LA CORTE D'APPELLO 
 
    Ha pronunciato  la  seguente  ordinanza  a  seguito  di  distinte
istanze  di  revisione  ex  artt.  629  e   segg.   c.p.p.   proposte
rispettivamente dall'avv.  Vittorio  Trupiano  del  foro  di  Napoli,
all'epoca procuratore speciale e difensore di D.P., residente a M.  e
dallo stesso  D.P.,  attualmente  rappresentato  e  difeso  dall'avv.
Marina Prosperi del foro di Bologna e dall'avv. Maria Marin del  foro
di Venezia. 
    La  vicenda,  ormai  annosa  ed  emblematica  per  le  importanti
implicazioni, ha avuto nei passaggi che qui di seguito si riassumono,
i suoi momenti salienti. 
    All'epoca (11  gennaio  2006)  in  cui  fu  presentato  dall'avv.
Vittorio Trupiano il primo  dei  soprascritti  ricorsi  ex  art.  630
c.p.p., P, stava espiando, in regime di  detenzione  domiciliare,  la
residua parte della condanna ad anni tredici e mesi sei di reclusione
inflittagli dalla Corte d'assise di Udine  con  sentenza  in  data  3
otttobre 1994, irrevocabile il 27 marzo 1996. 
    Dopo la condanna il D. si era  rivolto  alla  Corte  europea  dei
diritti  dell'uomo,  che,  con  sentenza  9  settembre  1998,   aveva
stabilito la non equita' del giudizio celebrato nei  suoi  confronti,
per violazione dell'art. 6 (1) della Convenzione per la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo. La lesione  dei  principi  contenuti  in  tale
articolo veniva ravvisata in cio': che  i  giudici  italiani  avevano
condannato D.P. in base alle dichiarazioni  di  tre  coimputati,  non
esaminati in contraddittorio perche' in dibattimento si erano avvalsi
della facolta' di non rispondere.  
    Dopo la decisione della Corte europea, il Comitato  dei  Ministri
del Consiglio d'Europa aveva piu' volte sollecitato lo Stato italiano
ad adottare le  misure  necessarie  a  garantire  l'osservanza  della
pronuncia del Giudice di Strasburgo. Tali  sollecitazioni  erano/sono
rimaste senza effetto. 
     In  precedenza  il  Procuratore  della  Repubblica   presso   il
Tribunale di Udine aveva  sollevato  incidente  d'esecuzione  davanti
alla  Corte  d'assise   di   quel   capoluogo   per   verificare   la
«legittimita'» della detenzione del Dorigo, e, contestualmente, aveva
chiesto la sospensione dell'esecuzione della pena nei  confronti  del
condannato. Con ordinanza 5 dicembre 2005, pero', la  Corte  d'assise
di Udine aveva rigettato il ricorso. 
    Avverso tale decisione, con atto in data  15  dicembre  2005,  il
Procuratore della Repubblica  presso  il  Tribunale  di  Udine  aveva
allora proposto ricorso per cassazione, lamentando la disapplicazione
dei   principi   relativi   al   valore   immediatamente   precettivo
nell'ordinamento italiano delle norme  della  Convenzione  europea  e
delle decisioni della Corte europea che ne accertino  la  violazione,
laddove, se fossero stati applicati tali referenti normativi, avrebbe
dovuto consequenzialmente riconoscersi che la  sentenza  di  condanna
aveva perduto l'efficacia di titolo legittimo di detenzione  a  norma
dell'art. 5 § 2 lett. a) della Convenzione medesima. 
    Nelle more la difesa del D.,  raccogliendo  un  suggerimento  (di
soluzione alternativa) prospettato dalla Corte d'assise  di  Udine  e
dallo stesso Procuratore della  Repubblica  presso  il  Tribunale  di
Udine, deduceva in  questa  sede  che  l'ammissibilita'  del  chiesto
giudizio di revisione poteva  essere  pronunciata  subito,  ai  sensi
dell'art. 630, lett. a), c.p.p.,  per  contrasto  tra  giudicati:  la
decisione della Corte europea potendosi ritenere, siccome proveniente
da Organo sovranazionale, prevalente su quella del giudice  italiano,
e quindi equiparabile alla sentenza di un «giudice speciale»; e  che,
se questa tesi non avesse trovato  accoglimento,  l'art.  630  c.p.p.
era/sarebbe  da  considerare  costituzionalmente   illegittimo,   per
contrasto con gli artt. 3  e  111  Cost.,  nella  parte  in  cui  non
prevede, come titolo per ottenere la  revisione,  la  sentenza  della
Corte europea  dei  diritti  dell'uomo.  Chiedeva  nel  frattempo  la
sospensione della esecuzione della pena inflitta al Dorigo. 
