Ha pronunciato la seguente ordinanza ai sensi dell'art. 23, legge
11 marzo 1953, n. 87,  nell'ambito  del  procedimento  penale  contro
Benabbou Abdelouahed, nato in Marocco il  30  giugno  1986,  Elfilali
Othman, nato in Marocco il 27 febbraio 1975, Laghzaoui Kalid, nato in
Marocco il 28 dicembre 1984: 
    «imputati del delitto di cui agli artt. 110, 61, n. 11-bis e  614
commi 1 e 4 c.p., perche', in  concorso  tra  loro  si  introducevano
all'interno della villa  sita  in  Sabaudia  strada  Lungomare  senza
numero civico di proprieta' di Del Pennino Paolo Antonio, dopo  avere
forzato il cancello di ingresso e una delle  finestre  dell'immobile.
Con l'aggravante di aver commesso il fatto con violenza sulle cose  e
da parte di soggetti  che  si  trovano  illegalmente  sul  territorio
nazionale. 
    In Sabaudia in data 16 giugno 2008.». 
    Il 16 giugno del 2008 i tre imputati sono stati tratti in arresto
dai Carabinieri di Sabaudia nella flagranza del delitto di violazione
di domicilio aggravato. 
    Nel  corso  dell'udienza  di  convalida,  celebratasi  il  giorno
successivo, il verbalizzante ha dichiarato che, Tomei Enrico, custode
dell'abitazione  di  proprieta'  di  Del  Pennino  Paolo,  posta  sul
Lungomare di Sabaudia, aveva notato che la catena e il lucchetto  che
chiudevano l'ingresso della villa erano stati rotti e sostituiti  con
altri, senza che  il  proprietario  -  debitamente  contattato  -  ne
sapesse nulla, cosicche' aveva chiesto l'intervento dei Carabinieri. 
    Giunti  sul  posto  gli  operanti  avevano  rilevato  sia  quanto
segnalato dal Tomei, sia il  danneggiamento  della  finestra-persiana
della camera da letto della villa ed  evidenti  segni  di  effrazione
cosicche', dopo avere divelto la nuova chiusura, erano entrati  nello
stabile dove avevano trovato disordine in tutte le  stanze,  utilizzo
della  rete  elettrica   nonostante   il   generatore   fosse   stato
precedentemente staccato dal custode e i tre imputati nascosti. 
    Nell'interrogatorio  Benabbou  Abdelouahed,  Elfilali  Othman   e
Laghzaoui Kalid, tutti sprovvisti  di  documenti  e  di  permesso  di
soggiorno,  hanno  ammesso  il  fatto  sostenendo  pero'  di  essersi
introdotti nell'abitazione di Del Pennino senza alcuna violenza sulle
cose, in quanto avevano trovato la  stessa  accessibile  a  chiunque,
stante  la   precedente   rottura,   da   parte   di   terzi,   della
porta-finestra. 
    Il Tribunale di Latina, in composizione monocratica,  sentite  le
parti, con ordinanza emessa all'esito dell'udienza di  convalida,  ha
ritenuto    che    sussistessero    i    presupposti    dell'arresto,
indipendentemente dalla contestazione dell'aggravante di cui all'art.
61, n. 11-bis c.p. e,  come  richiesto  dal  p.m.,  ha  applicato  al
Benabbou, pregiudicato, sedicente, senza fissa dimora e gravato  gia'
da decreto di espulsione,  la  misura  cautelare  della  custodia  in
carcere, mentre ha disposto la rimessione in  liberta'  di  Elfilali'
Othman e Laghzaoui Kalid perche' incensurati,  rinviando  all'udienza
del 1° luglio 2008 per definire il processo nelle forme del  giudizio
abbreviato, come richiesto personalmente dagli imputati. 
    All'esito della discussione delle parti, il  Tribunale  sollevava
d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  61,
n. 11-bis c.p., introdotto con l'art. 1, lett. F) del d.l. 23  maggio
2008 n. 92, per ritenuta violazione degli artt. 3, 13, 25/2 e 27/1  e
3 comma della Costituzione, in quanto rilevante e non  manifestamente
infondata. 
    La Corte costituzionale, con ordinanza n. 277 del 29 ottobre 2009
restituiva gli atti al giudice a quo perche' procedesse «ad una nuova
valutazione circa la rilevanza e la non manifesta infondatezza» della
questione di costituzionalita' precedentemente sollevata, in  ragione
delle novita' legislative nel frattempo sopravvenute e ritenute dalla
Consulta  «tali  da  incidere,  in  via  diretta  o  mediata,   sulla
disciplina introdotta dalla disposizione censurata»,  in  particolare
per «l'essere le condotte  riconducibili  alla  previsione  censurata
l'oggetto di un'autonoma incriminazione, e non la mera espressione di
un illecito amministrativo». All'udienza del 27 aprile 2010,  cui  il
processo era stato fissato, il Giudice, sentite nuovamente le  parti,
sollevava  d'ufficio  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 61, n. 11-bis c.p., per ritenuta violazione degli artt.  3,
13, 25/2 comma, 27/1 e 3 comma,  art.  10/1  comma  Costituzione,  in
quanto rilevante e non manifestamente infondata. 
1 - La rilevanza della questione proposta. 
    1.1 - La rilevanza gia' valutata  nell'ordinanza  del  1°  luglio
2008. Quanto alla rilevanza, si osserva che  gli  elementi  emergenti
richiedono, ai fini  dell'affermazione  di  responsabilita'  e  della
configurazione   delle   aggravanti,   l'accertamento   anche   della
ricorrenza dell'aggravante  di  cui  all'art.  61,  n.  11-bis  c.p.,
contestata  agli  imputati  sprovvisti  di  regolari   documenti   di
permanenza in Italia e uno dei tre, Benabbou Abdelouahed, attinto  da
ordine di espulsione il 1° febbraio 2008, come  emerso  pacificamente
dagli atti e non contestato dall'imputato. 
    Ne', ai fini della esclusione  della  rilevanza  della  questione
sollevata,  potrebbe  assumere  valenza   l'eventuale   giudizio   di
bilanciamento, ai sensi  dell'art.  69  c.p.,  da  operare  all'esito
(della  possibile  affermazione  di  responsabilita')  dell'eventuale
concessione di attenuanti  (in  particolare  quelle  ex  art.  62-bis
c.p.). E' evidente, infatti, che proprio per  compiere  correttamente
tale eventuale giudizio occorre valutare, da un lato, le  attenuanti,
dall'altro, le aggravanti ritenute esistenti, sicche' la presenza  di
una  o  piu'  aggravanti  inciderebbe  innanzitutto  sull'esito   del
giudizio e sull'entita' della pena  da  applicare,  ed  eventualmente
anche sulla successiva  sospendibilita'  dell'esecuzione  della  pena
detentiva ai sensi dell'art. 656 c.p.p., comma 9,  lettera  a),  come
modificato. 
    In definitiva, nell'ipotesi di condanna, la sanzione da  irrogare
andrebbe definita nell'ambito della cornice edittale di cui al  testo
dell'art. 61, n. 11-bis c.p. introdotto prima che  venisse  posto  in
essere il fatto delittuoso oggetto del giudizio. 
1.2 - La rilevanza, anche dopo le modifiche normative intervenute. 
    Come opportunamente richiesto dalla Corte costituzionale  con  la
citata ordinanza n. 277/2009, e' a questo punto necessario  accertare
se  la  rilevanza  del  dubbio  di  costituzionalita',   come   sopra
ricostruita, mantenga coerenza  ed  attualita'  argomentativa  pur  a
seguito della conversione del decreto-legge citato  e  del  mutamento
del quadro legislativo di riferimento. 
    Si  ritiene,  in  termini  generali,   di   dare   una   risposta
affermativa, in quanto i rilievi, mossi all'art. 61, n.  11-bis  c.p.
con la precedente ordinanza di rimessione, sono oggi riferibili  alla
medesima norma, riprodotta nella diversa  e  successiva  disposizione
che risulta identica  nel  nucleo  precettivo  essenziale,  tanto  da
rendere inalterato,  ad  avviso  di  questo  Giudice,  l'oggetto  del
giudizio (cfr. Corte cost. sentenza n. 84/1996). 
    Nel dettaglio questo il nuovo quadro normativa: 
        a) la norma impugnata e' stata modificata,  in  primo  luogo,
dalla legge di  conversione  del  provvedimento  d'urgenza  che  l'ha
introdotta (art. 1 della legge 24 luglio 2008, n. 125  -  Conversione
in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92,
recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica),  cosi'  che
attualmente aggrava il reato «l'avere il colpevole commesso il  fatto
mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale» (il precedente
testo contestato nel presente giudizio era: «se il fatto e'  commesso
da soggetto che si trovi illegalmente sul territorio nazionale»); 
        b) in epoca ancora successiva  e'  stato  stabilito  che  «la
disposizione di cui all'art. 61, n. 11-bis),  del  codice  penale  si
intende riferita ai cittadini di Paesi  non  appartenenti  all'Unione
europea e agli apolidi» (comma 1 dell'art. 1 della  legge  15  luglio
2009, n. 94 - Disposizioni in materia di sicurezza pubblica); 
        c) il legislatore ha, inoltre, introdotto nell'ordinamento la
nuova fattispecie criminosa di «ingresso  e  soggiorno  illegale  nel
territorio dello Stato»  (art.  10-bis  del  decreto  legislativo  25
luglio 1998, n. 286, inserito con l'art. 1, comma  16,  della  citata
legge n. 94 del 2009) che si applica allo straniero che fa ingresso o
si  trattiene  nel  territorio  dello  Stato  in   violazione   delle
disposizioni  contenute  nello  stesso  d.lgs.  n.  286  del  1998  o
nell'art. 1 della  legge  28  maggio  2007,  n.  68  (Disciplina  dei
soggiorni di breve durata degli stranieri per visite, affari, turismo
e studio). 
    In relazione ai punti sub a) e b) - relativi alla conversione  in
legge del decreto e alla norma  di  interpretazione  autentica  -  le
modifiche riportate riguardano, ad avviso  del  remittente,  solo  la
formulazione  linguistica  e  non  la  sostanza  della   disposizione
impugnata, rimasta identica in relazione  al  caso  concreto  oggetto
dell'esame, tanto da non  avere  comportato  alcuna  «successione  di
leggi penali». 
