IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza. Visto l'atto d'appello presentato dall'avv. Basilio Foti, nell'interesse di A.D., nato a Orihum (Albania) il 14 luglio 1983, avverso l'ordinanza dell'11 agosto 2009 con cui il G.i.p. presso il Tribunale di Torino ha respinto la richiesta di revoca della misura della custodia cautelare in carcere, applicata al predetto il 12 febbraio 2008 per i reati di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione di una ragazza minorenne, aggravato dall'uso della violenza (capo E), detenzione e porto di un'arma (Beretta 7,65) comune da sparo (capo F) e favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione di una seconda donna (maggiorenne) (capo G). Rilevata la ritualita' e la tempestivita' dell'impugnazione; Avvisati il P.M. che non e' comparso e l'interessato detenuto fuori distretto; Sentito, all'udienza camerale del 18 novembre 2009, l'avv. Basilio Foti, come da relativo verbale; Osserva Con l'ordinanza del 12 febbraio 2008 (che si intende qui integralmente trascritta) il G.I.P. del Tribunale di Torino ha applicato la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di M. N., V. C. e A. D. e quella degli arresti domiciliari a R. L., nell'ambito di una complessa indagine relativa allo sfruttamento della prostituzione e che ha preso le mosse dal tentato omicidio di M.G. che cercava di subentrare a M. nello sfruttamento della prostituzione della quindicenne M. A. R. Il 30 gennaio 2009 il G.I.P. ha pronunciato sentenza di condanna alla pena di anni 3 e mesi 4 reclusione ed ha sostituito la misura in corso con quella degli arresti domiciliari. In data 20 aprile 2009 la misura e' stata aggravata e nuovamente sostituita con quella carceraria. Questo tribunale, in data 22 settembre 2008, si e' occupato dell'appello avverso l'ordinanza 30 aprile 2009 con la quale il G.I.P. aveva respinto la richiesta di revoca o, in subordine, sostituzione della misura con quella degli arresti domiciliari presso l'abitazione della moglie. Con altra ordinanza 17 luglio 2009 questo tribunale ha respinto analogo appello. Con istanza 7 agosto 2009 la Difesa ha chiesto la revoca o la sostituzione della misura in corso rilevando: che A. D. risulta detenuto dal 21 febbraio 2008 e quindi da oltre 1 anno e 6 mesi d restrizione detentiva; che, alla luce della pena di anni 3 e mesi 4 inflitta, il periodo di carcerazioni preventiva appare congruo e proporzionato; che potrebbe affermarsi l'intervenuto affievolimento delle esigenze cautelari potrebbero essere contenibili con la misura dell'obbligo di firma con la frequenza ritenuta piu' opportuna. Il G.I.P. ha respinto l'istanza rilevando che: rimangono invariati i gravi indizi di colpevolezza e le esigenze cautelare evidenziate nel provvedimento di custodia cautelare emesso dal Giudice per le Indagini Preliminari, che viene integralmente richiamato in questa sede; il predetto, per il reato per il quale si procede, in data 30 gennaio 2009 e' stato condannato in primo grado alla pena detentiva di anni 3 e mesi 4 di reclusione; il medesimo e' in stato di custodia cautelare dal 21 febbraio 2008, ovvero per un perioda ampiamente inferiore alla pena irrogata in primo grado; la gravita' del reato contestato rende inidonea ogni altra misura piu' attenuata a salvaguardare le esigenze cautelari sottese al provvedimento restrittivo, tenuto conto altresi' che il predetto si e' gia' reso responsabile del reato di evasione e per questo motivo e' stata aggravata la misura cautelare nei suoi confronti; Tale provvedimento e' oggetto della presente impugnazione. La difesa, nei motivi d'appello, ha ribadito le argomentazioni contenute nell'istanza aggiungendo che, «in relazione alle motivazioni dell'aggravamento della misura cautelare detentiva domiciliare - l'avere aggredito T. G. presso la sua abitazione sita in N. via A., cio' durante l'orario nel quale l'imputato era autorizzato ad allontanarsi dal domicilio al fine di recarsi presso gli studi del proprio commercialista e del difensore (si osserva che i motivi di tale condotta dell'imputato, impulsiva e certamente censurabile, risiedono nel fatto che T. G. in qualita' di titolare della ditta, risulta debitore nei confronti dell'imputato della somma di 8.000,00 euro per lavori edili eseguiti dal medesimo precedentemente al suo arresto, e' stato piu' volte sollecitato, anche a mezzo