LA CORTE DEI CONTI 
 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza nel  giudizio  d'appello  in
materia di responsabilita', iscritto al numero 31285 del registro  di
segreteria,  proposto  dal  competente  Procuratore   regionale   nei
confronti della  sentenza  n.  1527/2007  pronunciata  dalla  Sezione
giurisdizionale per il  Lazio,  nella  parte  in  cui  ha  dichiarato
inammissibile la domanda per  il  danno  all'immagine  formulata  nei
confronti del  sig.  G.P.  difeso  e  rappresentato  dall'avv.  Luigi
Medugno; 
    Uditi alla pubblica udienza  del  27  ottobre  2009  il  relatore
consigliere Alberto Avoli,  il  Pubblico  ministero  in  persona  del
V.P.G. Pasquale di Domenico e l'avv. Luigi Medugno,  quale  difensore
del sig. G.P. 
 
                          Premesso in fatto 
 
    Con atto di citazione del 23 gennaio 1997, la  Procura  regionale
per il  Lazio  conveniva  in  giudizio  il  sig.  G.P.  per  sentirlo
condannare al pagamento in favore dell'erario  della  somma  di  lire
32.000.000.000, oltre interessi legali e spese di giustizia, a titolo
di  responsabilita'  amministrativa,  quale  risarcimento  del  danno
erariale cagionato  in  virtu'  del  rapporto  di  servizio  pubblico
correlato  all'esercizio  delle  funzioni  di  Presidente  dell'ANAS,
carica ricoperta in quanto Ministro pro tempore dei  lavori  pubblici
(dal 22 luglio 1989 al 28 giugno 1992). 
    Il    danno    erariale    contestato    (patrimoniale)    veniva
equitativamente quantificato  dall'attore  pubblico  in  ragione  dei
maggiori  costi  sostenuti  dall'Amministrazione  negli  appalti  per
lavori stradali, in conseguenza dell'illegittima e  comunque  abnorme
diffusione del  sistema  delle  trattative  private  in  luogo  delle
licitazioni. 
    Infatti era risultato che «durante la permanenza  in  carica  del
Ministro  P.,  il  Consiglio  di  amministrazione   dell'ANAS   aveva
deliberato 449 affidamenti di lavori a trattativa Privata...  Durante
la gestione  del  (precedente)  Ministro...  l'incidenza  percentuale
degli affidamenti a trattativa privata sul complesso degli appalti si
era attestata al 45%», anziche' al 76% e,  durante  la  gestione  del
Ministro successivo a circa il 21%.». 
    In particolare: «da un  confronto  effettuato...  fra  i  ribassi
ottenuti  sul  prezzo  progettuale  negli  affidamenti  a  trattativa
privata  e  quelli  conseguiti  nelle  aggiudicazioni  a  seguito  di
licitazioni... approvati negli stessi anni in esame, e' emerso che in
media i primo risultano  inferiori  a  volte  in  misura  consistente
rispetto ai secondi...». 
    In sostanza, la Procura, con il richiamato atto di citazione,  ha
contestato al sig.  G.P.,  un  complessivo  abuso  nel  ricorso  alle
trattative private, in luogo delle licitazioni, con implicazioni  sia
nella  illegittimita'  degli  atti  posti  in  essere  e  sia   nella
diseconomicita' dell'azione amministrativa. 
    La procura rappresentava che la medesima vicenda era  oggetto  di
autonomo procedimento penale, a seguito della richiesta di  rinvio  a
giudizio, in data 10 ottobre  1996  della  Procura  dellaRepubblicadi
Roma al Collegio per i reati ministeriali presso il tribunale. 
    Il 9 dicembre 2002 la Procura regionale per il Lazio emetteva  un
secondo  atto  di   citazione,   qualificandolo   «integrativo»   del
precedente. 
    Il requirente contabile evidenziava che  il  Tribunale  di  Roma,
decima  sezione  penale,  con  la  sentenza  n.   12897/2001,   aveva
condannato il sig. G.P. a sei anni e quattro mesi di  reclusione  per
il  reato  di  corruzione  propria  aggravata.  Collegava  quindi  il
diffuso, illegittimo ed antieconomico ricorso alle trattative private
(specificamente contestato nell'atto di citazione originario) con  la
percezione   di   tangenti,   fino   a   ricostruire   in    terrnini
complessivamente  unitari  un  sistema  di  gestione  delle   risorse
pubbliche nel settore degli appalti stradali, di per se'  censurabile
anche a titolo di responsabilita' amministrativa. 
    Nell'atto di citazione integrativo  veniva  rimodulato  l'importo
del  danno  erariale  patrimoniale  (da  32  miliardi   di   lire   a
20.425.000.000),  ancora  facendo  ricorso  al  criterio  equitativo,
assumendo pero'  come  parametro  valorizzativo  di  maggior  rilievo
quello corrispondepte all'importo delle tangenti riscontrate in  sede
penale. 
    Contestualmente -  circostanza  particolarmente  rilevante  nella
presente sede - l'atto di citazione integrativo  contestava  al  sig.
G.P., come ulteriore  e  nuova  voce,  anche  il  danno  all'immagine
dell'amministrazione (per lire 6.808. 000.000), voce  non  ricompresa
nell'atto originario. 
    Con sentenza di prime cure n. 1527/2007, depositata il 17 ottobre
2007,1a Sezione giurisdizionale per il Lazio della Corte dei conti ha
ritenuto il sig. G.P. colpevole del danno patrimoniale per  l'importo
di euro 5.000.000,  mentre  ha  dichiarato  inammissibile  l'atto  di
citazione integrativo per il danno all'immagine. 
    Tale inammissibilita' e' stata ritenuta dal Giudice di prime cure
sulla base della seguente motivazione: «La  contestazione  del  danno
non patrimoniale, introdotta per la prima volta nell'atto integrativo
citazione,  non   puo'   invece   ammettersi,   concretizzando   essa
effettivamente una mutatio  libelli.  Infatti  la  contestazione  del
danno non patrimoniale non costituisce una semplice  articolazione  e
specificazione del prospettato danno  originario,  ma  introduce  una
autonoma   fattispecie   che   richiede   una   indagine   svincolata
dall'accertamento  sulla   fondatezza   della   domanda   principale,
integrando cosi' una mutatio non consentita neanche nel  procedimento
di primo grado.». 
    La  richiamata  sentenza  n.  1527/2007  veniva  appellata  dalla
Procura di questa Corte (fra l'altro) relativamente  alla  menzionata
questione  dell'inammissibilita'   della   domanda   per   il   danno
all'immagine. 
    Il sig. G.P., nei propri atti di giudizio,  si  e'  opposto  alla
tesi della procura appellante ed anzi ha depositato in data 2 ottobre
2009,  con  il  ministero  dell'avv.  Luigi   Medugno,   istanza   di
declaratoria di  «nullita'  dell'atto  processuale  introduttivo  del
giudizio d'appello». 
