IL TRIBUNALE 
 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza. 
    Visto  l'atto  d'appello  presentato  dall'avv.   Basilio   Foti,
nell'interesse di A.D., nato a Orihum (Albania) il  14  luglio  1983,
avverso l'ordinanza dell'11 agosto 2009 con cui il G.i.p.  presso  il
Tribunale di Torino ha respinto la richiesta di revoca  della  misura
della custodia cautelare in carcere,  applicata  al  predetto  il  12
febbraio 2008 per i reati di  favoreggiamento  e  sfruttamento  della
prostituzione di una  ragazza  minorenne,  aggravato  dall'uso  della
violenza (capo E), detenzione  e  porto  di  un'arma  (Beretta  7,65)
comune da sparo (capo  F)  e  favoreggiamento  e  sfruttamento  della
prostituzione di una seconda donna (maggiorenne) (capo G). 
    Rilevata la ritualita' e la tempestivita' dell'impugnazione; 
    Avvisati il P.M. che non e'  comparso  e  l'interessato  detenuto
fuori distretto; 
    Sentito,  all'udienza  camerale  del  18  novembre  2009,  l'avv.
Basilio Foti, come da relativo verbale; 
 
                               Osserva 
 
    Con  l'ordinanza  del  12  febbraio  2008  (che  si  intende  qui
integralmente trascritta)  il  G.I.P.  del  Tribunale  di  Torino  ha
applicato la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti
di M. N., V. C. e A. D. e quella degli arresti domiciliari a  R.  L.,
nell'ambito di una  complessa  indagine  relativa  allo  sfruttamento
della prostituzione e che ha preso le mosse dal tentato  omicidio  di
M.G. che  cercava  di  subentrare  a  M.  nello  sfruttamento   della
prostituzione della quindicenne M. A. R. 
    Il 30 gennaio 2009 il G.I.P. ha pronunciato sentenza di  condanna
alla pena di anni 3 e mesi 4 reclusione ed ha sostituito la misura in
corso con quella degli arresti domiciliari. 
    In data 20 aprile 2009 la misura e' stata aggravata e  nuovamente
sostituita con quella carceraria. 
    Questo tribunale, in data  22  settembre  2008,  si  e'  occupato
dell'appello avverso l'ordinanza 30  aprile  2009  con  la  quale  il
G.I.P. aveva  respinto  la  richiesta  di  revoca  o,  in  subordine,
sostituzione della misura con quella degli arresti domiciliari presso
l'abitazione della moglie. Con altra ordinanza 17 luglio 2009  questo
tribunale ha respinto analogo appello. Con istanza 7 agosto  2009  la
Difesa ha chiesto la revoca o la sostituzione della misura  in  corso
rilevando: 
        che A. D. risulta detenuto dal 21 febbraio 2008 e  quindi  da
oltre 1 anno e 6 mesi d restrizione detentiva; 
        che, alla luce della pena di anni 3 e  mesi  4  inflitta,  il
periodo di carcerazioni preventiva appare congruo e proporzionato; 
        che potrebbe affermarsi  l'intervenuto  affievolimento  delle
esigenze  cautelari  potrebbero  essere  contenibili  con  la  misura
dell'obbligo di firma con la frequenza ritenuta piu' opportuna. 
    Il G.I.P. ha respinto l'istanza rilevando che: 
        rimangono invariati i  gravi  indizi  di  colpevolezza  e  le
esigenze  cautelare  evidenziate  nel   provvedimento   di   custodia
cautelare emesso dal Giudice per le Indagini Preliminari,  che  viene
integralmente richiamato in questa sede; 
        il predetto, per il reato per il quale si procede, in data 30
gennaio 2009 e' stato condannato in primo grado alla  pena  detentiva
di anni 3 e mesi 4 di reclusione; 
        il medesimo e' in stato di custodia cautelare dal 21 febbraio
2008, ovvero per un perioda ampiamente inferiore alla  pena  irrogata
in primo grado; 
        la gravita' del reato contestato rende  inidonea  ogni  altra
misura piu' attenuata a salvaguardare le esigenze  cautelari  sottese
al provvedimento restrittivo, tenuto conto altresi' che  il  predetto
si e' gia' reso responsabile del  reato  di  evasione  e  per  questo
motivo e' stata aggravata la misura cautelare nei suoi confronti; 
    Tale provvedimento e' oggetto della presente impugnazione. 
