Sentenza 
 
nel giudizio di legittimita' costituzionale  degli  artt.  35  e  48,
commi da 1 a 4, della legge della Regione Emilia-Romagna 22  dicembre
2009,  n.  24  (Legge  finanziaria   regionale   adottata   a   norma
dell'articolo 40 della legge regionale 15 novembre  2001,  n.  40  in
coincidenza con  l'approvazione  del  bilancio  di  previsione  della
Regione  Emilia-Romagna  per  l'esercizio  finanziario  2010  e   del
bilancio  pluriennale  2010-2012),  promosso   dal   Presidente   del
Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 22-25 febbraio 2010,
depositato in cancelleria il 2 marzo 2010 ed iscritto al  n.  29  del
registro ricorsi 2010. 
    Visto l'atto di costituzione della Regione Emilia-Romagna; 
    Udito nell'udienza  pubblica  del  3  novembre  2010  il  Giudice
relatore Maria Rita Saulle; 
    Uditi l'avvocato dello Stato Enrico De Giovanni per il Presidente
del Consiglio dei ministri e gli avvocati Luigi Manzi e  Giandomenico
Falcon per la Regione Emilia-Romagna. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Con ricorso notificato il 22-25 febbraio 2010  e  depositato
il successivo 2 marzo, il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  ha
impugnato gli artt. 35 e 48 della legge della Regione  Emilia-Romagna
22 dicembre 2009, n. 24 (Legge finanziaria regionale adottata a norma
dell'art. 40 della  legge  regionale  15  novembre  2001,  n.  40  in
coincidenza con  l'approvazione  del  bilancio  di  previsione  della
Regione  Emilia-Romagna  per  l'esercizio  finanziario  2010  e   del
bilancio pluriennale 2010-2012), in riferimento agli artt. 3  e  117,
commi  secondo,  lettere  i),  l),  m),   terzo   e   quinto,   della
Costituzione. 
    1.1. - La prima questione investe l'art. 35 della  cennata  legge
regionale, nella parte in cui prevede che  la  «Regione,  avvalendosi
della Commissione regionale del farmaco, puo' prevedere, in  sede  di
aggiornamento del Prontuario terapeutico regionale, l'uso di  farmaci
anche al di fuori delle  indicazioni  registrate  nell'autorizzazione
all'immissione in commercio (AIC), quando tale estensione consenta, a
parita'  di  efficacia  e  di  sicurezza  rispetto  a  farmaci   gia'
autorizzati, una significativa riduzione della spesa  farmaceutica  a
carico del Servizio sanitario  nazionale  e  tuteli  la  liberta'  di
scelta terapeutica da parte dei professionisti del SSN». 
    Secondo la difesa dello Stato, il  legislatore  regionale,  nello
stabilire la «possibilita' di utilizzare,  nell'ambito  del  Servizio
sanitario  nazionale,  un  medicinale  per  indicazioni  terapeutiche
diverse da quelle prescritte dall'Agenzia del farmaco (AIFA) all'atto
del rilascio dell'autorizzazione», sarebbe andato  oltre  le  proprie
competenze, incidendo sui livelli essenziali  di  assistenza  la  cui
determinazione spetta alla potesta' legislativa esclusiva dello Stato
ai  sensi  dell'art.  117,   secondo   comma,   lettera   m),   della
Costituzione. 
    A sostegno delle proprie argomentazioni  il  ricorrente  richiama
alcune sentenze (n. 271 del 2008 e n. 44 del 2010) con  le  quali  la
Corte costituzionale ha espressamente affermato che l'erogazione  dei
farmaci rientra nei livelli essenziali di assistenza, nonche'  alcune
norme statali che regolano l'uso cd. off label dei medicinali. 