    L'istanza, fondata sul  «comma  30-ter»  dell'articolo  17  della
legge n. 102/2009, evidenziava che «il sig. G.P. non ha mai riportato
alcuna condanna per le vicende  poste  a  fondamento  dell'azione  di
responsabilita',  ma  e'  stato  anzi  prosciolto  dalle  imputazioni
ascrittegli, perche' «il fatto non sussiste», come  da  sentenza  del
G.U.P. presso il Tribunale di Roma in data 19 giugno 2005». 
    Con sentenza n. 75/10, depositata  il  5  febbraio  2010,  questo
giudice    accoglieva    l'appello    della    procura     affermando
l'ammissibilita' della domanda per il danno all'immagine. 
    Cio'  sull'accertato  presupposto   che   l'atto   di   citazione
integrativo era  effettivamente  stato  preceduto  da  uno  specifico
invito  a  dedurre  e  che  pertanto  la  contestazione   del   danno
all'immagine doveva prefigurarsi non come una mutatio libelli, bensi'
come una nuova ed autonoma domanda. 
    Relativamente invece  all'istanza  di  declaratoria  di  nullita'
proposta dal sig. G.P.,  questo  medesimo  giudice  pronunciava  come
segue. 
    «All'accoglimento dell'appello segue la  riforma  della  sentenza
impugnata nella parte in cui ha dichiarato  l'inammissibilita'  della
domanda per danno non patrimoniale, contenuta come  voce  autonoma  e
nuova nell'atto  di  citazione  integrativo.  La  positiva  pronuncia
sull'ammissibilita'  della  citazione  per  il   danno   all'immagine
dovrebbe costituire il presupposto per il rinvio di merito al giudice
di primo grado, cosi' nuovamente adito.» 
    «Tuttavia la  remissione  a  tale  giudice  deve  necessariamente
tenere conto del disposto di cui al "comma 30-ter"  dell'articolo  17
della legge  n.  102/1999,  cosi'  come  modificato  dalla  legge  n.
141/2009 nella parte in cui prescrive che il danno all'immagine possa
essere perseguito a titolo di responsabilita' amministrativa, solo se
ed in quanto intervenuta una sentenza penale di condanna  passata  in
giudicato». 
    «Si pone al riguardo innanzi tutto una  questione:  se  cioe'  la
norma sia suscettibile di  applicazione  in  questa  sede  d'appello,
ovvero non lo sia, a cagione dell'interposizione  della  sentenza  di
prime Cure, appellata». 
    «La sezione  ritiene  di  dover  dare  al  quesito  una  risposta
affermativa, in quanto la  sentenza  di  prime  cure  ha  pronunciato
l'inammissibilita' della citazione sul punto del  danno  all'immagine
senza entrare nel merito.» 
    «Il principio al quale il Collegio intende  ancorare  il  proprio
convincimento decisorio e'  pertanto  il  seguente:  la  sentenza  di
inammissibilita' dell'atto di citazione pronunciata  in  primo  grado
non  concretizza  la  preclusione  stabilita   dal   "comma   30-ter"
dell'articolo 17 della legge  n.  103/2009,  consentendo  al  Giudice
d'appello la cognizione  sull'eccezione  di  nullita'  della  domanda
(formulata per contestazione del danno all'immagine senza  l'avvenuta
formazione  di  previo   giudicato   penale;   e,   conseguentemente,
sull'eccezione di nullita' dell'appello.» 
    «Potendo (e dovendo) valutare l'eccezione di  nullita'  sollevata
dalla difesa del sig. G.P. con la menzionata memoria  del  2  ottobre
2009, e occorrendo in cio' l'applicazione della norma  in  questione,
questo  giudice  non  puo'  non  coglierne   profili   di   possibile
incostituzionalita' rilevanti in questa sede». 
    Pertanto, relativamente  al  danno  all'immagine,  la  richiamata
sentenza n.  75/2010  (dopo  aver  accolto  l'appello  della  procura
dichiarando  ammissibile  l'atto  di  citazione  integrativo  del   9
dicembre 2002 nella  parte  del  danno  non  patrimoniale),  anziche'
disporre il rinvio, ha previsto che separata ordinanza sia  sollevata
questione  di  legittimita'  costituzionale  del  comma  30-ter   con
riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 97 della Carta. 
    Per doverosa completezza  nella  descrizione  del  fatto  occorre
sinteticamente  ripercorrere  i  principali  passaggi   dell'autonomo
processo penale sviluppatosi per la medesima vicenda. 
    Il procedimento penale  aveva  preso  corpo  dalla  richiesta  di
rinvio a giudizio inoltrata in data 10  ottobre  1996  dalla  procura
della Repubblica di Roma al Collegio per i reati ministeriali  presso
il tribunale. 
    La decima sezione penale di detto tribunale,  con  la  menzionata
sentenza n. 12807/2001, ha condannato il  sig.  G.P.  per  corruzione
propria aggravata. 
    La Corte d'appello di Roma annullava pero' la sentenza penale  di
condanna in primo grado. 
    Cio' in applicazione dei principi contenuti nella sentenza  della
Corte costituzionale n. 134 del 2002, in quanto il decreto che  aveva
disposto il giudizio era affetto da nullita',  essendo  stato  emesso
dal Collegio per i reati ministeriali in luogo del G.U.P. ordinario. 
    Gli atti del processo venivano  dunque  trasmessi  al  competente
pubblico ministero. 
    Insorgeva a quel punto  il  problema  dell'utilizzabilita'  delle
prove acquisite durante l'istruttoria che ha portato alla sentenza di
condanna in primo grado del Tribunale penale di Roma. 
    Infatti, nelle more, era sopraggiunto l'articolo 26  della  legge
n. 63/2001 che prescriveva (novellando l'articolo 64  del  codice  di
procedura) una serie di avvisi  ed  un  regime  di  inutilizzabilita'
degli atti in caso di loro mancanza. 
    Le  dichiarazioni  rese  dall'imputato   erano   cosi'   divenute
inutilizzabili contra se,  in  mancanza  degli  avvisi  di  cui  alle
lettere a) e b) e inutilizzabili  contra  alios,  con  riguardo  agli
avvisi di cui alla lettera c). 
    Ovviamente tutti i verbali di interrogatorio  utilizzati  per  la
sentenza di condanna  mancavano  di  tali  inviti,  non  previsti  al
momento della loro formazione. 
    Pertanto, preso atto dell'inutilizzabilita'  degli  interrogatori
nella nuova fase processuale, il pubblico  ministero  ha  tentato  di
rinnovarli secondo le novelle prescrizioni. A tal  fine  ha  invitato
tutti coloro che avrebbe avuto interesse  ad  interrogare,  affinche'
chiarissero se fossero disponibili o meno a rendere  l'interrogatorio
richiesto. Tutti  hanno  comunicato  la  propria  indisponibilita'  a
rendere dichiarazioni, anticipando di volersi avvalere della facolta'
di non rispondere. 