    Questa Corte, con ordinanza in data 13 marzo 2006,  provvedeva  a
sospendere l'esecuzione di detta pena. 
    Con sentenza n. 2800 in data 1° dicembre 2005/25 gennaio 2007, la
I sezione della Corte di cassazione, in accoglimento del soprascritto
ricorso del Procuratore  della  Repubblica  presso  il  Tribunale  di
Udine, dichiarava l'inefficacia dell'ordine di carcerazione emesso in
esecuzione della sentenza 3 ottobre  1994  della  Corte  d'assise  di
Udine, irrevocabile il 27 marzo 1996.  nei  confronti  D.  P.,  e  ne
disponeva la immediata liberazione se non detenuto per  altra  causa.
Questo il principio di diritto enunciato dalla S.C. a sostegno  della
decisione:  «Il  giudice  dell'esecuzione  deve   dichiarare,   norma
dell'art. 670 c.p.p., l'ineseguibilita' del giudicato quando la Corte
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali abbia accertato che la condanna e' stata pronunciata per
effetto della violazione  delle  regole  sul  processo  equo  sancite
dall'art. 6 della Convenzione europea e abbia riconosciuto il diritto
del  condannato  alla  rinnovazione  del  giudizio,   anche   se   il
legislatore abbia omesso  di  introdurre  nell'ordinamento  il  mezzo
idoneo ad instaurare il nuovo processo». 
    Nel frattempo questa Corte, con ordinanza in data 15 marzo  2006,
aveva  sollevato,  in  relazione  agli  artt.  3,  10  e   27   della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 630,
comma 1, lettera a), del codice di procedura penale «nella  parte  in
cui esclude, dai casi di  revisione,  l'impossibilita'  che  i  fatti
stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto  di  condanna  si
concilino con la sentenza della Corte  europea  che  abbia  accertato
l'assenza di  equita'  del  processo,  ai  sensi  dell'art.  6  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo». 
    Con  la  sentenza  n.  129  in  data  16  aprile  2008  la  Corte
costituzionale dichiarava non fondata la  questione  di  legittimita'
costituzionale  dell'art.  630,  comma  1,  lettera  a),  c.p.p.  con
riferimento ai parametri come individuati/proposti da questa Corte. 
    Qui  di  seguito,  in  grande  sintesi,  i  motivi  del   giudice
remittente e quelli della Corte costituzionale in relazione: 
        all'art. 3 Cost. per violazione, secondo il  giudice  a  quo,
del  principio  di   ragionevolezza,   essendosi   in   presenza   di
«un'ingiustificata  discriminazione  tra  casi  uguali  o   simili»).
Questione infondata, secondo la  Corte  costituzionale,  perche'  «il
contrasto, che legittima - e giustifica  razionalmente  -  l'istituto
della revisione (per  come  esso  e'  attualmente  disciplinato)  non
attiene  alla  difforme  valutazione  di  una   determinata   vicenda
processuale in due diverse sedi della giurisdizione  penale»,  avendo
«la  sua  ragione  d'essere   esclusivamente   nella   inconciliabile
alternativa ricostruttiva che un determinato "accadimento della vita"
- essenziale ai fini della determinazione  sulla  responsabilita'  di
una persona, in riferimento ad una certa  regiudicanda  -  puo'  aver
ricevuto all'esito di due giudizi penali  irrevocabili».  Secondo  la
Corte, «il concetto di inconciliabilita' fra  sentenze  irrevocabili,
evocato dall'art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., non puo'
essere  inteso  in  termini  di  contraddittorieta'  logica  tra   le
valutazioni effettuate  nelle  due  decisioni.  Tale  concetto  deve,
invece, essere inteso in termini di  oggettiva  incompatibilita'  tra
"fatti"   (ineludibilmente   apprezzati   nella    loro    dimensione
storiconaturalistica) su cui si fondano le diverse sentenze». 
