Sentenza 
 
nel giudizio di legittimita' costituzionale degli articoli 200 e  236
del codice penale e degli articoli 186, comma 2, lettera c),  e  187,
comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 aprile  1992,  n.
285 (Nuovo codice della strada),  come  modificati,  rispettivamente,
dall'art. 4, commi 1, lettera b), e 2, lettera b), del  decreto-legge
23 maggio 2008,  n.  92  (Misure  urgenti  in  materia  di  sicurezza
pubblica), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della
legge 24 luglio 2008, n. 125, promosso dal Giudice  per  le  indagini
preliminari presso il Tribunale ordinario di Lecce  nel  procedimento
penale a carico di P.T. con ordinanza del 27 maggio 2009, iscritta al
n. 323 del  registro  ordinanze  2009  e  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 3, 1ª serie speciale, dell'anno 2010. 
    Udito nella Camera di consiglio del 12  maggio  2010  il  Giudice
relatore Alfonso Quaranta. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Il Giudice per le indagini preliminari presso  il  Tribunale
ordinario di Lecce ha sollevato - in riferimento agli  articoli  3  e
117 della Costituzione -  questione  di  legittimita'  costituzionale
degli articoli 200 e 236 del codice  penale  e  degli  articoli  186,
comma 2, lettera c), e 187, comma  1,  ultimo  periodo,  del  decreto
legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada),  come
modificati, rispettivamente, dall'art. 4, commi 1, lettera b),  e  2,
lettera b), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92  (Misure  urgenti
in materia di sicurezza  pubblica),  convertito,  con  modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125. 
    1.1. - Il remittente  premette,  in  punto  di  fatto,  di  dover
decidere in ordine alla richiesta di emissione di decreto  penale  di
condanna, avanzata dal pubblico ministero in relazione  al  reato  di
guida in stato di ebbrezza - per un fatto commesso nel gennaio 2008 -
ed alla contestuale  richiesta  di  confisca  del  veicolo  a  carico
dell'imputato, ai sensi del gia' citato art. 186,  comma  2,  lettera
c), del codice della strada. 
    Detta  norma,  infatti,  nel  testo  novellato  dall'art.  4  del
decreto-legge n. 92 del  2008,  convertito  con  modificazioni  nella
legge n. 125 del 2008, prevede che sia «sempre disposta  la  confisca
del veicolo con  il  quale  e'  stato  commesso  il  reato  ai  sensi
dell'articolo 240, secondo comma, del codice  penale,  salvo  che  il
veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato»,  in  caso  di
condanna tanto per la fattispecie criminosa  di  guida  in  stato  di
ebbrezza in conseguenza dell'uso di bevande  alcoliche,  purche'  sia
stato accertato a carico del conducente un valore  corrispondente  ad
un tasso alcolemico superiore a 1,5  grammi  per  litro  di  sostanza
ematica, quanto per la fattispecie criminosa  (art.  187  del  codice
della strada) di guida in stato di alterazione psico-fisica  per  uso
di sostanze stupefacenti. 
    La circostanza che nel vigente  testo  dell'art.  186,  comma  2,
lettera c), del codice  della  strada  sia  espressamente  richiamato
l'art. 240, primo comma, cod. pen., non  dovrebbe  lasciare  dubbi  -
secondo il remittente - che, «sotto l'aspetto formale, tale  confisca
debba essere qualificata come misura di sicurezza patrimoniale»,  per
la quale, quindi, opera il principio - in forza del  rinvio  all'art.
200, primo comma, cod. pen.  contenuto  nell'art.  236  del  medesimo
codice - secondo cui «le misure  di  sicurezza  sono  regolate  dalla
legge in vigore al  tempo  della  loro  applicazione».  Ne  consegue,
pertanto, che la misura della confisca del veicolo  appare  destinata
ad applicarsi pure «nei riguardi di coloro che, imputati del reato di
guida sotto l'influenza dell'alcool (o di quello di guida in stato di
alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti), risultino
destinatari di  una  sentenza  di  condanna  o  di  una  sentenza  di
patteggiamento, anche se il reato venne commesso in  epoca  anteriore
alla data di entrata in vigore del citato  decreto-legge  n.  92  del
2008». 
    Sottolinea,  inoltre,  il  giudice  a  quo  che  tale  «soluzione
ermeneutica»  risulta  «conforme  al  pacifico   orientamento   della
giurisprudenza di legittimita'». Essa, «con riferimento  ad  analoghe
forme di confisca, ha sempre affermato» - diversamente da parte della
dottrina, secondo cui la previsione dell'art. 200, primo comma,  cod.
pen. andrebbe riferita esclusivamente all'ipotesi in cui le modifiche
legislative concernenti le misure di  sicurezza  riguardino  le  loro
modalita' di esecuzione - «che per tali  misure,  qualificabili  come
misure di sicurezza e non come pene accessorie o  pene  sui  generis,
non opera il principio di irretroattivita'»,  sancito  dall'art.  25,
secondo comma, Cost.,  norma  concernente  «esclusivamente  la  pena»
(richiama, sul punto: Corte  di  cassazione,  sezione  prima  penale,
sentenza del 15 gennaio 2009, n. 8404; sezione terza penale, sentenza
del 15 ottobre 2002, n. 40703; sezione prima penale, sentenza del  19
maggio 2000, n. 7045; sezione prima penale, sentenza  del  19  maggio
1999, n. 3717; sezione seconda penale, sentenza del 3  ottobre  1996,
n. 3655; sezione sesta penale, sentenza  del  17  novembre  1995,  n.