    In proposito il ricorrente rileva che  l'art.  6,  comma  1,  del
decreto  legislativo  24  aprile  2006,  n.  219  (Attuazione   della
direttiva 2001/83/CE (e successive direttive di modifica) relativa ad
un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano, nonche'
della direttiva 2003/94/CE) prevede che nessun medicinale puo' essere
messo in commercio  sul  territorio  nazionale  senza  autorizzazione
dell'AIFA o di quella comunitaria «a norma del  regolamento  (CE)  n.
726/2004 in combinato disposto con il Regolamento (CE) n. 1394/2007».
Detta autorizzazione e', altresi',  necessaria  «per  ogni  ulteriore
dosaggio,   forma   farmaceutica,   via   di    somministrazione    e
presentazione,  nonche'  per  le  variazioni   ed   estensioni»   del
medicinale. 
    L'art. 1, comma 4, del decreto-legge  21  ottobre  1996,  n.  536
(Misure  per  il  contenimento  della   spesa   farmaceutica   e   la
rideterminazione del tetto di spesa per l'anno 1996), convertito  con
legge 23 dicembre 1996, n.  648,  dispone,  poi,  che,  «qualora  non
esista valida alternativa terapeutica, sono erogabili a totale carico
del Servizio sanitario nazionale [...] i medicinali da impiegare  per
un'indicazione terapeutica diversa da quella  autorizzata»,  inseriti
in un apposito elenco  predisposto  e  aggiornato  dalla  Commissione
unica del farmaco, sulla base di procedure e criteri da  essa  stessa
determinati. 
    Infine, l'art. 3, comma 2, del decreto-legge 17 febbraio 1998, n.
3 (recte: 23) (Disposizioni urgenti  in  materia  di  sperimentazioni
cliniche in campo oncologico e altre misure  in  materia  sanitaria),
convertito in legge con  legge  8  aprile  1998,  n.  4  (recte:  94)
nell'introdurre  una  deroga  al  principio   poc'anzi   citato,   ha
riconosciuto  al  medico,  in  casi   particolari,   sotto   la   sua
responsabilita' e con il consenso del paziente,  la  possibilita'  di
impiegare un farmaco prodotto industrialmente «per  un'indicazione  o
una via di somministrazione [...] diversa da quella autorizzata».  La
medesima norma, al comma 4, precisa il Presidente del  Consiglio  dei
ministri, statuisce, tuttavia, che tale facolta' non «puo' costituire
riconoscimento  del  diritto  del  paziente   alla   erogazione   dei
medicinali a carico del Servizio sanitario  nazionale,  al  di  fuori
dell'ipotesi disciplinata dall'art. 1, comma 4, del decreto-legge  21
ottobre 1996, n. 536». 
    Tale prescrizione, precisa ancora  il  ricorrente,  e'  stata  in
seguito ribadita dall'art. 1, comma 736  (recte:  796),  lettera  z),
della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la  formazione
del bilancio annuale  e  pluriennale  dello  Stato-legge  finanziaria
2007), secondo cui il cennato art. 3, comma 2, del  decreto-legge  n.
23 del 1998 «non e' applicabile al ricorso a terapie farmacologiche a
carico del Servizio sanitario nazionale che, nell'ambito dei  presidi
ospedalieri o  di  altre  strutture  e  interventi  sanitari,  assuma
carattere diffuso e sistematico e si configuri,  al  di  fuori  delle
condizioni  di  autorizzazione  all'immissione  in  commercio,  quale
alternativa terapeutica rivolta a pazienti portatori di patologie per
le quali risultino autorizzati farmaci recanti specifica  indicazione
al  trattamento.  Il  ricorso  a  tali  terapie  e'  consentito  solo
nell'ambito delle sperimentazioni cliniche dei medicinali di  cui  al
decreto  legislativo  24  giugno   2003,   n.   211,   e   successive
modificazioni». 
