IL TRIBUNALE 
 
    Deliberando sull'istanza di sostituzione della  misura  cautelare
della custodia in carcere proposta nell'interesse di: Z. X., detenuto
presso la casa circondariale di Pavia,  difeso  dall'avv.  Alessandra
Silvestri di Milano; 
    Letto il parere del pubblico ministero che invita  il  giudice  a
valutare  la  non  manifesta  inammissibilita'  della  questione   di
legittimita' costituzionale indicata dalla difesa; 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza. 
    Con  istanza  depositata  il  28   settembre   2010   la   difesa
dell'imputato, condannato in primo grado  per  concorso  in  omicidio
volontario,  deduceva  la  avvenuta  sensibile   attenuazione   delle
esigenze cautelari in considerazione  della  decisiva  collaborazione
prestata all'autorita'  inquirente  e  della  sicura  resipiscenza  e
chiedeva la sostituzione della custodia in carcere  con  gli  arresti
domiciliari, sollevando per il caso di diniego motivato  dal  divieto
legislativo questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  275,
comma 3 c.p.p. 
    Con parere depositato il 30 settembre 2010 il  Procuratore  della
Repubblica, rilevato che effettivamente le esigenze  cautelari  erano
grandemente scemate ma non potevano dirsi  cessate  (con  particolare
riferimento a quelle  di  prevenzione  speciale  e  all'esigenza  che
l'imputato,  condannato  in   pi   imo   grado,   potesse   sottrarsi
all'esecuzione della pena di dieci anni di reclusione inflitta) e che
tuttavia, nonostante la concreta idoneita' degli arresti  domiciliari
a tutelarle, l'istanza sarebbe stata da rigettare giusto il  disposto
dell'art.  275,  comma  3  c.p.,  invitava  il  giudice  a  sollevare
incidente di costituzionalita' della  norma  per  contrasto  con  gli
artt. 3, 13 comma 1 e 27 della Costituzione. 
Della rilevanza. 
    La questione e' rilevante. 
    Come  hinc  et  inde  sostenuto,  le  esigenze   cautelari   sono
effettivamente  scemate  ma  come  giustamente  osserva  il  pubblico
ministero esse non possono davvero dirsi cessate. 
    Peraltro, gli  elementi  concordemente  evidenziati  dalle  parti
renderebbero idoneo presidio delle stesse una  misura  non  detentiva
quale quella degli arresti domiciliari. 
    In presenza di gravi indizi di reita'  del  delitto  di  omicidio
volontario (Z. X. e' stato condannato in primo grado) e in assenza di
prova positiva della mancanza  di  esigenze  cautelari,  l'art.  275,
comma 3 pone una presunzione iuris et de iure di inadeguatezza  delle
misure cautelari diverse da quella della custodia in carcere. 
    La  lettera  della  legge  non   e'   suscettibile   di   diversa
interpretazione, ed in particolare  e'  preclusa  al  giudice  penale
l'applicazione analogica -  suggerita  dalla  difesa  -  della  norma
risultante dall'intervento della Corte costituzionale con sentenza n.
265/2010, riferita solo ai delitti  di  cui  agli  articoli  600-bis,
primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale. 
    La risoluzione della questione e' indispensabile per la decisione
in materia cautelare personale devoluta  al  giudice  competente  pro
tempore a provvedere. 
Della non manifesta infondatezza. 
    La questione non e' manifestamente infondata in riferimento  agli
articoli 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione,
potendosi richiamare mutatis mutandis gli argomenti spesi dalla Corte
costituzionale nella richiamata sentenza n.  265/2010  anche  per  il
delitto di omicidio volontario. 
    La  disposizione  oggetto   di   scrutinio   trova   collocazione
nell'ambito  della  disciplina  codicistica  delle  misure  cautelari
personali coercitive (articoli 272-286-bis), tutte consistenti  nella
privazione - in varie qualita', modalita' e tempi  -  della  liberta'
personale dell'indagato o dell'imputato  durante  il  procedimento  e
prima comunque del giudizio definitivo sulla sua responsabilita'.  In
ragione di questi caratteri, i limiti di legittimita'  costituzionale
di dette misure, a  fronte  del  principio  di  inviolabilita'  della
liberta' personale (art. 13, primo comma,  Cost.),  sono  espressi  -
oltre che dalla riserva di legge, che esige la tipizzazione dei  casi
e dei modi, nonche' dei tempi di  limitazione  di  tale  liberta',  e
dalla riserva di giurisdizione, che esige sempre un atto motivato del
giudice  (art.  13,  secondo  e  quinto  comma,  Cost.)  -  anche   e
soprattutto,  per  quanto  qui  rileva,  dalla  presunzione  di   non
colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), in  forza  della  quale
l'imputato  non  e'  considerato   colpevole   sino   alla   condanna
definitiva. 