775). 
    1.2. - Tanto premesso, il giudice a  quo  ritiene  che  le  norme
censurate, «interpretate  in  conformita'  al  «diritto  vivente»  di
origine giurisprudenziale», siano in contrasto  con  l'art.  7  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, secondo cui «non puo' essere inflitta una pena
piu' grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in  cui  il
reato e' stato consumato». 
    Il suddetto art. 7 - sottolinea il  remittente  -  si  pone  come
«norma interposta», ovvero come disposizione «subcostituzionale», che
finisce «per integrare e dare contenuto» al  dettato  dell'art.  117,
primo comma, Cost., sicche' la sua violazione da parte  di  norma  di
legge   ordinaria   integra   un   contrasto   con   tale   parametro
costituzionale.   Conclusione,   questa,   proposta   «dalla    Corte
costituzionale con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007», pronunce  che
hanno «definitivamente chiarito» - si nota ancora  nell'ordinanza  di
rimessione - «che il giudice e' tenuto a valutare  la  compatibilita'
costituzionale di ciascuna norma  di  legge  ordinaria,  anche  nelle
materie penalistiche, con le norme della Cedu», le  quali,  peraltro,
rilevano non  «in  se'  considerate»,  bensi'  «come  prodotto  della
interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo nelle sue sentenze». 
    Orbene, «proprio con riferimento al principio fissato dall'art. 7
della Cedu, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha  puntualizzato»
- osserva sempre il remittente - che nell'individuazione del concetto
di pena e' necessario «andare al di la' delle apparenze» per valutare
«se una data  misura  costituisca  pena  ai  sensi  di  tale  norma»,
verificando se essa «sia stata imposta a seguito di una condanna  per
un reato», per poi attribuire rilievo ad  altri  elementi,  come  «la
natura e lo scopo della misura in questione;  la  sua  qualificazione
nel diritto interno; le procedure  correlate  alla  sua  adozione  ed
esecuzione». Tali affermazioni, fatte dalla Corte di Strasburgo nella
sentenza del 9 febbraio 2005, resa nella causa n.  307-A/1995,  Welch
contro Regno Unito (che, come rammenta il remittente, ha riconosciuto
la violazione dell'art. 7 della Convenzione proprio «in  un  caso  di
applicazione retroattiva della confisca di beni disposta nei riguardi
di un trafficante di droga condannato a non ridotta pena detentiva»),
sono   state   ulteriormente   precisate   dalla    sua    successiva
giurisprudenza. Essa, infatti, ha specificato che la garanzia sancita
dall'art. 7, in quanto  «elemento  essenziale  della  preminenza  del
diritto, occupa un posto fondamentale nel sistema di protezione della
Convenzione, come dimostra il  fatto  che  l'art.  15  non  autorizza
alcuna deroga», sicche' la sua interpretazione ed  applicazione  deve
avvenire «in modo da assicurare una protezione  effettiva  contro  le
azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie», giacche', se la
norma  de  qua  «vieta  principalmente  di  estendere  il  campo   di
applicazione dei reati esistenti a  fatti  che,  in  precedenza,  non
costituivano reati, impone altresi' di non applicare la legge  penale
in maniera estensiva a pregiudizio dell'imputato» (in tal  senso,  v.
la sentenza del 20 gennaio 2009, resa nella causa  75909/2001,  Fondi
s.r.l. ed altri contro Italia). 
    1.3. - L'applicazione di tali principi, destinati ad integrare  -
prosegue il remittente - «il dettato normativo dell'art. 117  Cost.»,
dovrebbe comportare, «in un'ottica di  definitivo  superamento  della
precedente,  diversa,  soluzione  privilegiata  dalla  Consulta   con
l'ordinanza n. 392 del 1987», l'illegittimita'  costituzionale  delle
norme censurate. 
    In tale prospettiva, si  sottolinea,  in  primo  luogo,  che  «la
confisca del veicolo», piuttosto che «soddisfare un bisogno di natura
cautelare», realizzerebbe «una  funzione  sanzionatoria  e  meramente
repressiva». Lo confermerebbe la duplice circostanza «che  la  misura
e' applicabile anche quando il veicolo dovesse risultare  incidentato
e temporaneamente  inutilizzabile»  (e,  dunque,  «privo  di  attuale
pericolosita' oggettiva») e che la sua applicazione «non impedisce in
se' l'impiego di  altri  mezzi  da  parte  dell'imputato,  dunque  un
rischio di recidiva», sicche', «al di la' della "etichetta"  formale,
la confisca in argomento si traduce in una sanzione  patrimoniale  di
natura repressiva, dunque parificabile, ai fini sopra indicati,  alla
sanzione penale». 