    Cosi'  ricostruito  il  quadro  normativo  di   riferimento,   il
ricorrente ritiene che la previsione regionale di «estendere l'uso di
farmaci nell'ambito del SSN, anche  al  di  fuori  delle  indicazioni
registrate nell'AIC, peraltro per finalita' e con modalita' che [...]
travalicano quelle previste» dalle richiamate  disposizioni  statali,
inciderebbe «negativamente» sui livelli essenziali di assistenza,  in
quanto determinerebbe «una evidente disparita' di trattamento tra gli
assistiti soggetti alle sue disposizioni ed il resto dei fruitori del
SSN su scala nazionale,  consentendo  un  decremento  del  regime  di
assistenza  riconosciuto,  consistente  nell'impiego   improprio   di
medicinali». 
    In  via  subordinata,  il  ricorrente   ritiene,   inoltre,   che
«nell'ipotesi» in cui si considerasse la disposizione impugnata  come
espressione della competenza legislativa concorrente delle Regioni in
materia di tutela della salute, essa  sarebbe  comunque  illegittima,
per violazione dell'art. 117, terzo  comma,  della  Costituzione,  in
quanto inciderebbe «sulla determinazione dei  principi  fondamentali»
riservata allo Stato. 
    Sul punto il ricorrente precisa che «la materia relativa  all'uso
dei farmaci», anche alla luce della giurisprudenza costituzionale, in
particolare, della sentenza n. 282 del 2002, attiene senza dubbio  ai
principi fondamentali. Principi  contenuti  nella  normativa  statale
finora richiamata, in base alla quale,  prosegue  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri, le variazioni delle indicazioni  terapeutiche
dei  farmaci  sono   sottoposte   a   preventiva   autorizzazione   e
l'erogazione di medicinali a carico del Servizio sanitario  nazionale
per  indicazioni  terapeutiche  diverse  da  quelle  autorizzate   e'
possibile «solo qualora non esista una valida alternativa terapeutica
e, comunque, previo inserimento degli stessi in  un  apposito  elenco
predisposto e periodicamente aggiornato dalla Commissione  unica  del
farmaco». 
    Tanto  premesso,  secondo  il  ricorrente,  la  norma   regionale
impugnata violerebbe i  suddetti  principi  fissati  dallo  Stato  in
quanto: a) «finalizza» la possibilita' di utilizzare farmaci anche al
di   fuori   delle   indicazioni    registrate    nell'autorizzazione
all'immissione in commercio, «alla prospettiva di  una  significativa
riduzione della spesa farmaceutica a carico del SSN»,  senza  «tenere
conto  del  piu'  stringente  criterio  della  mancanza   di   valide
alternative sul piano curativo»; b) «oblitera»  le  competenze  della
Commissione  tecnico  scientifica  dell'AIFA  «e  dei  corrispondenti
organi comunitari», nonche' la procedura  in  base  alla  quale  puo'
avvenire l'erogazione del farmaco. 
    1.2. - Con una seconda questione il Presidente del Consiglio  dei
ministri impugna, inoltre, l'art. 48 della legge regionale n. 24  del
2009. 
    In  particolare,  censura  il  comma  1,  nella  parte   in   cui
attribuisce ai  cittadini  di  Stati  parti  dell'Unione  europea  il
diritto di accedere alla fruizione dei servizi privati in  condizione
di parita' e senza discriminazione. La norma, secondo il  ricorrente,
nel sancire «il corrispondente obbligo per  gli  operatori  economici
privati di non  rifiutare  la  loro  prestazione»,  introdurrebbe  un
obbligo legale a contrarre, peraltro gia'  previsto  dal  legislatore
statale all'art.  187  del  regio  decreto  6  maggio  1940,  n.  635
(Approvazione del regolamento per l'esecuzione  del  testo  unico  18
giugno 1931, n. 773 delle leggi di pubblica sicurezza)  e,  pertanto,
violerebbe l'art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione. 
