LA CORTE DEI CONTI Ha pronunciato la seguente ordinanza sull'istanza ex art. 17, comma 30-ter, del decreto-legge 1º luglio 2009, n. 78, iscritta in data 18 marzo 2010 al n. 18545 del registro di segreteria, proposta dal signor V.D.G. con il patrocinio degli avv.ti Carlo Cotto e Anna Ronfani, nei confronti della Procura Regionale per la declaratoria di nullita' dell'invito a dedurre V2005/678/BGT del 29 dicembre 2009; Premesso che: all'istante e' stato notificato, ai sensi dell'art. 5 del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 (convertito, con modificazioni, dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19), l'invito a dedurle in epigrafe, con cui il pubblico ministero gli contesta di aver arrecato, nella sua qualita' di dirigente della Polizia di Stato, un rilevante «danno all'immagine» all'amministrazione di appartenenza in consegue di ingiustificate violenze asseritamente commesse nel corso di un'operazione di ordine pubblico; nell'atto in parola, la Procura precisa che i relativi procedimenti penali sono i stati archiviati dal g.i.p. per essere rimasti ignoti, in generale, gli autori dei fatti e, quanto a un'indagine avviata nei confronti dell'istante personalmente con riferimento ad uno specifico episodio di lesioni, per mancanza di prove; ritiene, peraltro, il pubblico ministero contabile che gli assetti episodi di violenza gratuita, ripresi dai mass-media con grave discredito per la Polizia e per le Istituzioni, possano essere comunque addebitati sul piano amministrativo alla responsabilita' del competente dirigente della Polizia di Stato, presente personalmente ed attivamente sullo scenario dell'operazione, anche alla luce della documentazione fotografica e testimoniale raccolta, prescindendo dall'autonomo profilo della responsabilita' penale; cio' posto, l'interessato insta (ex art. 17, comma 30-ter, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, e contestualmente modificato dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, convertito a sua volta con modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141) per la declaratoria di nullita' dell'invito a dedurre notificatogli dalla Procura regionale; si tratta, a suo avviso, di atto istruttorio nullo, in quanto preordinato all'esercizio dell'azione di responsabilita' per danno all'immagine pur in assenza di sentenza penale irrevocabile di condanna per uno dei reati espressamente previsti dalla normativa in parola; per l'esame dell'istanza di nullita' e' stata fissata la camera di consiglio del 7 aprile 2010, con decreto presidenziale comunicato all'istante e al pubblico ministero; con memoria depositata il 29 marzo 2010 la Procura regionale ha svolto alcune eccezioni pregiudiziali e preliminari sollevando, in via gradata, un'articolata serie di questioni di legittimita' costituzionale; in particolare, per quanto qui interessa, il pubblico ministero ha eccepito: a) l'improcedibilita' o l'incostituzionalita' del procedimento di nullita', per totale assenza di norme che lo disciplinano; b) l'inammissibilita' dell'istanza di nullita', in quanto riferita ad un atto istruttorio che, per sua natura, non configura ancora esercizio dell'azione risarcitoria per danno all'immagine; e) la nullita' del procedimento in camera di consiglio, essendo espressamente prevista la trattazione in udienza pubblica; d) l'incostituzionalita' del citato comma 30-tere per contrasto, sotto molteplici profili, con gli artt. 2, 3, 24, 25, 77, 97, 103, 111 della Costituzione; nella camera di consiglio del 7 aprile 2010, udito il giudice relatore, sono stati sentiti gli avv.ti Carlo Cotto e Anna Ronfani per l'istante e il Procuratore regionale Ermete Bogetti in qualita' di pubblico ministero; tutte le questioni hanno formato oggetto di discussione; i difensori dell'istante, in particolare, con il consenso del collegio e del pubblico ministero, hanno depositato una nota d'udienza, il cui contenuto ha comunque formato oggetto di esposizione orale, motivando per la legittimita' costituzionale della normativa in applicazione; la causa e' stata, quindi, trattenuta in Camera di consiglio per le conseguenti decisioni; Ritenuto che: l'art. 17, comma 30-ter, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, e contestualmente modificato dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, a sua volta convertito con modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141) prevede che: «Le procure della Corte dei conti possono iniziare l'attivita' istruttoria ai,fini dell'esercizio dell'azione di danno erariale a fronte di