    La difesa, nei motivi d'appello, ha  ribadito  le  argomentazioni
contenute    nell'istanza    aggiungendo    che,    «in     relazione
alle motivazioni dell'aggravamento della misura  cautelare  detentiva
domiciliare - l'avere aggredito T. G. presso la sua  abitazione  sita
in N.  via  A.,  cio'  durante  l'orario  nel  quale  l'imputato  era
autorizzato ad allontanarsi dal domicilio al fine di  recarsi  presso
gli studi del proprio commercialista e del difensore (si osserva  che
i motivi di  tale  condotta  dell'imputato,  impulsiva  e  certamente
censurabile, risiedono nel fatto che T. G. in  qualita'  di  titolare
della ditta, risulta debitore nei confronti dell'imputato della somma
di  8.000,00  euro   per   lavori   edili   eseguiti   dal   medesimo
precedentemente al suo arresto,  e'  stato  piu'  volte  sollecitato,
anche a mezzo di invio di lettera raccomandata, ad adempiere a quanto
dovuto, senza che a. tali solleciti  il  medesimo  abbia  dato  alcun
riscontro)  -  occorre  tenere  conto  della   situazione   personale
dell'imputato, ristretto in  misura  cautelare  detentiva,  prostrato
psicologicamente in quanto privo di fonti di reddito ed ospitato agli
arresti domiciliati dalla sorella e dal cognato,  tale  condotta  non
pare sintomatica della  sussistenza  di  un'indole  aggressiva  e  di
pericolosita' sociale, idonea a evocare  la  sussistenza  di esigenze
cautelari inerenti il  pericolo  di  recidivanza».  Infine  non  pare
corretto sostenere che A. si  sia  reso  responsabile  del  reato  di
evasione in quanto l'episodio e' avvenuto «in un frangente nel  quale
il medesimo era autorizzato ad allontanarsi dal luogo di  restrizione
domiciliare». 
    All'udienza  la  Difesa  ha  illustrato  i  motivi  di   appello,
richiamando l'incensuratezza dell'appellante  e  la  proporzionalita'
tra la pena inflitta e quella scontata. 
    Ritiene questo Collegio che, ai  fini  della  corretta  soluzione
dell'appello,  e'  necessario  sollevare  questione  di  legittimita'
costituzionale  dell'art.  275,  terzo  comma  c.p.p.,   cosi'   come
recentemente  novellato  dall'art.  2,  comma   1,   lett.   a)   del
decreto-legge 23 febbraio 2009 n. 11, convertito con legge 23  aprile
2009, n. 45. 
    La  norma  stabilisce  una   presunzione   legale   relativa   di
sussistenza  di  esigenze  cautelali  («salvo  che  siano   acquisiti
elementi dai quali risulti che non sussistono  esigenze  cautelari»),
nonche' una presunzione legale assoluta  di  adeguatezza  della  sola
misura cautelare della custodia in carcere. 
    Giova premettere,  ai  fini  della  valutazione  della  rilevanza
concreta della norma, che  il  Collegio  condivide  l'interpretazione
giurisprudenziale secondo la  quale  la  citata  disposizione,  quale
norma di carattere processuale, ed in  virtu'  del  principio  tempus
regit actum, si applica anche alla misure cautelavi da adottare per i
fatti delittuosi commessi anteriormente alla entrata in vigore  della
norma stessa e quindi anche al caso di specie  (da  ultimo  Cass.  16
giugno 2008, n. 24433). 
    Pertanto deve essere disattesa la richiesta difensiva  di  revoca
della misura cautelare in quanto non e' possibile sostenere che siano
venute  meno   le   esigenze   cautelari   che   hanno   giustificato
l'applicazione della misura in corso. 
    Non vi sono infatti elementi sopravvenuti che siano in  grado  di
superare la presunzione di  pericolosita'  introdotta  dal  novellato
art. 275, terzo comma c.p.p. 