    1.3. - Con una terza questione il ricorrente impugna il  comma  2
del citato art. 48. La disposizione e' impugnata nella parte  in  cui
prevede che la Regione «assume le nozioni di discriminazione  diretta
ed indiretta  previste»  dalla  direttiva  2000/43/CE  del  Consiglio
dell'Unione  europea  relativa  al   principio   della   parita'   di
trattamento fra persone indipendentemente dalla razza e  dall'origine
etnica, dalla direttiva del Consiglio dell'Unione europea 2000/78/CE,
che stabilisce un quadro generale per la parita'  di  trattamento  in
materia di occupazione e di condizioni di lavoro, e  dalla  direttiva
2006/54/CE  del  Parlamento  europeo  e   del   Consiglio,   relativa
all'attuazione del principio delle pari opportunita' e della  parita'
di trattamento fra uomini e donne in  materia  di  occupazione  e  di
impiego. 
    Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, la  Regione,
nel   recepire   dalla   normativa   comunitaria   la   nozione    di
discriminazione diretta e indiretta, sarebbe intervenuta in un ambito
di  competenza  esclusiva  dello  Stato,  poiche'  «il  concetto   di
discriminazione» attiene alla materia  «ordinamento  civile»  di  cui
all'art. 117, secondo comma, lettera l),  della  Costituzione.  Sotto
altro profilo, la norma si porrebbe in contrasto con l'art. 16  della
legge 4 febbraio 2005, n. 11  (Norme  generali  sulla  partecipazione
dell'Italia  al  processo  normativo  dell'Unione  europea  e   sulle
procedure  di  esecuzione  degli  obblighi  comunitari),   e   quindi
violerebbe l'art. 117, quinto comma, della Costituzione, in quanto la
Regione avrebbe «recepito una direttiva  in  una  materia  che  esula
dalla propria competenza». 
    Il ricorrente ritiene, inoltre,  che  la  disposizione  impugnata
violi l'art. 3 della Costituzione, a  norma  del  quale  spetta  alla
Repubblica il compito di rimuovere ogni ostacolo di ordine  economico
e sociale che  limiti  di  fatto  la  liberta'  e  l'uguaglianza  dei
cittadini. A suo avviso, non potrebbe essere  lasciata  alle  singole
Regioni la disciplina in materia di discriminazione, in  quanto  cio'
«potrebbe comportare il rischio di  avere  diverse  forme  di  tutela
sull'intero  territorio  nazionale,  con   evidenti   pregiudizi   ed
ingiustificate difformita' normative». 
    1.4. - La quarta questione investe il comma 3 dell'art. 48  della
legge regionale n. 24 del 2009. Detta disposizione e' impugnata nella
parte in cui prevede  che  «i  diritti  generati  dalla  legislazione
regionale nell'accesso ai servizi, alle azioni e agli interventi,  si
applicano» anche «alle forme di convivenza», di cui  all'art.  4  del
decreto del Presidente  della  Repubblica  30  maggio  1989,  n.  223
(Applicazione del  nuovo  regolamento  anagrafico  della  popolazione
residente). 
    Secondo  il  ricorrente,  il  richiamo  operato  dal  legislatore
regionale alle «forme di convivenza», di cui al  citato  d.P.R.  che,
nel definire la «famiglia anagrafica», ricomprende  «l'insieme  delle
persone legate  da  vincoli  affettivi»,  eccederebbe  le  competenze
regionali,  comportando  un'invasione  della   potesta'   legislativa
esclusiva dello Stato nelle materie di «cittadinanza, stato civile  e
anagrafi» e dell'«ordinamento civile».  Al  riguardo,  il  ricorrente
precisa che, secondo la giurisprudenza amministrativa, la nozione  di
famiglia nucleare e' diversa da quella di famiglia anagrafica e  che,
alla luce della giurisprudenza costituzionale (sentenza  n.  253  del
2006), le Regioni possono adottare «misure di sostegno  a  favore  di
determinate categorie di  persone»  solo  nell'ambito  delle  materie
riservate alla propria competenza legislativa. 
    1.5. - Con una quinta questione il Presidente del  Consiglio  dei
ministri impugna il comma 4 dell'art. 48 che  prevede  la  promozione
«di azioni positive per il superamento  di  eventuali  condizioni  di
svantaggio derivanti da pratiche discriminatorie». 