specifica e concreta notizia di danno, fatte salve le fattispecie direttamente sanzionate dalla legge. Le procure della Corte dei conti esercitano l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97. A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell'art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e' sospeso fino alla conclusione del procedimento penale. Qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni di cui al presente comma, salvo che sia stata gia' pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, e' nullo e la relativa nullita' puo' essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richieste»; in punto di procedura, viene subito in rilievo l'estrema laconicita' della disposizione di legge, che si limita ad indicare la forma dell'atto introduttivo (una «richiesta» da «depositare), il relativo contenuto («far valere» la nullita' di atti istruttori o processuali posti in essere in violazione delle neo-introdotte disposizioni), il legittimato attivo («chiunque vi abbia interesse»), il tempo della richiesta («in ogni momento»), l'organo competente a decidere (la «competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti»), il termine per la decisione («perentorio di trenta giorni»); tuttavia, non sembra a questa sezione che la mancanza di ulteriori specificazioni nel testo di legge sia tale da rendere improcedibile o incostituzionale il giudizio; al contrario, va esercitato il potere-dovere del Giudice di colmare in via interpretativa o analogica le pur gravi lacune della norma, nel rispetto della Costituzione e dei principi generali della materia processuale ed amministrativo-contabile, senza che cio' implichi in se' un arbitrio o una lesione del diritto di difesa delle parti coinvolte; quanto all'eccepita nullita' del presente procedimento per inosservanza della forma della pubblica udienza, va senz'altro dato atto che: l'art. 72 del testo unico delle leggi sulla Corte dei conti, approvato con regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214, stabilisce che «i giudizi avanti la Corte dei conti sono pubblici»; l'art. 18 del regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei conti, approvato con regio decreto 13 agosto 1933, n. 1038, stabilisce che «i giudizi sono pubblici» nell'ambito del'titolo I, capo VI (rubricato «delle udienze»); l'art. 128 del codice di procedura civile stabilisce, a sua volta, che «l'udienza in cui si discute la causa e' pubblica a pena di nullita'»; tuttavia, in disparte l'osservazione che le speciali norme di rito contabile, a differenza del codice di procedura civile, non sanciscono espressamente la pubblicita' delle udienze «a pena di nullita'», ad avviso della sezione assume decisiva rilevanza la formulazione del citato comma 30-ter laddove, omettendo ogni riferimento all'istanza di fissazione d'udienza, alla fissazione e alla celebrazione di essa, all'istruttoria e alla discussione della causa, fissa piuttosto una snella articolazione del procedimento, che si compendia nel deposito della «richiesta» di parte e nella conseguente «decisione» della sezione entro i successivi trenta giorni (termine invero breve, ma non necessariamente irragionevole in se', considerata la portata estremamente circoscritta e, di regole, elementare delle questioni da affrontare ai sensi del comma in parola, questioni comunque afferenti l'asserita nullita' di un atto della Procura su cui sembra ragionevole presumere che essa sia preparata a contraddire, almeno oralmente); ne discende l'applicabilita' diretta dell'art. 20 del citato regolamento di procedura (articolo collocato al titolo I, capo VII, per l'appunto rubricato «delle decisioni», dopo il capo VI, rubricato invece «delle udienze») a norma del quale la Corte pronuncia le proprie decisioni «in camera di consiglio»; del resto, il rito camerale meglio si attaglia non solo alla natura delle questioni trattate, ma anche all'esigenza di sentire (oralmente o con brevi note) tutte le parti interessate, svolgendo rapidamente gli opportuni incombenti istruttori o procedimentali, beninteso nel rispetto del principio del contraddittorio, ma senza il vincolo di particolari formalita', coerentemente con il termine «perentorio» (sic!) imposto per l'esito del giudizio; proseguendo nell'esame delle questioni pregiudiziali o preliminari, va poi osservato che, sotto il profilo oggettivo, la peculiare fattispecie di nullita' riguarda sia gli atti «istruttori», sia gli atti «processuali», purche' essi siano stati «posti in essere in violazione delle disposizioni» dinanzi riportate; appare