    A prescindere da tale presunzione e prima dell'entrata in  vigore
del d.l.  n.  11/2009,  questo  trittilitale  aveva  ritenuto  che  i
presupposti di cui all'art. 274 lett. e) c.p.p.  fossero  rinvenibile
nell'oggettiva gravita'  dei  reati  di  cui  A.  e'  stato  ritenuto
colpevole  e  nel  fatto  che  le  risultanze  investigative  -  oggi
confermate dalla sentenza di condanna  -  «hanno  dimostrato  che  A.
risulta profondamente inserito in un ambiente criminale  dedito  allo
sfruttamento  della  prostituzione  in  modo  professionale   ed   al
reclutamento di nuove ragazze provenienti dalla Romania da  collocare
sui marciapiedi italiani.  La  spregiudicata  professionalita'  di A.
e degli altri coindagati deriva non solo dal  ricorso  alla  violenza
per contendersi il controllo di  R.  -  giovanissima  ed  altrettanto
redditizia  prostituta  -  ma  nella  capacita'  di   spostarsi   sul
territorio, alternando i marciapiedi  di  Torino  con  le  strade  di
grande percorrenza nel Canavese» (ordinanza 22 settembre 2008). 
    Nonostante il permanere di gravi, concrete  ed  attuali  esigenze
cautelari, questo  Collegio  ritiene  che  la  misura  degli  arresti
domiciliari, con il divieto di comunicare con  soggetti  diversi  dai
familiari conviventi, sarebbe  idonea  a  contenere  il  pericolo  di
recidivanza in  quanto  non  gli  consentirebbe  quella  liberta'  di
movimento assolutamente necessaria per poter ricominciare l'attivita'
di reclutamento e sfruttamento della prostituzione. 
    D'altra parte la misura domiciliare aveva  dato  buon  esito  per
quasi tre mesi per poi essere doverosamente aggravata a seguito della
violazione consistita nel recarsi da T. G. presso la  sua  abitazione
sita in N., via A. 
    Ritiene questo Collegio che la predetta violazione  non  osti  al
ripristino  della  misura  domiciliare  non  tanto  perche'  avvenuta
durante l'orario nel quale l'imputato era autorizzato ad allontanarsi
dal domicilio al  fine  di  recarsi  presso  gli  studi  del  proprie
commercialista e del difensore, quanto alle  particolari  motivazioni
della visita e del successivo litigio  con  T.  G.  Quest'ultimo,  in
qualita' di titolare della  ditta,  risulta  debitore  nei  confronti
dell'imputato della somma di 8.000,00 euro per lavori edili  eseguiti
dal medesimo precedentemente al suo arresto (la Difesa ha documentato
la circostanza con le lettere  contenenti  le  diffide  ad  adempiere
inviate dall'avvocato e ritornate al mittente per compiuta  giacenza)
e A. si e' recato presso l'abitazione del debitore per pretendere  il
pagamento del proprio credito. 
    Per  tale  motivo,  trascorsi  ulteriori  7  mesi   di   custodia
inframuraria, ritiene questo Collegio che  la  misura  degli  arresti
domiciliari potrebbe essere ripristinata. 
    Senonche' si pone a questo punto l'ostacolo normativo dato  dalla
previsione della presunzione legislativa di  adeguatezza  della  sola
misura della custodia cautelare in carcere, introdotta  dalla  citata
novella ed applicabile in caso di  sussistenza  di  gravi  indizi  di
colpevolezza di commissione di una serie molto ampia  di  reati,  tra
cui quello di induzione alla prostituzione minorile. Per  tale  reato
A. e' stato condannato in primo grado. 
    Di  qui  la   rilevanza   della   questione   di   illegittimita'
costituzionale. 
    A  parere  del  Collegio  non  e'  manifestamente  infondata   la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275, terzo  comma,
c.p.p., per violazione dell'art. 3 della Costituzione. 
    Invero, principi  fondamentali  che  regolano  la  materia  della
liberta'  personale  con   specifico   riferimento   alla   fase   di
applicazione e modifica delle misure cautelare personali sono  quelli
non solo della proporzione ma anche, cio'  che  qui  piu'  interessa,
quelli dell'adeguatezza e della graduazione  della  misura,  principi
infatti espressamente enunciati nell'art. 2 della legge  delega  1987
n. 81 (n. 59, laddove, nel regolare la materia, prevede il divieto di
disporre la custodia in  carcere  se,  con  l'applicazione  di  altre
misure  di  coercizione  personale,  possono   essere   adeguatamente
soddisfatte le esigenze cautelari; l'obbligo di  disporre  la  revoca
delle misure applicate se vengono a cessare  le  esigenze  cautelari;
previsione della sostituzione o della revoca della custodia cautelare
in carcere, qualora  l'ulteriore  protrarsi  di  questa  risulti  non
proporzionata alla entita' del fatto ed alla sanzione che si  ritiene
possa essere irrogata), che richiama i  principi  della  Costituzione
(enunciati  appunto  dagli  articoli  13  e  27)   e   la   normativa
convenzionale internazionale (tra cui rileva in particolare l'art. 5,
commi I lett. c) e IV  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali firmata a Roma  il  4
novembre 1950 (infra, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge
4 agosto 1955, n. 848,  unitamente  al  Protocollo  addizionale  alla
Convenzione stessa firmato a Parigi il 20 marzo 1952. 