        in relazione all'art. 10 Cost., perche', secondo il giudice a
quo, tra le norme di diritto internazionale consuetudinario, vi e' la
presunzione di innocenza, che comporterebbe  anche  il  diritto  alla
revisione del processo ove questo  si  sia  svolto  con  lesione  del
diritto ad un equo processo e si sia concluso con condanna. Questione
infondata, secondo la Corte costituzionale, perche' «il principio  di
presunzione  di  non  colpevolezza  non  si  pone  in  contrasto  con
l'esigenza di salvaguardare il valore del giudicato»,  in  quanto  la
«presunzione  di  non   colpevolezza   accompagna   lo   status   del
"processando" ed impedisce sfavorevoli "anticipazioni"  del  giudizio
di responsabilita'»,  ma  «si  dissolve  necessariamente  (sul  plano
sintattico, ancor prima  che  giuridico)  allorche'  il  processo  e'
giunto al proprio epilogo». 
        in relazione all'art. 27 Cost. , perche', secondo il  giudice
a quo, la pena potrebbe rieducare solo se inflitta  all'esito  di  un
processo   giusto).   Questione   infondata,   secondo    la    Corte
costituzionale, perche' «se si assegnasse  alle  regole  del  "giusto
processo"  una   funzione   strumentale   alla   "rieducazione",   si
assisterebbe  ad  una   paradossale   eterogenesi   dei   fini,   che
vanificherebbe  -  questa  si'  -  la  stessa  presunzione   di   non
colpevolezza». Inoltre, sempre secondo  la  Corte  costituzionale,  i
valori costituzionali del giusto processo e della  giusta  pena  sono
«termini di un binomio non confondibili fra loro; se  non  a  prezzo,
come si e' gia' accennato, di una inaccettabile trasfigurazione dello
"strumento" (il processo) nel "fine"  cui  esso  tende  (la  sentenza
irrevocabile e la pena che da essa puo' conseguire)». 
    Peraltro,  nel   motivare   il   rigetto   della   questione   di
legittimita', la Corte costituzionale svolgeva  anche  una  serie  di
considerazioni su «l'improrogabile necessita' di predisporre adeguate
misure - atte a  riparare,  sul  piano  processuale,  le  conseguenze
scaturite dalle violazioni ai principi della Convenzione in  tema  di
"processo equo",  accertate  da  sentenze  della  Corte  europea  dei
diritti  dell'uomo».  In  particolare,  nel   punto   3   delle   sue
considerazioni in diritto, la Corte rilevava  che  «La  questione  di
legittimita'  costituzionale  nasce  dalla  assenza  -  nel   sistema
processuale penale - di un apposito  rimedio,  destinato  ad  attuare
l'obbligo dello Stato di conformarsi (anche attraverso una  eventuale
rinnovazione del processo) alle conferenti sentenze definitive  della
Corte di Strasburgo, nell'Ipotesi  in  cui  sia  stata  accertata  la
violazione della convenzione o dei suoi protocolli». 
    Restituiti gli atti a questa Corte e ripresa la  trattazione  dei
riuniti ricorsi, all'udienza del 7 ottobre 2008, il. P.G. -  premesso
che piu' non si poteva, alla luce della soprascritta  sentenza  della
Corte costituzionale, sostenere che «gli effetti delle sentenze della
Corte europea dei Diritti  dell'uomo  possano  incidere  direttamente
nell'ambito dell'ordinamento interno fino al punto di  consentire  la
revisione  dei  processi  nazionali  passati   in   giudicato   senza
l'intervento specifico del legislatore» -‑ proponeva la tesi  secondo
cui «la questione  Dorigo  potrebbe  invece  risolversi  mediante  la
proposizione di questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
630 c.p.p. sotto altro profilo: quello del contrasto con  l'art.  117
della Costituzione,  che  parrebbe  rinviare  alla  norma  interposta
dell'art. 46 (2) della CEDU, nel quale e'  previsto  l'obbligo  degli
Stati aderenti di rispettare le sentenze della  Corte  Europea  e  di
rimuovere  ogni  effetto  contrario,  con  il  relativo  obbligo   di
revisione delle sentenze passate in giudicato, quando la rinnovazione
del giudizio si ponga come il solo strumento per assicurare la  piena
osservanza della sentenza della Corte europea». 