    In secondo luogo, si evidenzia che l'efficacia retroattiva «della
nuova  disciplina  che  ha  introdotto   tale   forma   di   confisca
comporterebbe un'applicazione estensiva  della  disposizione  penale,
sanzionando, in maniera  pesantemente  pregiudizievole,  un  soggetto
che, all'epoca della commissione  del  relativo  reato,  poteva  fare
affidamento  sull'esistenza  di  una  disposizione  penale  che   non
prevedeva l'adottabilita' di quel tipo di provvedimento ablatorio». 
    Ne', infine, andrebbe trascurata  la  circostanza  -  osserva  il
giudice a quo - che la confisca del veicolo «va  disposta  anche  nei
riguardi del conducente che abbia rifiutato di  sottoporsi  all'esame
alcolemico del sangue»,  cio'  che  ne  confermerebbe  la  natura  di
provvedimento repressivo. 
    1.4. - La correttezza di tali rilievi - secondo il  remittente  -
sarebbe  confermata  dall'ordinanza  n.  97  del  2009  della   Corte
costituzionale (erroneamente indicata, peraltro, come n. 92 del 2009)
che ha  dichiarato  la  manifesta  infondatezza  della  questione  di
legittimita'  costituzionale  avente  ad  oggetto  la  confisca  «per
equivalente» di cui all'art. 322-ter cod. pen. e  all'art.  1,  comma
143, della legge 24  dicembre  2007,  n.  244  (Disposizioni  per  la
formazione del bilancio annuale e  pluriennale  dello  Stato -  legge
finanziaria 2008). 
    La citata pronuncia, difatti, ha evidenziato che «la mancanza  di
pericolosita'  dei  beni  che  sono  oggetto   della   confisca   per
equivalente,   unitamente   all'assenza   di    un    «rapporto    di
pertinenzialita'» (inteso come nesso diretto, attuale e  strumentale)
tra il reato e detti beni,  conferiscono  all'indicata  confisca  una
connotazione prevalentemente afflittiva,  attribuendole,  cosi',  una
natura «eminentemente sanzionatoria», che impedisce  l'applicabilita'
a tale misura  patrimoniale  del  principio  generale  dell'art.  200
c.p.», pervenendo a tale conclusione in base al duplice  rilievo  che
«il secondo comma dell'art. 25 Cost. vieta l'applicazione retroattiva
di una sanzione  penale,  come  deve  qualificarsi  la  confisca  per
equivalente, e che la giurisprudenza della Corte europea dei  diritti
dell'uomo ha ritenuto in contrasto con  l'art.  7  della  Convenzione
l'applicazione di una sanzione riconducibile proprio ad un'ipotesi di
confisca per equivalente» (si tratta della gia' citata sentenza del 9
febbraio 2005, nella causa n. 307-A/1995, Welch contro Regno Unito). 
    1.5. - Su tali  basi,  quindi,  il  remittente  ha  sollevato  la
questione di legittimita' costituzionale degli artt. 200 e  236  cod.
pen. e degli artt. 186, comma 2, lettera c), e 187 del  codice  della
strada. 
    Dedotta, cosi', la violazione degli  artt.  3  e  117  Cost.,  il
remittente - non senza  osservare  che  la  questione  e'  rilevante,
essendo il decreto penale parificato, ad ogni effetto, alla  sentenza
di condanna, ed essendo stato accertato  a  carico  dell'imputato  il
superamento del limite di 1,50 del tasso alcolemico fissato dall'art.
186, comma 2, lettera c), del codice della strada - ha  concluso  per
la  declaratoria  di  illegittimita'   costituzionale   delle   norme
censurate «nella parte in cui consentono il sequestro  preventivo  e,
in caso di sentenza di condanna ovvero di applicazione della pena  su
richiesta delle parti, la  confisca  obbligatoria  del  veicolo,  non
appartenente a terzo estraneo, con il  quale  e'  stato  commesso  il
reato di guida sotto l'influenza dell'alcool o il reato di  guida  in
stato di alterazione psico-fisica per uso di  sostanze  stupefacenti,
anche quando tali reati  siano  stati  commessi  in  epoca  anteriore
all'entrata in vigore del suddetto decreto-legge». 
    2. - Non e' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio
dei ministri. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - Il Giudice per le indagini preliminari presso  il  Tribunale
ordinario di Lecce ha sollevato - in riferimento agli  articoli  3  e
117 della Costituzione -  questione  di  legittimita'  costituzionale
degli articoli 200 e 236 del codice  penale  e  degli  articoli  186,
comma 2, lettera c), e 187, comma  1,  ultimo  periodo,  del  decreto
legislativo 30 aprile 1992,  n.  285  (Nuovo  codice  della  strada),
articoli,  questi  ultimi,  censurati  dal   remittente   nel   testo
modificato, rispettivamente, dall'art. 4, commi 1, lettera b),  e  2,
lettera b), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92  (Misure  urgenti
in materia di sicurezza  pubblica),  convertito,  con  modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125. 