    In applicazione di tali fondamentali precetti, secondo il sistema
del codice di procedura penale, accertata l'esistenza di gravi indizi
di colpevolezza, valutata la sussistenza delle esigenze,  al  giudice
e' imposto l'onere di valutare e sufficientemente motivare  circa  la
scelta della misura (art. 292 c-bis  c.p.p.,  secondo  cui  contenuto
essenziale, a pena di nullita'  dell'ordinanza  applicativa,  e',  in
ipotesi di applicazione della massima misura della custodia cautelare
in carcere, l'esposizione delle concrete e specifiche ragioni per  le
quali le esigenze di cui all'art. 274 non possono essere  soddisfatte
con altre misure). L'adeguatezza della cautela va pertanto riguardata
come necessita' dell'imposizione della misura via via  piu'  gravosa,
per inadeguatezza - intesa come incapacita' contenitiva -  di  quella
immediatamente piu' lieve. 
    La norma che qui si analizza si  pone  quindi  chiaramente  quale
deroga a tali generali principi,  che  trovano  riconoscimento  negli
artt. 13 e 27 della  Costituzione,  e  che  «discendono  direttamente
dalla natura servente che la Costituzione assegna  alla  carcerazione
preventiva rispetto alle finalita' del processo, da un lato, ed  alle
esigenze  di  tutela  della  collettivita',   dall'altro,   tali   da
giustificare,  nel  bilanciamento  tra   interessi,   il   temporaneo
sacrificio della liberta'  personale  di  chi  non  e'  stato  ancora
giudicato colpevole in via definitiva» (Corte cost., sent. 22  luglio
2005, n. 299, in materia di durata massima delle misure cautelari). 
    Nella giurisprudenza  costituzionale,  a  partire  dalla  storica
sentenza n. 64/1970 e' costante l'affermazione secondo la  quale,  in
ossequio al  favor  libertatis  che  ispira  l'art.  13  Cost.,  deve
comunque essere scelta la soluzione che comporta il minore sacrificio
della  liberta'  personale;  proporzionalita'  ed  adeguatezza  della
misura cautelare rappresentano corollario di tale principio. 
    Ne discende che la loro  compressione,  ove  non  trovi  adeguata
ragione  giustificatrice  nella  tutela  di  altri   interessi   pure
costituzionalmente protetti, costituisce lesione dell'art.  3  Cost.,
per irragionevolezza, quale  uso  distorto  perche'  non  efficace  e
circoscritto,    della    discrezionalita'    legislativa,    secondo
l'elaborazione giurisprudenziale della Corte cost.: «ove uno  o  piu'
valori coinvolti dalla norma appaiano sviliti al punto  da  risultare
ad esclusivo vantaggio degli altri, sara' la stessa  discrezionalita'
a non potersi  dire  correttamente  esercitata,  perche'  carente  di
alcuni dei termini sui quali la  stessa  poteva  e  doveva  fondarsi»
(sent. 12 luglio 1995, n. 313). 
    E'  pur  vero  che,  secondo  l'insegnamento  ormai   altrettanto
costante della giurisprudenza costituzionale «mentre  la  sussistenza
in concreto di una o piu' delle esigenze cautelari prefigurate  dalla
legga (l'an della cautela) comporta, per definizione,  l'accertamento
di volta in volta, della loro effettiva ricorrenza,  non  puo' invece
ritenersi soluzione costituzionalmente obbligata quella  di  affidare
sempre e comunque al giudice l'apprezzamento del tipo  di  misura  in
concreto ritenuta come necessaria (il  quomodo  della  cautela),  ben
potendo  tale  scelta  essere  effettuata  in  termini  generali  dal
legislatore (sent. 64/1970; ord. 40/2002; 130/2003; 339 e  450/1995).
Tuttavia  il  limite  imposto   al   legislatore   e'   costantemente
rappresentato dal «rispetto del limite  della  ragionevolezza  e  del
corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti». 
