attraverso la selezione di un socio privato mero finanziatore, al quale non affidare alcun compito operativo, ma da coinvolgere solo nel finanziamento della attivita'. Tali profili di incostituzionalita' sono particolarmente evidenti anche con riferimento alla lettera d) del comma 8 del 23-bis, come sostituito dall'art.15, che qui parimenti specificamente si impugna. Con tale disposizione e' imposta alle societa' a partecipazione pubblica gia' quotate in borsa alla data del 1° ottobre 2003, e a quelle da esse controllate, l'obbligatorieta' della cessione del 40% entro il 30 giugno 2013 e del 30% entro il 31 dicembre 2015, come condizione per poter continuare negli affidamenti diretti fino alla scadenza del contratto di servizio. Anche qui si assiste ad una forzata «privatizzazione», posta del tutto impropriamente come condizione per attuare la concorrenza, ma che nulla ha a che fare con la concorrenza e che stravolge la governance pubblica esistente. Lo Stato ha deciso unilateralmente come deve essere l'assetto di autonomia finanziaria e legislativa delle comunita' regionali-locali, depositarie della titolarita' dei servizi pubblici locali, passando sopra alle loro scelte, contro i principi del federalismo fiscale. Questa non e' concorrenza. In sostanza, lo Stato dice: se ti apri al mercato puoi continuare a gestire con gli affidamenti in essere. Allora si ammette che tali affidamenti sono legittimi; allora la condizione che il legislatore statale pone e' una condizione di politica istituzionale (che meritava ben altra valutazione e condivisione con i livelli regionali-locali), ma non di concorrenza. Come si e' gia' evidenziato nella premessa di inquadramento del problema posto dalla riforma da ultimo attuata, la «privatizzazione» del capitale sociale delle societa' in house non ha alcun riflesso sulla tutela delle concorrenza, provocando in realta' unicamente una svendita delle risorse pubbliche, perche' non cambia il monopolio da parte dell'operatore (societa' privatizzata), ma solo la titolarita' delle sue azioni, delle quali il 30% o il 40% del capitale pubblico deve essere ceduto. Il che, ovviamente, produrra' un danno economico alle Societa' quotate, in evidente contraddizione con la tutela della concorrenza. d) per contrasto con il principio di pluralismo paritario istituzionale, in violazione degli artt. 114 e 118 Cost: la nuova disciplina, come si e' visto, e' cosi' rigida da annullare qualsiasi autonomia esercitabile in materia, a cominciare dall'autonomia organizzativa spettante agli enti locali, i quali comunque sono i titolari di tali attivita', sia pur affidati alla gestione di imprese esterne. Viene violato, cosi', il principio fondamentale di sussidiarieta', che richiede appunto una valutazione in concreto della situazione locale (che puo' enormemente variare da un ambito ottimale all'altro), anche per verificare le specifiche condizioni di mercato in cui si svolge il servizio e in cui si «privatizza» il patrimonio pubblico. e) per violazione dell'art.119 u.c. cost. secondo cui «i Comuni, le Province le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato». La norma sopra censurata impone, infatti, alle Amministrazioni pubbliche di liberarsi di una quota del proprio patrimonio societario a prescindere dalla convenienza economica dell'operazione, e quindi dalla considerazione in concreto del tempo, delle modalita', della quantita', valutazioni indispensabili ad evitare che si produca una svendita coatta di capitali pubblici. Per come e' strutturata la norma non c'e' alcuna possibilita' di realizzare un ritorno economico che equilibri il depauperamento, obbligato per legge, del patrimonio della collettivita', e si determina un indebolimento finanziario della governance pubblica senza adeguata giustificazione e idonee contromisure, con evidente violazione della norma costituzionale sull'autonomia finanziaria di Regioni e Comuni che, per tali finalita' costituzionalmente riconosciute, ha espressamente ad essi attribuito un proprio patrimonio, il quale non puo' essere inciso per finalita' contrastanti con la sua stessa conservazione ed ottimale gestione. Per non dire, poi, delle conseguenze che puo' comportare sul valore delle azioni di una societa' quotata in borsa, la vendita massiccia e obbligatoria della propria quota azionaria. Quanto al comma 9 dell'art. 23-bis, come sostituito. La disposizione stabilisce che «le societa', le loro controllate, controllanti e