    Il Giudice per  l'udienza  preliminare  presso  il  Tribunale  di
Roma,con sentenza n. 2257/2005  assolveva  il  sig.  G.P.  dai  reati
ascrittigli «perche' fatto non sussiste». 
    Dunque tale assoluzione non e' stata pronunciata a seguito di  un
sostanziale riesame di merito, ovvero per vizi propri della  sentenza
di primo grado. Ad essa invece si  e'  pervenuti  per  la  dichiarata
incompetenza  funzionale  del  Collegio  per  i  reati   ministeriali
(accertata dalla Corte d'appello applicando i principi  resi  da  una
sentenza della Corte  costituzionale  nelle  more  intervenuta)  e  a
seguito dell'approvazione legislativa di una nuova norma di garanzia,
incidente  anche  sul  valore  probatorio  delle  dichiarazioni  gia'
correttamente rese. 
    In  conclusione,  ai  fini  rilevanti  nella  presente  sede,  si
ribadisce che: a) il danno all'immagine  e'  stato  contestato  dalla
Procura regionale con l'atto di  citazione  integrativo,  quale  voce
autonoma ed ulteriore rispetto al danno patrimoniale;  b)  l'atto  di
citazione  integrativo,  contenente  la   contestazione   del   danno
all'immagine, e' stato emesso il 9 dicembre 2002, allorche'  in  sede
penale era intervenuta la sentenza di condanna in  primo  grado  (non
passata in giudicato ed anzi annullata dalla Corte d'Appello); c)  la
sentenza di primo grado di  inammissibilita'  della  domanda  per  il
danno all'immagine e' intervenuta nel 2007, in epoca successiva  alla
definitiva sentenza  assolutoria  per  insussistenza  del  fatto  (ma
l'inammissibilita' non era basata sulla sentenza assolutoria,  bensi'
sull'asserita  mutatio  libelli);  d)   la   ricordata   istanza   di
declaratoria di nullita' degli atti ai sensi della legge n.  102/2009
e modifiche e' stata presentata il 2  ottobre  2009  con  riferimento
alla   eccepita   sopravvenuta   nullita'   dell'atto    introduttivo
dell'appello per il danno all'immagine, in assenza di condanna penale
passata in giudicato. 
    Considerato quanto segue in punto di rilevanza della questione. 
    Le disposizioni che assumono rilevanza sono quelle contenute  nel
comma 30-ter dell'articolo n. 17 del decreto-legge 10 luglio 2009, n.
78, convertito con modificazioni nella legge 3 agosto 2009,  n.  102,
come  a  sua  volta  modificata  dal  comma  3  dell'articolo  1  del
decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, convertito nella legge 3 ottobre
2009, n. 141. 
    Tate complesso  normativo,  oggetto  del  presente  sindacato  di
costituzionalita',  recita  quanto  segue  per  quanto  riguarda   la
disciplina del danno all'immagine: «Le procure della Corte dei  conti
esercitano l'azione per il risarcimento del danno  all'immagine  solo
nei casi e nei modi previsti dall'articolo 7  della  legge  27  marzo
2001,  n.  97:  a  tale  ultimo  fine,  il  decorso  del  termine  di
prescrizione di cui al comma 2 dell'articolo 1 della legge 14 gennaio
1994, n. 20 e' sospeso sino alla conclusione del procedimento penale»
(testo del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 convertito nella legge
n. 141/2009). Qualunque  atto  istruttorio  o  processuale  posto  in
essere in violazione delle disposizioni di  cui  al  presente  comma,
salvo che sia stata gia' pronunciata sentenza  anche  non  definitiva
alla data di  entrata  in  vigore  della  legge  di  conversione  del
presente decreto, e' nullo e la relativa nullita' puo'  essere  fatta
valere in ogni momento da chiunque vi abbia interesse,  innanzi  alla
competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che  decide
nel  termine  perentorio  di  trenta  giorni   dal   deposito   della
richiesta.»  (testo  della  legge  n.  102/2009  di  conversione  del
decreto-legge n. 78/2009). 
    Al fine di una migliore comprensione della novella va  detto  che
il richiamato articolo 7 della legge 27 marzo  2001,  n.  97  prevede
l'obbligo di comunicazione alla Procura  regionale  della  Corte  dei
conti delle  sentenze  irrevocabili  pronunciate  nei  confronti  dei
dipendenti  indicati  nel  precedente  articolo  3,  (dipendenti   di
amministrazioni o di enti  pubblici,  ovvero  di  enti  a  prevalente
partecipazione  pubblica)  per   i   delitti   contro   la   pubblica
amministrazione previsti nel capo primo del titolo secondo del  libro
secondo del codice penale,  affinche'  venga  promosso  entro  trenta
giorni  «l'eventuale  procedimento  di  responsabilita'   per   danno
erariale  nei  confronti  del  condannato»  con  salvezza  di  quanto
disposto  dall'articolo   129   delle   norme   di   attuazione,   di
coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate
con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271. 
    Quest'ultima disposizione a sua volta pone a carico del  pubblico
ministero penale specifici obblighi  notiziali  nei  confronti  delle
procure regionali della Corte dei  conti,  allorche'  venga  esercita
l'azione penale per reati che abbiano in ipotesi cagionato  un  danno
erariale, ovvero quando siano  stati  disposti  l'arresto  ovvero  la
custodia cautelare. 
    Risulta di facile percezione la portata profondamente  innovativa
della nuova norma in punto di perseguibilita' del danno  all'immagine
dell'amministrazione  a  titolo  di  responsabilita'   amministrativa
davanti la Corte dei conti, nel  senso  che  l'azione  relativa  puo'
essere esercitata:  a)  solo  dopo  che  sia  stata  pronunciata  una
sentenza irrevocabile di condanna; b)solo in concorrenza con i  reati
previsti nel libro secondo, titolo secondo,  capo  primo  del  codice
penale («Dei  delitti  dei  pubblici  ufficiali  contro  la  pubblica
amministrazione»). 
    In precedenza,, infatti, le Procure regionali potevano contestare
il danno all'immagine in via del tutto autonoma indipendentemente dal
fatto che sulla medesima vicenda si fosse instaurato un  procedimento
penale e, ove attivatosi dal suo esito. 
    In altre parole il danno all'immagine  poteva  essere  contestato
anche senza alcun collegamento con concorrenti fattispecie  penali  e
senza il presupposto di condanne passate in giudicato. 
    Le nuove norme - al di la'  della  loro  collocazione  in  ambito
processuale - hanno  limitato  fortemente  il  potere  delle  Procure
regionali di contestazione del danno  all'immagine  e,  di  riflesso,
hanno ristretto in misura sostanziale perimetro della responsabilita'
amministrativa e della giurisdizione contabile, della quale la  Corte
dei conti e' giudice naturale ed esclusivo. 