di invio di lettera raccomandata, ad adempiere a quanto dovuto, senza che a. tali solleciti il medesimo abbia dato alcun riscontro) - occorre tenere conto della situazione personale dell'imputato, ristretto in misura cautelare detentiva, prostrato psicologicamente in quanto privo di fonti di reddito ed ospitato agli arresti domiciliati dalla sorella e dal cognato, tale condotta non pare sintomatica della sussistenza di un'indole aggressiva e di pericolosita' sociale, idonea a evocare la sussistenza di esigenze cautelari inerenti il pericolo di recidivanza». Infine non pare corretto sostenere che A. si sia reso responsabile del reato di evasione in quanto l'episodio e' avvenuto «in un frangente nel quale il medesimo era autorizzato ad allontanarsi dal luogo di restrizione domiciliare». All'udienza la Difesa ha illustrato i motivi di appello, richiamando l'incensuratezza dell'appellante e la proporzionalita' tra la pena inflitta e quella scontata. Ritiene questo Collegio che, ai fini della corretta soluzione dell'appello, e' necessario sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275, terzo comma c.p.p., cosi' come recentemente novellato dall'art. 2, comma 1, lett. a) del decreto-legge 23 febbraio 2009 n. 11, convertito con legge 23 aprile 2009, n. 45. La norma stabilisce una presunzione legale relativa di sussistenza di esigenze cautelali («salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari»), nonche' una presunzione legale assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare della custodia in carcere. Giova premettere, ai fini della valutazione della rilevanza concreta della norma, che il Collegio condivide l'interpretazione giurisprudenziale secondo la quale la citata disposizione, quale norma di carattere processuale, ed in virtu' del principio tempus regit actum, si applica anche alla misure cautelavi da adottare per i fatti delittuosi commessi anteriormente alla entrata in vigore della norma stessa e quindi anche al caso di specie (da ultimo Cass. 16 giugno 2008, n. 24433). Pertanto deve essere disattesa la richiesta difensiva di revoca della misura cautelare in quanto non e' possibile sostenere che siano venute meno le esigenze cautelari che hanno giustificato l'applicazione della misura in corso. Non vi sono infatti elementi sopravvenuti che siano in grado di superare la presunzione di pericolosita' introdotta dal novellato art. 275, terzo comma c.p.p. A prescindere da tale presunzione e prima dell'entrata in vigore del d.l. n. 11/2009, questo trittilitale aveva ritenuto che i presupposti di cui all'art. 274 lett. e) c.p.p. fossero rinvenibile nell'oggettiva gravita' dei reati di cui A. e' stato ritenuto colpevole e nel fatto che le risultanze investigative - oggi confermate dalla sentenza di condanna - «hanno dimostrato che A. risulta profondamente inserito in un ambiente criminale dedito allo sfruttamento della prostituzione in modo professionale ed al reclutamento di nuove ragazze provenienti dalla Romania da collocare sui marciapiedi italiani. La spregiudicata professionalita' di A. e degli altri coindagati deriva non solo dal ricorso alla violenza per contendersi il controllo di R. - giovanissima ed altrettanto redditizia prostituta - ma nella capacita' di spostarsi sul territorio, alternando i marciapiedi di Torino con le strade di grande percorrenza nel Canavese» (ordinanza 22 settembre 2008). Nonostante il permanere di gravi, concrete ed attuali esigenze cautelari, questo Collegio ritiene che la misura degli arresti domiciliari, con il divieto di comunicare con soggetti diversi dai familiari conviventi, sarebbe idonea a contenere il pericolo di recidivanza in quanto non gli consentirebbe quella liberta' di movimento assolutamente necessaria per poter ricominciare l'attivita' di reclutamento e sfruttamento della prostituzione. D'altra parte la misura domiciliare aveva dato buon esito per quasi tre mesi per poi essere doverosamente aggravata a seguito della violazione consistita nel recarsi da T. G. presso la sua abitazione sita in N., via A. Ritiene questo Collegio che la predetta violazione non osti al ripristino della misura domiciliare non tanto perche' avvenuta durante l'orario nel quale l'imputato era autorizzato ad allontanarsi dal domicilio al fine di recarsi presso gli studi del proprie commercialista e del difensore, quanto alle particolari