controllate da una medesima controllante, anche non appartenenti a Stati membri dell'Unione europea, che, in Italia o all'estero, gestiscono di fatto o per disposizioni di legge, di atto amministrativo o per contratto servizi pubblici locali in virtu' di affidamento diretto, di una procedura non ad evidenza pubblica ovvero ai sensi del comma 2, lettera b), nonche' i soggetti cui e' affidata la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali degli enti locali, qualora separata dall'attivita' di erogazione dei servizi, non possono acquisire la gestione di servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi, ne' svolgere servizi o attivita' per altri enti pubblici o privati, ne' direttamente, ne' tramite loro controllanti o altre societa' che siano da essi controllate o partecipate, ne' partecipando a gare. Il divieto di cui al primo periodo opera per tutta la durata della gestione e non si applica alle societa' quotate in mercati regolamentati e al socio selezionato ai sensi della lettera b) del comma 2. I soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali possono comunque concorrere su tutto il territorio nazionale alla prima gara successiva alla cessazione del servizio, svolta mediante procedura competitiva ad evidenza pubblica, avente ad oggetto i servizi da essi forniti». Come si puo' notare, anche tale disposizione, che attiene ai limiti e divieti in ordine all'ambito di operativita' riservato ai soggetti titolari di affidamenti diretti e agli altri soggetti che a questi ultimi siano collegati, e' in contrasto con i principi del diritto comunitario, appare irragionevole e non conforme al principio di proporzionalita' fra i contenuti preclusivi della norma e le finalita' di tutela della concorrenza perseguite. Innanzitutto, il profilo della contrasto con l'ordinamento comunitario. Per tale ordinamento, e come piu' volte ricordato dalla Corte di giustizia CE a proposito delle societa' in house, una societa' a partecipazione pubblica, assoggettata al controllo analogo dei soci, titolare di un affidamento diretto, e' tenuta a svolgere a favore degli enti di riferimento solo l'attivita' prevalente, ben potendo destinare l'attivita' residua anche al mercato. Nella prospettiva del comma dell'art. 23-bis, cosi' come riformato, l'affidamento diretto di un servizio determina una impossibilita' per la societa' destinataria di svolgere qualsiasi attivita' al di fuori del c.d. mercato domestico. In altri termini, la norma in questione trasforma il concetto di «prevalenza» dell'attivita' in «attivita' esclusiva», costringendo il soggetto titolare dell'affidamento diretto (non solo in house provider) a svolgere la propria attivita' esclusivamente nei confronti degli enti affidanti. Del resto, gia' questa Corte costituzionale, con la sentenza n. 439/2008, nel declinare il concetto di attivita' «prevalente» in termini quantitativi e qualitativi, ha implicitamente riconosciuto che il concessionario diretto affidatario di servizi pubblici locali possa svolgere una parte della propria attivita', seppure marginale, in mercati diversi da quello del servizio gestito. In secondo luogo, la disposizione appare irragionevole ed il regime limitativo che introduce per determinate categorie di imprese poco proporzionale agli scopi di tutela della concorrenza prefissati. E' irragionevole estendere le conseguenze limitative degli affidamenti diretti anche alle societa' miste costituite ai sensi del comma 2, lett. b), art. 23-bis, considerato che, per volonta' dello stesso legislatore, tale modello di gestione e' stato equiparato a quello dell'esternalizzazione, nella comune categoria delle formule ordinarie di organizzazione dei servizi pubblici locali di rilievo economico. Non vi e', poi, ragionevole ragione nella scelta legislativa di escludere da tale regime limitativo, invece, le societa' quotate e di prevedere una specie di moratoria con riferimento alla partecipazione alle cc.dd. prime gare: anche le societa' quotate sono destinatarie di affidamenti diretti e la tutela della concorrenza deve valere sempre e non «congelarla» nella fase di avvio della riforma. Ma ancora piu' grave, sotto il profilo della mancanza di ragionevolezza e proporzionalita' nella previsione del comma 9, e' la circostanza che detta norma riguardi non solo il gestore affidatario diretto, rispetto alla cui posizione potrebbero configurarsi potenziali rischi di distorsione della concorrenza, ma anche i soggetti