dunque condivisibile, in linea di principio, l'impostazione del pubblico ministero secondo cui la violazione in parola puo' configurarsi, in aderenza al dettato normativo, soltanto nelle due ipotesi seguenti: I) allorche' sia svolta un'istruttoria in assenza di specifica e concreta notizia di danno; II) allorche' sia esercitata l'azione per il risarcimento del danno all'immagine al di fuori dei casi e dei modi previsti dalla legge; nel caso di specie, osserva la Procura, l'invito a dedurre impugnato non rientrerebbe nell'ipotesi sub I), in quanto non vengono in rilievo questioni di specificita' e concretezza della notizia di danno, ma neppure nell'ipotesi sub II), in quanto al momento non e' stata (ancora) esercitata un'azione per il risarcimento del danno all'immagine (potendo la Procura disporre l'archiviazione del fascicolo, anziche' emettere l'atto di citazione, dopo aver vagliato le deduzioni dell'interessato); al riguardo, va riconosciuto che gli atti «Istruttori», vale a dire gli atti dell'indagine amministrativo-contabile, non sono di per se' nulli solo perche' sviluppati su una notizia di danno all'immagine (in quanto orientati, in ipotesi, proprio alla verifica della sussistenza di tutti i presupposti di legge per l'esercizio della conseguente azione risarcitoria, presupposti che di regola possono essere vagliati solo dopo e non prima di aver compiuto l'istruttoria); peraltro, anche in riferimento alla concreta fattispecie in esame, deve tenersi in considerazione che l'invito a dedurre non costituisce un semplice atto d'indagine, ma e' uno speciale atto istruttorio avente natura «pre-processuale», univocamente preordinato all'esercizio di un'azione di responsabilita' dai contenuti ormai gia' delineati (l'art. 5, citato, recita: «prima di emettere l'atto di citazione in giudizio, procuratore regionale invita...»); per giurisprudenza pacifica, infatti, l'invito a dedurre e' considerato «figura processuale del tutto peculiare nel panorama processuale dell'ordinamento italiano, la quale si inserisce in un processo, quello contabile, altrettanto peculiare; in particolare, l'invito si colloca nella «fase prodromica processuale, quella delle indagini del procuratore regionale, il quale vi provvede quando abbia gia' riscontrato elementi di danno e di responsabilita' tali da escludere l'archiviazione» (cosi sezioni riunite, sent. 14/QM/1998 del 19 giugno 1998); l'invito a dedurre, in altri termini, «chiude» una fase d'indagine e si pone quale necessario momento di transizione verso la fase processuale, preannunciando l'intenzione del pubblico ministero (salva rimeditazione alla luce delle deduzioni difensive dell'interessato) di esercitare un'azione di responsabilita' gia' definita nei suoi tratti essenziali; ne discende che, con riguardo alla concreta fattispecie in esame, l'invito a dedurre rientra senz'altro nel novero degli atti istruttori o processuali posti in essere «in violazione» delle neo-introdotte disposizioni, in quanto non ha altro scopo se non quello di preludere all'esercizio di un'azione di responsabilita' per danno all'immagine a dispetto dell'avvenuta archiviazione del corrispondente procedimento penale (archiviazione data per nota dalla Procura nello stesso atto impugnato); nella specie, quindi, l'invito a dedurre, nel prefigurare un'azione di danno all'immagine che palesemente prescinde dai «casi» e dai «modi» di cui all'art. 7 della citata legge n. 97, del 2001, si pone in radicale ed intrinseca violazione del comma 30-ter in discorso, non essendovi ragione per rinviare la declaratoria di nullita' alla conseguente citazione; le eccezioni pregiudiziali e preliminari svolte dalla Procura non possono quindi essere accolte; Considerato che: nel merito dell'istanza di nullita', viene necessariamente in rilievo l'applicazione del richiamo art. 17, comma 30-ter, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, e contestualmente modificato dall'art. 1, comma 3, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, a sua volta convertito con modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141), nella parte in cui stabilisce che «le procure della Corte dei conti esercitano l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'art. 7 della legge 2 marzo 2001, n. 97»; al riguardo, la sezione ritiene non manifestamente infondate le numerose questioni di legittimita' costituzionale prospettate dalla Procura regionale, peraltro gia' sollevate da altre sezioni giurisdizionali della Corte dei conti, con particolare riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 