    E cio' che questo Collegio ritiene  leso  e'  proprio  il  canone
costituzionale della ragionevolezza, sotto i profili della disparita'
di trattamento rispetto a tutti casi di sussistenza di  gravi  indizi
di colpevolezza e di esigenze cautelari nonche' della  disparita'  di
trattamento «interna», tra le varie possibili forme di manifestazione
concreta delle condotte  rientranti  nello  stesso  titolo  di  reato
contestato; e  della  conseguente  potenziale  esuberanza  del  mezzo
rispetto al fine, cio' che concreta eccesso di potere legislativo. In
un'ottica  sistematica,   gli   interventi   del   legislatore,   pur
nell'esercizio  della  sua  discrezionalita',  devono  rispettare   i
criteri che lo stesso  individua  via  via  che  esercita  il  potere
legislativo: tali criteri costituiscono la misura della  legittimita'
del suo operato successivo secondo il parametro della ragionevolezza,
ai sensi dell'art. 3 Cost. 
    Si' considerino allora le ipotesi nelle quali la  Corte  cost  ha
ritenuto non irragionevole  l'esercizio  del  potere  legislativo  di
predeterminazione della necessita' della cautela  piu'  rigorosa;  le
stesse sono caratterizzate da specificita' che volta  a  volta  hanno
reso chiara e con  cio'  delimitata  la  ragione  di  prevalenza  sui
principi di graduazione ed adeguatezza  delle  misure  cautelare:  la
pregressa, cioe' concreta, evasione dagli arresti domiciliare, che ne
impedisce una nuova applicazione (art. 276, comma 1-ter c.p.p., e 284
comma 5-bis c.p.p. valutati rispettivamente dalle pronunce 40/2002  e
130/2003); l'essere gravemente indiziato  di  reato  aggravato  dalla
finalita' di associazioni di tipo mafioso (ord. n. 450/1995). 
    Rileva in particolare tale ultima decisione: la conclusione circa
la non irragionevolezza della scelta legislativa e' il  frutto  della
«delimitazione della  norma  all'area  dei  delitti  di  criminalita'
organizzata di tipo mafioso» ed il «coefficiente di pericolosita' per
le condizioni di base della convivenza e della  sicurezza  collettiva
che agli illeciti di quel genere e' connaturato». 
    Delimitazione delle ipotesi legislative  -  da  intendersi  anche
quale sufficiente specificazione delle condotte  rappresentate  dalle
fattispecie di reato - e coefficiente di  pericolosita'  -  immanente
nelle fattispecie mafiose - che a parere  nel  Collegio  difettano  -
nella  scelta  legislativa  oggetto  della  presente   ordinanza   di
rimessione. 
    Conviene formulare  alcune  osservazioni  circa  le  fondamentali
differenze tra il reato di cui all'art. 416-bis  c.p.,  per  fare  un
esempio, e quello che qui interessa. 
    Quello di appartenenza ad  associazione  mafiosa  e'  delitto  di
pericolo e permanente, che si qualifica proprio  per  il  vincolo  di
appartenenza totalizzante  ad  un  sodalizio  caratterizzato  da  una
particolare forza  intimidatrice,  da  un  grado  di  solidarieta'  e
diffusivita' anche nel contesto  ambientale  particolarmente  elevato
(la cui pericolosita' e' legata al metodo, tanto che lo scopo sociale
che puo' anche non consistere nella  commissione  di  reati,  ma  del
quale anche nella finalita' di  inserimento  in  settori  chiave  del
contesto sociale, economico, ed anche atto con  metodi  informano  lo
Stato di diritto). 
    E' la qualita' di associato  ad  una  simile  organizzazione  che
rileva, sentita dal comune sentire come particolarmente perniciosa. 
    Pienamente comprensibile  allora  e'  la  connotazione  di  reato
particolarmente grave, che, «per comune sentire, pone a rischio  beni
primari individuali e collettivi» (ord. n. 450/1995 che richiama, con
riferimento alle eccezionalita' delle esigenze di prevenzione sociale
legate ai fenomeni di infiltrazione mafiosa negli organi  di  governo
locale, le  sentenze  nn.  407/92  e  103/93),  a  prescindere  dalle
concrete espressioni dell'appartenenza alla cosca del singolo. 