    Da  tutto  cio'  si  desume  la  rilevanza  della  questione   di
costituzionalita' ai fini della  decisione  del  giudizio  in  esame,
incentrato sulla contestazione del danno all'immagine al  sig.  G.P.,
amministratore al vertice dell'ANAS, non  condannato  penalmente  con
sentenza passata in giudicato. 
    Nel previgente  regime  normativo,  non  si  sarebbero  frapposti
particolari ostacoli per la chiamata in giudizio a tale titolo. 
    Con  la  nuova  disciplina   l'azione   di   responsabilita'   e'
evidentemente ostacolata, mancando la  sentenza  penale  di  condanna
passata in giudicato, come rilevato nella formale istanza di nullita'
del sig Giovanni Prandini. 
    Si ribadisce pertanto che, con la ricordata sentenza  n.  71/2010
questo giudice, pronunciata  la  definitiva  condanna  per  il  danno
patrimoniale: a) riteneva ammissibile la domanda per la condanna  del
danno all'immagine contenuta nell'atto di citazione  integrativo  del
competente Procuratore regionale; b) riteneva  parimenti  ammissibile
l'istanza del sig. P.  per  la  declaratoria  di  nullita'  dell'atto
introduttivo dell'appello, declaratoria fondata sul richiamato  comma
30-ter (sul presupposto che la sentenza di prime  cure  in  punto  di
danno all'immagine non  aveva  reso  una  pronuncia  di  merito);  c)
estendeva  la  portata  sostanziale  dell'istanza   non   solo   alla
declaratoria della nullita' dell'atto introduttivo  dell'appello,  ma
anche  a  tutti  gli  atti  prodromici  e  presupposti,  compreso  la
citazione integrativa (solo per la parte del danno all'immagine);  d)
decideva  di  sollevare,  con  separata   ordinanza,   questione   di
legittimita' costituzionale del comma 30-ter,  con  riferimento  agli
articoli  3,  24,  25  e  97,  apparendo  preclusivo  ai  fini  della
remissione degli atti al giudice di prima istanza la valutazione  sui
dubbi  di  costituzionalita',  rilevati  prospettati,  dubbi  che  si
profilano nella loro attualita'  e  concretezza  anche  per  evidenti
ragioni di economia processuale. 
    In buona  sostanza,  per  quanto  evidenziato,  la  questione  di
costituzionalita' risulta  rilevante,  poiche'  dalla  sua  soluzione
potrebbe derivare (o non derivare) la nullita' di tutti gli  atti  di
causa attinenti al danno all'immagine e, quindi, nella presente  sede
condizionare la remissione al giudice di primo grado. 
    Considerato  altresi'  sulla  non  manifesta  infondatezza  della
questione. 
    Il  collegio  e'  chiamato  a  deliberare  sulla  non   manifesta
infondatezza  della  questione  di  costituzionalita'  della  novella
normativa come sopra individuata. 
    Va preliminarmente precisato che  i  dubbi  di  costituzionalita'
vengono   sollevati   d'ufficio,   tenuto   comunque   conto    della
sollecitazione espressamente formulata dal  sig.  G.P.  con  la  piu'
volte richiamata istanza del 2 ottobre 2009 e della posizione assunta
in dibattimento dalla  Procura  generale,  che  si  e'  rimessa  alle
valutazioni del collegio. 
    Da un approfondito esame del  tenore  normativo,  emerge  che  il
comma 30-ter puo' prefigurare due  distinte  opzioni  interpretative,
fra loro alternative. 
    Il criterio di interpretazione assunto  dal  collegio  ha  dovuto
necessariamente  privilegiare  il   parametro   letterale:   infatti,
malgrado gli importanti e rilevantissimi effetti  delle  nuove  norme
sulla disciplina  del  danno  all'immagine  e  della  responsabilita'
amministrativa, non sono rinvenibili  nei  lavori  parlamentari  atti
utili alla individuazione delle finalita' perseguite e delle  ragioni
delle scelte legislative. 
    Secondo  la  prima  interpretazione,  le  introdotte  norme,  nel
limitare il potere  d'azione  del  procuratore  regionale  contabile,
avrebbero ridotto l'area di prefigurabilita' del danno all'immagine. 
    Tale  danno  si  attualizzerebbe  cosi'  solo  in  presenza   dei
presupposti  piu'  volte  rimarcati  (sentenza  penale  di   condanna
definitiva, reati qualificati come  delitti  dei  pubblici  ufficiali
contro la pubblica amministrazione). 
    Al di fuori di questo ambito limitativo, non potrebbe ipotizzarsi
danno  all'immagine  per  l'amministrazione,  danno  che  quindi  non
andrebbe perseguito ne' davanti alla Corte dei conti  con  il  regime
della  responsabilita'  amministrativa,  ne'   davanti   al   Giudice
ordinario a titolo di responsabilita' civile. 
    In base alla seconda  interpretazione,  invece,  le  nuove  norme
avrebbero lasciato intatto  lo  spazio  del  danno  all'immagine,  ma
avrebbero ripartito la sua perseguibilita' fra la Corte dei  conti  e
il Giudice ordinario. 
    La tutela del  danno  all'immagine  seguirebbe  il  criterio  del
doppio  binario:  davanti  alla  Corte  dei  conti,   a   titolo   di
responsabilita' amministrativa, qualora ricorrano i  presupposti  del
comma «30-ter», davanti  al  Giudice  ordinario  per  responsabilita'
civile in tutti gli altri casi. 
    Entrambe le possibilita' interpretative, peraltro,  non  sembrano
costituzionalmente conformi ed orientate. 
    In particolare, in  tutte  e  due  le  ipotesi  si  prefigura  la
violazione dei principi di ragionevolezza ed  uguaglianza  (art.  3),
nonche' del buon andamento (art. 97). 
    La prima interpretazione  appare  inoltre  in  conflitto  con  il
principio di tutelabilita' necessaria dei  diritti  (art.  24)  e  la
seconda con quello del giudice naturale (art. 25). 
    Relativamente al principio di ragionevolezza ed  eguaglianza,  va
detto che il suo vulnus deve essere prospettato con valenza autonoma,
sia valorizzandone la trasversalita' rispetto  alle  altre  aree  del
buon andamento della tutela dei diritti e del giudice naturale. 
    I dubbi di conformita' costituzionale appaiono non di poco  conto
e, per le motivazioni di seguito esposte, non si palesano, ad  avviso
di questo remittente, manifestamente infondate. 
 
                         Ritenuto nel merito 
 
    Tutto cio' premesso, si rileva nel merito quanto segue. 
    Si ritiene di dover illustrare innanzi tutto il convincimento  di
questo  giudice  per  quanto  attiene  al  ritenuto   contrasto   con
l'articolo 97, primo comma. 