    1.1. - In particolare, il  giudice  remittente  -  essendo  stata
richiesta  dal   pubblico   ministero,   nel   giudizio   principale,
l'emissione  di  decreto  penale  di  condanna,  in  relazione   alla
fattispecie di reato di guida in stato di ebbrezza  di  cui  all'art.
186, comma 2, lettera c), del codice della strada - rimarca il  fatto
di dover applicare all'imputato, retroattivamente,  la  misura  della
confisca del veicolo,  non  essendo  questa  prevista  all'epoca  del
commesso reato. 
    Difatti, in forza di  quanto  stabilito  dall'art.  4,  comma  1,
lettera b),  del  decreto-legge  n.  92  del  2008,  convertito,  con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 125 del 2008,  in
caso di condanna dell'imputato per la fattispecie  criminosa  oggetto
del giudizio a quo (e per quella di cui all'art. 187 del codice della
strada, norma, per tale motivo, anch'essa  coinvolta  dal  remittente
nell'incidente di costituzionalita'), «e' sempre disposta la confisca
del veicolo con  il  quale  e'  stato  commesso  il  reato  ai  sensi
dell'articolo 240, secondo comma, del codice  penale,  salvo  che  il
veicolo stesso appartenga  a  persona  estranea  al  reato».  Orbene,
proprio  il  riferimento  all'articolo  da  ultimo   citato   avrebbe
l'effetto di rendere operativa, nella specie, la  previsione  di  cui
all'art. 200, primo comma, cod. pen. (cui rinvia, quanto alle  misure
di sicurezza patrimoniali, l'art. 236, secondo  comma,  del  medesimo
codice), in base alla quale «le misure  di  sicurezza  sono  regolate
dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione». 
    1.2. - Tanto premesso in fatto, il giudice a quo ritiene le norme
suddette in contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost. 
    Sarebbe, infatti, violato l'art. 7 della Convenzione europea  per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali
(ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4  agosto  1955,  n.
848), secondo cui «non puo' essere inflitta una pena  piu'  grave  di
quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato e'  stato
consumato»;  norma  interpretata  dalla  Corte  di  Strasburgo   come
applicabile anche  nei  riguardi  della  misura  della  confisca  (e'
richiamata la sentenza pronunciata dalla Grande Chambre il 9 febbraio
1995, nella causa n. 307-A/1995, Welch contro Regno Unito). 
    In particolare, la confisca del veicolo adoperato per  commettere
i reati di cui agli artt. 186, comma 2, lettera c), e 187 del  codice
della strada, lungi dal «soddisfare un bisogno di natura  cautelare»,
realizzerebbe - secondo il remittente - «una funzione sanzionatoria e
meramente repressiva». 
    Lo confermerebbero, per un verso, la circostanza che la misura de
qua e' destinata a ricevere applicazione  «anche  quando  il  veicolo
dovesse risultare incidentato e temporaneamente  inutilizzabile»  (e,
dunque, «privo di attuale pericolosita' oggettiva») ed  inoltre,  per
altro verso, la constatazione che la sua operativita' «non  impedisce
in se' l'impiego di altri mezzi da  parte  dell'imputato,  dunque  un
rischio di recidiva». 
    Ne conseguirebbe, cosi', che,  al  di  la'  della  qualificazione
formale, la confisca in argomento  si  tradurrebbe  in  una  sanzione
patrimoniale di natura repressiva,  da  parificare  -  in  base  alla
citata sentenza della Corte europea dei  diritti  dell'uomo  -  «alla
sanzione  penale»  e,   dunque,   non   suscettibile   di   efficacia
retroattiva, se non in violazione del citato art. 7 della CEDU. 
    Inoltre, la retroattivita' della misura in esame - sempre secondo
il giudice a quo - sarebbe da ritenere costituzionalmente illegittima
per  il  fatto  di  comportare   «un'applicazione   estensiva   della
disposizione   penale,   sanzionando,   in    maniera    pesantemente
pregiudizievole, un soggetto che,  all'epoca  della  commissione  del
relativo  reato,  poteva  fare  affidamento  sull'esistenza  di   una
disposizione penale che non prevedeva l'adottabilita' di quel tipo di
provvedimento ablatorio». 
    2. -  In  via  preliminare,  dovendo  questa  Corte  vagliare  la
conformita'  delle  norme  censurate  all'art.  7  della   CEDU,   e'
necessario verificare se ricorrano le condizioni  in  presenza  delle
quali, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 348 e n.
349 del 2007), uno scrutinio siffatto puo' essere effettuato. 
    Ed  invero,  in  particolare  la  seconda  di  tali  sentenze  ha
affermato che «questa Corte, qualora sia sollevata una  questione  di
legittimita' costituzionale di una norma nazionale rispetto  all'art.