    E del tutto giustificabile, anche in un'ottica  di  bilanciamento
di interessi, e' la valutazione di adeguatezza, quale  necessarieta',
della misura cautelare custodiale carceraria: la pericolosita'  della
partecipazione ad associazione di stampo mafioso  e'  legata  ad  una
sorta di condizione personale (di «mafioso») che travalica la  stessa
posizione del singolo appartenente, caratterizzata da  una  sorta  di
immanenza, dell'associazione nel tessuto ambientale  e  nella  stessa
vita del singolo, che rende costante ed immutabile l'attualita' delle
caratteristiche di pericolosita' sociale sicche'  si  palesa  che  il
carcere,  quale  forzato   distacco   indipendente   dalla   volonta'
dell'associato, si ponga quale mezzo indispensabile per la  recisione
totale dei legami, quindi per la conseguente  neutralizzazione  della
pericolosita'  del  soggetto   riconducibile,   tra   l'altro,   alla
permanenza del vincolo di fedelta' dello stesso al «mandante». 
    Si spiega cosi', in una tale strutturazione della fattispecie  di
reato, anche la previsione della presunzione relativa di  sussistenza
di  esigenze  cautelari,  superabile  solo  attraverso  elementi  che
offrano la dimostrazione della avvenuta recisione del vincolo,  della
perdita in sostanza della stessa condizione personale di «associato»,
che  puo'  aversi  solo,  in  relazione  proprio  all'intensita'  del
vincolo, attraverso condotte positive che tendenzialmente si  pongono
in posizione di antagonismo e conflitto con la stessa associazione. 
    Gli stessi necessari caratteri, di omogeneita' strutturale tra le
diverse condotte, non si rinvengono nelle fattispecie alle  quali  la
novella ha esteso l'applicazione dell'art. 275 citato:  fra  di  essi
sono compresi  reati  ad  evento,  a  carattere  non  necessariamente
permanente, ricomprendenti nel loro seno una ampia gamma di possibili
concrete condotte, potenzialmente espresse con modalita' estremamente
diversificate,  frutto  di  determinazioni  all'illecito   di   grado
diverso,  e  di  contesti  ambientali  e   relazioni   interpersonali
variamente connotate, in ipotesi del tutto contingenti ed occasionali
o condizionate. 
    Tali caratteri non si rinvengono  in  particolare  nel  reato  di
induzione alla prostituzione di soggetto  minorenne  che  puo'  avere
connotazioni temporali esigue, che puo' essere privo di violenza, che
non e' necessariamente collegato alla criminalita' organizzata e  che
pertanto non esprime  un  livello  di  pericolosita'  paragonabile  a
quello insito nell'associazione di stampo mafioso. 
    La norma di cui all'art. 275,  terzo  comma  c.p.p.,  cosi'  come
novellata,  esclude  pertanto  che  si  possa  tener  conto  di  tali
possibili varianti, impedendo di trattare a fini cautelari situazioni
oggettive e soggettive diverse in maniera adeguatamente diversa, e di
calibrare  la  cautela,  anche  in  relazione   agli   sviluppi   del
procedimento, cautela  da  intendersi  anche  quale  possibilita'  di
intervento rimozione delle concrete determinazioni a delinquere, e di
inibire la ripetizione dell'illecito. 
    L'assenza di specificita' nella individuazione delle  fattispecie
legislative  -  sempre  richiamata  in  casi  analoghi  dalla   Corte
costituzionale laddove si e' risolta per la non irragionevolezza -  e
gli elementi costitutivi di  queste,  ne  minano  la  giustificazione
nell'ottica del necessario bilanciamento  di  interessi  contrapposti
costituzionalmente  garantiti  e  del  rispetto  del   principio   di
uguaglianza,  peraltro  con  rischi  di  confusione  tra  trattamento
cautelare - improntato  al  principio  del  minimo  sacrificio  della
liberta' personale - e trattamento sanzionatorio - con  aspetti  piu'
propriamente retributivi - e di possibile attribuzione  alla  cautela
di funzione di anticipazione della pena, in contrasto con  l'art.  27
Cost. 