    In ordine al punto sub a) si rileva che il testo  emendato  dalla
legge  di  conversione  dell'art.  61,  n.  11-bis  c.p.,  volto   ad
«armonizzare»  l'aggravante  in  esame  con  quelle  contenute  nella
medesima norma (i nn. da 1 a 11  dell'art.  61  c.p.),  si  concentra
sulle modalita' di compimento dell'azione e non, come nell'originaria
versione, sulla condizione  del  soggetto  agente.  Questa  modifica,
pero', attiene  al  solo  aspetto  terminologico  e  non  incide  sul
carattere soggettivo  dell'aggravante,  la  cui  nuova  formulazione,
nonostante l'apparente sforzo di oggettivizzazione, e' equivalente  a
quella originaria. Infatti,  mantiene  ferma  la  sua  applicabilita'
automatica allorche' sussista una precisa  condizione  personale  del
«colpevole»,  cioe'  quella  di  essere  illegalmente  presente   sul
territorio nazionale al momento della commissione del fatto-reato. 
    Se prima era il «fatto» a  dover  essere  commesso  «da  chi»  si
trovava illegalmente sul territorio nazionale, ora e' «il  colpevole»
che deve avere commesso il fatto «mentre»  si  trova  sul  territorio
nazionale illegalmente, cosi' sottolineandosi, solo linguisticamente,
un riferimento al  principio  di  colpevolezza,  peraltro  del  tutto
superfluo avuto riguardo all'art. 59, comma 2 c.p., introdotto  dalla
legge n. 19 del 1990, che  sancisce  1'imputazione  soggettiva  delle
aggravanti. 
    Anche l'interpretazione autentica dell'aggravante sub b) che,  ad
avviso del remittente, assume invece un  carattere  innovativo  nella
parte in cui esclude dal novero  dei  suoi  destinatari  i  cittadini
dell'Unione   europea    chiaramente    ricompresi    nell'originaria
formulazione, non incide sulla rilevanza della  questione  in  quanto
gli   imputati   del   presente   processo   sono   tutti   cittadini
extracomunitari - in quanto marocchini -  e  rientrano  pacificamente
nella sfera di applicazione dell'art. 61, n. 11-bis c.p. 
    Circoscrivere   l'ambito   soggettivo   di   applicazione   della
disposizione, escludendo i cittadini dell'Unione,  anzi  rafforza  il
dubbio di legittimita' costituzionale (vedi infra). 
    Piu' complessa e' la  questione  circa  la  valutazione,  cui  e'
chiamato  il   giudice   remittente,   in   ordine   all'introduzione
nell'ordinamento della nuova fattispecie  criminosa  di  «ingresso  e
soggiorno illegale nel territorio dello Stato» (punto sub c). 
    Anche detta disposizione non si ritiene incida sul profilo  della
rilevanza della questione di legittimita'  dell'art.  61,  n.  11-bis
c.p. sotto due profili: 
        1) in base alla regola espressa nella prima  parte  dell'art.
61 c.p., valevole per tutte le aggravanti comuni, la circostanza  non
e' configurabile quando la situazione da essa descritta  -  cioe'  la
presenza illegale sul territorio nazionale  dell'agente,  al  momento
della commissione del reato - costituisce gia'  elemento  costitutivo
di un reato, anzi e' esso stesso il reato.  Infatti  in  questo  caso
vale il principio del ne bis  in  idem  sostanziale  che  esclude  la
imputabilita' piu' volte ad uno stesso soggetto del medesimo fatto. E
cio' vale ancor di piu' nel caso di specie in  cui,  altrimenti,  con
ulteriori profili  di  incompatibilita'  costituzionale,  si  farebbe
addirittura valere contro la stessa persona piu' volte, non un fatto,
ma una condizione soggettiva. D'altra parte in questi termini,  anche
se piu' sfumata in ragione  del  tipo  di  pronuncia,  e'  la  stessa
ordinanza n. 277/2009  della  Corte  costituzionale  a  suggerire  la
risposta al problema, nella parte in cui  dichiara  inammissibile  la
questione  promossa  dal  Tribunale  di  Livorno,   sostenendo   «che
l'ordinanza di rimessione non illustra, infatti, la  ragione  per  la
quale una circostanza  aggravante  fondata  sulla  "illegalita'"  del
soggiorno dovrebbe applicarsi anche per reati  che  consistono,  come
quello contestato nel  giudizio  principale,  proprio  in  violazioni
della  disciplina  della  immigrazione,  posto  che,  secondo  quanto
stabilito nella prima parte dell'art. 61 cod. pen. ,  le  circostanze
comuni  aggravano  il  reato  solo  quando  non  ne   sono   elementi
costitutivi o circostanze aggravanti speciali». 
        L'aggravante in esame e', pertanto,  incompatibile  non  solo
con il delitto di cui all'art. 14, comma 5-ter t.u. immigrazione, che
punisce lo straniero espulso - in  quanto  illegalmente  presente  in
Italia - il  quale,  senza  giustificato  motivo,  si  trattiene  nel
territorio dello  Stato  in  violazione  dell'ordine,  impartito  dal
questore, di lasciare il territorio entro cinque giorni; ma a maggior
ragione con il cd reato di immigrazione clandestina (art. 10-bis t.u.
immigrazione).  Questo  infatti,  come  appunto   l'aggravante   (che
utilizza il verbo «si trova»), punisce non soltanto chi si trattiene,
ma  anche  chi  fa  ingresso  sul  territorio,  in  violazione  delle
disposizioni del testo unico sull'immigrazione. Quindi, per  entrambe
le disposizioni penali (il reato e l'aggravante)  e'  sufficiente  la
presenza irregolare dell'extracomunitario o dell'apolide nello Stato,
e  cio'  a  prescindere  che  la  condizione  di  irregolarita'   sia
contestuale all'ingresso; che sia intervenuta successivamente  ad  un
ingresso lecito (permesso di soggiorno non rinnovato per difetto  dei
requisiti, visto turistico  scaduto,  ecc.);  che  sia  espressamente
conosciuta dall'agente la natura penalmente illecita - come  elemento
costitutivo o come circostanza aggravante - della presenza irregolare
in Italia; che sussista un giustificato motivo  (esimente,  peraltro,
esplicitamente ammessa per il reato piu' grave  -  sotto  il  profilo
soggettivo ed oggettivo - di cui all'art. 14, comma 5-ter  del  testo
unico dell'immigrazione). 
        2) In base al dato,  giuridico  e  di  fatto,  che  la  nuova
disposizione penale, prevista dall'art. 10-bis T.U. immigrazione, non
era vigente nel momento in cui sono stati commessi i reati contestati
agli imputati, cosicche', in forza del principio di legalita' sancito
dall'art. 25 della Costituzione e  dall'art.  2,  comma  l  c.p.,  la
presenza nello Stato di  Benabbou  Abdelouahed,  Elfilali  Othman,  e
Laghzaoui Kalid, privi del permesso di soggiorno, il  16  giugno  del
2008 (data di consumazione del reato aggravato)  non  aveva  autonomo
rilievo penale e quindi non puo' essere presa in  considerazione  nel
presente giudizio  se  non  come  circostanza  aggravante.  Ne'  puo'
ipotizzarsi un problema di compatibilita'  (o  assorbimento)  tra  la
citata aggravante  e  la  nuova  fattispecie  incriminatrice  proprio
perche' non contestata, ne' contestabile  ai  sensi  degli  artt.  25
della Costituzione e 2 comma 1 c.p. 
    In  conclusione  si  ritiene  che   il   mutamento   del   quadro
legislativo, per come opportunamente  richiamato  dal  Giudice  delle
leggi, non abbia fatto venire meno la rilevanza  della  questione  di
costituzionalita' dell'art. 61, n. 11-bis c.p.,  avuto  riguardo  non
solo alla specificita' del caso concreto, ma anche in  ragione  della
proposta lettura delle nuove disposizioni legislative. 
    Prima di procedere all'esame delle  ragioni  poste  a  fondamento
della ritenuta non manifesta  infondatezza  della  questione,  appare
utile premettere che la ratio sottesa  all'aggravante  in  esame,  in
risposta  ad  una  crescente  domanda  sociale  di  sicurezza,  viene
individuata nella  volonta'  di  contrasto  della  presunta  sostanza
criminogena  connessa  all'immigrazione  irregolare,  che  rende   la
persona priva del permesso di soggiorno astrattamente piu' pericolosa
di qualunque altro  soggetto  perche'  gia'  ribelle,  attraverso  la
violazione della disciplina  dell'ingresso,  rispetto  alla  potesta'
statuale. 
2. - Non manifesta infondatezza della questione. 
    Con riferimento alla non manifesta infondatezza della  questione,
questo giudice la ritiene sussistente in base alle considerazioni che
seguono. 
    2.1 - Violazione dell'art. 3 della Costituzione e dei principi di
ragionevolezza, uguaglianza e proporzionalita' cosi' come  desumibili
dalla  giurisprudenza  costituzionale   in   relazione   al   sistema
penalistico dell'istituto delle aggravanti. 
    Per affrontare il tema oggetto del dubbio di costituzionalita' e'
preliminare  accertare  sinteticamente  la  natura  giuridica   della
circostanza aggravante di cui all'art. 61, n. 11-bis c.p. 
    Com'e' noto la ratio  essendi  delle  circostanze  del  reato  e'
costituita dall'aspirazione del legislatore di adeguare  la  pena  al
reale  disvalore   dei   fatti   concreti,   nella   prospettiva   di
individualizzazione  dell'illecito  penale   e,   con   esso,   della
responsabilita' dell'agente. Si tratta cioe' di uno strumento con  il
quale si adegua la sanzione al reato e all'agente  in  un'ottica  non
solo di prevenzione generale, ma anche rieducativa della pena. 
    Il nostro ordinamento penalistico prevede  varie  classificazioni
delle circostanze ma quelle che in questa sede  interessano  sono  le
seguenti: 
        a) circostanze oggettive e circostanze  soggettive  (art.  70
c.p.); 
        b) circostanze comuni e speciali. 
    La circostanza in esame, poiche' attiene allo status personale di
straniero presente illegalmente sul territorio dello Stato, non  puo'
che  essere  qualificata  come   circostanza   aggravante   di   tipo
soggettivo,  connessa  alle  «qualita'  personali  del  colpevole»  e
poiche' e' applicabile indistintamente  a  qualsiasi  fattispecie  di
reato, a prescindere dal tipo e dalle circostanze  di  fatto  che  lo
caratterizzano - con un aumento di pena generale e costante fino a un
terzo ex artt. 64 e 65 c.p.  -,  deve  considerarsi  una  circostanza
aggravante comune, e cio' anche in  ragione  della  sua  collocazione
entro l'art. 61 c.p. 
    E' proprio sotto  i  profili  di  generalita'  ed  automaticita',
tipici delle aggravanti comuni,  collegati  pero'  ad  una  «qualita'
personale del colpevole», che si evidenziano i piu'  gravi  dubbi  di
legittimita' costituzionale. 