motivazioni della visita e del successivo litigio con T. G. Quest'ultimo, in qualita' di titolare della ditta, risulta debitore nei confronti dell'imputato della somma di 8.000,00 euro per lavori edili eseguiti dal medesimo precedentemente al suo arresto (la Difesa ha documentato la circostanza con le lettere contenenti le diffide ad adempiere inviate dall'avvocato e ritornate al mittente per compiuta giacenza) e A. si e' recato presso l'abitazione del debitore per pretendere il pagamento del proprio credito. Per tale motivo, trascorsi ulteriori 7 mesi di custodia inframuraria, ritiene questo Collegio che la misura degli arresti domiciliari potrebbe essere ripristinata. Senonche' si pone a questo punto l'ostacolo normativo dato dalla previsione della presunzione legislativa di adeguatezza della sola misura della custodia cautelare in carcere, introdotta dalla citata novella ed applicabile in caso di sussistenza di gravi indizi di colpevolezza di commissione di una serie molto ampia di reati, tra cui quello di induzione alla prostituzione minorile. Per tale reato A. e' stato condannato in primo grado. Di qui la rilevanza della questione di illegittimita' costituzionale. A parere del Collegio non e' manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275, terzo comma, c.p.p., per violazione dell'art. 3 della Costituzione. Invero, principi fondamentali che regolano la materia della liberta' personale con specifico riferimento alla fase di applicazione e modifica delle misure cautelare personali sono quelli non solo della proporzione ma anche, cio' che qui piu' interessa, quelli dell'adeguatezza e della graduazione della misura, principi infatti espressamente enunciati nell'art. 2 della legge delega 1987 n. 81 (n. 59, laddove, nel regolare la materia, prevede il divieto di disporre la custodia in carcere se, con l'applicazione di altre misure di coercizione personale, possono essere adeguatamente soddisfatte le esigenze cautelari; l'obbligo di disporre la revoca delle misure applicate se vengono a cessare le esigenze cautelari; previsione della sostituzione o della revoca della custodia cautelare in carcere, qualora l'ulteriore protrarsi di questa risulti non proporzionata alla entita' del fatto ed alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata), che richiama i principi della Costituzione (enunciati appunto dagli articoli 13 e 27) e la normativa convenzionale internazionale (tra cui rileva in particolare l'art. 5, commi I lett. c) e IV della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (infra, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, unitamente al Protocollo addizionale alla Convenzione stessa firmato a Parigi il 20 marzo 1952. In applicazione di tali fondamentali precetti, secondo il sistema del codice di procedura penale, accertata l'esistenza di gravi indizi di colpevolezza, valutata la sussistenza delle esigenze, al giudice e' imposto l'onere di valutare e sufficientemente motivare circa la scelta della misura (art. 292 c-bis c.p.p., secondo cui contenuto essenziale, a pena di nullita' dell'ordinanza applicativa, e', in ipotesi di applicazione della massima misura della custodia cautelare in carcere, l'esposizione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all'art. 274 non possono essere soddisfatte con altre misure). L'adeguatezza della cautela va pertanto riguardata come necessita' dell'imposizione della misura via via piu' gravosa, per inadeguatezza - intesa come incapacita' contenitiva - di quella immediatamente piu' lieve. La norma che qui si analizza si pone quindi chiaramente quale deroga a tali generali principi, che trovano riconoscimento negli artt. 13 e 27 della Costituzione, e che «discendono direttamente dalla natura servente che la Costituzione assegna alla carcerazione preventiva rispetto alle finalita' del processo, da un lato, ed alle esigenze di tutela della collettivita', dall'altro, tali da giustificare, nel bilanciamento tra interessi, il temporaneo sacrificio della liberta' personale di chi non e' stato ancora giudicato colpevole in via definitiva» (Corte cost., sent. 22 luglio 2005, n. 299, in materia di durata massima delle misure cautelari). Nella giurisprudenza costituzionale, a partire dalla storica sentenza n. 64/1970 e' costante l'affermazione secondo la quale, in ossequio al favor libertatis che ispira l'art. 13 Cost., deve