    Non si  discute  della  discrezionalita'  del  legislatore  nella
determinazione di inasprire la repressione di una categoria di  reati
- quali quelli che aggrediscono  la  liberta'  sessuale  -  da  tutti
avvertiti come particolarmente riprovevoli, ma della indissolubilita'
normativa tra gravita' del reato e pericolosita' dell'autore. Val  la
pena osservare come le fattispecie di reato siano solo  evocative  di
casi,  in  effetti  estremamente  gravi,  meritevoli  di  particolare
deplorazione sociale e causa di un forte sentimento di paura, ma  che
tuttavia non esauriscono la gamma  delle  condotte  ricomprese  nelle
norme incriminatici. Il rischio e' che il giudice, nel  tentativo  di
contemperare i contrapposti interessi sopra  evidenziati,  adotti  in
fase cautelare delle interpretazioni sensibilmente diverse da  quelle
sino ad ora  ritenute  consolidate.  Ad  esempio  ampliando  l'ambito
dell'attenuante di cui all'art. 609-bis u.c. c.p. 
    Il paragone con il reato  p.  e  p.  dall'art.  416-bis  c.p.  e'
altresi'  necessario  per  introdurre   un   ulteriore   profilo   di
legittimita' costituzionale. 
    La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha infatti  stabilito  che
la disciplina dell'art. 275, comma III citato, costituisca una deroga
all'art. 5 CEDU e che la lotta contro i crimini di mafia  giustifichi
tale deroga. In tale contesto, la presunzione legale di pericolosita'
potrebbe essere  ammissibile  se  non  si  trattasse  di  presunzione
assoluta. «La permanenza in detenzione del soggetto accusato di  aver
commesso un reato nella qualita' di  associato  di  un'organizzazione
criminale di stampo mafioso e'  stata  prevista  per  interrompere  i
legami del medesimo con l'ambiente criminale di  provenienza.  Tenuto
conto della natura di tale attivita' criminosa  e  delle  difficolta'
incontrate  dalle  Autorita'  italiane  nell'investigazione  di  tale
reati, la legge italiana  ha  giustificatamente  considerato  che  le
misure  cautelari  erano  necessarie  per  soddisfare   il   concreto
interesse pubblico  per  la  difesa  dell'ordine  e  della  sicurezza
pubblici e per la prevenzione dei reati» (questa la traduzione  della
parte  piu'  significativa  della  decisione  del  6  novembre  2003,
Giuseppe Pantano contro l'Italia, richiesta n. 60851/00). 
    E' evidente, per le stesse argomentazioni sopra esposte, che  gli
argomenti  in  base  quali  la  Corte  di  Strasburgo   ha   ritenuto
giustificata la deroga all'art. 5 CEDU non possono essere  estesi  al
reato di induzione  alla  prostituzione  di  un  soggetto  minorenne.
Pertanto la violazione di una norma  CEDU,  cosi'  come  interpretata
dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo,  determina  la  violazione
dell'art.  117,  primo  comma  Cost.  che  sancisce   l'obbligo   del
legislatore  ordinario  di  rispettare  i  «vincoli  derivanti  dagli
obblighi internazionali». «Ne consegue che al giudice  comune  spetta
interpretare la norma  interna  in  modo conforme  alla  disposizione
internazionale, entro i limiti nei quali cio' sia permesso dai  testi
delle norme. Qualora cio' non  sia  possibile,  ovvero  dubiti  della
compatibilita' della norma interna con la disposizione  convenzionale
"interposta",  egli  deve  investire  questa  Corte  della   relativa
questione  di  legittimita'  costituzionale  rispetto  al   parametro
dell'art. 117, primo comma, Cost.» (sent. n. 349/2007). 
    In definitiva  il  difetto  di  omogeneita'  strutturale  tra  le
innumerevoli condotte che integrano i titoli di reato per i quali  e'
prevista la custodia cautelare in carcere quale unica misura adeguata
ed in particolare l'irragionevolezza dell'equiparazione fra il  reato
di associazione a delinquere  di  stampo  mafioso  e  induzione  alla
prostituzione di un soggetto minorenne, determinano la non  manifesta
infondatezza della  questione  di  costituzionalita'  dell'art.  275,
comma 3 c.p.p. cosi' come modificato dal  decreto-legge  23  febbraio
2009 n. 11, convertito con legge 23 aprile 2009, n. 45  in  relazione
alla fattispecie di cui all'art.  600-bis  c.p.,  in  relazione  agli
artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione. 
    Per le considerazioni che precedono si impone la rimessione della
questione alla Corte costituzionale, con conseguente sospensione  del
procedimento  ed  immediata  trasmissione  degli  atti   alla   Corte
costituzionale.