    Indefettibile   corollario   dei   principi   costituzionali   di
riferimento e' che la disciplina della materia debba essere  ispirata
al criterio del "minore sacrificio necessario" (sentenza n.  299  del
2005): la  compressione  della  liberta'  personale  dell'indagato  o
dell'imputato  va   contenuta,   cioe',   entro   i   limiti   minimi
indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari  riconoscibili  nel
caso concreto. Questo principio e' stato affermato in  termini  netti
anche dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo la quale, in
riferimento  alla  previsione  dell'art.  5,   paragrafo   3,   della
Convenzione,  la  carcerazione  preventiva  «deve  apparire  come  la
soluzione estrema che si  giustifica  solamente  allorche'  tutte  le
altre opzioni disponibili  si  rivelino  insufficienti»  (sentenze  2
luglio 2009, Vafiadis contro Grecia,  e  8  novembre  2007,  Lelievre
contro Belgio). 
    Coerente  col  quadro  costituzionale  e  convenzionale   e'   la
disciplina codicistica  che  in  punto  di  scelta  della  misura  si
modella, in generale, sui criteri di adeguatezza  e  proporzionalita'
senza prevedere automatismi ne' presunzioni. 
    Da tali coordinate si discosta in modo vistoso -  assumendo,  con
cio',  carattere  derogatorio  ed   eccezionale   -   la   disciplina
attualmente espressa dal secondo e dal  terzo  periodo  del  comma  3
dell'art. 275 cod. proc. pen., non presente nel testo originario  del
codice, ma in esso inserita via via, con il criticato strumento della
decretazione d'urgenza, in un primo tempo tramite l'aggiunta del solo
secondo periodo al comma 3, sulla spinta di una situazione apprezzata
come "emergenziale"; successivamente con un  contenimento  di  questa
speciale disciplina, mediante una drastica riduzione dei reati a essa
assoggettati a quelli  di  cui  all'art.  416-bis  cod.  pen.  ovvero
commessi avvalendosi delle condizioni previste da  detto  articolo  o
per agevolare le associazioni  ivi  indicate;  infine,  nuovamente  e
notevolmente ampliando il novero dei reati stessi, con  le  addizioni
recate al vigente secondo periodo e con quelle ulteriori incluse  nel
nuovo  terzo  periodo  del  comma  3  dell'art.  275  (mediante   gli
interventi parimenti emergenziali dell'art. 2  del  decreto-legge  23
febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla  legge  23
aprile 2009, n. 38). 
    In base alla disciplina in questione, nei procedimenti per taluni
delitti, analiticamente elencati, ove  ricorra  la  condizione  della
gravita' indiziaria, il  giudice  dispone  senz'altro  l'applicazione
della misura cautelare della custodia carceraria,  «salvo  che  siano
acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono  esigenze
cautelare».  Per  comune  opinione,  la  previsione   ora   ricordata
racchiude una duplice presunzione. La prima,  a  carattere  relativo,
attiene alle esigenze cautelari,  che  il  giudice  deve  considerare
sussistenti, quante volte non consti la  prova  della  loro  mancanza
(prova di tipo negativo, dunque, che deve necessariamente proiettarsi
su ciascuna delle fattispecie identificate dall'art. 274  cod.  proc.
pen.). La seconda, a carattere assoluto,  concerne  la  scelta  della
misura: ove la presunzione relativa non risulti  vinta,  subentra  un
apprezzamento legale, vincolante e incontrovertibile, di  adeguatezza
della  sola  custodia   carceraria   a   fronteggiare   le   esigenze
presupposte,   con   conseguente   esclusione   di   ogni   soluzione
"intermedia" tra questa e lo stato di piena liberta' dell'imputato. 
    Il modello ora evidenziato si traduce anche, sul  piano  pratico,
in  una  marcata  attenuazione  dell'obbligo   di   motivazione   dei
provvedimenti applicativi della custodia cautelare in carcere. 
    Tali marcati profili di scostamento rispetto al regime  ordinario
avevano indotto il  legislatore  -nell'ambito  di  un  piu'  generale
disegno di recupero delle garanzie in materia di misure cautelari - a
delimitare in  senso  restrittivo  il  campo  di  applicazione  della
disciplina  derogatoria,  costituente  un  vero  e   proprio   regime
cautelare speciale di natura eccezionale. Riferito, ai  suoi  esordi,
ad una nutrita e disparata  serie  di  figure  criminose,  il  regime
speciale era stato infatti circoscritto - a partire  dal  1995,  come
dianzi ricordato - ai soli procedimenti per delitti di mafia in senso
stretto (art. 5, comma 1, della citata legge n. 332 del 1995). 