    Lo sforzo di tipizzazione della fattispecie penale,  grazie  alla
previsione  di  elementi   accessori   del   fatto   che   consentono
l'adeguamento della pena  al  caso  concreto,  si  materializza  solo
attraverso l'operazione accertativa del giudice  che,  come  per  gli
elementi essenziali del reato,  deve  verificare  la  presenza  delle
condizioni di fatto costitutive dell'aggravante. 
    Ad esempio, nel caso dell'aggravante di cui  all'art.  61,  n.  9
c.p. («l'avere  commesso  il  fatto  con  abuso  dei  poteri,  o  con
violazione del doveri  inerenti  a  una  pubblica  funzione  o  a  un
pubblico servizio, ovvero alla qualita' di ministro  di  un  culto»),
qualificata come aggravante comune soggettiva,  perche'  concerne  la
qualita' personale del colpevole (Cass. Pen. 8 maggio  1981  su  Rep.
Foro It. 1981, 391) non basta che il soggetto possieda  la  qualifica
di pubblico ufficiale o di  incaricato  di  pubblico  servizio  o  di
ministro di culto, ma occorre che il giudice accerti anche  «l'abuso»
e l'intenzionalita' dell'agente di usare il  potere  oltre  i  limiti
legali. La ratio dell'aggravante risiede nell'esigenza di tutela  del
corretto svolgimento dell'attivita', a rilevanza pubblica, svolta  da
alcuni soggetti. 
    E ancora, nel caso dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 11 c.p.
(«l'avere commesso il fatto con abuso di  autorita'  o  di  relazioni
domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di  prestazione
d'opera, di coabitazione, o di ospitalita'»),  anch'essa  qualificata
come aggravante comune soggettiva, invece,  si  intende  tutelare  il
dovere di lealta' nei rapporti di lavoro, di convivenza, di  famiglia
e di ospitalita', cioe'  in  relazioni  interpersonali  di  reciproco
affidamento, cosicche' al giudice spetta di accertare in concreto non
solo la qualita' personale dell'agente ma anche l'abuso della  stessa
e i rapporti tra colpevole e offeso. 
    Nelle  ipotesi  richiamate   a   titolo   di   esempio,   quindi,
l'applicazione  dell'aggravante  comune   soggettiva   non   discende
automaticamente dalla condizione o qualita' personale dell'agente, ma
dalla verifica in concreto che quella condizione abbia effettivamente
aggravato la condotta. Solo dopo  la  valutazione  del  giudice,  sul
maggiore  disvalore  del  fatto  per  la  sussistenza  di   tutti   i
presupposti    dell'aggravante,    si    perviene    all'applicazione
dell'aumento di pena. 
    L'unico caso assimilabile a quello dell'art. 61, n. 11-bis  c.p.,
in   cui   invece   l'applicazione   della    circostanza    discende
automaticamente  dalla  condizione  dell'agente,  e'   quello   della
recidiva prevista dall'art. 70 ultimo comma c.p. 
    Questo  istituto  pero',  non  e'  logicamente  e  giuridicamente
equiparabile  alla  fattispecie  de  qua,  in  quanto   la   recidiva
presuppone la condanna dell'agente per una condotta  di  per  se,  ed
autonomamente, illecita sul piano penalistico. Cio' che ne giustifica
l'automatica applicazione (sul  punto  vedi  infra  in  relazione  al
potere discrezionale  del  giudice  e  al  problema  dell'automatismo
applicativo), indipendentemente dalla relazione della stessa  con  la
fattispecie astratta di reato  cui  e'  connessa,  si  giustifica  in
ragione del particolare disvalore attribuito dall'ordinamento  a  chi
abbia gia' commesso altri  illeciti  penali,  percio'  accertati  dal
giudice. 
    Nel caso dell'aggravante di cui all'art. 61, n.  11-bis  c.p.  ci
troviamo di fronte ad una fattispecie totalmente eccentrica  rispetto
al sistema e,  dunque,  irragionevole  ai  sensi  dell'art.  3  della
Costituzione, perche' non consente al giudice alcuna  valutazione  in
concreto   della   connessione   tra   la   qualita'   di   straniero
illegittimamente presente nello Stato e la condotta criminale per  la
quale viene giudicato (come invece avviene per  le  altre  aggravanti
comuni soggettive). 
    Cio' avviene in termini del tutto differenti rispetto  al  regime
previsto nel caso della recidiva - come modificata dalla legge n. 251
del 2005 - che, come si vedra' oltre, ha  indotto  il  giudice  delle
leggi (vedi sent. n. 192 del  2007)  e  il  giudice  di  legittimita'
(Cass.   pen.   ,   sent.   n.   2606   del   2008)   a   prospettare
un'interpretazione che, per  essere  rispondente  alla  Costituzione,
esclude  qualsiasi  automatismo  ed  impone  sempre  una  valutazione
discrezionale del caso e della persona in esame, con possibilita'  di
evitare l'applicazione dell'aggravamento sanzionatorio  allorche'  la
maggiore pericolosita' non sia ravvisata in concreto. 
    Il necessario intervento della valutazione del giudice,  tale  da
garantire  il  rispetto  della  norma  costituzionale  invocata,   e'
ulteriormente  confermato  dalla  previsione  di  talune  aggravanti,
comuni e speciali, fondate unicamente  sulla  condizione  o  qualita'
personale  del   colpevole,   purche'   sia   pero'   preventivamente
intervenuto un provvedimento  del  giudice  che  abbia  accertato  la
pericolosita' del soggetto, in forza di specifici  provvedimenti  che
attestino tale qualita'. 
    Ad esempio nel caso dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 6 c.p.
«l'avere il colpevole commesso il reato durante il tempo, in  cui  si
e' sottratto volontariamente alla esecuzione di un mandato  o  di  un
ordine di arresto o di cattura o  di  carcerazione,  spedito  per  un
precedente  reato»,  comunemente  ritenuta  di  tipo  soggettivo,  la
maggiore gravita' del fatto e'  determinata  appunto  dalla  maggiore
pericolosita' del soggetto che, «non piegandosi al potere  coercitivo
dello  Stato»  (Cass.  29   gennaio   1994   De   Feo)   si   sottrae
volontariamente a provvedimenti restrittivi della liberta'  personale
emessi dall'Autorita' giudiziaria e, contemporaneamente, commette  un
altro reato. 
    Lo stesso avviene nel caso delle circostanze aggravanti  previste
da specifiche fattispecie di  reato  o  da  leggi  speciali  come  ad
esempio: 
        per l'omicidio (576 c.p.) e per  le  lesioni  personali  (585
c.p.), le aggravanti di cui agli artt.  576,  comma  l,  nn.  3  «dal
latitante,  per  sottrarsi   all'arresto,   alla   cattura   o   alla
carcerazione ovvero per procurarsi i mezzi di sussistenza durante  la
latitanza» e n.  4  «dall'associato  per  delinquere,  per  sottrarsi
all'arresto, alla cattura o alla carcerazione»; 
        per l'estorsione le aggravanti di cui all'art. 629,  comma  2
c.p. «La pena e' della reclusione da sei a venti anni e  della  multa
da euro 1.032 a euro 3.098,  se  concorre  taluna  delle  circostanze
indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo precedente»; 
        per la persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una
misura di prevenzione, 1'aggravante di cui all'art. 7 della legge  n.
575 del 1965 «Le pene stabilite per i delitti previsti dagli articoli
336, 338, 353, 378, 379, 416, 416-bis, 424, 435, 513-bis,  575,  605,
610, 611, 612, 628, 629, 630, 632, 633,  634,  635,  636,  637,  638,
640-bis, 648-bis, 648-ter del codice  penale  sono  aumentate  da  un
terzo alla meta' e quelle stabilite per  le  contravvenzioni  di  cui
agli articoli 695, primo comma, 696, 697, 698, 699 del codice  penale
sono aumentate nella misura di cui al secondo comma dell'art. 99  del
codice penale se il fatto  e'  commesso  da  persona  sottoposta  con
provvedimento definitivo ad una  misura  di  prevenzione  durante  il
periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui
ne e' cessata». 
    In  dette  circostanze   viene   in   rilievo   il   profilo   di
ragionevolezza sotteso alle aggravanti,  consistente  nella  maggiore
offensivita' della condotta derivante dalla commissione di  un  reato
da parte di un soggetto nei cui confronti e'  stato  gia'  emesso  un
provvedimento giudiziario che ne  ha  accertato  la  pericolosita'  -
anche specifica per l'associato per delinquere o  per  l'associato  a
sodalizio criminale di cui all'art. 416-bis c.p. - (Cass. 29  gennaio
1994, cit.). 
    Inoltre, e' utile aggiungere che il legislatore, al solo fine  di
garantire le funzioni amministrative preordinate all'espulsione degli
immigrati irregolari e di disciplinare  in  modo  rigoroso  i  flussi
migratori, stabilisce che la  medesima  condizione  soggettiva,  come
sopra scritto, possa  simultaneamente  essere  da  un  lato  elemento
costitutivo dei reati di cui agli artt. 10-bis e 14 comma  5-ter  del
testo unico dell'immigrazione - fattispecie anch'esse che prescindono
da una accertata o presunta pericolosita' dei  soggetti  responsabili
-;  dall'altro  circostanza  aggravante,  cosi'  da  triplicarne,  in
astratto, le possibilita' di punizione, fatto salvo  quanto  ritenuto
in ordine all'incompatibilita' dell'aggravante con  i  reati  di  cui
agli artt. 10-bis e 14 comma 5-ter t.u. citato. 
    La disposizione  impugnata  sembra  ulteriormente  confermare  le
considerazioni piu' volte prospettate dalla Corte costituzionale,  in
relazione   alla   sproporzione   e   alla   irragionevolezza   della
legislazione interna sulla condizione dello straniero  irregolare,  e
si scontra frontalmente con l'orientamento  nuovamente  espresso  dal
Giudice delle leggi nella sentenza n. 22  del  2007,  sentenza  nella
quale, dopo essersi premesso che il controllo dei flussi migratori  e
la disciplina dell'ingresso e della permanenza  degli  stranieri  nel
territorio nazionale e' «un grave  problema  sociale,  umanitario  ed
economico  che  implica  valutazioni  di  politica  legislativa   non
riconducibili a mere esigenze generali di ordine e sicurezza pubblica
ne sovrapponibili o assimilabili a problematiche diverse, legate alla
pericolosita' di alcuni soggetti e di alcuni comportamenti che  nulla
hanno a che fare con il fenomeno dell'immigrazione», si da' atto  che
le questioni di  costituzionalita'  sollevate  con  riferimento  alla
disciplina del testo unico  sull'immigrazione,  per  come  modificato
dalla legge n. 271 del 2004, in comparazione con altre  norme  penali
«puo' servire eventualmente al  legislatore  per  una  considerazione
sistematica di tutte le  norme  che  prevedono  sanzioni  penali  per
violazioni di provvedimenti amministrativi in  materia  di  sicurezza
pubblica,  senza  dimenticare  peraltro  che  il  reato  di  indebito
trattenimento  nel  territorio  nazionale  dello  straniero   espulso
riguarda  la  semplice  condotta  di  in  osservanza  dell'ordine  di
allontanamento dato dal questore, con una fattispecie  che  prescinde
da   una   accertata   o   presunta   pericolosita'   del    soggetti
responsabili.», per concludere con un significativo  monito,  proprio
in relazione al profilo sanzionatorio, in forza del  quale:  «Occorre
tuttavia riconoscere che il quadro normativo in materia  di  sanzioni
penali per l'illecito  ingresso  o  trattenimento  di  stranieri  nel
territorio nazionale, risultante  dalle  modificazioni  che  si  sono
succedute  negli  ultimi  anni,  anche  per  interventi   legislativi
successivi  a  pronunce  di   questa   Corte,   presenta   squilibri,
sproporzioni e disarmonie, tali da rendere problematica  la  verifica
di compatibilita' con i principi costituzionali di uguaglianza  e  di
proporzionalita' della pena e  con  la  finalita'  rieducativa  della
stessa». 
