Ordinanza 
 
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 500,  comma  2,
del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale di Biella  nel
procedimento penale a carico di P.E. con  ordinanza  del  5  febbraio
2010, iscritta al n. 146 del registro  ordinanze  2010  e  pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, 1ª  serie  speciale,
dell'anno 2010. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella camera di consiglio del 17 novembre 2010  il  giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
    Ritenuto che, con ordinanza del 5 febbraio 2010, il Tribunale  di
Biella, in composizione monocratica,  ha  sollevato,  in  riferimento
all'art.  111,  quinto  comma,  della  Costituzione,   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 500, comma  2,  del  codice  di
procedura  penale,  nella  parte  in  cui  consente  di  valutare  le
dichiarazioni lette per la contestazione solo ai  fini  del  giudizio
sulla credibilita' del teste, e non anche ai fini della  prova  della
violenza o della minaccia, ovvero dell'offerta o  della  promessa  di
denaro o di altra utilita', che, ai sensi del comma  4  del  medesimo
articolo,  permetterebbe   l'acquisizione   al   fascicolo   per   il
dibattimento delle dichiarazioni precedentemente rese dal  testimone,
contenute nel fascicolo del pubblico ministero; 
    che il giudice a quo riferisce di essere investito  del  processo
penale  nei  confronti  di  una  persona  imputata  del  delitto   di
maltrattamenti in famiglia, commesso in danno della convivente; 
    che la persona offesa, esaminata in dibattimento in  qualita'  di
teste, aveva integralmente ritrattato le  accuse  mosse  all'imputato
nel corso delle indagini preliminari - e, segnatamente, nelle plurime
occasioni in cui era stata  assunta  a  sommarie  informazioni  dalla
polizia  giudiziaria  -  negando  di  essere  mai  stata  vittima  di
maltrattamenti; 
    che,  a  specifica  domanda,  la  persona  offesa  aveva  negato,
altresi', di essersi indotta a modificare la propria deposizione  per
timore di ritorsioni da parte dell'imputato o di altri; 
    che  -  contestatole  dal  pubblico  ministero  di  avere  invece
dichiarato  alla  polizia  giudiziaria  di  temere  «per  la  propria
incolumita'», tanto da indursi a non denunciare precedenti episodi di
maltrattamento - la testimone aveva asserito che detta  dichiarazione
era falsa; 
    che dalla  lettura  delle  dichiarazioni  rese  nel  corso  delle
indagini emergeva, peraltro, che in tutti i casi in  cui  la  persona
offesa si era rivolta alle forze dell'ordine, ella era stata  oggetto
di violenza  o  minaccia  da  parte  del  convivente  per  indurla  a
ritrattare le accuse: intimidazioni a fronte delle quali, in un  caso
- stando a dette dichiarazioni  -  ella  aveva  rimesso  una  querela
sporta contro di lui; 
    che,  cio'  premesso,  il   giudice   rimettente   dubita   della
legittimita' costituzionale dell'art. 500, comma 2, cod. proc.  pen.,
nella parte in cui consente di valutare le dichiarazioni lette per la
contestazione solo ai fini della credibilita' del  testimone,  e  non
anche a fini della prova dell'avvenuta sottoposizione  del  testimone
medesimo a violenza, minaccia, offerta o  promessa  di  denaro  o  di
altra utilita', affinche' non deponga o deponga il  falso:  prova  in
presenza della quale, secondo quanto dispone il comma 4 dello  stesso
articolo, e' possibile acquisire al fascicolo per il dibattimento  le
dichiarazioni  precedentemente  rese,  contenute  nel  fascicolo  del
pubblico ministero; 
    che la questione sarebbe rilevante nel giudizio a quo, in  quanto
la declaratoria di illegittimita' costituzionale nei sensi  auspicati
- rendendo possibile ravvisare la sussistenza di «elementi  concreti»
rivelatori di un «eterocondizionamento» del teste - permetterebbe  di
acquisire al fascicolo per il  dibattimento,  e  conseguentemente  di
utilizzare a fini decisori, le  dichiarazioni  della  persona  offesa
relative  alle  violenze  o  minacce   perpetrate   ai   suoi   danni
dall'imputato nelle occasioni in cui aveva manifestato  l'intento  di
denunciarlo o di querelarlo; 
    che quanto, poi, alla non manifesta infondatezza della questione,
il  rimettente   dichiara   di   non   ignorare   l'indirizzo   della
giurisprudenza costituzionale, formatosi dopo  la  riforma  dell'art.