societari ad esso collegati e da esso controllati, i quali conservano in ogni caso una loro autonomia soggettiva e ben potrebbero operare in altri mercati. In pratica, il legislatore ha collegato all'affidamento diretto di un servizio ad una societa' partecipata dagli enti pubblici una conseguente incapacita' di agire al di fuori dei confini territoriali e funzionali determinati dallo stesso affidamento, la quale e' destinata a colpire non solo la societa' incaricata del servizio, ma, come se fosse un virus, ad infettare altre possibili societa' che per controllo o per collegamento siano riconducibili al gestore. Obiettivamente la portata della disposizione appare un po'eccessiva e non proporzionata alla tutela della concorrenza: primo, perche', un vincolo di azione ad una societa' non e' di per se stesso elemento atto a garantire la concorrenza; secondo, perche' vale solo per le imprese pubbliche o semi-pubbliche, ma non per quelle private, ben potendosi verificare in concreto affidamenti di servizi a privati non preceduti da gara (come dimostra l'esperienza, giustificabili per ragioni di emergenza, ad esempio, nel campo dei servizi ambientali). Sicche' la norma in questione, nella sua correlazione con il periodo transitorio introdotto dal comma 8 (come sostituito) contribuisce ad ingessare ancora di piu' il sistema di gestione regionale-locale dei servizi pubblici, con evidente compressione della autonomia legislativa ed organizzativa degli enti titolari dei servizi, senza che cio' sia giustificato in termini di proporzionalita' rispetto alle finalita' di tutela della concorrenza pretesamente perseguite, con la conseguenza che anche tale disposizione e' passibile delle medesime censure di incostituzionalita' evidenziate in epigrafe. 4. Illegittimita' costituzionale dell'art 15 comma 1, lettere e) f) g) in relazione al comma 10 dell'art 23-bis del d.l. n. 112/2008 per violazione dell'art. 117 commi 2 e 4. Le lettere e), f) e g) dell'articolo della riforma del 2009 qui analizzato rivedono il comma 10 dell'art. 23-bis, d.l. n. 112/2008. Si tratta del comma che sposta su un regolamento governativo gran parte della portata della riforma dei servizi pubblici locali di tipo economico, in quanto e' all'intervento del governo che si chiede di specificare in dettaglio molti degli aspetti della nuova disciplina introdotta. Mentre le lettere f) e g) contengono ritocchi al regime del rinvio operato dal legislatore ad apposito regolamento governativo, la lettera e), invece, sposta il termine per l'adozione del regolamento al 31 dicembre 2009. Si possono ricordare i dubbi gia' sopra espressi a proposito della scelta del legislatore di affidare ad un regolamento governativo un settore la cui disciplina, se gia' contenuta in una fonte primaria, deve limitarsi a disposizioni proporzionate ed adeguate in un ottica di funzionalita' della tutela della concorrenza. I rischi, poi, di invadere campi rispetto ai quali la competenza legislativa delle Regioni e' certa sono evidenti, come, ad esempio, risulta eclatante la previsione secondo cui il regolamento dovra' occuparsi anche di come i «comuni con un limitato numero di residenti possano svolgere le funzioni relative alla gestione dei servizi pubblici locali in forma associata». «Invero, il comma 10 dell'art. 23-bis e' gia' stato impugnato dalla Regione Emilia Romagna con il ricorso promosso avverso varie disposizioni del d.l. n. 112/2008, (R.G. n. 69/08) evidenziandosi in quella sede come i temi del regolamento nelle diverse lettere da a) ad l) siano inestricabilmente intrecciati con le materie di potesta' concorrente (come il coordinamento della finanza pubblica) di cui alla lettera a), o esclusiva delle Regioni (come nel caso delle gestione associata dei servizi locali, oggetto della lettera c) ovvero come nel caso della lettera h) che, nel prevedere come rientrante nella disciplina degli affidamenti intesa come materia «esclusiva» statale, in quanto dettata per finalita' di concorrenza, forme di «ammortamento degli investimenti e una durata degli affidamenti strettamente proporzionale e mai superiore ai tempi di recupero degli investimenti», tocca, in realta', un tema delicatissimo, che riguarda il patrimonio delle reti e degli impianti pubblici e che puo' comportare, se non rispondente alle esigenze, come apprezzate e valutate dalle Amministrazioni proprietarie delle reti e degli impianti, ad un inevitabile depauperamento dei patrimoni comunali.