    Si ritiene che proprio il divieto di  discriminazioni  soggettive
costituisca il contenuto  del  principio  generale  d'uguaglianza  ed
eventuali trattamenti differenziati sono  compatibili  con  l'art.  3
Cost. solo se ragionevolmente giustificati.  Nel  caso  in  esame  la
motivazione dell'aggravamento sanzionatorio e' data dalla presunzione
assoluta, iuris et de iure, della  maggiore  capacita'  a  delinquere
dello straniero extracomunitario e dell'apolide per il solo fatto  di
trovarsi irregolarmente nel territorio dello Stato.  Una  motivazione
che, ad avviso  del  remittente,  proprio  in  quanto  determina  una
disparita' soggettiva incidente sulla pari  dignita'  umana  e  sulla
liberta' personale,  nel  suo  risvolto  costituito  dal  trattamento
sanzionatorio, non puo' superare lo scrutinio di  ragionevolezza  che
deve essere tanto  piu'  intenso  e  piu'  rigoroso  quanto  piu'  e'
rilevante, come nella specie, il diritto su cui incide. 
    Contro una indiscriminata generalizzazioni  su  base  soggettiva,
ancorata ad una condizione  di  svantaggio  sociale  dell'autore  del
reato,  si  veda  il  percorso  argomentativo  seguito  dalla   Corte
costituzionale nella sentenza n.  519  del  1995  che  ha  dichiarato
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  670,  primo  comma,  del
codice  penale  e  che  si  riporta  testualmente  perche'   utilizza
motivazioni, legate alla  figura  del  cd  mendicante  non  invasivo,
perfettamente sovrapponibili  alla  condizione  dello  straniero  non
comunitario irregolare nel nostro Paese: «Gli squilibri  e  le  forti
tensioni che  caratterizzano  le  societa'  piu'  avanzate  producono
condizioni di estrema  emarginazione,  si'  che  senza  indulgere  in
atteggiamenti di severo  moralismo  non  si  puo'  non  cogliere  con
preoccupata inquietudine l'affiorare di tendenze,  o  anche  soltanto
tentazioni, volte a  "nascondere"  la  miseria  e  a  considerare  le
persone in condizioni di poverta' come pericolose e colpevoli.  Quasi
in una sorta di recupero della  mendicita'  quale  devianza,  secondo
linee che il movimento codificatorio dei secoli XVIII e XIX stilizzo'
nelle tavole della  legge  penale,  preoccupandosi  nel  contempo  di
adottare  forme  di  prevenzione   attraverso   la   istituzione   di
stabilimenti  di  ricovero  (o  ghetti?)  per  i  mendicanti.  Ma  la
coscienza  sociale  ha  compiuto  un   ripensamento   a   fronte   di
comportamenti un tempo ritenuti pericolo incombente per una  ordinata
convivenza,  e  la  societa'  civile  consapevole  dell'insufficienza
dell'azione  dello  Stato  ha  attivato   autonome   risposte,   come
testimoniano le organizzazioni di volontariato che  hanno  tratto  la
loro ragion d'essere, e la loro  regola,  dal  valore  costituzionale
della solidarieta'.... In questo quadro, 1a  figura  criminosa  della
mendicita' non invasiva appare  costituzionalmente  illegittima  alla
luce del canone della ragionevolezza, non potendosi ritenere in alcun
modo necessitato il ricorso alla regola penale.  Ne'  la  tutela  del
beni giuridici della tranquillita' pubblica,  "con  qualche  riflesso
sull'ordine pubblico" (sentenza n. 51 del 1959),  puo'  dirsi  invero
seriamente posta in pericolo dalla mera mendicita' che si risolve  in
una semplice richiesta di aiuto». 
    Cosi' come richiesta di «aiuto» puo' essere definita quella degli
extracomunitari provenienti da  Paesi  segnati  dalla  guerra,  dalla
carestia, dalla poverta', dalla  violenza  di  feroci  dittature,  da
disastri ambientali, da persecuzioni. 
2.2.1 - L'art. 3 della Costituzione e il divieto  di  discriminazione
contenuto nella Convenzione Europea per i diritti dell'Uomo (CEDU)  e
nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (c.d.  Carta
di Nizza). 
    Ad acuire ulteriormente  il  problema,  sotto  il  profilo  della
irragionevolezza dell'art. 61 n. 11-bis c.p. in relazione all'art.  3
della Costituzione e', ad avviso del remittente, la  circostanza  che
con una norma, qualificata come interpretativa, siano stati  esclusi,
dal novero dei soggetti cui  si  applica  l'aggravante  in  esame,  i
cittadini dell'Unione europea. 
    Infatti,  stabilito  che  anche  il  cittadino  comunitario  puo'
trovarsi illegalmente nel territorio dello Stato (si veda l'art.  235
c.p. come modificato ai sensi del d.l. n. 92/2008,  convertito  nella
legge 24 luglio 2008 n. 125, nonche' il d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30
«Attuazione  della  direttiva  2004/38/CE  relativa  al  diritto  dei
cittadini dell'Unione  e  dei  loro  familiari  di  circolare  e'  di
soggiornare  liberamente  nel  territorio  degli  Stati  membri»  che
configura delle ipotesi di illegale presenza in Italia), non e'  dato
comprendere perche' a parita' di illegale presenza (si pensi, ad es.,
alla situazione di due persone entrate in Italia in violazione di  un
precedente  provvedimento  di  espulsione/allontanamento)  il   reato
commesso dal cittadino extracomunitario o  dall'apolide  vada  punito
piu' gravemente di quello commesso dallo straniero cittadino  di  uno
Stato membro dell'Unione europea. 
     in cui si afferma «un'aggravante  della  pena  inflitta  per  la
commissione di un reato, fondato  esclusivamente  sulla  qualita'  di
cittadino europeo non nazionale e non in regola con  il  permesso  di
soggiorno, sarebbe discriminatorio e contrario ai criteri  ispiratori
della  direttiva  2004/38  ed  alla  giurisprudenza  della  Corte  di
giustizia in materia». 
    Si fa sostanzialmente discendere da un dato estrinseco, del tutto
estraneo  alla  persona,  come  quello  dell'ingresso  del  Paese  di
appartenenza all'Unione europea o ad altra  collocazione  geografica,
l'applicabilita'  di  una  norma  penale,  e  sempre  a   prescindere
dall'accertamento della sua concreta ed effettiva pericolosita'. 
    E'  un  principio  giuridico  acquisito  che  le  differenze   di
trattamento   sono   legittime   se   superano   uno   scrutinio   di
ragionevolezza della scelta legislativa. Nel caso di specie,  invece,
proprio in forza della «norma di interpretazione autentica» si  attua
una doppia irragionevole  disparita'  di  trattamento  del  cittadino
extracomunitario illegalmente presente nel  Paese  (e  dell'apolide):
nei confronti del cittadino italiano e nei confronti del cittadino di
altro Paese membro dell'Unione europea. 
    Cio' che assume rilievo in questo nuovo panorama integrato  delle
fonti, in cui il giudice ordinario nazionale e' chiamato ad agire  su
un piano «multilivello dei diritti», la  lettura  dell'art.  3  della
Costituzione italiana deve avvenire anche in combinato  disposto  con
il principio  di  non  discriminazione,  suo  diretto  risvolto,  che
costituisce il nucleo centrale di tutte  le  Carte  sovranazionali  e
puo' ritenersi patrimonio della  comunita'  umana.  Detto  principio,
oltre ad essere sancito nella dichiarazione  universale  dei  diritti
dell'uomo del 1948 agli artt. 2 e 7 e nel  Patto  internazionale  sui
diritti civili e politici all'art. 2 (vedi infra), in ambito  europeo
e' consacrato: 
        a) nella Convenzione europea dei diritti  dell'uomo,  il  cui
art.  14  afferma:  «Il  godimento  dei  diritti  e  delle   liberta'
riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato  senza
nessuna. discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la
razza, il colore, la lingua, la religione, le  opinioni  politiche  o
quelle di altro genere, l'origine nazionale o sociale, l'appartenenza
a una minoranza nazionale, la ricchezza,  la  nascita  o  ogni  altra
condizione». 
        b)  nell'art.  1  del  XII  protocollo  addizionale:  «1.  Il
godimento  di  ogni  diritto  previsto  dalla   legge   deve   essere
assicurato, senza discriminazione alcuna, fondata in particolare  sul
sesso, la razza, il colore, la  lingua,  la  religione,  le  opinioni
politiche  o  di  altro  genere,  l'origine  nazionale   o   sociale,
l'appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od
ogni altra condizione. 
    Detto Protocollo viene qui  segnalato  -  ancorche'  l'Italia  lo
abbia firmato ma non ratificato - per il suo carattere espressivo  di
principi comuni agli ordinamenti europei (si veda in  questi  termini
il richiamo ad esso contenuto nella sentenza della Corte cost. n. 393
del 2006); 
        c) nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione  europea,
cd Carta di Nizza, il cui capo  III  (titolato  UGUAGLIANZA)  prevede
l'art. 20: «Tutte le persone sono uguali davanti alla legge» e l'art.
21: 
        «1. E' vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in
particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle  o  l'origine
etnica  o  sociale,  le  caratteristiche  genetiche,  la  lingua,  la
religione o le convinzioni personali,  le  opinioni  politiche  o  di
qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il
patrimonio, la nascita, gli handicap, l'eta' o le tendenze sessuali. 
        2. Nell'ambito d'applicazione del trattato che istituisce  la
Comunita' europea e  del  trattato  sull'Unione  europea  e'  vietata
qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve  le
disposizioni particolari contenute nei trattati stessi». 