111 Cost., secondo il quale deve ritenersi del tutto coerente con  il
nuovo assetto costituzionale la previsione di  istituti  -  quale  la
vigente disciplina delle contestazioni - volti a preservare  la  fase
del dibattimento  da  «contaminazioni  probatorie»  fondate  su  atti
unilateralmente raccolti nel corso delle indagini preliminari; 
    che detto indirizzo non  precluderebbe,  tuttavia  -  secondo  il
rimettente - il recupero del  materiale  raccolto  nella  fase  delle
indagini al fine di dimostrare l'avvenuta coartazione o induzione del
teste a non rispondere o a rispondere falsamente; 
    che opinare diversamente  significherebbe  creare  una  sorta  di
"corto circuito" logico: le dichiarazioni lette per la  contestazione
sarebbero, difatti, pienamente valutabili per fondare un giudizio  di
inattendibilita' del teste, non gia' in relazione alla sua  negazione
dei fatti oggetto dell'imputazione, ma all'affermazione di non essere
stato sottoposto a intimidazione o  subornazione;  al  tempo  stesso,
invece, le medesime dichiarazioni  non  potrebbero  contribuire  alla
formazione  del   convincimento   del   giudice   circa   l'effettiva
sussistenza dell'intimidazione o della subornazione; 
    che, d'altro canto - rileva ancora il giudice a quo  -  un  teste
coartato  o  indotto  a  tacere  o  a  mentire  non  ammette  mai  in
dibattimento tale circostanza, giacche', se cosi' facesse, verrebbero
automaticamente meno gli effetti della pressione illecita  esercitata
nei suoi confronti; 
    che, di conseguenza, sarebbero spesso solo le  sue  dichiarazioni
predibattimentali a fornire - come nel caso di specie - gli  elementi
di  prova  del  condizionamento  subito:  il   che   rappresenterebbe
addirittura la regola quando si proceda per  reati  originati  da  un
«rapporto duale» tra autore e vittima; 
    che  negare  la  possibilita'   di   avvalersi   delle   predette
dichiarazioni  ai  fini  considerati   equivarrebbe,   pertanto,   ad
«obnubilare» il precetto di cui all'art. 111,  quinto  comma,  Cost.,
nella parte in cui individua nella «provata  condotta  illecita»  una
delle ipotesi di deroga al principio di  formazione  della  prova  in
contraddittorio: in tal modo, verrebbe  infatti  preclusa  la  stessa
possibilita' di provare  l'«illiceita'»  della  «condotta»  posta  in
essere al fine di "manipolare" la deposizione; 
    che la questione sollevata non si  tradurrebbe,  dunque,  in  una
mera riproposizione del principio di «non dispersione  dei  mezzi  di
prova» - enucleato dalla giurisprudenza costituzionale  anteriormente
alla riforma dell'art. 111 Cost. -  ma  implicherebbe  piuttosto  una
«rinnovata funzionalizzazione» del principio stesso  all'esigenza  di
dare concreta attuazione al parametro costituzionale evocato; 
    che  nel  giudizio  di  costituzionalita'   e'   intervenuto   il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione  sia
dichiarata manifestamente inammissibile  per  difetto  di  rilevanza,
nella parte in cui censura la mancata previsione  della  possibilita'
di valutare le dichiarazioni predibattimentali del teste  come  prova
dell'offerta  o  della  promessa  di  denaro  o  di  altra   utilita'
(trattandosi di ipotesi che non viene in considerazione nel  giudizio
a quo), e per il resto manifestamente infondata. 