comunque essere scelta la soluzione che comporta il minore sacrificio della liberta' personale; proporzionalita' ed adeguatezza della misura cautelare rappresentano corollario di tale principio. Ne discende che la loro compressione, ove non trovi adeguata ragione giustificatrice nella tutela di altri interessi pure costituzionalmente protetti, costituisce lesione dell'art. 3 Cost., per irragionevolezza, quale uso distorto perche' non efficace e circoscritto, della discrezionalita' legislativa, secondo l'elaborazione giurisprudenziale della Corte cost.: «ove uno o piu' valori coinvolti dalla norma appaiano sviliti al punto da risultare ad esclusivo vantaggio degli altri, sara' la stessa discrezionalita' a non potersi dire correttamente esercitata, perche' carente di alcuni dei termini sui quali la stessa poteva e doveva fondarsi» (sent. 12 luglio 1995, n. 313). E' pur vero che, secondo l'insegnamento ormai altrettanto costante della giurisprudenza costituzionale «mentre la sussistenza in concreto di una o piu' delle esigenze cautelari prefigurate dalla legga (l'an della cautela) comporta, per definizione, l'accertamento di volta in volta, della loro effettiva ricorrenza, non puo' invece ritenersi soluzione costituzionalmente obbligata quella di affidare sempre e comunque al giudice l'apprezzamento del tipo di misura in concreto ritenuta come necessaria (il quomodo della cautela), ben potendo tale scelta essere effettuata in termini generali dal legislatore (sent. 64/1970; ord. 40/2002; 130/2003; 339 e 450/1995). Tuttavia il limite imposto al legislatore e' costantemente rappresentato dal «rispetto del limite della ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti». E cio' che questo Collegio ritiene leso e' proprio il canone costituzionale della ragionevolezza, sotto i profili della disparita' di trattamento rispetto a tutti casi di sussistenza di gravi indizi di colpevolezza e di esigenze cautelari nonche' della disparita' di trattamento «interna», tra le varie possibili forme di manifestazione concreta delle condotte rientranti nello stesso titolo di reato contestato; e della conseguente potenziale esuberanza del mezzo rispetto al fine, cio' che concreta eccesso di potere legislativo. In un'ottica sistematica, gli interventi del legislatore, pur nell'esercizio della sua discrezionalita', devono rispettare i criteri che lo stesso individua via via che esercita il potere legislativo: tali criteri costituiscono la misura della legittimita' del suo operato successivo secondo il parametro della ragionevolezza, ai sensi dell'art. 3 Cost. Si' considerino allora le ipotesi nelle quali la Corte cost ha ritenuto non irragionevole l'esercizio del potere legislativo di predeterminazione della necessita' della cautela piu' rigorosa; le stesse sono caratterizzate da specificita' che volta a volta hanno reso chiara e con cio' delimitata la ragione di prevalenza sui principi di graduazione ed adeguatezza delle misure cautelare: la pregressa, cioe' concreta, evasione dagli arresti domiciliare, che ne impedisce una nuova applicazione (art. 276, comma 1-ter c.p.p., e 284 comma 5-bis c.p.p. valutati rispettivamente dalle pronunce 40/2002 e 130/2003); l'essere gravemente indiziato di reato aggravato dalla finalita' di associazioni di tipo mafioso (ord. n. 450/1995). Rileva in particolare tale ultima decisione: la conclusione circa la non irragionevolezza della scelta legislativa e' il frutto della «delimitazione della norma all'area dei delitti di criminalita' organizzata di tipo mafioso» ed il «coefficiente di pericolosita' per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere e' connaturato». Delimitazione delle ipotesi legislative - da intendersi anche quale sufficiente specificazione delle condotte rappresentate dalle fattispecie di reato - e coefficiente di pericolosita' - immanente nelle fattispecie mafiose - che a parere nel Collegio difettano - nella scelta legislativa oggetto della presente ordinanza di rimessione. Conviene formulare alcune osservazioni circa le fondamentali differenze tra il reato di cui all'art. 416-bis c.p., per fare un esempio, e quello che qui interessa. Quello di appartenenza ad associazione mafiosa e' delitto di pericolo e permanente, che si qualifica proprio per il vincolo di appartenenza totalizzante ad un sodalizio caratterizzato da una particolare forza