    Il rilievo del principio e' tale che il sistema integrato allarga
la  rosa  dei  destinatari  che  ne  devono  garantire  il  rispetto,
affinche' si facciano essi stessi strumento efficace  di  ampliamento
della tutela. E' la Corte costituzionale,  in  questa  logica  ed  in
questa  prospettiva,  a  disegnare  il  nuovo  ruolo  reticolare  dei
protagonisti di questa attivita' di collegamento di norme e di  fonti
che «e' frutto di una combinazione virtuosa tra l'obbligo che incombe
sul legislatore nazionale di adeguarsi ai principi posti dalla CEDU -
nella sua interpretazione  giudiziale,  istituzionalmente  attribuita
alla  Corte  europea  ai  sensi  dell'art.  32  della  Convenzione  -
l'obbligo che parimenti incombe sul giudice comune di dare alle norme
interne una interpretazione  conforme  ai  precetti  convenzionali  e
l'obbligo  che  infine   incombe   sulla   Corte   costituzionale   -
nell'ipotesi di impossibilita' di una interpretazione  adeguatrice  -
di non consentire che continui ad  avere  efficacia  nell'ordinamento
giuridico italiano una norma di cui sia stato accertato il deficit di
tutela riguardo ad un diritto  fondamentale.  Del  resto,  l'art.  53
della  stessa  Convenzione  stabilisce  che  l'interpretazione  delle
disposizioni CEDU non puo' implicare livelli di  tutela  inferiori  a
quelli assicurati dalle fonti nazionali» cosi' Corte cost.  sent.  n.
317/2009). 
    , si traduce nel divieto  di  «trattare  situazioni  analoghe  in
maniera differenziata e situazioni diverse in maniera uguale». 
    Il problema e', dunque, quello  di  accertare  se,  in  relazione
all'articolo  61,  n.  11-bis  c.p.,  avuto  riguardo  alla   lettura
integrata dell'art. 3 Cost. con i principi sovranazionali richiamati,
esista una obbiettiva e ragionevole  giustificazione  al  piu'  grave
trattamento penale applicato  all'autore  di  un  reato  per  la  sua
condizione di persona illegalmente presente nello Stato. 
    (testualmente Sentenza della Corte europea dei diritti  dell'uomo
del 1°dicembre 2009 - ricorso n. 43134/95; § 116 G.N. c. Italia). 
    Si   ritiene   che,   nella   specie,   non   solo   manchi   una
proporzionalita' tra fini (esigenza statuale di controllo dei  flussi
migratori e irrigidimento punitivo nei confronti di soggetti presenti
illegalmente nello Stato) e mezzi (aggravamento della pena per  fatti
estranei alla presenza illegale), ma  piu'  ancora  il  rispetto  del
principio  di  uguaglianza  inteso  come  trattamento  di  situazioni
analoghe (rectius: identiche) in maniera analoga (rectius: identica).
Infatti, il medesimo fatto-reato, che rende le  situazioni  tra  loro
appunto identiche, e non analoghe, viene punito in modo differente in
ragione soltanto della presenza - o meno  -  di  una  «caratteristica
personale» del suo autore. 
    Infine, quello  che,  in  astratto,  potrebbe  sembrare  il  fine
legittimo  di  uno  Stato,  ovverosia   il   perseguimento   rigoroso
dell'immigrazione clandestina, in realta', proprio per la  esclusione
dei    cittadini    comunitari     irregolari     dall'applicabilita'
dell'aggravante, rende quel fine apparente o inidoneo perche' tende a
perseguire  e  criminalizzare,  peraltro   solo   in   via   mediata,
l'irregolarita' non di tutti, ma di alcuni. 
2.3 - Violazione del principio di ragionevolezza anche  in  relazione
all'art.  13   della   Costituzione   ed   alla   valutazione   della
pericolosita' sociale. 
    Il  decreto-legge  n.  92  del  2008,  come  convertito,  con  la
previsione  impugnata  ha  ulteriormente  aggravato   la   disciplina
sanzionatoria, nonostante l'indicazione contenuta nella sopra  citata
sentenza n.  22  del  2007  della  Corte  costituzionale,  che  aveva
richiamato il legislatore ad avvedersi degli squilibri denunciati dai
giudici remittenti per invitarlo ad «un  intervento  legislativo  che
ben piu' efficacemente potrebbe ripristinare un sistema sanzionatorio
dagli equilibri compatibili coi  valori  costituzionali  evocati.  In
estrema sintesi, la rigorosa osservanza del  limiti  dei  poteri  del
giudice  costituzionale  non  esime   questa   Corte   dal   rilevare
l'opportunita' di un sollecito intervento del legislatore,  volto  ad
eliminare gli  squilibri,  le  sproporzioni  e  le  disarmonie  prima
evidenziate».    Infatti     l'aggravante     contestata     sancisce
sostanzialmente un'ipotesi di presunzione ex  lege  di  pericolosita'
del soggetto, tale da imporre un aumento di pena fino  ad  un  terzo,
rispetto alla pena del reato  cui  accede  e  a  prescindere  da  una
qualsiasi valutazione in concreto da  parte  del  giudice,  cosicche'
deve essere sottoposta ad uno scrutinio  rigoroso  di  compatibilita'
anche rispetto all'art. 13 della Costituzione che sancisce un diritto
inviolabile dell'uomo,  cittadino  o  straniero  che  sia  (cosi'  la
sentenza n. 58 del 1995 della Corte costituzionale, al  punto  3  del
Considerato in diritto, e  la  sentenza  n.  62  del  1994  che,  con
riferimento alla liberta' personale,  stabilisce  che  «il  principio
costituzionale di uguaglianza in generale non tollera discriminazioni
tra la posizione del cittadino e quella dello straniero». 
    La norma penale, nella specie l'aggravante di cui all'art. 61, n.
11-bis c.p., potra' sacrificare o comprimere  detto  diritto  purche'
sia sostenuta  dal  perseguimento  o  dalla  realizzazione  di  altri
interessi  di  pari  rango  costituzionale  (sentenze   della   Corte
costituzionale nn. 63/1994, 81/1993, 368/1992, 366/1991), dei  quali,
pero', nella specie, non si riesce ad intravedere il fondamento. 
    Il  controllo  del  fenomeno  migratorio  illegittimo,   infatti,
ammesso che rientri tra gli interessi di rango costituzionale  e  non
di mera politica del diritto,  non  sembra  comunque  equiparabile  a
quello  della  tutela  della  liberta'  personale   -   intesa   come
protrazione  della  condizione  di  restrizione  -  in  relazione   a
categorie di soggetti la cui pericolosita' sociale non  e'  in  alcun
modo dimostrata. 
    Che la pericolosita'  sociale  dello  straniero  illegittimamente
presente nello Stato non possa essere presunta e' altresi' confermato
dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che,  nella  sentenza
n.  58  del  1995  in  cui  il  giudice  remittente  dubitava   della
legittimita' costituzionale dell'art. 86, primo  comma,  del  decreto
del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309  «nella  parte
in cui obbliga il giudice a emettere, contestualmente alla  condanna,
l'ordine di espulsione dallo Stato, eseguibile a  pena  espiata,  nei
confronti dello straniero condannato per uno dei reati previsti dagli
articoli 73, 74, 79 e 82, commi  2  e  3,  precludendogli,  in  forza
dell'art. 164, secondo  comma,  n.  2,  c.p.,  la  concessione  della
sospensione  condizionale   della   pena   inflitta»,   ha   ritenuto
irragionevole    l'applicazione    della    misura    di    sicurezza
dell'espulsione   dello   straniero   «senza   l'accertamento   della
sussistenza in concreto della pericolosita'  sociale  contestualmente
alla condanna» (cosi' nel dispositivo della citata pronunzia). 
    Se, dunque, e' stata dichiarata costituzionalmente illegittima la
disposizione sopra menzionata, perche' fondata sul  solo  presupposto
legale  della  condizione  di  straniero  del  condannato,   per   la
determinazione presuntiva della pericolosita' sociale  di  questi,  a
maggior ragione cio'  deve  valere  con  riferimento  all'ipotesi  di
specie  in  cui  non  viene  in  rilievo,  sulla  base  del  medesimo
presupposto, l'applicazione di una misura di sicurezza personale,  ma
la quantificazione stessa della pena. 
    Sotto il profilo della ragionevolezza  va  ancora  osservato  che
secondo la Corte costituzionale «la regolamentazione dell'ingresso  e
del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale  e'  collegata
alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad  esempio,
la sicurezza e la sanita' pubblica, l'ordine pubblico, i  vincoli  di
carattere  internazionale  e  la  politica  nazionale  in   tema   di
immigrazione  e  tale  ponderazione  spetta  in   via   primaria   al
legislatore  ordinario,  il  quale  possiede  in   materia   un'ampia
discrezionalita'»; ma tale discrezionalita' incontra un  insuperabile
limite  «costituito  appunto  dalla   conformita'   a   Costituzione,
ovverosia  dalla  non   manifesta   irragionevolezza   delle   scelte
legislative operate» (si vedano, per tutte, la sentenza  n.  148  del
2008, la sentenza n. 206 del 2006 e l'ordinanza n. 361 del 2007). 
    La motivazione della richiamata sentenza n.  58  del  1995  della
Corte  costituzionale  consente  appunto  di  affermare  che  la  non
ragionevolezza dell'aggravante in esame discende proprio dal  profilo
aprioristico di pericolosita' che introduce, senza alcun accertamento
della sua sussistenza in concreto, ragion per cui appare inidoneo  il
richiamo, a sua giustificazione, di  altri  «interessi  pubblici»  da
tutelare,  quali  il  presidio  della  sicurezza  dei   cittadini   o
dell'ordine pubblico. 
2.3.1 - Tre situazioni di evidente irragionevolezza. 
    , in tema di successione di elementi normativi, la valutazione di
irregolarita' del soggiorno dovra' riguardare la situazione giuridica
dello straniero al momento del  fatto,  diventando  irrilevante  ogni
modifica  successiva.  Cosicche'  l'aggravante  in   esame   restera'
comunque   applicabile   anche   se,   in   seguito,   il   cittadino
extracomunitario irregolarmente presente alla  data  di  consumazione
del reato abbia ottenuto un valido permesso di  soggiorno,  tanto  da
far venire meno la ragione presuntiva della sua pericolosita'; 
    2)  nello  stesso  senso   si   potrebbe   porre,   con   effetti
giuridicamente paradossali, il caso dell'extracomunitario  irregolare
che  faccia  ingresso  in  Italia  per  avanzare  domanda  di   asilo
costituzionale (o  di  rifugio  o  di  protezione  sussidiaria  o  di
permesso  di  soggiorno  per  motivi  umanitari)  e  nelle  more  del
perfezionamento del relativo procedimento commetta un  reato  comune.
