LA CORTE D'APPELLO Nel corso del processo di secondo grado a carico di Deliu Fatos, Gripshi Bardhyl Arben e Deliu Alin, il primo appellante ed appellante il p.g. nei confronti degli altri due, avverso la sentenza del Tribunale di Padova in data 15 gennaio 2001 che ha giudicato del reato di cui agli artt. 110 c.p., 3 n. 8 e 4 nn. 1 e 7 legge n. 75/1958 ed altro; sentite le parti O s s e r v a Va premesso che i fatti per cui e' processo sarebbero stati commessi nel corso di vari mesi (da ultimo, dicembre) dell'anno 1995: la predetta sentenza del Tribunale di Padova e' stata emessa nel 2001 per cui, ai sensi del terzo comma dell'art. 10 legge n. 251 del 2005, anche a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 393 del 23 ottobre/23 novembre 2006, si applicano le disposizioni in tema di prescrizione precedentemente vigenti (15 anni piu' la meta' = 22 anni e 6 mesi) e non le disposizioni piu' favorevoli previste dalla predetta legge 5 dicembre 2005, n. 251(12 anni + un quarto =15 anni). Qualora fossero applicabili tali ultime disposizioni il reato di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione pluriaggravato sarebbe prossimo (un mese) all'estinzione per prescrizione e gli altri reati su cui questa Corte e' chiamata a decidere sarebbero gia' prescritti. Pertanto, e' di tutta evidenza che l'applicazione della legge mitior riveste decisiva rilevanza in questo processo. Orbene, a parte l'art. 10 Costituzione che si riferisce in genere alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, il primo comma dell'art. 117 nell'attuale formulazione, a seguito della legge 18 ottobre 2001, n. 3, espressamente stabilisce che la potesta' legislativa, sia dello Stato che delle Regioni, e' subordinata non solo alle norme costituzionali ma testualmente ai «vincoli» derivanti dal diritto comunitario e dagli obblighi internazionali. Conseguentemente, non vi possono piu' essere discussioni al riguardo: le convenzioni internazionali ratificate dallo Stato italiano e, soprattutto, le decisioni comunitarie vincolano qualunque Autorita' italiana e le norme devono essere interpretate in conformita' sia in particolare in quanto le sentenze definitive di tale Corte sono vincolanti per gli Stati convenuti interessati sia in generale secondo quanto disposto dall'art. 117 Costituzione tanto piu' che la citata Corte europea e' stata istituita dalla stessa Convenzione. Insomma, esiste un preciso obbligo internazionale, vincolante per l'Italia (praticamente e' stato normativizzato, al massimo livello, il principio pacta sunt servanda, che gia' aveva riconoscimento nel diritto internazionale). Ed e' significativo che l'art. 6 del recente trattato di Maastricht imponga a tutte le istituzioni dell'UE di rispettare la Convenzione. Come segnalato dalla Seconda Sezione penale della Corte di cassazione - che con ordinanza n. 22357 del 27 maggio 2010 ha sollevato analoga questione di legittimita' costituzionale - la Corte Europea dei diritti dell'uomo ha affermato che l'art. 7 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata dall'Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848, sancisce il principio che le disposizioni di legge piu' favorevoli devono sempre essere applicate. Appaiono, quindi, fondati i rilievi della predetta ordinanza della Corte di cassazione in riferimento all'art. 117 della Costituzione, provvedimento alla cui motivazione ci si riporta. Questa Corte, peraltro, ritiene che a questo punto si registri anche un'altra violazione della Carta costituzionale. Come e' noto, e' stato modificato l'art. 111 della Costituzione introducendosi - proprio recependo ed adeguandosi a quanto stabilito dalla Convenzione europea - il principio del giusto processo che richiede il rispetto delle regole della ragionevole durata del processo oltre che della parita' delle parti. Sia nella Convenzione che nella Costituzione non si precisa quale debba essere la durata del processo perche' essa possa essere considerata «ragionevole». E' chiaro che viene lasciata - almeno per il momento - alla discrezionalita' ed alle esigenze dei singoli Stati tale determinazione. Nel caso dello Stato italiano, tuttavia, indirettamente ma chiaramente vi e' gia' stato un «inizio» di decisione in tal senso. La modifica dei termini di prescrizione e' stata determinata per la stragrande maggioranza dei reati evidentemente proprio dalla volonta' di non mantenere per un tempo eccessivamente lungo un imputato nel circuito penale. E tanto si risolve indirettamente in una durata piu' limitata del processo rispetto a quella che si verificava con i precedenti termini di prescrizione. Infatti, ai sensi dell'art. 129 c.p.p. il giudice ha l'obbligo della immediata declaratoria della estinzione del reato per cui, quando e' decorso il termine prescrizionale del reato, deve essere emessa sentenza di improcedibilita' perche' l'azione penale non puo' proseguire per intervenuta prescrizione. La qual cosa determina naturalmente l'estinzione del processo. Da tutti i punti di vista il delitto per cui e' processo in questa sede si inserisce perfettamente in tale discorso tenuto conto che i termini di prescrizione previsti in precedenza erano clamorosamente piu' lunghi di quelli stabiliti attualmente a seguito della legge n. 251/2006. Non e' possibile non ritenere al riguardo che il legislatore abbia in definitiva, con la riduzione dei termini di prescrizione, voluto addivenire a tempi processuali maggiormente equilibrati. A questo punto, il proseguire ad applicare termini di prescrizione molto piu' lunghi di quelli attuali rappresenterebbe un chiaro vulnus delle regole costituzionali, sia in riferimento all'art. 117 sia in riferimento all'art. 111, per cui le riferite questioni non appaiono manifestamente infondate.