    In tali limiti, com'e' noto,  la  previsione  aveva  superato  il
vaglio tanto della Corte costituzionale che della Corte  europea  dei
diritti dell'uomo. Entrambe le Corti avevano, infatti, in vario  modo
valorizzato la specificita' dei predetti delitti, la cui connotazione
strutturale astratta (come reati associativi  e,  dunque,  permanenti
entro un contesto di criminalita' organizzata, o come  reati  a  tale
contesto comunque collegati) valeva a  rendere  «ragionevoli»  -  nei
relativi procedimenti - le presunzioni in questione,  e  segnatamente
quella di adeguatezza della sola custodia carceraria, trattandosi, in
sostanza, della misura  piu'  idonea  a  neutralizzare  il  periculum
libertatis connesso al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato
ed associazione (cfr. l'ordinanza C. Cost. n.  450  del  1995,  e  la
sentenza CEDU 6 novembre 2003, Pantano contro Italia). 
    E'  su  questo  quadro  che  si  innesta  l'ulteriore  intervento
novellistico che da' origine agli odierni dubbi di costituzionalita',
operato  con  il  decreto-legge  n.  11  del  2009,  convertito,  con
modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009. Esso riespande l'ambito di
applicazione della disciplina eccezionale ai procedimenti  aventi  ad
oggetto numerosi altri reati, riguardanti fattispecie in larga misura
eterogenee fra loro, individuati in parte mediante  diretto  richiamo
agli articoli di legge che descrivono le relative fattispecie  e  per
il resto tramite rinvio  "mediato"  alle  norme  processuali  di  cui
all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc.  pen.:  reati  tra  i
quali si annovera appunto l'omicidio volontario. 
    La  norma  impugnata  e'  censurabile  siccome  non  consente  di
applicare una misura cautelare  meno  afflittiva  della  custodia  in
carcere  in  procedimento  per  delitto  d'omicidio  volontario.  E',
dunque, sottoposta allo scrutinio di costituzionalita' la presunzione
assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare carceraria, che
lede il principio del "minore sacrificio necessario". 
    Secondo la giurisprudenza della Corte, «le presunzioni  assolute,
specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano
il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali,  cioe'
se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella
formula   dell'id   quod   plerumque   accidit».   In    particolare,
l'irragionevolezza della presunzione  assoluta  si  coglie  tutte  le
volte in cui sia "agevole" formulare  ipotesi  di  accadimenti  reali
contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione  stessa
(sentenza n. 139 del 2010). 
    Per questo verso, all'omicidio non puo' estendersi la ratio  gia'
ritenuta, sia dalla Corte costituzionale che da  quella  europea  dei
diritti dell'uomo, idonea a giustificare la  deroga  alla  disciplina
ordinaria quanto ai procedimenti relativi a delitti di mafia in senso
stretto: vale a dire che dalla struttura stessa della  fattispecie  e
dalle sue connotazioni criminologiche - connesse alla circostanza che
l'appartenenza ad associazioni di tipo  mafioso  implica  un'adesione
permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel
territorio,  caratterizzato  da  una  fitta  rete   di   collegamenti
personali e dotato di particolare forza intimidatrice - deriva, nella
generalita' dei casi concreti ad essa riferibili e secondo una regola
di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla
cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in  carcere  (non
essendo le misure "minori" sufficienti  a  troncare  i  rapporti  tra
l'indiziato    e    l'ambito    delinquenziale    di    appartenenza,
neutralizzandone la pericolosita'). 
    Con riguardo volontario non e' consentito  pervenire  ad  analoga
conclusione. La regola di esperienza, in questo caso, e' ben diversa:
ed e' che i fatti concreti, riferibili alle fattispecie in  questione
non solo presentano disvalori nettamente differenziabili, ma anche  e
soprattutto  possono  proporre  esigenze  cautelari  suscettibili  di
essere soddisfatte con diverse misure. Per quanto gravi, i fatti  che
integrano i delitti in questione ben  possono  essere  e  in  effetti
spesso sono meramente individuali, e tali, per le loro  connotazioni,
da non postulare esigenze cautelari affrontabili solo  e  rigidamente
con la massima misura. 
    Si pensi a titolo d'esempio alle ben diverse possibili intensita'
del dolo, che spaziano da  quello  eventuale  o  alternativo  fino  a
quello  premeditato,  e  d'altro  lato  alle  diversissime  possibili
condotte del reato a forma  libera:  mentre  gia'  sotto  il  profilo
strutturale il delitto di mafia par excellence e' a dolo specifico  e
condotta vincolata. 
    Cio'  rende  assai  piu'  debole  la  "base   statistica"   della
presunzione assoluta considerata. 