117,  primo  comma,  Cost.  per  contrasto  -   insanabile   in   via
interpretativa  -  con  una  o   piu'   norme   della   CEDU»,   deve
preliminarmente accertare  l'esistenza  del  contrasto  «e,  in  caso
affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell'interpretazione
data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela  dei  diritti
fondamentali  almeno   equivalente   al   livello   garantito   dalla
Costituzione italiana» (cosi' la sentenza n. 349 del 2007). 
    Piu' di recente, questa Corte - con  una  decisione  intervenuta,
tra l'altro, in materia di confisca di beni -  ha  ribadito  che  «in
presenza di  un  apparente  contrasto  fra  disposizioni  legislative
interne ed una disposizione  della  CEDU,  anche  quale  interpretata
dalla Corte di Strasburgo, puo' porsi un dubbio di costituzionalita',
ai sensi del primo comma dell'art. 117 Cost., solo se  non  si  possa
anzitutto risolvere il  problema  in  via  interpretativa»,  giacche'
soltanto «ove l'adeguamento interpretativo, che  appaia  necessitato,
risulti impossibile o l'eventuale diritto vivente  che  si  formi  in
materia faccia sorgere dubbi sulla sua  legittimita'  costituzionale,
questa Corte potra' essere chiamata ad affrontare il  problema  della
asserita incostituzionalita' della disposizione di  legge»  (sentenza
n. 239 del 2009). 
    2.2. - Nel caso  in  esame,  tuttavia,  deve  escludersi  che  il
contrasto denunciato potesse essere superato dal  remittente  in  via
interpretativa. 
    2.2.1.  -  Difatti,  la  pressoche'  unanime  giurisprudenza   di
legittimita' ha affermato  che  l'ipotesi  di  confisca  obbligatoria
prevista dall'art. 186, comma 2, lettera c), del codice della  strada
(nel testo novellato dall'art. 4, comma 1, lettera b), del d.l. n. 92
del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge n. 125 del 2008)
si applica anche alle condotte poste in essere prima dell'entrata  in
vigore della novella (in tal senso, Corte di cassazione,  sezione  IV
penale, sentenza 4 giugno 2009, n. 32932; sentenza 3 aprile 2009,  n.
38179; sentenza 27 gennaio 2009, n. 9986). 
    E' rimasta, dunque, del tutto isolata la decisione  della  stessa
Corte secondo cui il «richiamo  all'art.  240,  secondo  comma,  cod.
pen.» (contenuto nel testo dell'art. 186, comma 2,  lettera  c),  del
codice  della  strada)   avrebbe   «solo   l'intento   di   rimarcare
l'obbligatorieta' della confisca e non quello  di  affermare  che  il
caso  disciplinato  rientri  tra  quelli   che   detta   disposizione
contempla», cio' che renderebbe,  pertanto,  «non  estensibile»  alla
misura qui in esame «la regola dettata dall'art. 200 cod. pen.», vale
a dire quella dell'applicazione retroattiva della misura di sicurezza
(cosi' sezione IV penale, sentenza 29 aprile 2009, n. 32916). 
    In queste condizioni, pertanto, e' preclusa  a  questa  Corte  la
possibilita' di una  soluzione  del  tipo  di  quella  che  e'  stata
proposta,  di  recente,  con  riferimento  ad  analoga  questione  di
legittimita' costituzionale avente ad oggetto - ancora  in  relazione
all'art. 7 della CEDU - la cosiddetta «confisca per equivalente»,  ex
art. 322-ter del codice penale. 
    E' stata, infatti, proprio la constatazione di quanto  «affermato
dalla Corte di cassazione in numerose pronunce» ad  aver  permesso  a
questa  Corte  di  riconoscere  a  tale  ipotesi  di  confisca   «una
connotazione prevalentemente afflittiva,  attribuendole,  cosi',  una
natura "eminentemente sanzionatoria", che impedisce  l'applicabilita'
a tale misura patrimoniale del principio generale dell'art. 200  cod.
pen.».  Su  tali  basi  questa  Corte  ha  dichiarato  la   manifesta
infondatezza, per erroneita' del  presupposto  interpretativo,  della
questione allora sollevata (ordinanza n. 97 del 2009). 
    2.2.2. - Ne' e' senza rilievo,  nella  medesima  prospettiva,  la
diversa formulazione letterale dell'art. 322-ter cod.  pen.  rispetto
all'art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada. 
    La prima di tali norme, infatti, si limita a stabilire  che,  nei
casi di condanna o applicazione della pena su richiesta per  uno  dei
delitti previsti dagli articoli da 314 a  320  cod.  pen.,  anche  se
commessi dai soggetti indicati nell'articolo  322-bis,  primo  comma,
cod.  pen.,  «e'  sempre  ordinata  la  confisca  dei  beni  che   ne
costituiscono il profitto o  il  prezzo,  salvo  che  appartengano  a
persona  estranea  al  reato»,   senza,   dunque,   contenere   alcun
riferimento all'art. 240 cod. pen. 