intimidatrice, da un grado di solidarieta' e diffusivita' anche nel contesto ambientale particolarmente elevato (la cui pericolosita' e' legata al metodo, tanto che lo scopo sociale che puo' anche non consistere nella commissione di reati, ma del quale anche nella finalita' di inserimento in settori chiave del contesto sociale, economico, ed anche atto con metodi informano lo Stato di diritto). E' la qualita' di associato ad una simile organizzazione che rileva, sentita dal comune sentire come particolarmente perniciosa. Pienamente comprensibile allora e' la connotazione di reato particolarmente grave, che, «per comune sentire, pone a rischio beni primari individuali e collettivi» (ord. n. 450/1995 che richiama, con riferimento alle eccezionalita' delle esigenze di prevenzione sociale legate ai fenomeni di infiltrazione mafiosa negli organi di governo locale, le sentenze nn. 407/92 e 103/93), a prescindere dalle concrete espressioni dell'appartenenza alla cosca del singolo. E del tutto giustificabile, anche in un'ottica di bilanciamento di interessi, e' la valutazione di adeguatezza, quale necessarieta', della misura cautelare custodiale carceraria: la pericolosita' della partecipazione ad associazione di stampo mafioso e' legata ad una sorta di condizione personale (di «mafioso») che travalica la stessa posizione del singolo appartenente, caratterizzata da una sorta di immanenza, dell'associazione nel tessuto ambientale e nella stessa vita del singolo, che rende costante ed immutabile l'attualita' delle caratteristiche di pericolosita' sociale sicche' si palesa che il carcere, quale forzato distacco indipendente dalla volonta' dell'associato, si ponga quale mezzo indispensabile per la recisione totale dei legami, quindi per la conseguente neutralizzazione della pericolosita' del soggetto riconducibile, tra l'altro, alla permanenza del vincolo di fedelta' dello stesso al «mandante». Si spiega cosi', in una tale strutturazione della fattispecie di reato, anche la previsione della presunzione relativa di sussistenza di esigenze cautelari, superabile solo attraverso elementi che offrano la dimostrazione della avvenuta recisione del vincolo, della perdita in sostanza della stessa condizione personale di «associato», che puo' aversi solo, in relazione proprio all'intensita' del vincolo, attraverso condotte positive che tendenzialmente si pongono in posizione di antagonismo e conflitto con la stessa associazione. Gli stessi necessari caratteri, di omogeneita' strutturale tra le diverse condotte, non si rinvengono nelle fattispecie alle quali la novella ha esteso l'applicazione dell'art. 275 citato: fra di essi sono compresi reati ad evento, a carattere non necessariamente permanente, ricomprendenti nel loro seno una ampia gamma di possibili concrete condotte, potenzialmente espresse con modalita' estremamente diversificate, frutto di determinazioni all'illecito di grado diverso, e di contesti ambientali e relazioni interpersonali variamente connotate, in ipotesi del tutto contingenti ed occasionali o condizionate. Tali caratteri non si rinvengono in particolare nel reato di induzione alla prostituzione di soggetto minorenne che puo' avere connotazioni temporali esigue, che puo' essere privo di violenza, che non e' necessariamente collegato alla criminalita' organizzata e che pertanto non esprime un livello di pericolosita' paragonabile a quello insito nell'associazione di stampo mafioso. La norma di cui all'art. 275, terzo comma c.p.p., cosi' come novellata, esclude pertanto che si possa tener conto di tali possibili varianti, impedendo di trattare a fini cautelari situazioni oggettive e soggettive diverse in maniera adeguatamente diversa, e di calibrare la cautela, anche in relazione agli sviluppi del procedimento, cautela da intendersi anche quale possibilita' di intervento rimozione delle concrete determinazioni a delinquere, e di inibire la ripetizione dell'illecito. L'assenza di specificita' nella individuazione delle fattispecie legislative - sempre richiamata in casi analoghi dalla Corte costituzionale laddove si e' risolta per la non irragionevolezza - e gli elementi costitutivi di queste, ne minano la giustificazione nell'ottica del necessario bilanciamento di interessi contrapposti costituzionalmente garantiti e del rispetto del principio di uguaglianza, peraltro con rischi di confusione tra