    Considerato   che   il   Tribunale   di   Biella   dubita   della
compatibilita' dell'art. 500, comma 2, del codice di procedura penale
con l'art. 111, quinto comma, della Costituzione, nella parte in  cui
consente al  giudice  di  valutare  le  dichiarazioni  lette  per  la
contestazione solo  ai  fini  del  giudizio  sulla  credibilita'  del
testimone, e non anche ai fini della prova della sua intimidazione  o
corruzione, affinche' non deponga o deponga il falso: prova  che,  ai
sensi del comma 4 dello stesso art. 500 cod.  proc.  pen.,  legittima
l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento -  e  la  conseguente
utilizzazione  ai  fini  della  decisione   -   delle   dichiarazioni
precedentemente rese; 
    che l'eccezione  di  inammissibilita'  formulata  dall'Avvocatura
generale dello Stato non e' fondata; 
    che la questione ha, infatti, come  termine  di  riferimento  una
previsione  normativa  unitaria:  sicche'  la  circostanza  che,  nel
giudizio a quo, venga in considerazione solo  una  delle  fattispecie
alternative da essa assoggettate al medesimo regime  -  quella  della
sottoposizione del teste a violenza o minaccia, e non  anche  l'altra
dell'offerta o della promessa di denaro o di  altra  utilita'  -  non
comporta che  l'eventuale  pronuncia  di  accoglimento  debba  essere
"ritagliata", per  ragioni  di  rilevanza,  sul  solo  caso  concreto
oggetto del giudizio principale; 
    che la questione e', tuttavia, manifestamente  inammissibile  per
una diversa ragione; 
    che, nel formulare il quesito di costituzionalita', il rimettente
individua infatti erroneamente la disposizione  oggetto  di  censura,
omettendo, con cio', anche di ponderare in modo adeguato il  corretto
quadro normativo di riferimento; 
    che il giudice a quo censura, infatti, il comma 2  dell'art.  500
cod. proc. pen., quando invece  le  sue  doglianze  avrebbero  dovuto
rivolgersi nei confronti delle previsioni  dei  commi  4  e  5  dello
stesso articolo; 
    che la regola dettata dal  comma  2  -  quella  che  consente  di
valutare le dichiarazioni lette per la  contestazione  solo  ai  fini
della  credibilita'  del  teste  -  attiene,  infatti,  al   processo
principale, che ha come oggetto l'accertamento della  responsabilita'
dell'imputato per i fatti a lui contestati; 
    che, di  contro,  il  problema  di  costituzionalita'  posto  dal
giudice a quo concerne la lex probatoria applicabile nel procedimento
incidentale   finalizzato   all'accertamento   della   condotta    di
intimidazione  o  di  subornazione  del  teste,   quale   presupposto
legittimante     l'acquisizione     delle      sue      dichiarazioni
predibattimentali: e, dunque, alla prova di un fatto da  cui  dipende
l'applicazione di norme processuali (art. 187, comma  2,  cod.  proc.
pen.); 
    che, in effetti, cio' di cui il rimettente si  duole  e'  che  le
regole di esclusione probatoria  valevoli  nel  processo  principale,
nell'ottica di garantire l'impermeabilita' del dibattimento  rispetto
ad atti raccolti unilateralmente nel corso delle indagini preliminari
- e tra esse, in specie, quella che impedisce di valutare come  prova
dei fatti le dichiarazioni lette per  la  contestazione  in  sede  di
esame  testimoniale  -  operino  anche   nell'ambito   dell'anzidetto
subprocedimento; 
    che,  in  questa  prospettiva,  il  dato  normativo  con  cui  il
rimettente dovrebbe, in ipotesi, misurarsi e', peraltro,  quello  dei
citati commi 4 e 5 dell'art. 500 cod. proc. pen., che disciplinano il
subprocedimento stesso; 
    che attorno a tale dato normativo (nelle citate  disposizioni  si
parla di «elementi  concreti»,  di  circostanze  emerse  «anche»  nel
dibattimento, di decisione «senza ritardo», di svolgimento  da  parte
del giudice degli «accertamenti [...] necessari») si e', in  effetti,
sviluppato un ampio dibattito interpretativo - di cui  il  rimettente
non ha tenuto affatto  conto,  vagliandone  gli  esiti  -  avente  ad
oggetto le caratteristiche del procedimento incidentale  considerato:
cio', sia in ordine al  quantum  di  prova  della  condotta  illecita
richiesto ai fini dell'utilizzabilita' del "precedente difforme"; sia
- e per quanto qui piu' interessa - con riguardo alla possibilita'  o
meno che tale prova venga tratta anche da elementi  non  formati  nel
contraddittorio fra le parti; 
    che l'inesatta identificazione della norma oggetto di  censura  e
la  conseguente  inadeguata   ponderazione   del   quadro   normativo
comportano, secondo la giurisprudenza di questa Corte,  la  manifesta
inammissibilita'   della   questione    sollevata    (ex    plurimis,
rispettivamente, ordinanze n.  265  del  2008  e  n.  198  del  2007;
ordinanza n. 142 del 2006). 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti  alla
Corte costituzionale.