    Anche il dato  testuale,  pertanto,  impone  a  questa  Corte  di
affermare che il denunciato contrasto tra le disposizioni censurate e
la norma sub-costituzionale invocata dal remittente,  come  parametro
interposto,   «sia   effettivamente   insanabile    attraverso    una
interpretazione plausibile, anche sistematica,  della  norma  interna
rispetto alla norma convenzionale, nella lettura datane  dalla  Corte
di Strasburgo» (sentenza n. 311 del 2009). 
    3. - L'esame nel merito della presente questione di  legittimita'
costituzionale   impone,   tuttavia,   una   ulteriore   precisazione
preliminare,  anche  nella  prospettiva   di   una   piu'   specifica
delimitazione del thema decidendum ora sottoposto al vaglio di questa
Corte. 
    3.1. - Occorre, infatti, muovere dalla constatazione che una  pur
risalente giurisprudenza costituzionale ha affermato che «la confisca
puo' presentarsi, nelle leggi che  la  prevedono,  con  varia  natura
giuridica», giacche', se  il  suo  contenuto  consiste  sempre  nella
«privazione di  beni  economici»,  essa  «puo'  essere  disposta  per
diversi motivi e indirizzata a  varia  finalita',  si'  da  assumere,
volta per volta, natura  e  funzione  o  di  pena,  o  di  misura  di
sicurezza, ovvero anche di misura giuridica civile e  amministrativa»
(sentenza n. 29 del 1961). 
    La necessita' di tenere nettamente distinte le singole ipotesi di
confisca e', del resto, anche conseguenza della differenza  esistente
- in campo penale - tra le nozioni di pena e di misura di  sicurezza,
i  cui  riflessi,  oltretutto,  si   riverberano   nella   differente
disciplina, fissata dai commi secondo e terzo dell'art. 25 Cost., del
fenomeno della successione, nel tempo, delle norme  relative  ai  due
istituti. 
    3.1.1. - Difatti, con la sentenza n. 53 del 1968, questa Corte ha
rilevato come «la inserzione della pena e della misura  di  sicurezza
nell'ambito di una categoria unica»  (quella  generale  di  sanzione,
intesa  come  «reazione  dell'ordinamento  alla  inosservanza   della
norma») non abbia avuto come effetto di eliminare «quelli che sono  i
caratteri particolari dei due mezzi di  tutela  giuridica».  «Nessuno
sforzo di accostamento», prosegue la citata sentenza, «potra' infatti
valere ad eliminare  la  differenza,  essenziale  e  di  natura,  che
nettamente si manifesta: la differenza cioe' fra la  reazione  contro
un fatto avvenuto, propria della pena, e l'attuazione, propria  della
misura di sicurezza, di mezzi rivolti ad impedire  fatti  di  cui  si
teme il verificarsi nel futuro». 
    Da tale premessa la citata sentenza ha  fatto  discendere  «altre
fondamentali note differenziali tra i due mezzi di tutela giuridica».
Tra di esse, in particolare, rileva, ai fini che qui interessano,  la
scelta di individuare «la norma valida per la misura  di  sicurezza»,
diversamente da quanto previsto per la pena,  in  «quella  del  tempo
della sua applicazione». 
    E' in questi termini, dunque, che viene spiegata la  formulazione
non omogenea dei commi secondo e terzo dell'art. 25  Cost.,  giacche'
«soltanto per la pena», l'uno «ribadisce il cosiddetto  principio  di
stretta legalita', disponendo che "nessuno puo' essere punito se  non
in forza di una legge che sia  entrata  in  vigore  prima  del  fatto
commesso"»,  mentre  l'altro  «lascia   ferma   nell'ordinamento   la
disposizione dell'art. 200 del Codice penale, in  forza  della  quale
"le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al  tempo
della loro  applicazione";  cioe'  non  da  un  imperativo  giuridico
anteriore al fatto punibile, ma da quelle disposizioni  che  via  via
l'ordinamento riconoscera' piu' idonee ad una efficace  lotta  contro
il pericolo criminale» (citata sentenza n. 53 del 1968). 
    3.1.2. - A giustificare,  pertanto,  la  ritenuta  retroattivita'
delle misure di sicurezza,  con  riguardo  soprattutto  a  quelle  di
natura personale, e' la finalita', loro propria,  di  assicurare  una
efficace lotta contro il pericolo criminale, finalita'  che  potrebbe
richiedere che il legislatore, sulla  base  di  circostanze  da  esso
discrezionalmente valutate, preveda che sia applicata una  misura  di
sicurezza a  persone  che  hanno  commesso  determinati  fatti  prima
sanzionati con la sola pena (o con  misure  di  sicurezza  di  minore
gravita'). 
    In altri termini, tale retroattivita'  risulta  connaturata  alla
circostanza  che  le  misure  di  sicurezza  personali  costituiscono
strumenti  preordinati  a  fronteggiare  uno   stato   di   accertata
pericolosita'; funzione che esse assolvono  con  i  mezzi  che  dalle
differenti scienze,  chiamate  specificamente  a  fornirli,  potranno
essere desunti. 