    Il costituente ha dimostrato una meritoria saggezza nel prevedere
che  i  pubblici   uffici   debbano   essere   «organizzati   secondo
disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento
e l'imparzialita'.» (primo comma dell'art. 97). 
    Pertanto    appare    costituzionalmente    indispensabile    che
l'ordinamento giuridico sia coerente con  i  ricordati  principi  di,
buon andamento e  di  imparzialita',  fra  i  quali  trovano  spazio,
l'efficacia, l'efficienza, l'economicita' e la legalita'. 
    Concretizza un  principio  generale  quello  della  tutelabilita'
dell'immagine di tutte le persone, sia fisiche che  giuridiche.  Tale
principio non soffre eccezioni neppure nel  contesto  della  pubblica
amministrazione. 
    Ne    consegne    che    il    danno    erariale     all'immagine
dell'amministrazione esprime la  lesione  portata  alla  credibilita'
esterna di quest'ultima e la perdita di fidacia nei  confronti  della
correttezza delle gestioni pubbliche. 
    E,  sotto  diversa  ottica,  l'ordinamento   deve   favorire   la
percezione da parte del cittadino della  correttezza  delle  gestioni
pubbliche e  contestualmente  deve  contrastare  tutte  le  eventuali
deviazioni, non solo nella loro dimensione sostanziale, ma anche  con
riguardo alla perdita di fiducia che tali  deviazioni  finiscono  per
comportare, soprattutto quando palesi, gravi e reiterate. 
    L'immagine dell'amministrazione viene danneggiata ogni  qualvolta
esternalizzi una dissonanza della gestione  amministrativa  pubblica,
rispetto ai principi di buon andamento e imparzialita'. 
    In conclusione, se l'immagine della pubblica  amministrazione  si
immedesima   con   il   buon   andamento   e   con    l'imparzialita'
costituzionalmente protetti se l'immagine rappresenta  uno  strumento
per la percezione esterna della correttezza della gestione  (gestione
che, come e' noto, si avvale in larga misura di  risorse  provenienti
dal sacrificio fiscale dei cittadini  contribuenti),  allora  non  e'
possibile negare al danno all'immagine la connotazione di  indicatore
della  lesione  eventualmente  apportata  e  contemporaneamente,   di
parametro per il suo ripristino. 
    Il danno erariale all'immagine non e'  pero'  solo  indicatore  e
misura; esso materializza in se' la valenza lesiva del bene protetto,
quale conseguenza diretta comportamento  degli  agenti  pubblici,  in
violazione dei loro obblighi di servizio. 
    In  ogni  caso  il  rilevantissimo  depotenziamento   del   danno
all'immagine - dando  spazio  a  comportamenti  gestori  pubblici  in
violazione  del  buon  andamento  e  dell'imparzialita'  -  erode  la
funzione deterrente  propria  della  responsabilita'  amministrativa,
funzione volta ad incentivare i comportamenti virtuosi del  personale
pubblico e, per converso, contrastare quelli non  in  linea  con  gli
interessi generali e con il  migliore  esercizio  delle  funzioni  di
servizio ai cittadini. 
    Ulteriori perplessita' di conformita' costituzionale emergono dal
rilevato   possibile   contrasto   anche   con   il   principio    di
ragionevolezza, nel quale sarebbe incorso il legislatore che:  a)  ha
collegato irragionevolmente l'attualizzazione del danno  all'immagine
alla commissione di reati penali, accertati con sentenza in giudicato
(cosi' lasciando non  perseguite,  moltissime  fattispecie  di  danno
all'immagine); b) ha vincolato il danno all'immagine alla  violazione
di alcune norme penali, anziche' rapportarlo  alla  violazione  degli
obblighi di servizio, stravolgendo in questo  modo  la  coerenza  del
sistema della responsabilita' amministrativa, quale  disegnato  dalle
leggi nn. 19 e 20 del 1994 e successive. 
    L'esperienza giurisprudenziale  di  gesti  ultimi  anni  dimostra
l'assunto di questo remittente. 
    L'insegnarne che  compie  molestie  sessuali  sulle  allieve;  il
medico  di  base  che  prescrive  cure  per  telefono  senza   visite
domiciliari necessarie; l'agente  di  polizia  che  rapina  banche  e
uffici postali al termine del turno di lavoro; il  dirigente  tecnico
che per negligenza, imperizia o  dolo  ritarda  la  realizzazione  di
un'opera pubblica, l'ufficiale della  Guardia  di  finanza  che,  nel
corso di verifiche fiscali, omette la regolare redazione  di  verbali
di contestazione; il dirigente che  esercita  sui  dipendenti  azioni
mobizzanti: ecco alcuni esempi di evidenti comportamenti  lesivi  che
hanno    prodotto    un    deterioramento    dell'immagine    esterna
dell'amministrazione,  a  prescindere  dalla  (del  tutto)  eventuale
commissione di illeciti penali e,  comunque,  del  loro  accertamento
penale. 
    Il legislatore, nel limitare il potere di azione  delle  Procure,
ha  spostato  il  presupposto   dell'addebito   di   responsabilita',
portandolo  irragionevolmente  dalla  violazione  degli  obblighi  di
servizio alla violazione delle particolari norme penali contenute  in
una determinata parte del codice penale. 
    E' ovvio che, il quando il pubblico agente  commette  un  delitto
contro la pubblica amministrazione, si pone in  contrasto  anche  con
gli obblighi di servizio. 
    Cio' non  toglie  che  l'immagine  possa  essere  lesa  anche  da
violazioni di obblighi di servizio che prescindano dalla  commissione
delle fattispecie delittuose individuate dalla novella legislativa ed
anzi che prescindano dal collegamento con il penale. 
    In ogni caso appare  irragionevole  l'immedesimazione  del  danno
all'immagine solo con determinati reati. 
    Infatti, pur volendo in linea puramente  ipotetica  ammettere  la
collegabilita' del danno erariale all'immagine con la commissione  di
un reato, non e' ragionevolmente comprensibile la limitazione ai soli
delitti inclusi nel codice penale fra quelli dei  pubblici  ufficiali
contro la pubblica amministrazione. 
    Rimangono  incomprensibilmente  esclusi,  ad  esempio,  i   reati
previsti nel codice penale militare. 
    E' parimenti difficile individuare il  parametro  utilizzato  dal
legislatore. 
    Infatti  esso  non  puo'   essere   individuato   neppure   nella
«gravita'», posto che alcune  ipotesi  delittuose  rilevanti  trovano
collocazione al di fuori dei delitti dei pubblici ufficiali contro la
pubblica amministrazione. 
    In ogni caso lo stesso legislatore,  successivamente  all'entrata
in vigore del comma  «30-ter»,  e'  tornato  sul  danno  all'immagine
introducendo una fattispecie svincolata dal penale. 