In questo caso, stante la natura soggettiva dell'aggravante, connessa
ad una condizione che non consente margini di apprezzamento da  parte
del giudice, la stessa dovrebbe essere applicata. Ma se  la  qualita'
di  asilante  o   di   rifugiato   dovesse   essere   successivamente
riconosciuta, cio' renderebbe l'ingresso o il soggiorno regolari  fin
dall'inizio (art. 10/3  Costituzione  e  art.  31  della  Convenzione
relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra  il  28  luglio
1951, ratificata e resa esecutiva con legge 24 luglio  1954,  n.  722
che sancisce il principio del non refoulement),  con  la  conseguenza
che sarebbe stata nel frattempo applicata dal Giudice penale - ma non
dal giudice di Pace che e' tenuto, invece, a sospendere  il  processo
ex art. 10 t.u.  immigrazione  -  un  aggravamento  di  pena  vietato
dall'ordinamento. 
    3)  Si  ipotizzi,  infine,  che   autore   del   reato   sia   un
extracomunitario minorenne non accompagnato. Come  e'  noto,  tra  le
deroghe apportate alla disciplina dell'immigrazione,  in  nome  della
tutela del minore, vi e' quella del divieto di  espulsione  (art.  19
del d.lgs. n. 286/1998), salvo che questa  misura  sia  disposta  dal
Ministro dell'interno per motivi di ordine pubblico  o  di  sicurezza
dello Stato (art. 13, comma 1).  A  prescindere  dall'essere  entrato
irregolarmente, il minore ha diritto di  soggiornare  sul  territorio
dello  Stato,  usufruendo  di  uno  speciale  permesso  di  soggiorno
temporaneo, proprio per consentire quegli interventi  protettivi  che
il legislatore ha introdotto in attuazione della Convenzione dell'ONU
sui diritti del fanciullo (ratificata dall'Italia  con  la  legge  n.
176/1991). Da cio' consegue che l'aggravante  in  esame  o  non  puo'
essere contestata agli autori dei  reati  extracomunitari  irregolari
minorenni, perche' per essi la permanenza nel territorio nazionale e'
comunque consentita, o che, ove contestata,  contrasterebbe  in  modo
insanabile con la disciplina in materia di immigrazione minorile che,
infatti, nel minore straniero irregolare vede un soggetto vulnerabile
da proteggere e non una minaccia per lo Stato. 
2.4 - Violazione dell'art. 25, secondo comma della Costituzione. 
    Se le circostanze aggravanti comuni costituiscono una variante di
intensita' dell'offesa al bene giuridico tutelato  dalla  fattispecie
di reato cui accedono, ne consegue che  anche  rispetto  ad  esse  va
accertato se rispondono al principio di offensivita'  (si  vedano  le
sentenze della Corte costituzionale nn. 265 del 2005 e 519 del 2000),
di necessarieta' e di sussidiarieta' del  diritto  penale,  corollari
del principio di legalita' sancito dall'art. 25 della Costituzione. 
    A questo riguardo e' utile richiamare  la  sentenza  della  Corte
costituzionale n. 409 del 1989 li' dove afferma che  «il  legislatore
non e' sostanzialmente arbitro delle sue scelte criminalizzatrici  ma
deve, oltre che ancorare  ogni  previsione  di  reato  ad  una  reale
dannosita' sociale, circoscrivere, per quanto possibile, tenuto conto
del rango costituzionale della (con  la  pena  sacrificata)  liberta'
personale l'ambito del penalmente rilevante». 
    Proprio il legame indissolubile che deve sussistere tra  sanzione
penale e commissione di un fatto offensivo,  anche  alla  luce  della
«individualizzazione» della pena (vedi infra), impone al  giudice  la
valutazione, in concreto, della incidenza  della  qualita'  personale
dell'agente sulle specifiche esigenze dei singoli casi,  al  fine  di
evitare la punizione di una pericolosita' presunta  e  l'adesione  ad
una ormai definitivamente tramontata concezione del  «tipo  normativo
d'autore», volta a cogliere la tipologia etico-politica degli  autori
del fatto-reato rispondendo alle  esigenze  sentite  e  rappresentate
dalla coscienza sociale. 
    Se, come nella specie, l'aumento di pena e' applicato  all'agente
per la sola  condizione  di  extracomunitario  (o  apolide)  presente
illegalmente nello Stato, quindi automaticamente in forza di un  mero
status personale, viene meno il principio verso  cui  e'  diretto  il
nostro sistema penalistico che  fonda  anche  la  politica  criminale
della difesa sociale sulla responsabilita' individuale e non su un  a
priori elevato a presunzione di pericolosita'. 
    E' evidente, infatti, che, in concreto, il  giudice,  sulla  base
dell'art. 61, n. 11-bis c.p., e' oggi tenuto  ad  accertare  solo  se
esista il dato oggettivo della presenza  irregolare  dello  straniero
nel territorio dello Stato, ma non anche  se  e  come  questo  incida
sulla fattispecie base, tanto da aggravarne concretamente l'offesa. A
conferma di questo inevitabile indirizzo interpretativo si  legga  la
recentissima  sentenza  della  III  Sezione  penale  della  Corte  di
cassazione (n. 4406 del 26 novembre 2009 - depositata il  2  febbraio
2010) secondo la quale la configurabilita' dell'art.  61,  n.  11-bis
cod. pen. prescinde da qualsiasi nesso tra il reato  e  lo  stato  di
illegale permanenza dell'agente nel territorio nazionale. 
    La  illogicita'  ed  irragionevolezza  di  detta  conclusione  e'
evidente. 
    Nei reati colposi o nei reati dolosi come  l'ingiuria,  gli  atti
osceni in luogo pubblico, la violazione degli obblighi di  assistenza
familiare o la violazione di domicilio - come nella specie  -,  e  si
potrebbe proseguire, l'aggravamento della sanzione  penale  in  forza
dell'art. 61, n. 11-bis c.p. e' diretta conseguenza della  condizione
personale dell'autore del reato, e  questo  senza  che  sia  dato  al
giudice di ricercare: 
        una correlazione con una maggiore carica offensiva del fatto; 
        un rapporto tra  il  reato  e  la  situazione  di  irregolare
presenza sul territorio dello Stato del suo autore; 
        una diversa percezione dalla persona  offesa  che,  peraltro,
verosimilmente, come nel caso sottoposto  all'esame  del  remittente,
non conosce la condizione  di  irregolarita'  dell'agente  o  la  sua
provenienza geografica. 
    In questi casi - e si sottolineano in particolare quelli  in  cui
la condotta e' meramente colposa - che il fatto sia  commesso  da  un
cittadino italiano o da un cittadino dell'Unione europea  regolare  o
irregolare, o da un cittadino extracomunitario regolare o irregolare,
o da un apolide, non determina alcuna incidenza  ulteriore,  ne'  sul
bene giuridico protetto dalla norma  penale,  ne'  sulla  particolare
pericolosita' dell'agente, ne' sulla vittima. Ciononostante  comporta
un aumento di pena solo per due delle categorie elencate di soggetti:
il cittadino extracomunitario irregolare e  l'apolide.  Il  disvalore
del fatto prescinde quindi da chi lo commette ma e'  questi,  per  la
sua specifica condizione personale,  ad  essere  destinatario  di  un
irragionevole e discriminatorio aggravamento della  sanzione  penale,
mentre basterebbe tenerne conto nella quantificazione della pena,  ai
sensi degli artt. 133  (in  particolare  il secondo  comma  n.  4)  e
133-bis c.p., allorche' la irregolarita' sia concretamente  incidente
sulla gravita' del reato e sulla capacita' a delinquere dell'agente. 
    , proprio stigmatizzando in  detta  disposizione  «una  sorta  di
reato d'autore, in aperta violazione del  principio  di  offensivita'
del reato che, nella sua accezione astratta,  costituisce  un  limite
alla discrezionalita' legislativa in materia penale  posto  sotto  il
presidio di questa Corte (sentenze n. 263  del  2000  e  n.  360  del
1995). Tale limite, desumibile dall'art.  25,  secondo  comma,  della
Costituzione, nel suo legame sistematico  con  l'insieme  dei  valori
connessi alla dignita' umana, opera  in  questo  caso  nel  senso  di
impedire che la qualita' di condannato per determinati delitti  possa
trasformare in reato fatti che per la generalita'  dei  soggetti  non
costituiscono illecito penale». 
    Mutatis mutandis cio' deve valere anche nel caso in esame in  cui
costituisce aggravante, tale da determinare  l'aumento  di  pena,  la
condizione di «clandestinita'» dello straniero, del  tutto  sconnessa
dal concreto contenuto offensivo del reato base  e  che  finisce  col
punire non tanto la irregolarita' in se' (che infatti  e'  penalmente
perseguita dall'art. 10-bis t.u. immigrazione), quanto  una  qualita'
personale del soggetto. 
    Se si  volesse  ritenere  che  la  condizione  di  clandestinita'
dell'autore del reato sia di per se' sufficiente  a  determinare  una
maggiore dannosita' del fatto si ricadrebbe,  come  sopra  sostenuto,
nell'accoglimento della concezione etico-sociale del «tipo  normativo
d'autore» rifiutata dal nostro ordinamento  costituzionale  e  penale
(sull'incongruita'  dell'aggravamento   legato   genericamente   alla
qualita'  personale  si  vedano  anche  le   sentenze   della   Corte
costituzionale n. 14 del 1971 e n. 370 del 1996, relative agli  artt.
707 e 708 c.p.). 
2.5 - Violazione dell'art. 27 Cost. sotto il  profilo  del  principio
della personalita' della responsabilita'  penale,  del  principio  di
proporzionalita' della pena, del principio rieducativo della pena. 
    L'art. 61, n. 11-bis c.p. quindi conduce  a  punire  diversamente
fatti tra loro oggettivamente identici e che  si  differenziano  solo
per lo status personale di chi li abbia commessi, cioe' solo  per  la
circostanza che l'autore  sia,  oppure  no,  uno  straniero  presente
irregolarmente nel territorio italiano. Questo dato contrasta con  il
principio della  personalita'  della  responsabilita'  penale,  della
proporzionalita' della pena e della sua funzione rieducativa. 
    Contrasta con il principio della responsabilita' penale personale
sancito dall'art. 27 Cost. comma 1  in  quanto  con  l'aggravante  in
esame all'agente si rimprovera non un'attitudine  delinquenziale,  ma
una qualita' personale, cosi' punendosi piu' gravemente  un  tipo  di
autore: l'extracomunitario «irregolare». 