    3.1.3. - Nondimeno,  la  presa  d'atto  proprio  delle  peculiari
caratteristiche e funzioni che, rispetto  alle  pene,  presentano  le
misure  di  sicurezza  ha  portato  la  dottrina  a  sottolineare  la
necessita', a fronte di ogni reazione ad un fatto  criminoso  che  il
legislatore qualifichi in termini  di  misura  di  sicurezza,  di  un
controllo in ordine alla sua corrispondenza  non  solo  nominale,  ma
anche contenutistica, alla natura spiccatamente preventiva  di  detti
strumenti.  Cio',  al  fine  di  impedire  che  risposte   di   segno
repressivo, e quindi con i  caratteri  propri  delle  pene  in  senso
stretto, si prestino ad essere qualificate come misure di  sicurezza,
con la conseguenza di eludere il principio di irretroattivita' valido
per le pene. 
    3.1.4. - Una preoccupazione analoga - e cioe' quella  di  evitare
che singole scelte compiute da taluni degli Stati aderenti alla CEDU,
nell'escludere che un determinato  illecito  ovvero  una  determinata
sanzione o misura restrittiva appartengano all'ambito penale, possano
determinare un surrettizio aggiramento delle garanzie individuali che
gli artt. 6 e 7 riservano alla materia penale - e', del  resto,  alla
base  dell'indirizzo  interpretativo  che  ha  portato  la  Corte  di
Strasburgo all'elaborazione di propri criteri, in aggiunta  a  quello
della  qualificazione  giuridico-formale   attribuita   nel   diritto
nazionale, al fine di  stabilire  la  natura  penale  o  meno  di  un
illecito e della relativa sanzione. 
    In particolare, la Corte europea ha  attribuito  alternativamente
rilievo, a  tal  fine,  o  alla  natura  stessa  dell'illecito  -  da
determinare,  a  propria  volta,  sulla  base  di  due  sottocriteri,
costituiti dall'ambito di applicazione della norma che lo  preveda  e
dallo scopo della sanzione - ovvero alla gravita', o meglio al  grado
di severita', della sanzione irrogata. 
    3.1.5.  -  Dalla  giurisprudenza  della  Corte   di   Strasburgo,
formatasi in particolare sull'interpretazione degli artt. 6 e 7 della
CEDU, si ricava, pertanto, il principio secondo  il  quale  tutte  le
misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere  soggette  alla
medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto. 
    Principio questo, del resto,  desumibile  dall'art.  25,  secondo
comma, Cost., il quale  -  data  l'ampiezza  della  sua  formulazione
(«Nessuno puo' essere punito...»)  -  puo'  essere  interpretato  nel
senso  che  ogni  intervento  sanzionatorio,  il  quale   non   abbia
prevalentemente la funzione di prevenzione criminale  (e  quindi  non
sia riconducibile - in senso stretto - a vere  e  proprie  misure  di
sicurezza), e' applicabile  soltanto  se  la  legge  che  lo  prevede
risulti  gia'  vigente  al  momento  della  commissione   del   fatto
sanzionato. 
    D'altronde, questa Corte non solo ha affermato che, per le misure
sanzionatorie  diverse  dalle  pene  in   senso   stretto,   sussiste
«l'esigenza  della  prefissione  ex  lege  di  rigorosi  criteri   di
esercizio  del  potere  relativo   all'applicazione   (o   alla   non
applicazione) di esse» (sentenza n. 447 del 1988), ma anche precisato
come la necessita' «che sia la legge a configurare,  con  sufficienza
adeguata alla fattispecie, i fatti  da  punire»  risulti  pur  sempre
«ricavabile  anche  per  le  sanzioni  amministrative  dall'art.  25,
secondo comma, della Costituzione» (sentenza n. 78 del 1967). 
    A cio' e' da aggiungere che anche la disciplina generale relativa
agli illeciti amministrativi depenalizzati - recata  dalla  legge  24
novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale)  -  ha  stabilito
che «Nessuno puo' essere assoggettato a  sanzioni  amministrative  se
non in forza di una legge che  sia  entrata  in  vigore  prima  della
commissione della violazione» (art. 1, primo comma), dettando, cosi',
una regola che si pone come principio generale  di  quello  specifico
sistema. 
    3.2. - Orbene,  alla  luce  delle  suindicate  premesse,  occorre
verificare se l'ipotesi di confisca prevista dall'art. 186 del codice
della strada - secondo la prospettiva indicata dal giudice remittente
- costituisca una misura di carattere sanzionatorio e, dunque, se  la
sua applicazione retroattiva, ponendosi in contrasto con la descritta
interpretazione che dell'art. 7 della CEDU ha fornito  la  Corte  dei
diritti dell'uomo, integri una violazione dell'art. 117, primo comma,
Cost. 
    4. - Tale evenienza  ricorre  -  nei  limiti  di  seguito  meglio
precisati - nel caso di specie, donde  la  fondatezza,  negli  stessi
limiti, della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 186,
comma 2, lettera c), del codice della strada. 