77, 81, 97, 103, 111, 113 della Costituzione (v. sez. Calabria, ord. n. 121/2009; sez. Campania, ord. n. 369/2009; Id., ord. n. 377/2009; Id. ord. n. 436/2009; sez. Lombardia, ord. n. 209/2009; Id. ord. n. 237/2009; sez. Sicilia, ord. n. 218/2009; sez. Umbria, ord. n. 20/2009; sez. Prima d'Appello, ord. n. 6/2010); deve darsi atto, in generale, che la formulazione legislativa non e' tra le piu' felici: testualmente, infatti, la norma sembrerebbe operare solo sul piano processuale, inibendo semplicemente «l'azione» delle Procure contabili senza pero' escludere la risarcibilita' del danno all'immagine sul piano sostanziale (senza, cioe', incidere sul diritto, azionabile dinanzi ad altro Giudice dall'amministrazione stessa); non aiuta l'interprete, inoltre, il rinvio tout court al citato art. 7 della legge n. 97 del 2001 (che all'ultimo periodo sancisce, a sua volta, la salvezza di quanto previsto dall'art. 129 disp. att. c.p.p.); ad ogni modo, l'interpretazione maggiormente piana ed aderente all'intenzione del legislatore, salvo ipotizzare impraticabili e comunque insoddisfacenti forzature «abrogative» della norma, sembra da ricostruire nel senso di voler circoscrivere la risarcibilita' del «danno all'immagine» alle sole fattispecie in cui consti una condanna penale irrevocabile per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale (segnatamente: peculato, malversazione a danno dello Stato, indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, concussione, corruzione e istigazione alla corruzione, abuso d'ufficio, utilizzazione d'invenzioni o scoperte conosciute per ragioni d'ufficio, rivelazione ed utilizzazione di segreti d'ufficio, rifiuto e omissione di atti d'ufficio, rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un militare o da un agente della forza pubblica, interruzione di un servizio pubblico o di pubblica necessita', sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o dall'autorita' amministrativa, violazione colposa di doveri inerenti alla custodia di cose sottoposte a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o dall'autorita' amministrativa); al riguardo, lasciando sullo sfondo gli altri aspetti di pur forte perplessita' suscitati dalle ricordate disposizioni, la sezione dubita dell'intrinseca ragionevolezza e non arbitrarieta' della norma da applicare, nella misura in cui essa subordina la risarcibilita' del danno all'immagine (quale delineato nel diritto vivente dalla giurisprudenza della Corte dei conti e della Corte di cassazione) alla sussistenza di una condanna penale relativa ai soli reati suindicati, senza alcuna plausibile, apparente ragione dell'esclusione di fattispecie delittuose ben piu' gravi (anche a livello di allarme sociale o comunque di incidenza lesiva sul prestigio della pubblica amministrazione) o comunque di fattispecie anche prive di rilievo penale che siano, gravemente pregiudizievoli per l'immagine della p.a.; a titolo di mero esempio, appare di non agevole comprensione la ragione per cui sarebbe fonte di danno all'immagine la condanna di un funzionario pubblico per peculato o per omissione di atti d'ufficio, ma non lo sarebbe quella di un sindaco, di un dirigente o di un magistrato per delitti di mafia, come pure non danneggerebbero l'immagine pubblica l'insegnante pedofilo o quello che spaccia droga tra gli alunni, il medico che abusa sessualmente dei pazienti, l'impiegato che organizza una truffa a danno dei cittadini o che compie falsificazioni, il poliziotto che partecipa ad una banda armata o ad una cellula terroristica, l'autista «pirata» che causa la perdita di vite umane alla guida di un mezzo pubblico, il militare che in missione internazionale i commette violenze gratuite sulla popolazione inerme, e cosi' discorrendo; e' incomprensibile per questa Corte, ancora, la mancata inclusione dei reati di favoreggiamento e omissione di denuncia o referto, tanto piu' se riferiti proprio ai reati di cui al citato art. 7 (sicche' il funzionario che compie il peculato lede, l'immagine della pubblica amministrazione, mentre non la lede il suo diligente sebbene condannato per favoreggiamento o per omessa denuncia di quello stesso peculato); ancor meno comprensibile risulta, ad avviso di questa sezione, la mancata inclusione dei reati militari previsti al libro secondo, titolo IV, capo I del codice militare di pace nel novero dei reati considerati dannosi per l'immagine della pubblica amministrazione (sicche' il peculato commesso dal militare non sarebbe lesivo dell'immagine delle forze armate, mentre lo sarebbe