    Se per i motivi sopra  esposti  si  esclude  una  valutazione  in
concreto da parte del giudice, non puo'  neanche  essere  sondato  il
grado di partecipazione  psichica  del  soggetto  rispetto  alla  sua
condizione di irregolare presenza in Italia, nonostante  la  clausola
di apertura del «giustificato motivo» contenuta nella disposizione di
cui  all'art.  14,  comma  5-ter  t.u.  immigrazione  e  riempita  di
contenuto dalla giurisprudenza costituzionale. 
    Omettendosi qualsiasi accertamento in concreto viene  meno  anche
«l'uguaglianza di fronte alla pena» intesa come  «proporzione»  della
pena rispetto alle «personali» responsabilita' ed  alle  esigenze  di
risposta che  ne  conseguano,  in  violazione  dell'esigenza  di  una
articolazione legale del sistema sanzionatorio che individualizzi  le
pene inflitte (vedi sent. n. 50 del 1980) al fine di evitare  che  la
funzione aggravatrice  della  pena  possa  soddisfare  solo  esigenze
generali di prevenzione e di difesa sociale,  che  prescindono  dalla
valutazione della personalita' del condannato. 
    Contrasta  con  il  principio  rieducativo  della  pena   sancito
dall'art. 27, terzo comma della Costituzione nella prospettiva  della
finalizzazione della sanzione al recupero sociale  dell'agente  e  al
suo reinserimento nel circuito della legalita'. 
    Sul punto non vi  e'  dubbio  che  vi  sia  un  ampio  ambito  di
discrezionalita' del legislatore, ma allorche',  come  nella  specie,
non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza per i  motivi
sopra prospettati, la sanzione diventera' per cio'  solo  irrazionale
ed  arbitraria  (cfr.,  tra  le  numerose   decisioni   della   Corte
costituzionale, la sent. n. 72 del 1980 e la sent. n. 103 del 1982). 
    Prevedere un aumento di pena fino ad un terzo per essere l'autore
del fatto uno straniero illegalmente presente  sul  territorio  dello
Stato, senza che cio' determini alcuna maggiore offensivita' concreta
del fatto reato (il cui accertamento e' peraltro preclusa al giudice)
e senza che cio' costituisca  un  indice  concreto  di  pericolosita'
dell'agente, frustra la finalita' rieducativa della pena perche'  non
vi e' un ragionevole  rapporto  tra  la  sua  maggiore  severita'  ed
effettiva entita' del reato. 
    In conclusione l'aggravante in esame, da un lato non realizza  la
finalita' retributiva e generalpreventiva  perche'  non  consente  di
adeguare la pena alla specificita' del caso concreto e, anzi, impone,
un  trattamento  sanzionatorio  sproporzionato  ed  inadeguato   alla
gravita'  del  caso;  dall'altro  lato  non  realizza  la   finalita'
specialpreventiva e  rieducativa  della  pena  poiche'  una  sanzione
siffatta non agevola il  reinserimento  sociale  dell'agente  ne'  lo
riconduce nell'ambito della legalita', anche amministrativa. 
    Cio' vale a  maggior  ragione  nel  caso  in  esame  in  cui,  in
violazione anche del principio di uguaglianza di fronte alla pena, il
trattamento sanzionatorio astrattamente previsto per Elfilali  Othman
e Laghzaoui Kalid, illegalmente presenti in Italia ma non attinti  da
provvedimento espulsivo, e' identico a quello previsto  per  Benabbou
Abdelouahed che e' anch'egli  irregolarmente  in  Italia  ma  non  ha
ottemperato all'ordine di espulsione (reato quello  di  cui  all'art.
14, comma 5-ter t.u. immigrazione non contestato dal p.m.). 
    Ne  deriva  un'irragionevole  ed  ingiustificata  disparita'   di
trattamento penale per  effetto  della  quale,  in  dipendenza  della
condizione di irregolare in cui versa l'autore, fatti  oggettivamente
identici o analoghi sono sottoposti a pene  sensibilmente  diverse  e
fatti oggettivamente diversi sono sottoposti alla medesima pena. Solo
l'adeguamento del trattamento punitivo  alla  specificita'  del  caso
concreto consente di assicurare un'effettiva  eguaglianza  di  fronte
alle pene, contribuisce  a  rendere  «personale»  la  responsabilita'
penale e a finalizzare la pena alla rieducazione del condannato. 
    In questa logica e' utile ricordare che il  Giudice  delle  leggi
con la sentenza n. 192 del  2007,  in  relazione  al  problema  della
obbligatorieta' o meno della recidiva reiterata e del divieto per  il
giudice di procedere al giudizio di bilanciamento con le  circostanze
attenuanti, ha escluso l'automatismo oggetto di censura,  fondato  su
una presunzione assoluta di  pericolosita'  sociale,  stabilendo  che
«conformemente ai criteri di corrente adozione in  tema  di  recidiva
facoltativa», il giudice deve applicare «l'aumento di  pena  previsto
per la recidiva reiterata solo  qualora  ritenga  il  nuovo  episodio
delittuoso concretamente significativo - in rapporto alla  natura  ed
al  tempo  di  commissione  dei  precedenti,  ed  avuto  riguardo  ai
parametri indicati dall'art. 133 c.p. - sotto il profilo  della  piu'
accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosita' del reo». 
    Degna di puntuale richiamo e', infine, la sentenza n. 78 del 2007
in  cui  il  Giudice  delle  leggi  ha  dichiarato   l'illegittimita'
costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 della legge  n.  354/1975  ove
interpretati nel senso che allo straniero entrato irregolarmente  nel
territorio dello Stato  o,  in  ogni  modo,  privo  del  permesso  di
soggiorno, fosse precluso l'accesso alle misure alternative  da  essi
previste. L'esclusione dalle misure alternative alla  detenzione  dei
cittadini  extracomunitari  presenti  irregolarmente  sul  territorio
dello Stato era, ad avviso della Corte costituzionale,  in  contrasto
con i valori sanciti dall'art. 27, terzo  comma,  della  Costituzione
mancando nel nostro  ordinamento  costituzionale  un'incompatibilita'
concettuale tra le misure  alternative  e  il  soggiorno  irregolare,
giacche' la mancanza di un titolo abilitativo al  soggiorno,  di  per
se', non e' sintomatica, in modo  univoco,  ne'  di  una  particolare
pericolosita' sociale, che  sarebbe,  quindi,  incompatibile  con  il
perseguimento di un percorso rieducativo attraverso qualsiasi  misura
alternativa; ne' della sicura  assenza  di  un  collegamento  con  il
territorio, che garantisse  la  proficua  applicazione  della  misura
medesima. 
    A prescindere dal fatto che il  legislatore  potrebbe,  in  linea
teorica, distinguere le forme  sanzionatorie  previste  nel  caso  di
stranieri  irregolari,  ad  avviso  della  Corte  comunque  non   gli
consentirebbe di spingersi  fino  al  punto  di  sancire  un  divieto
assoluto e  generalizzato  di  accesso  alle  misure  alternative  in
termini automatici, cosi come era stato prospettato  dalla  Corte  di
cassazione. Un simile  divieto  contrasterebbe,  secondo  il  Giudice
delle leggi, con i valori ispiratori  dell'ordinamento  penitenziario
che, sulla base del principio dell'uguale dignita'  delle  persone  e
della   funzione   rieducativa   della   pena,   non   opera   alcuna
discriminazione in merito al trattamento, a seconda della liceita'  o
meno della presenza nel territorio nazionale.  Ragionare  in  termini
diversi determinerebbe, ad  avviso  della  Corte,  che  la  finalita'
repressiva finirebbe per annullare quella rieducativa. 
    Gia' prima della pronuncia citata la  Suprema  Corte,  a  sezioni
unite, con  la  sentenza  del  28  marzo  2006,  imp.  Aloussi  aveva
stabilito il seguente principio  di  diritto  in  ordine  al  quesito
interpretativo sottoposto al suo vaglio: «In  materia  di  esecuzione
della pena  detentiva,  le  misure  alternative  alla  detenzione  in
carcere (nella specie, l'affidamento in prova al  servizio  sociale),
sempre che ne sussistano  i  presupposti  stabiliti  dall'ordinamento
penitenziario,  possono  essere  applicate   anche   allo   straniero
extracomunitario che sia entrato illegalmente  nel  territorio  dello
Stato e sia privo del permesso di  soggiorno».  L'iter  argomentativo
della   Corte   di   cassazione   partiva   dai   preminenti   valori
costituzionali della uguale dignita' delle persone e  della  funzione
rieducativa della pena (artt. 2, 3 e  27  Cost.,  terzo  comma),  che
costituiscono   la   chiave    di    lettura    delle    disposizioni
dell'ordinamento penitenziario sulle misure alternative.  Queste  non
possono essere  escluse,  a  priori,  nei  confronti  dei  condannati
stranieri  che  versino  in  condizione  di   clandestinita'   o   di
irregolarita' e siano, percio', potenzialmente soggetti ad espulsione
amministrativa da eseguire dopo l'espiazione della pena. 
    D'altra  parte  la  finalita'  rieducativa  e  risocializzatrice,
propria delle misure  alternative  alla  detenzione,  riguarda  tutti
coloro che si trovano ad espiare pene inflitte dal  Giudice  italiano
in istituti italiani, senza  differenziazione  di  nazionalita',  non
esistendo alcuna incompatibilita' tra l'espulsione da eseguire a pena
espiata e  le  varie  opportunita'  trattamentali  che  l'ordinamento
offre, dirette a  favorire  il  reinserimento  del  condannato  nella
societa',   posto   che,    in    un'ottica    transnazionale,    «la
risocializzazione non puo' assumere connotati nazionalistici,  ma  va
rapportata alla  collaborazione  fra  gli  Stati  nel  settore  della
giurisdizione penale» (Cass., sez. 1ª, 5 maggio 1982,  Schubeyr,  rv.
154508; sez. 1ª, 31 gennaio 1985, Ortiz,  rv.  168034;  sez.  1ª,  13
dicembre 1993, Mirbaki, rv. 196251; sez. 1ª, 3 ottobre 1995,  Padilla
Chavez, rv.202621). 
    Da ultimo, in ordine al presente parametro di  costituzionalita',
va segnalato che l'art.  2,  comma  1,  lettera  m)  della  legge  n.
125/2008 di conversione, modifica l'art. 656,  comma  9,  lettera  a)
c.p.p.,    escludendo    dall'applicabilita'    della     sospensione
dell'esecuzione della pena - quando la sanzione non superi i tre anni
di pena detentiva, i delitti in cui  ricorre  l'aggravante  dell'art.
61, comma n. 11-bis c.p., a prescindere,  in  ragione  del  carattere
oggettivo dell'esclusione, dal bilanciamento  con  altre  circostanze
avvenuto in sede di determinazione della pena. 