    Infatti  ai  sensi   del   decreto   legislativo   n.   150/2009,
all'articolo 55-quinquies: «Il lavoratore... ferme la responsabilita'
penale  e  disciplinare  e  le  relative  sanzioni,  e'  obbligato  a
risarcire il danno  patrimoniale,  pari  al  compenso  corrisposto  a
titolo di retribuzione nei periodi  per  i  quali  sia  accertata  la
mancata   prestazione,   nonche'   il   danno   all'immagine   subiti
dall'amministrazione». 
    Correttamente, questa  norma  ha  incentrato  l'attenzione  sulla
violazione  degli   obblighi   di   servizio,   quale   fonte   della
responsabilita' amministrativa  per  danno  erariale  all'immagine  e
sulla piena autonomia dell'azione contabile rispetto a quella  penale
ovvero ordinaria civile. 
    Per concludere,  va  posta  in  evidenza  l'emblematicita'  della
posizione del sig. G.P., che, come gia' ricordato, nella qualita'  di
amministratore al vertice di Azienda pubbilca, e' stato coinvolto per
i medesimi in due procedimenti, uno penale ed uno contabile. 
    Il giudice penale dopo la condanna in primo grado per  corruzione
aggravata, ha pronunciato l'assoluzione per insussistenza del  fatto,
in ragione della inutilizzabilita'  sopravvenuta  degli  elementi  di
prova,  che,  invece,  questo  giudice  ha  ritenuto  nella   propria
autonomia di poter valorizzare al fine di pervenire  alla  formazione
del proprio convincimento decisorio. 
    Il giudice  contabile  ha  centralizzato  la  propria  attenzione
proprio sulla violazione degli obblighi di servizio commessi dal sig.
G.P., il che ha consentito di pervenire alla condanna definitiva  per
il danno patrimoniale (danno conseguente ad indebita, diseconomica ed
abnorme diffusione negli appalti pubblici delle trattative private in
luogo  delle  licitazioni,   in   violazione   delle   regole   della
concorrenza, quale strumento  procedurale  comprovatamente  idoneo  a
favorire un sistema tangentizio e di utilita' personali). 
    E' evidente  in  fattispepie  la  prefigurabilita'  di  un  danno
erariale, all'immagine. Cio' per la possibile perdita di credibilita'
esterna dell'amministrazione, sia  nell'ambito  degli  operatori  del
settore (in rapporto  ad  esempio  al  venir  meno  dei  principi  di
concorrenza  e  impaparzialita')  sia  in  quello  piu'  ampio  della
comunita' indistinta dei cittadini. 
    Si corre il rischio che l'impunita' per il danno all'immagine nel
caso che ci occupa possa rafforzare il convincimento diffuso  secondo
il quale solo con raccomandazioni, clientele e dazioni finanziarie e'
possibile raggiungere qualche positivo risultato nei rapporti con  la
pubblica amministrazione. 
    Ritenuto inoltre con riguardo  alla  non  conformita'  del  comma
30-ter rispetto al primo comma dell'articolo 25 della Costituzione. 
    La Costituzione, nell'affermare il  principio  per  cui  «nessuno
puo' essere distolto dal giudice naturale precostituito  per  legge»,
ha posto un paletto preciso al legislatore: la  precostituzione  deve
essere individuata preventivamente attraverso una  norma  espressa  e
deve avvenire nel rispetto della ragionevolezza e dell'uguaglianza. 
    Il comma 30-ter potrebbe porsi in contrasto  con  tali  principi,
ove dovesse  accedersi  all'interpretazione  del  doppio  binario  di
tutela (davanti  alla  Corte  dei  conti  per  le  ipotesi  di  danno
all'immagine previste davanti  al  giudice  ordinario  per  tutte  le
altre). 
    In concreto si andrebbe ad introdurre nel vigente ordinamento una
situazione «anomala» di questo tipo: gli agenti  pubblici  che  hanno
cagionato un danno  all'immagine  dell'amministrazione  al  di  fuori
delle ipotesi previste dalla norma in scrutinio verrebbero chiamati a
risponderne davanti al giudice ordinario, anziche' a quello  naturale
(Corte dei conti). 
    Con la conseguenza non di poco  conto  che  gli  agenti  pubblici
eventualmente chiamati davanti al giudice ordinario uscirebbero dalle
regole della responsabilita' amministrativa  per  entrare  in  quelle
civili  ordinarie.  Ed  e'  noto  che  i  due  regimi  processuali  e
sostanziali presentano differenze essenziali, fra l'altro  anche  per
la disciplina di garanzia degli agenti medesimi. 
    Orbene, ad avviso del  remittente,  si  concretizza  un  evidente
vulnus del principio del giudice naturale allorche'  si  distolga  un
pubblico  agente   dalle   regole   proprie   della   responsabilita'
amministrativa davanti la Corte dei conti, regole che non possono non
applicarsi a tutte le fattispecie in cui si e' attualizzato un  danno
erariale. 
    E' indubbio che compete al legislatore l'individuazione (rectius:
la preindividuazione) del giudice naturale. 
    Tale preindividuazione deve pero' essere espressa, coerente,  non
irragionevole, rispettosa del  principio  di  uguaglianza,  anche  in
ragione delle ricordate differenze procedurali e sostanziali. 
    Il comma 30-ter invece, rompendo irragionevolmente  l'unitarieta'
e la coerenza del sistema, ha creato «artificialmente»  due  distinte
aree di danno all'immagine:  la  prima  tutelata  e  la  seconda  non
tutelata (o, quanto meno,  assoggettata  ad  un  giudice  diverso  da
quello naturale, con applicazione di regole processuali e sostanziali
ben differenti). 
    Ovviamente la questione della sottrazione  dal  giudice  naturale
acquista  rilevanza  non  solo  nell'ottica   del   pubblico   agente
destinatario di una chiamata in giudizio a titolo di  responsabilita'
amministrativa, ma anche della stessa amministrazione che  ha  subito
il danno erariale. 
    Cio' in quanto ad avviso del remittente,  i  principi  posti  dal
primo comma dell'articolo 25 della Costituzione rilevano per tutte le
parti coinvolte nella giurisdizione, quale che ne  sia  la  posizione
legittimante. 
    Dunque  il  comma  30-ter   sembra   collidere   con   la   Carta
costituzionale anche sotto tale ulteriore profilo. 
    Ritenuto altresi' attiene al primo comma dell'articolo 24. 
    Il primo comma dell'articolo 24 pone  il  principio  generale  in
base al quale «tutti possono agire in  giudizio  per  la  tutela  dei
propri diritti ed interessi legittimi». 
    Non vi e' dubbio che l'amministrazione pubblica sia titolare  del
diritto  costituzionalmente  garantito  alla  tutela  della   propria
immagine, diritto che trova il proprio  riferimento  nell'articolo  2
della Carta. 