quello commesso dall'impiegato civile); paradossale ed abnorme, poi, pare alla sezione l'esclusione del risarcimento del danno pur a fronte di fattispecie di reato gravissime, anche e soprattutto sul piano dell'immagine pubblica, quali i delitti contro la personalita' dello Stato, sia internazionale sia interna, come pure i delitti commessi contro gli Stati esteri, i loro capi e i loro rappresentanti (trattandosi, per inciso, proprio delle fattispecie penali poste a presidio e tutela dell'onore delle istituzioni o dei loro esponenti); non si afferra, infine, la ragione sottesa alla scelta di subordinare la configurabilita' o comunque la risarcibilita' del danno all'immagine all'esistenza ovvero agli esiti di un eventuale procedimento penale, ben potendosi configurare fattispecie lesive, in punto di «immagine» pubblica, che per loro natura prescindono dall'ambito penale (ma che spesso comportano l'applicazione di severe sanzioni disciplinari, compreso il licenziamento): anche sotto questo profilo, la realta' osservata da questa sezione supera sovente la fantasia, come ad esempio nel caso degli infermieri che intrattenevano rapporti sessuali nelle camere mortuarie dell'ospedale, con pubblico scandalo (Sez. Piemonte, sent. n. 191/2008), dei medici pubblici che svolgevano «al nero» l'attivita' inframoenia dimenticando di riversare le somme all'ospedale (Sez. Piemonte, sent. sent. n. 3/2009), della proverbiale pinza dimenticata nella pancia del paziente non senza risonanza mediatica dell'episodio di «malasanita'» (Sez. Piemonte, sent. n. 238/2008), del funzionario dell'agenzia delle entrate che svolgeva «al nero» attivita' di consulenza fiscale in favore di contribuenti (Sez Piemonte, sent. n. 144/2009); ulteriori motivi di perplessita', con riguardo a quest'ultimo aspetto, derivano dal coordinamento del comma 30-ter in rassegna con l'art. 55-quinquies del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (introdotto dall'art. 69 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, in attuazione della delega di cui all'art. 7 della legge 4 marzo 2009, n. 15): quest'ultima norma sancisce l'obbligo del dipendente pubblico assenteista di risarcire il danno all'immagine, a prescindere dagli eventuali risvolti penali, rendendo di non facile percezione il criterio cui si sarebbe informato il legislatore, nella sua pur ampia discrezionalita', salvo l'arbitrio, per individuare tra, le varie fattispecie lesive dell'immagine dell'amministrazione quelle che meritano la tutela risarcitoria dinanzi al giudice contabile (sfuggendo, ancora una volta, la ragionevolezza della scelta di obbligare il dipendente assenteista non condannato penalmente a risarcire l'immagine della p.a. di appartenenza, esonerando nel contempo il dipendente che commette reati comuni o il dipendente che commette altre gravissime infrazioni disciplinari senza assentarsi dall'ufficio); ne' si comprende la ragione per cui, qualora constino prove inconfutabili della commissione di un reato, ricadente nell'ambito del citato art. 7 e quindi ritenuto «per legge» foriero di danno all'immagine, il proscioglimento per prescrizione in sede penale debba impedire il risarcimento del danno all'immagine in sede civile o amministrativa, posto che in simili eclatanti fattispecie l'assenza di una condanna penale potrebbe perfino aggravare la lesione d'immagine delle istituzioni o la percezione di essa da parte della collettivita', a causa della patente di pubblica impunita' attribuita ai colpevoli; sul punto, in verita', ci si dovrebbe seriamente interrogare se lesiva dell'immagine sia la commissione del reato oppure la condanna del colpevole; non pochi dubbi di ragionevolezza involge, anche, l'implicito esonero da responsabilita' dei dirigenti o funzionari pubblici appositamente preposti a vigilare sull'altrui operato, di guisa che il danno all'immagine conseguente, ad esempio, ad un reato di peculato, magari accertato con sentenza irrevocabile, sarebbe addebitabile solo al reo ma non anche (a titolo di responsabilita' sussidiaria) al dirigente o all'ispettore o al revisore contabile che, con gravissima colpevole trascuratezza, non si sia avveduto del reato commesso sotto i propri occhi o lo abbia di fatto consentito dimenticando» di farne denuncia; analoga considerazione vale per l'ipotesi in cui il pubblico dipendente (o, peggio, un pubblico diligente) con gravissima ed imperdonabile negligenza abbia, di fatto, impedito l'identificazione degli autori del reato o l'acquisizione delle relative prove, validamente utilizzabili in sede penale, per