trattamento cautelare - improntato al principio del minimo sacrificio della liberta' personale - e trattamento sanzionatorio - con aspetti piu' propriamente retributivi - e di possibile attribuzione alla cautela di funzione di anticipazione della pena, in contrasto con l'art. 27 Cost. Non si discute della discrezionalita' del legislatore nella determinazione di inasprire la repressione di una categoria di reati - quali quelli che aggrediscono la liberta' sessuale - da tutti avvertiti come particolarmente riprovevoli, ma della indissolubilita' normativa tra gravita' del reato e pericolosita' dell'autore. Val la pena osservare come le fattispecie di reato siano solo evocative di casi, in effetti estremamente gravi, meritevoli di particolare deplorazione sociale e causa di un forte sentimento di paura, ma che tuttavia non esauriscono la gamma delle condotte ricomprese nelle norme incriminatici. Il rischio e' che il giudice, nel tentativo di contemperare i contrapposti interessi sopra evidenziati, adotti in fase cautelare delle interpretazioni sensibilmente diverse da quelle sino ad ora ritenute consolidate. Ad esempio ampliando l'ambito dell'attenuante di cui all'art. 609-bis u.c. c.p. Il paragone con il reato p. e p. dall'art. 416-bis c.p. e' altresi' necessario per introdurre un ulteriore profilo di legittimita' costituzionale. La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha infatti stabilito che la disciplina dell'art. 275, comma III citato, costituisca una deroga all'art. 5 CEDU e che la lotta contro i crimini di mafia giustifichi tale deroga. In tale contesto, la presunzione legale di pericolosita' potrebbe essere ammissibile se non si trattasse di presunzione assoluta. «La permanenza in detenzione del soggetto accusato di aver commesso un reato nella qualita' di associato di un'organizzazione criminale di stampo mafioso e' stata prevista per interrompere i legami del medesimo con l'ambiente criminale di provenienza. Tenuto conto della natura di tale attivita' criminosa e delle difficolta' incontrate dalle Autorita' italiane nell'investigazione di tale reati, la legge italiana ha giustificatamente considerato che le misure cautelari erano necessarie per soddisfare il concreto interesse pubblico per la difesa dell'ordine e della sicurezza pubblici e per la prevenzione dei reati» (questa la traduzione della parte piu' significativa della decisione del 6 novembre 2003, Giuseppe Pantano contro l'Italia, richiesta n. 60851/00). E' evidente, per le stesse argomentazioni sopra esposte, che gli argomenti in base quali la Corte di Strasburgo ha ritenuto giustificata la deroga all'art. 5 CEDU non possono essere estesi al reato di induzione alla prostituzione di un soggetto minorenne. Pertanto la violazione di una norma CEDU, cosi' come interpretata dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, determina la violazione dell'art. 117, primo comma Cost. che sancisce l'obbligo del legislatore ordinario di rispettare i «vincoli derivanti dagli obblighi internazionali». «Ne consegue che al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali cio' sia permesso dai testi delle norme. Qualora cio' non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilita' della norma interna con la disposizione convenzionale "interposta", egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimita' costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma, Cost.» (sent. n. 349/2007). In definitiva il difetto di omogeneita' strutturale tra le innumerevoli condotte che integrano i titoli di reato per i quali e' prevista la custodia cautelare in carcere quale unica misura adeguata ed in particolare l'irragionevolezza dell'equiparazione fra il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso e induzione alla prostituzione di un soggetto minorenne, determinano la non manifesta infondatezza della questione di costituzionalita' dell'art. 275, comma 3 c.p.p. cosi' come modificato dal decreto-legge 23 febbraio 2009 n. 11, convertito con legge 23 aprile 2009, n. 45 in relazione alla fattispecie di cui all'art. 600-bis c.p., in relazione agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione. Per le considerazioni che precedono si impone la rimessione della questione alla Corte costituzionale, con conseguente sospensione del procedimento ed immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.