    La  suprema  Corte  di  cassazione,   dopo   un   lungo   cammino
giurisprudenziale, ha oramai consolidato in materia  alcuni  principi
fondamentali: a) le persone giuridiche debbono disporre di una  piena
tutela per  le  lesioni  portate  alla  loro  immagine,  intesa  come
considerazione e credibilita' esterne; b) non sussistono ragioni  per
differenziare  la  pubblica  amministrazione  dalle   altre   persone
giuridiche; c) il danno eraraiale all'immagine si prefigura  come  un
danno-conseguenza e non gia' come danno-evento. 
    Questo remittente, nel fare propri tali  autorevoli  insegnamenti
(con  particolare   riferimento   alla   qualificazione   del   danno
all'immagine come danno-conseguenza), osserva quanto segue. 
    In linea di principio non puo'  escludersi  che  da  una  lesione
all'immagine dell'amministrazione possano derivare due  tipologie  di
danno, l'una patrimoniale in senso stretto e  l'altra  corrispondente
alla perdita di prestigio e di considerazione. 
    Cio' accade, ad esempio allorche' l'amministrazione abbia  dovuto
impegnare delle risorse per contrastare il  danno  subito  attraverso
una campagna di comunicazione appositamente orientata. 
    In tale evenienza risulta attualizzato sia il danno  patrimoniale
vero e proprio (corrispondente alle risorse impegnate per contrastare
la  lesione),  alla  perdita  di  credibilita'  e  di  considerazione
dell'amministrazione e quindi dell'azione pubblica). 
    L'attualizzazione del danno  erariale  all'immagine  deve  essere
individuata  nel  clamor  fori  e,  cioe',  nel  momento  in  cui  il
comportamento lesivo dell'agente pubblico (doloso, ovvero  gravemente
colposo) si sia esternalizzato, cagionando effettivamente una perdita
di considerazione e di credibilita' dell'amministrazione (disdoro). 
    Ovviamente in sede di giudizio  di  responsabilita'  deve  essere
provata la effettiva valenza lesiva del comportamento esternalizzato. 
    E' comunque certo il diritto dell'amministrazione ad  una  tutela
completa ed efficace nei confronti del  danno  erariale  all'immagine
eventualmente subito a causa dei propri agenti. 
    Questo giudice ritiene quindi di poter  affermare  che  il  danno
all'immagine dell'amministrazione: a) ha copertura costituzionale  in
quanto lede un bene rientrante fra quelli garantiti dall'art. 2 della
Costituzione; b) puo' attualizzarsi anche nei confronti delle persone
giuridiche e degli enti collettivi; c) non necessita di  tipizzazione
normativa   ordinaria,   in   ragione   della   ricordata   copertura
costituzionale; d) si qualifica come danno-conseguenza, nel senso che
presuppone  una  effettiva   e   comprovata   lesione   del   diritto
all'immagine;  e)  nell'ambito   del   regime della   responsabilita'
amministrativa, assume rilevanza risarcitoria (ovvero di ristoro) nel
momento dell'esternalizzazione  della  violazione  degli  obbighi  di
servizio; f) non scaturisce da qualsiasi violazione degli obblighi di
servizio,  ma  unicamente  da  quelli  con   capacita'   lesiva   per
l'immagine,   consistente   nella   perdita   di   considerazione   e
credibilita' fra i cittadini in genere o fra quanti piu' direttamente
interessati al settore della gestione coinvolto; g)  puo'  coesistere
con il  danno  patrimoniale  proprio,  quale  ulteriore  ed  autonoma
conseguenza della violazione degli obblighi di servizio. 
    Peraltro il rilievo di incostituzionalita' del comma 30-ter  deve
essere prospettato anche sotto un diverso aspetto. 
    Infatti e' stato previsto che, allorche'  il  danno  all'immagine
sia conseguente ad uno dei  delitti  propri  dei  pubblici  ufficiali
contro la pubblica amministrazione, l'azione possa  essere  intentata
dal procuratore regionale solo dopo intervenuta la sentenza penale di
condanna. 
    Orbene per quanto in precedenza detto, tale collegamento  fra  la
violazione criminale e quella contabile  collide  (oltre  che  con  i
principi di ragionevolezza e di uguaglianza) anche e soprattutto  con
l'articolo 24 che  assicura  l'effettiva  tutelabilita'  di  tutti  i
diritti e in fattispecie di quello alla tutela dell'immagine in tutte
le circostanze nelle quali si sia manifestato. 
    Si ribadisce infatti che il  danno  all'immagine  non  scaturisce
necessariamente dalla violazione di una norma penale (e tanto memo da
norme penali indicate con richiamo  tassativo),  bensi'  dal  mancato
rispetto degli obblighi di servizio a valenza lesiva. 
    Ritenuto infine con riguardo al primo comma dell'articolo 3. 
    Il comma  30-ter  ingenera  altresi'  seri  dubbi  circa  la  sua
coerenza con il principio di eguaglianza, violazione che si  atteggia
come vizio sia proprio che trasversale, con  particolare  riferimento
agli articoli 24 e 25 (diritto alla tutela ed al giudice naturale). 
    Premesso  che  il  principio  di  uguaglianza   garantito   dalla
Costituzione non impone  l'omogeneizzazione  di  tutte  le  posizioni
protette, ne' e' contraddetto dal  pluralismo  insito  nel  dinamismo
della realta' fattuale  e  giuridica,  nel  caso  di  specie,  appare
vulnerato dalla norma novellata che ha regolato situazioni simili  in
modo irragionevolmente diverso. In questo ambito si  puo'  ipotizzare
un suo contrasto sia con il principio  di  uguaglianza  che  con  gli
altri richiamati fondamentali valori costituzionali. 
    Questo giudice ha rilevato i seguenti cinque profili di possibile
contrasto del comma 30-ter con il principio di uguaglianza. 
    Il  primo  riguarda  la   creazione   in   capo   alla   pubblica
amministrazione   di   una   sperequata   situazione   di   deteriore
diseguaglianza rispetto a tutte le altre persone giuridiche pubbliche
private,   in   conseguenza   delle   limitazioni   introdotte   alla
legittimazione attiva delle procure regionali contabili in  punto  di
danno all'immagine. 
    Infatti - come gia'  osservato  -  la  compressione  del  diritto
all'immagine   della   pubblica   amministrazione,   surrettiziamente
perseguita mediante la limitazione della  legittimazione  attiva  del
procuratore regionale, ha concretizzato una diseguaglianza  non  solo
(in ipotesi) incostituzionale in se', bensi'  anche  in  correlazione
con l'articolo 97. 
    Il secondo profilo attiene all'irragionevole differenza riservata
al   legislatore   alla   disciplina    diseguale    di    situazioni
sostanzialmente simili (rectius: pressocche' identiche). 