tal via precludendo l'accertamento della responsabilita' penale (e, per effetto della disposizione in rassegna, il conseguente risarcimento del danno all'immagine in favore dell'amministrazione); le suesposte considerazioni, per inciso, assumono particolare rilievo nella valutazione preliminare dell'invocata nullita' dell'invito a dedurre oggetto del presente procedimento, in cui la Procura regionale (dopo aver ricordato che l'archiviazione penale e' stata disposta dal g.i.p. per essere rimasti ignoti gli autori del reato, sembrandogli peraltro confermata dallo stesso g.i.p. la commissione di violenze ingiustificabili anche «in senso tecnico-penalistico») prospetta una corresponsabilita' del dirigente di Polizia per avere in qualche misura favorito o comunque non aver impedito gli asseriti reati (prospettazione sulla cui correttezza e fondatezza, peraltro, questa sezione esprime ogni cautela e riserva, trattandosi di questione attinente al merito); a margine delle osservazioni fin qui svolte si pongono, da ultimo, gli ulteriori molteplici profili di sospetta incostituzionalita' della norma in analisi con riguardo agli artt. 2, 3, 24, 25, 77, 81, 97, 103, 111, in della Costituzione, per quanto rilevanti in questa sede, quali posti in luce dalla Procura regionale come pure da altre sezioni della Corte dei conti nelle ordinanze in precedenza ricordate; questi ultimi profili, peraltro, appaiono per cosi' dire collaterali o sintomatici rispetto alla questione centrale della sospetta arbitrarieta' ed irragionevolezza dell'intervento legislativo in discorso, invero estemporaneo e poco meditato (come si evince, del resto, dall'iter parlamentare del provvedimento, introdotto in sede di conversione di un decreto-legge riguardante tutt'altra materia e poi corretto «in corsa», con altro decreto-legge, il giorno stesso della sua entrata in vigore); da ultimo, ai fini del vaglio di non manifesta infondatezza della questione, cade opportuno ricordare che la nozione di «danno all'immagine», nell'elaborazione giurisprudenziale, non si identifica semplicemente con il «danno morale», ma include in se' voci di danno patrimoniale o comunque suscettibili di valutazione patrimoniale (come, ad esempio, le spese sostenute o da sostenere per la comunicazione istituzionale ai sensi della legge 7 giugno 2000, n. 150, recante la «disciplina delle attivita' di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni», e della direttiva del 7 febbraio 2002, in materia di «attivita' di comunicazione delle pubbliche amministrazioni», emanata dal Ministro per la funzione pubblica); appare quindi assai labile (nell'attuale societa' dell'informazione, della comunicazione e dell'immagine) la ragione per cui le istituzioni pubbliche dovrebbero meritare una tutela risarcitoria del proprio prestigio e della propria immagine ben piu' limitata rispetto alle istituzioni private; sul punto, la ratio della legge e' imperscrutabile: con singolare ossimoro, infatti, l'ordinamento da un lato viene a negare piena e generale tutela risarcitoria all'immagine e al prestigio delle pubbliche istituzioni mentre, dall'altro lato, con i apposite fattispecie di reato (vilipendio della Repubblica, delle Istituzioni costituzionali, delle Forze armate, della nazione italiana, della bandiera o altro emblema dello Stato) offre addirittura protezione di rango penale ai suddetti beni, creando una bizzarra quanto contraddittoria divaricazione logico-giuridica (tutela penale si, tutela risarcitoria no); invero, per quanto si tenti di interpretare o «forzare» il testo della norma, come pure e' stato fatto in alcune pronunce, sempre residuano dubbi di ragionevolezza ed arbitrarieta', non manifestamente infondati (quanto meno sotto il profilo del riparto di giurisdizione); la disposizione non sembra quindi riconducibile a legittimita' costituzionale (neppure mediante interventi interpretativi, additivi o manipolativi) fintanto che in essa permanga il riferimento all'art. 7 della legge n. 97 del 2001; quest'ultima norma, ad avviso di questi Giudici, per come richiamata dal comma 30-ter, al di la' di una mera suggestione non sembra avere nessun ragionevole, collegamento concettuale o giuridico con il tema del danno all'immagine: l'art. 7, piuttosto, trova la propria ratio nell'esigenza di rafforzare (e non limitare) la tutela, delle finanze pubbliche, creando un canale stabile, ma non esclusivo, di raccordo, istituzionale tra la magistratura penale e quella amministrativo-contabile in relazione a talune fattispecie delittuose (purtroppo ancora molto