    All'odierna udienza, sulle conclusioni delle Parti come  trasfuse
a verbale (la difesa del D. aveva nel  frattempo  pienamente  aderito
alla richiesta del P.G.), questa Corte riservava la decisione. 
    Tanto premesso, e sciogliendo la riserva, questa Corte 
 
                               Osserva 
 
    La questione di legittimita' costituzionale nei termini delineati
dal Procuratore Generale e' rilevante e non manifestamente infondata.
La questione appare inoltre proponibile siccome formulata sulla  base
di parametri nuovi/diversi rispetti a quelli  gia'  esaminati  e  non
accolti. 
    Circa   la   rilevanza    della    questione    e'    sufficiente
constatare/ribadire che questa  Corte,  allo  stato  della  normativa
interna   vigente,   altro   non   potrebbe   fare   che   dichiarare
inammissibile, ai sensi dell'art. 634 c.p.p., l'istanza di  revisione
di cui trattasi, perche' proposta  fuori  delle  ipotesi  attualmente
previste e disciplinate dall'art. 630 c.p.p.: con cio' restando pero'
senza risposta l'esigenza - suscettibile di  scaturire  da  un  nuovo
processo che eventualmente abbia ad assolvere  il  D.  -  di  operare
attraverso gli strumenti volti a riparare l'ingiusta detenzione (art.
314 c.p.p.) o l'errore giudiziario (art. 643 c.p.p.). Se, invece,  la
norma venisse dichiarata incostituzionale  (sia  pure  attraverso  un
parametro interposto) per contrasto  con  l'art.  117,  primo  comma,
Cost., nella parte in cui non prevede l'obbligo di conformarsi ad una
sentenza  della  Corte  europea  attraverso  una   rinnovazione   del
processo, allora il giudizio di revisione sarebbe ammissibile  ed  il
Presidente di questa Corte dovrebbe procedere a norma  dell'art.  636
c.p.p., con tutte le potenziali conseguenze. 
    Circa  la  non  manifesta  infondatezza,  mette  conto  anzitutto
evidenziare il principio delineato dalla stessa Corte costituzionale,
con le sentenze nn. 348 e 349 del 24 ottobre 2007,  secondo  cui,  in
sostanza,  hanno  diretta  applicabilita'  nell'Ordinamento   interno
soltanto   le   norme   comunitarie   propriamente   dette   (diretta
applicabilita' che trova  il  suo  fondamento  nell'art.  11  Cost.),
mentre, per cio'  che  riguarda  le  c.d.  norme  pattizie  (tra  cui
certamente puo' collocarsi la CEDU),  queste  non  producono  effetti
diretti nell'Ordinamento interno, con la conseguenza che: 
        da esse (dalle norme pattizie) non  scaturisce  un  dovere  o
un'immediata competenza dei giudici nazionali  a  darvi  applicazione
nelle controversie ad essi sottoposte; 
        non  e'  quindi  consentito  disapplicare  le  norme  interne
eventualmente in contrasto con le norme pattizie. 
    Nondimeno, come si evince in particolare dalla  sentenza  n.  349
del 22-24 ottobre 2007, poiche' la Convenzione  per  la  salvaguardia
dei diritti dell'Izomo e delle liberta' fondamentali (CEDU) presenta,
rispetto  alla   generalita'   degli   accordi   internazionali,   la
peculiarita' consistente in cio' che, pur  essendo  l'applicazione  e
l'interpretazione del sistema di norme da essa previsto attribuite in
prima  battuta  al  giudici  degli  Stati   membri,   la   definitiva
uniformita' di applicazione e' invece garantita  dall'interpretazione
centralizzata della CEDU attribuita alla Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo di Strasburgo,  cui  spetta  la  parola  ultima  e  la  cui
competenza   «si   estende   a   tutte   le   questioni   concernenti
l'interpretazione e  l'applicazione  della  Convenzione  e  dei  suoi
protocolli che siano sottoposte ad essa  nelle  condizioni  previste»
dalla medesima, il giudice comune deve interpretare la norma  interna
in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei
quali cio' sia permesso dai testi delle norme e, qualora cio' non sia
possibile, ovvero dubiti della compatibilita' della norma interna con
la disposizione convenzionale «interposta», deve proporre la relativa
questione  di  legittimita'  costituzionale  rispetto  al   parametro
dell'art.  117,  primo  comma,  Cost..  In   tal   caso,   la   Corte
costituzionale,  deve  accertare  la   sussistenza   del   denunciato
contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU,
nell'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una
tutela  dei  diritti  fondamentali  almeno  equivalente  al   livello
garantito dalla Costituzione italiana, senza  che  cio'  comporti  un
sindacato sull'interpretazione della norma CEDU operata  dalla  Corte
di Strasburgo, ma solo  verificando  la  compatibilita'  della  norma
CEDU, nell'interpretazione del giudice  cui  tale  compito  e'  stato
espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti  norme
della  Costituzione,  cosi'   risultando   realizzato   un   corretto
bilanciamento tra l'esigenza di garantire il rispetto degli  obblighi
internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che cio'
possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa». 