    Infatti  il  danno  erariale  all'immagine   puo'   derivare   da
molteplici: comportamenti commissivi ed omissivi dei pubblici  agenti
che, in violazione dei loro obblighi di  servizio,  abbiano  messo  a
repentaglio  la  credibilita'  e  la  considerazione  esterna   della
pubblica amministrazione. 
    L'elemento unificante e'  rappresentato  dalla  violazione  degli
obblighi   di   servizio   con   idoneita'    lesiva    dell'immagine
dell'amministrazione. 
    Si palesa illogica l'estrapolazione nell'ambito di  tale  insieme
di alcune fattispecie ricollegabili unicamente  alla  commissione  di
alcuni reati,  per  di  piu'  necessitanti  di  sentenza  passata  in
giudicato. 
    Si ribadisce ancora il concetto fondamentale  per  cui  il  danno
all'immagine puo'  derivare  da  comportamenti  lesivi  degli  agenti
pubblici privi di una diretta connotazione penale. 
    Di qui l'irragionevolezza  della  diseguaglianza  riservata  alle
violazioni  degli  obblighi  di   servizio   con   idoneita'   lesiva
dell'immagine. 
    Alcune (poche) violazioni sono qualificate antigiuridiche e danno
ingresso a  responsabilita'  amministrativa.  Altre  (molte)  restano
prive di sanzione e di fatto, uscendo dalla tutela, perdono carattere
della riprovevolezza.  
    Come corollario del precedente,  si  pone  il  terzo  profilo  di
diseguaglianza,  imperniato  sulla  necessita'  stabilita  dal  comma
30-ter di una sentenza penale di condanna passata in giudicato. 
    Intanto  e'  venuta  a   «rivivere»   una   forma   inusuale   di
pregiudizialita' penale limitata ad alcune (pur  importanti)  ipotesi
di danno all'immagine. 
    Sul piano piu' generale, si e' originale uno spazio,  all'interno
della responsabilita'  amministrativa,  ove  si  applicano  regole  e
principi differenziati, caratterizzati dal venire meno dell'autonomia
del giudizio contabile rispetto a quello penale e dalla creazione  di
un «filtro» esterno per l'esercizio dell'azione  di  responsabilita',
strutturalmente  incompatibile  e  incoerente   con   la   disciplina
dell'azione medesima. 
    Fra l'altro la diseguaglianza viene in evidenza  con  particolare
rilievo proprio in concomitanza degli eventi  di  danno  come  quello
attribuito  al  sig.  G.P.,  sui  quali  il  giudice  penale  non  ha
pronunciato una sentenza sostanziale di merito, ma si e' limitato  ad
una decisione in rito, ovvero anche sul  merito,  ma  solo  in  senso
formale. 
    Pertanto anche l'introduzione del  presupposto  della  necessita'
della sentenza penale  di  condannata  passata  in  giudicato  sembra
costituire un irragionevole ostacolo all'esercizio dell'azione, anche
e soprattutto quando le vicende processuali penali si siano  concluse
con  pronunce  di  rito,  ovvero  in   punto   di   declaratoria   di
prescrizione, ovvero siano venuti a mancare particolari condizioni di
procedibilita', ovvero infine (come nel  caso  di  specie)  si  siano
concluse con assoluzione per vizi delle prove sopravvenuti alla  loro
formazione. 
    In tutti questi casi comportamenti lesivi dell'immagine  si  sono
sviluppati nella loro autonomia fattuale e pregnanza lesiva ed appare
fondatamente irragionevole e contrastante con gli  articoli  3  e  24
l'esclusione  della  tutela   dell'amministrazione   per   il   danno
all'immagine, ove attualizzato. 
 
                      Rassegnate le conclusioni 
 
    Per tutte le argomentazioni esposte, deve ritenersi -  ad  avviso
del emittente - che: a) la pubblica amministrazione e'  titolare  del
diritto alla tutela del danno  alla  propria  immagine,  intesa  come
perdita di considerazione e credibilita' esterne, con riferimento  ai
principi del buon andamento e  dell'imparzialita';  b)  tale  diritto
alla tutela all'immagine non puo' essere  compresso  o  limitato  dal
legislatore  ordinario  in  quanto  fondato  sull'articolo  2   della
Costituzione; c) il danno all'immagine cagionato da  pubblici  agenti
rientra nel perimetro del danno erariale, quindi fra  le  materie  di
contabilita' pubblica del secondo comma dell'art. 103;  d)  il  danno
all'immagine dell'amministrazione costituisce una tipologia  unitaria
nell'ambito  del  danno  erariale  nelle  forme  e  nei  modi   della
responsabilita' amministrativa; e)  il  danno  erariale  all'immagine
trova nella Corte dei conti il proprio  giudice  naturale;  il  danno
all'immagine  (inteso  come  danno  conseguenza  si  attualizza   con
l'esternalizzazione della condotta dell'agente pubblico in violazione
degli obblighi di servizio, condotta  con  specifica  valenza  lesiva
della   credibilita'   e   della   considerazione   della    pubblica
amministrazione; g) la sentenza penale di  condanna  costituisce  una
delle  modalita'  esternalizzazione,  ma   non   puo'   assurgere   a
presupposto essenziale unico dell'esercizio della tutela; h) l'agente
pubblico al quale venga contestato il danno all'immagine ha  diritto,
con  riferimento  all'articolo  3,  ad  essere   giudicato   con   le
guarentigie  proprie  della  responsabilita'  amministrativa;  i)  il
presupposto necessario per l'addebito di responsabilita' per  lesione
all'immagine  e'  costituito  dalla  violazione  degli  obblighi   di
servizio, non necessariamente connessi con quella di norme penali; l)
il danno all'immagine non conseguente a reato  penale  deve  ricevere
effettiva tutela; m) allorche', per una medesima  vicenda,  si  siano
attivati tanto il  procedimento  contabile  per  danno  all'immagine,
quanto  quello  penale  per  accertamento  della   violazione   della
specifica norma, si debbono  applicare  i  principi  di  autonomia  e
separatezza; n) il procuratore regionale della  Corte  dei  conti  ha
piena  ed  esclusiva,  legittimazione  attiva   per   la   promozione
dell'azione  di  responsabilita'  in  tutte  le  ipotesi   di   danno
all'immagine; o) il procuratore  regionale  della  Corte  dei  conti,
nell'ipotesi di concorrenza con un giudizio penale,  puo'  esercitare
l'azione a prescindere dall'intervenuta sentenza penale definitiva di
condanna (anche per il danno all'immagine e  non  necessariamente  in
concorrenza  con  i  soli  delitti  dei  pubblici  ufficiali   contro
l'amministrazione). 
    Con riguardo a questo puntuale ed organico riassunto dei principi
regolatori della materia, coerente con i principi costituzionali,  si
debbono  collocare  i  molteplici   dubbi   circa   la   legittimita'
costituzionale della novella normativa in scrutinio,  dubbi  sin  qui
individuati e debitamente motivati ed ai quali tutti si fa richiamo.