    4.1. - Preliminarmente deve essere chiarito che il riconoscimento
della natura di  misura  sanzionatoria,  propria  della  confisca  in
esame, comporta l'inammissibilita' delle questioni che investono  gli
artt. 200 e 236 cod. pen. 
    Una volta escluso, come si specifichera'  meglio  nel  prosieguo,
che nel caso in esame venga  in  rilievo  una  misura  di  sicurezza,
risulta irrilevante, nel giudizio a quo, la questione  relativa  alla
compatibilita' con l'art. 7 della CEDU delle norme suddette, giacche'
esse hanno la funzione di regolare  l'applicazione  delle  misure  di
sicurezza  in  senso  proprio  e  non  di  misure,  in  senso   lato,
sanzionatorie. 
    4.2.  -  Del  pari  inammissibile  deve  essere  considerata   la
questione di costituzionalita' relativa all'art. 187, comma 1, ultimo
periodo, del codice della  strada,  pure  sollevata  dal  remittente,
trattandosi di  una  norma  che  -  estendendo  la  previsione  della
confisca del veicolo, stabilita a carico del responsabile  del  reato
di guida in stato di ebbrezza, anche all'autore del reato di guida in
stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti  -
non viene in rilievo nel giudizio a quo. 
    5. - La natura  essenzialmente  sanzionatoria  della  confisca  -
prevista  dall'art.  186  del  codice  della  strada  -  deve  essere
affermata, innanzitutto, sulla base degli  esatti  rilievi  formulati
dal giudice remittente. 
    5.1. - Questi, difatti, sottolinea come la confisca che  dovrebbe
essere  applicata  nel  giudizio  a  quo,  al  di   la'   della   sua
qualificazione  formale,  presenti  «una  funzione  sanzionatoria   e
meramente repressiva» e non invece preventiva. A tale conclusione  il
remittente perviene sulla base della duplice considerazione che  tale
«misura e' applicabile anche  quando  il  veicolo  dovesse  risultare
incidentato e temporaneamente inutilizzabile» (e, dunque,  «privo  di
attuale pericolosita' oggettiva») e  che  la  sua  operativita'  «non
impedisce in se' l'impiego di altri  mezzi  da  parte  dell'imputato,
dunque un rischio di recidiva», sicche' la misura della  confisca  si
presenta non idonea a neutralizzare la situazione di pericolo per  la
cui prevenzione e' stata concepita. 
    5.2. - D'altra parte, il carattere sanzionatorio, proprio di tale
misura, risulta confermato da quanto  ritenuto  da  questa  Corte  in
relazione  alla  confisca  di  ciclomotori  o  motoveicoli,  prevista
dall'art. 213, comma 2-sexies, del  codice  della  strada,  allorche'
detti mezzi siano «utilizzati per commettere un reato». 
    Questa Corte - nel ritenere  «non  irragionevole  la  scelta  del
legislatore  di  prevedere  una  piu'  intensa   risposta   punitiva,
allorche' un reato sia  commesso  mediante  l'uso  di  ciclomotori  o
motoveicoli» - ha qualificato come «sanzione accessoria»  tale  forma
di confisca (sentenza n. 345 del 2007, in particolare il punto 5. del
Considerato in diritto). 
    Ne',  infine,  vanno  trascurate  le  peculiari  circostanze  con
riferimento alle  quali  la  citata  sentenza  e'  pervenuta  a  tale
conclusione, essendosi  questa  Corte  pronunciata  relativamente  ad
un'ipotesi  di  confisca  disposta  proprio  «nel  caso   contemplato
dall'art. 186 del codice della  strada»,  rispetto  al  quale  si  e'
riconosciuto «un rapporto di necessaria strumentalita' tra  l'impiego
del veicolo e la consumazione del reato», giustificando, cosi', anche
su queste  basi,  l'affermazione  della  natura  sanzionatoria  della
confisca del mezzo (sentenza n. 345 del 2007, ancora al punto 5.  del
Considerato in diritto). 
    6. - In conclusione, da quanto sopra consegue  che,  per  rendere
compatibile con l'art. 7 della CEDU - e quindi con l'art. 117,  primo
comma, Cost. - il novellato testo dell'art. 186, comma 2, lettera c),
del codice della strada, e' sufficiente limitare la  declaratoria  di
illegittimita'   costituzionale   alle   sole   parole   «ai    sensi
dell'articolo 240, secondo comma, del  codice  penale»,  dalle  quali
soltanto deriva l'applicazione retroattiva della misura in questione. 
    Tale esito e', infatti, sufficiente a recidere il legame che - in
contrasto con le indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza tanto di
questa Corte, quanto di quella di Strasburgo -  l'art.  4,  comma  1,
lettera b),  del  decreto-legge  n.  92  del  2008,  convertito,  con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 125 del 2008,  ha
inteso stabilire tra  detta  ipotesi  di  confisca  e  la  disciplina
generale delle misure di sicurezza patrimoniali contenuta nel  codice
penale.