    La  ragionevolezza  della  soluzione  normativa  scrutinata   non
potrebbe essere rinvenuta neppure, per altro  verso,  nella  gravita'
astratta del reato, considerata sia in  rapporto  alla  misura  della
pena, sia in rapporto alla natura  (e,  in  particolare,  all'elevato
rango) dell'interesse tutelato, la vita. Questi parametri giocano  un
ruolo di rilievo in sede di giudizio di colpevolezza, particolarmente
per la determinazione della  sanzione,  ma  risultano,  di  per  se',
inidonei a fungere da elementi  preclusivi  ai  fini  della  verifica
della sussistenza di esigenze cautelari e - per quanto qui  rileva  -
del loro grado, che condiziona l'identificazione delle misure  idonee
a soddisfarle. 
    D'altra  parte,  l'interesse  tutelato   penalmente   e',   nella
generalita' dei casi, un interesse  primario,  dotato  di  diretto  o
indiretto aggancio costituzionale, invocando  il  quale  si  potrebbe
allargare indefinitamente il  novero  dei  reati  sottratti  in  modo
assoluto al principio di adeguatezza, fino a travolgere la valenza di
quest'ultimo     facendo     leva     sull'incensurabilita'     della
discrezionalita' legislativa. Ove dovesse aversi riguardo, poi,  alla
misura edittale della pena, la scelta del  legislatore  non  potrebbe
che  apparire  palesemente  scompensata  e  arbitraria.  Procedimenti
relativi a gravissimi delitti - puniti con pene piu' severe di quelli
che qui vengono in rilievo (taluni  addirittura  con  l'ergastolo)  -
restano, infatti, sottratti al regime cautelare speciale. 
    Tanto meno, infine, la presunzione in esame potrebbe rinvenire la
sua fonte di legittimazione nell'esigenza di  contrastare  situazioni
causa  di  allarme  sociale,  determinate  dalla  asserita   crescita
numerica di taluni delitti. 
    Una tale inammissibile "esemplarita'",  per  contro,  e'  proprio
quella che traspare dai lavori parlamentari relativi alla novella. Ma
la eliminazione o riduzione  dell'allarme  sociale  non  puo'  essere
chiaramente annoverata tra le (costituzionalmente  lecite)  finalita'
della custodia preventiva e non puo' essere considerata una  funzione
di essa, ma piuttosto una delle funzioni della pena. 
    Il  fatto  che  quest'ultima  in  senso  proprio,   per   diverse
censurabili ragioni, "arrivi tardi",  non  rende  lecito  l'obiettivo
scopertamente  perseguito  dal  legislatore  e  cioe'  una   indebita
anticipazione  di  essa  prima   di   un   giudizio   definitivo   di
colpevolezza. 
    Alla luce delle considerazioni  che  precedono,  si  deve  dunque
ritenere non infondato il dubbio che la  norma  impugnata  violi,  in
parte qua, sia l'art. 3 Cost., per l'ingiustificata parificazione dei
procedimenti relativi al delitto in questione a quelli concernenti  i
delitti di mafia nonche'  per  l'irrazionale  assoggettamento  ad  un
medesimo   regime   cautelare   delle   diverse   ipotesi    concrete
riconducibili ai paradigmi punitivi considerati; sia l'art. 13, primo
comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle
misure cautelari privative della  liberta'  personale;  sia,  infine,
l'art.  27,  secondo  comma,  Cost.,  in  quanto   attribuisce   alla
coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena. 
    Mutuando ancora gli argomenti spesi nella sentenza costituzionale
n. 265/2010 e tenuto conto dei limiti delle questioni  devolute  allo
scrutinio di  costituzionalita',  per  assicurare  la  compatibilita'
costituzionale della  norma  censurata  non  e'  peraltro  necessario
rimuovere integralmente la presunzione ma piuttosto il suo  carattere
il suo carattere assoluto, che si risolve  in  una  indiscriminata  e
totale negazione di  rilievo  al  principio  del  "minore  sacrificio
necessario", anche quando sussistano -  come  nel  caso  oggetto  del
procedimento de quo,  secondo  quanto  si  e'  riferito  -  specifici
elementi da cui desumere,  in  positivo,  la  sufficienza  di  misure
diverse e meno rigorose della custodia in carcere. 
    Con tale limite non apparirebbe non  censurabile  l'apprezzamento
legislativo, in rapporto alle caratteristiche del reato in questione,
della ordinaria configurabilita' di esigenze cautelari nel grado piu'
intenso (per una conclusione  analoga,  su  presunzione  assoluta  in
materia di spese di giustizia, cfr. anche sentenza n. 139 del  2010),
con facolta' tuttavia di prova contraria.