diffuse) «tipicamente» foriere di danno patrimoniale, in quanto in esse l'amministrazione pubblica e' ontologicamente parte offesa dal reato e, quindi, verosimilmente danneggiata nel patrimonio; l'art. 7, si noti, agevolando le azioni della Corte dei conti per il danno patrimoniale conseguente a reati contro la p.a., non preclude affatto la risarcibilita' di altre voci di danno in fattispecie diverse; ma se l'art. 7 risponde a una sua precisa logica, riferita appunto «in positivo» al danno patrimoniale, questa logica diventa i perversa se riferita «in negativo» al danno non patrimoniale (e, in particolare, al danno all'immagine) in quanto il prestigio delle istituzioni ben puo' essere leso maggiormente, nel sentire comune, allorche' il pubblico ufficiale abusando della propria funzione commetta reati nei quali parte offesa sia il cittadino anziche' l'amministrazione; sfugge, in altre parole, il motivo per cui l'immagine delle istituzioni sarebbe lesa solo dalla commissione di un reato «contro» la pubblica amministrazione e non anche dalla commissione di un reato comune «della» pubblica amministrazione (recte, dei soggetti che per essa operano e di cui essa risponde verso i terzi) in danno del cittadino; ove si applicasse lo stesso principio agli enti privati, ad esempio, si giungerebbe al paradosso per cui una banca potrebbe chiedere il risarcimento del danno d'immagine solo al proprio cassiere che abbia sottratto il denaro della banca stessa, ma non anche al cassiere che abbia rubato sistematicamente denaro ai clienti, truffandoli (fattispecie quest'ultima che appare, all'evidenza, assai piu' lesiva sul piano dell'immagine); e' fuor di dubbio che il legislatore, nella propria piena discrezionalita', possa stabilire specifici criteri e condizioni di risarcibilita' del danno, ma e' altrettanto pacifico nella costante giurisprudenza costituzionale che detti criteri e condizioni non possano essere arbitrari o irragionevoli, meno che mai in una materia di simile delicatezza e rilevanza; nella specie, per quanto in precedenza si e' cercato di esemplificare, appare di assai dubbia ragionevolezza la scelta di subordinare la risarcibilita' del danno all'immagine azionabile dinanzi alla Corte dei conti alla sussistenza di una condannai irrevocabile per alcune prefissate tipologie di reato (che sicuramente non sono ne' le piu' gravi, sul piano della pena edittale, ne' quelle piu' lesive dell'immagine delle istituzioni) anziche' al superamento di una soglia generale di «offensivita'» o altri parametri oggettivi di valutazione della lesione che non necessariamente debbono ricercarsi in una fattispecie a rilievo penale, tanto piu' ove si tenga conto dei principi da ultimo affermati in tema di danno non patrimoniale (e, in particolare, di danno «esistenziale») dalle sezioni unite della Corte di cassazione con la nota sentenza n. 26972 dell'11 novembre 2008; con quest'ultima imprescindibile pronuncia, in particolare, proprio in ossequio a fondamentali valori di rango costituzionale, e' stata riconosciuta e confermata piena legittimita' del risarcimento dei danni «non patrimoniali», a prescindere dal nomen iuris concretamente utilizzato dal Giudice, a fronte di illeciti sia contrattuali sia extracontrattuali, anche al di fuori delle ipotesi «tipiche» previste dalla legge (cfr. art. 2059 c.c.), purche' si tratti di danni conseguenti alla lesione di diritti fondamentali ed inviolabili della persona e che superino comunque una soglia minima di offensivita' (nel senso di serieta' ed intollerabilita' della lesione), fermo restando che il danno non patrimoniale va ricondotto non alla categoria del «danno-evento», bensi' a quella del «danno-conseguenza» (che quindi deve essere congruamente allegato e provato), ed evitando in ogni caso effetti moltiplicativi della stessa voce sostanziale di danno mediante nomina iuris diversi; per tutti i motivi fin qui esposti, in conclusione, la sezione ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale del citato comma 30-ter, per contrasto con gli artt. 2 e 3 della Costituzione, sotto il profilo assorbente dell'irragionevole nonche' arbitraria limitazione ai soli casi e modi previsti dal citato art. 7 della legge n. 97 del 2001 della tutela risarcitoria dell'immagine delle istituzioni ed amministrazioni pubbliche; il presente giudizio deve essere quindi doverosamente sospeso con trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per le conseguenti valutazioni, ai sensi della legge 11 marzo 1953, n. 87; la statuizione sulle spese va riservata all'esito del giudizio;