    Orbene, pare a questa Corte che  tale  orientamento  della  Corte
costituzionale apra la strada ad una possibile soluzione del caso  D.
non affidata unicamente alla speranza di un intervento legislativo. 
    Questo il percorso che si intravvede: 
        La norma ex art. 630 c.p.p. non si concilia  (perche'  ancora
non prevede cio' che sarebbe costituzionalmente necessario prevedere)
con l'obbligo internazionale di  cui  all'art.  46,  comma  1,  CEDU:
obbligo che, nel caso che qui interessa, e'  stato  ritenuto  violato
dalla Corte di Giustizia Europea  per  i  diritti  dell'uomo  con  la
sentenza di cui in narrativa. 
        La Corte di giustizia europea trae la sua esistenza ed i suoi
compiti (di definitiva interpretazione della CEDU) dalla stessa  CEDU
(artt. 31 e 32). 
        Le norme della CEDU  hanno  rango  subcostituzionale  perche'
integrano il parametro costituzionale e sono  quindi  da  considerare
norme  interposte,   dovendo   ritenersi   che   tra   gli   obblighi
internazionali  assunti  dall'Italia  con  la  sottoscrizione  e   la
ratifica della CEDU vi sia quello di adeguare la propria legislazione
alle norme di tale Trattato, nel significato attribuito  dalla  Corte
di   giustizia   specificamente   istituita   per   dare   ad    esse
interpretazione ed applicazione. 
        A questo punto, dubitandosi della compatibilita' della  norma
interna  con  la  disposizione   convenzionale   «interposta»,   deve
postularsi, sia pure in chiave di mera delibazione,  che  l'art.  630
c.p.p.,  che  e'  lo  strumento  attraverso  il  quale  una  sentenza
definitiva di condanna e' suscettibile di revisione, viola l'art.  46
CEDU, che e' parametro interposto rispetto all'art. 117, primo comma,
Cost., e percio', sia  pure  indirettamente  (attraverso  «il  rinvio
mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente»), e' in
contrasto con quest'ultimo: nella parte in cui tuttora omette (l'art.
630 c.p.p.) di contemplare la rinnovazione del processo allorche'  la
sentenza o il decreto penale di condanna siano in  contrasto  con  la
sentenza definitiva della Corte europea che abbia accertato l'assenza
di equita' del processo,  ai  sensi  dell'art.  6  della  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. 

(1) Articolo 6 - Diritto ad un processo  equo.  l.  Ogni  persona  ha
    diritto  a  che   la   sua   causa   sia   esaminata   equamente,
    (...omissis... ) 2. Ogni persona accusata di un reato e' presunta
    innocente fino  a  quando  la  sua  colpevolezza  non  sia  stata
    legalmente accertata. 3. In particolare, ogni accusato ha diritto
    a:  a.  omissis;  b.  omissis;c.  omissis.  d.  esaminare  o  far
    esaminare i testimoni a carico  ed  ottenere  la  convocazione  e
    l'esame dei testimoni a discarico  nelle  stesse  condizioni  dei
    testimoni a carico; e. omissis; 

(2) Articolo 46 - Forza vincolante ed esecuzione delle  sentenze.  1.
    Le alte Parti Contraenti s'impegnano a conformarsi alle  sentenze
    definitive detta Corte nelle controversie nelle quali sono parti.
    2. La sentenza definitiva della Corte e'  trasmessa  al  Comitato
    dei Ministri che ne sorveglia l'esecuzione.