    Detta  modifica  si   pone   in   evidente   contrasto   con   le
argomentazioni e le conclusioni,  attente  alle  esigenze  di  natura
general-preventiva o special-preventiva,  poste  a  fondamento  delle
sopra citate sentenze della  Corte  costituzionale  e  delle  sezioni
unite della Corte di cassazione, cosi' violando non  solo  l'art.  27
della Costituzione ma anche il principio di uguaglianza. 
2.6 - Violazione dell'art.  10/1  Cost.  (il  diritto  internazionale
consuetudinario). 
    Il   piu'   grave   trattamento   sanzionatorio   riservato    ad
extracomunitari e  apolidi  irregolarmente  presenti  sul  territorio
italiano, allorche' commettano qualsiasi tipo di  reato,  genera  una
evidente discriminazione basata sulla  nazionalita'/cittadinanza  del
soggetto che, ad avviso del giudice  remittente,  contrasta  ex  art.
10/1 Cost. con le norme di  diritto  internazionale  consuetudinario,
come il Patto internazione sui diritti civili e politici  (firmato  a
New York il 16 dicembre 1966, reso esecutivo in Italia con  legge  n.
881 del 25 ottobre 1977  ed  entrato  in  vigore  in  Italia  dal  15
dicembre 1978) e la dichiarazione universale  dei  diritti  dell'uomo
(approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York  il
10 dicembre 1948). 
    Si ritiene che il principio di non  discriminazione  per  ragioni
connesse alla cittadinanza costituisca, nell'ambito  dell'ordinamento
internazionale, un  principio  divenuto  patrimonio  riconosciuto  ed
irrinunciabile della Comunita' internazionale. 
    Si legge in particolare: 
        a) nell'art. 2 del Patto internazione sui  diritti  civili  e
politici che: «1. Ciascuno degli Stati parti del  presente  Patto  si
impegna a rispettare ed a garantire a  tutti  gli  individui  che  si
trovino sul suo territorio e siano sottoposti alla sua  giurisdizione
i diritti riconosciuti nel presente Patto, senza distinzione  alcuna,
sia essa fondata sulla razza, il colore,  il  sesso,  la  lingua,  la
religione, l'opinione politica o qualsiasi altra opinione,  l'origine
nazionale o sociale, la condizione economica, la nascita o  qualsiasi
altra condizione»; 
        b) nell'art.  14  che:  «1.  Tutti  sono  eguali  dinanzi  ai
tribunali e alle corti di giustizia»...  e  al  comma  3  che:  «Ogni
individuo accusato di un reato ha  diritto,  in  posizione  di  piena
eguaglianza.»; 
        c) nella Dichiarazione Universale dei  Diritti  dell'Uomo  in
relazione all'art. 2 «1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e
tutte le  liberta'  enunciati  nella  presente  dichiarazione,  senza
distinzione alcuna, per ragioni di razza, di  colore,  di  sesso,  di
lingua, di religione, di opinione politica  o  di  altro  genere,  di
origine nazionale o sociale, di ricchezza,  di  nascita  o  di  altra
condizione. 
        2. Nessuna distinzione sara'  inoltre  stabilita  sulla  base
dello statuto politico, giuridico o internazionale del  Paese  o  del
territorio  cui  una  persona  appartiene,  sia  che  tale  Paese   o
territorio  sia  indipendente,  o   sottoposto   ad   amministrazione
fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi  altra  limitazione
di sovranita'»; 
        d) nell'art. 7: «Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno
diritto, senza alcuna discriminazione, ad un'eguale tutela  da  parte
della legge. Tutti hanno diritto  ad  un'eguale  tutela  contro  ogni
discriminazione che  violi  la  presente  dichiarazione  come  contro
qualsiasi incitamento a tale discriminazione». 
    Proprio in relazione a questo profilo  si  richiama  il  discorso
recentemente tenuto dall'Alto Commissario delle Nazioni Unite  per  i
Diritti Umani, Ms.  Navanethem  Pillay  al  Senato  della  Repubblica
italiana il 10 marzo 2010: «Continuo anche a essere preoccupata dalle
misure contenute nel  Pacchetto  sicurezza  italiano,  che  rende  lo
status irregolare di un migrante una circostanza  aggravante  per  un
reato comune». 
    Se  anche  non   si   volessero   ritenere   dette   disposizioni
internazionali vincolanti per il nostro Paese,  non  assumendole  «in
quanto tali come parametri nel giudizio  di  costituzionalita'  delle
leggi», va ricordata la forza giuridica che la  Corte  costituzionale
ha loro riconosciuto  allorche'  riguardino,  come  nella  specie,  i
diritti fondamentali della persona (sentenze n. 62 del 1992;  n.  168
del 1994; n. 109 del 1997; n. 270 del 1999,  n.  393  del  2006).  In
particolare, a proposito del Patto di New York, con la sentenza n. 15
del 1996 si e' affermato che alle sue  norme  va  attribuita  «grande
importanza nella stessa interpretazione delle corrispondenti, ma  non
sempre coincidenti, norme contenute nella Costituzione». 
    In conclusione, tutte le  fonti  sovranazionali  richiamate  sono
accomunate  nel  sancire  il  divieto  di  discriminazione  derivante
dall'appartenenza nazionale del soggetto e, allo  stesso  tempo,  nel
non individuare un diritto di rango analogo idoneo a comprimerlo. 
    Sulla base delle  sopra  riportate  argomentazioni,  l'aggravante
dell'art. 61, comma 11-bis c.p.  non  appare  conforme  ai  parametri
costituzionali indicati e li viola. 

(1) Cfr l'Avis Giuridique del Parlamento europeo  avente  ad  oggetto
    «Eventuelle   criminalisation    de    l'immigration    illegale,
    aggravation de la peine, compatibilita' avec le droit de  l'Union
    euroeenne et les droitsfondamentaux, pag. 5 

(2) Carta di Nizza recepita dal trattato di Lisbona, modificativo del
    trattato sull'Unione europea e del  Trattato  che  istituisce  la
    Comunita' europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. 

(3) Corte europea dei diritti dell'uomo, E. B. c.  Francia,  sentenza
    del 22 gennaio 2008, par. 48. 

(4) Protocollo aperto alla firma, a  Roma,  il  4  novembre  2000  in
    occasione del cinquantesimo anniversario della CEDU ed entrato in
    vigore il 1° aprile  2005  dopo  essere  stato  ratificato,  come
    richiesto a tal fine dal suo art. 5, da 10 Stati (tra cui non  vi
    e' l'Italia). In  alcune  sentenze  la  Corte,  e  soprattutto  i
    giudici dissenzienti, vi hanno fatto riferimento per evidenziarne
    la differente portata rispetto alla clausola anti-discriminatoria
    di cui all'art. 14 CEDU (cfr., in particolare, l'opinione  comune
    parzialmente  dissenziente  dei  giudici   Casadevall,   Redigan,
    Mularoni, Fura-Sandstrom, Gyulumyan  e  Spielmann,  annessa  alla
    sent. 6 luglio 2005, Grande Camera, Nachova c. Bulgaria,  nonche'
    l'opinione parzialmente concorrente dei giudici Costa, Jungvviert
    e Traja, annessa alla sent. 26 febbraio 2002, Frette c. Francia). 

(5) Principio riconosciuto dalla Corte di giustizia: vedi sentenze n.
    283/83, Racke, ECR (1984) 3791; C292/97,  Karlsson;  12  dicembre
    2002,  causa  C-442/00,  Caballero  (Racc.  pag.  1-11915,  punti
    30-32), 25 novembre 1986, cause riunite  201  e  202/85,  Klensch
    (Racc. pag. 3477, punti 9-10); 14 luglio  1994,  causa  C-351/92,
    Graff (Racc. pag. 1-3361, punti 15-17); e 17 aprile  1997,  causa
    C-15/95, EARL de Kerlast (Racc. pag. 1-1961, punti 35-40). 

(6) Si citano  al  riguardo,  nell'esame  di  trattamenti  dai  quali
    possano   derivare   discriminazioni   basate   sull'orientamento
    sessuale, sul sesso o  sulla  nascita  al  di  fuori  di  vincoli
    coniugali, le seguenti sentenza della Corte europea  del  diritti
    dell'uomo, Burghartz c. Svizzera, sentenza del 22 febbraio  1994,
    in Serie A, n. 280- 13, par. 27; Karlheinz Schmidt  c.  Germania,
    sentenza del 18 luglio 1994, in  Serie  A,  n.  291-B,  par.  24;
    Petrovic c.Austria,  sentenza  del  27  marzo  1998  in  Raccolta
    1998-11, p. 587, par.  37;  Inze  c.  Austria,  sentenza  del  28
    ottobre 1987, in Serie A, n. 126, par. 4;Mazurek c. Francia, caso
    n.  34406/1997,  sentenza  dell'i.  febbraio   2000,   par.   49;
    Sommerfeld c.Germania, caso n. 31871/96, sentenza  dell'8  luglio
    2003, par. 93. Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, L. and V.  c.
    Austria, sentenza del 9 gennaio 2003, par.  45;  S.L.  c.Austria,
    caso n. 45330/1999,  sentenza  del  9  gennaio  2003;  Karner  c.
    Austria, caso n. 40016/1998, sentenza del 24  luglio  2003,  par.
    37. 

(7) Sul principio di non, discriminazione nella giurisprudenza  della
    Corte di giustizia europea da ultimo C.  giust.  CE,  1°  ottobre
    2009, C-103/08, Gottwald,  punti  23-28;  CE,  26  ottobre  2006,
    Koninklijke Cooperatie Cosun, punto 72, nonche' in relazione alla
    decisione quadro in tema di mandato d'arresto europeo, C.  giust.
    CE, 3 maggio 2007, Advocaten voor de Wereld VZW c. Leden  van  de
    Ministerraad 

(8) Kjeldsen, Busk Madsen e Pedersen c. Danimarca, 7 dicembre 1976, §
    56, serie A n. 23; Jones c. Regno Unito (dec.), n.  42639/04,  13
    settembre 2005  

(9) Sez. Un. sentenza del 27 settembre 2007, in CED Cass. 238197, ove
    si afferma che l'ingresso della Romania nell'U.E. il  1°  gennaio
    2007 non comporta il venir meno della punibilita' dei rumeni  che
    prima di quella data si erano  resi  responsabili  del  reato  di
    inottemperanza all'ordine di espulsione 

(10) Art. 688 c.p. «1. Chiunque, in un luogo  pubblico  o  aperto  al
     pubblico, e' colto in stato di manifesta ubriachezza  e'  punito
     con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 51 a euro 309.
     2. La pena e' aumentata se l'ubriachezza e' abituale. 2 La  pena
     e' dell'arresto da tre a sei mesi se il fatto e' commesso da chi
     ha gia' riportato una condanna per delitto non colposo contro la
     vita o l'incolumita' individuale».