    Il ricorrente ritiene che il citato comma sia  in  contrasto  con
l'art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, in  quanto
esso «e' strettamente connesso al primo comma e segue di  conseguenza
l'interpretazione attribuita a quest'ultimo. Conseguentemente risulta
illegittimo per gli stessi motivi che affliggono tale disposizione». 
    2. - Con atto depositato il 6 aprile 2010  si  e'  costituita  in
giudizio la Regione Emilia-Romagna. 
    2.1. - Con riferimento alla censura  rivolta  all'art.  35  della
legge regionale n. 24 del 2009 e relativa alla  violazione  dell'art.
117,  secondo  comma,  lettera  m),  della  Costituzione,  la  difesa
regionale eccepisce, in  via  preliminare,  l'inammissibilita'  della
stessa,  in  quanto,   premesso   che   secondo   la   giurisprudenza
costituzionale i livelli essenziali delle  prestazioni  farmaceutiche
sono stabiliti dal D.P.C.M. 29 novembre 2001 (Definizione dei livelli
essenziali di assistenza), il ricorrente non avrebbe  indicato  quale
disposizione del citato decreto sia stata violata dalla Regione. 
    La difesa regionale precisa, inoltre,  che  il  cennato  D.P.C.M.
disciplina i livelli  di  assistenza  farmaceutica  come  livelli  di
erogazione territoriale dei farmaci, mentre, la  norma  impugnata  si
riferisce    alla    somministrazione    di    farmaci    nell'ambito
dell'assistenza ospedaliera. 
    La Regione ritiene, poi, inconferenti le norme statali richiamate
dal Presidente del Consiglio dei ministri a sostegno  della  censura,
in particolare, l'art. 6 del citato d.lgs. n. 219 del  2006  a  norma
del quale nessun farmaco puo' essere immesso in commercio senza  aver
ottenuto la prescritta  autorizzazione.  La  disposizione  impugnata,
infatti, avrebbe ad oggetto «farmaci  regolarmente  autorizzati,  dal
momento che ne disciplina l'uso  off  label:  "label"  essendo  l'uso
indicato nell'autorizzazione». 
    Inoltre, sempre in  via  preliminare,  ad  avviso  della  Regione
resistente, il ricorrente  avrebbe  citato  disposizioni  che,  «allo
scopo di  impedire  l'aumento  della  spesa,  limitano  le  possibili
prestazioni del  servizio  sanitario  nazionale,  la  cui  violazione
dunque concettualmente» non potrebbe essere riferita alla  violazione
dei livelli essenziali, posto che «la Regione darebbe  semmai  un  di
piu', non un di meno». 
    Nel merito, la difesa regionale ritiene infondata la censura,  in
quanto la norma impugnata non introdurrebbe alcuna  restrizione  alla
disponibilita' dei farmaci ed al loro utilizzo nel servizio sanitario
ospedaliero. La norma impugnata si limiterebbe, infatti, a consentire
alle strutture del servizio sanitario  di  utilizzare,  nel  rispetto
della liberta' del medico e  del  consenso  informato  dei  pazienti,
«farmaci regolarmente immessi in commercio, per usi  cd.  off  label,
quando sia scientificamente accertata la "parita' di efficacia  e  di
sicurezza rispetto  a  farmaci  gia'  autorizzati"  e  quando  questo
consenta "una significativa  riduzione  della  spesa  farmaceutica  a
carico del Servizio sanitario nazionale"»; «il tutto», precisa ancora
la  difesa  regionale,  attraverso  lo   strumento   del   Prontuario
terapeutico regionale e sotto il  controllo  tecnico  di  un'apposita
commissione (Commissione regionale del farmaco), formata  da  esperti
(medici, farmacisti, farmacologici, clinici  del  Servizio  sanitario
regionale, nonche' da componenti delle  Commissioni  provinciali  del
farmaco). 
    Del  pari  infondata  sarebbe  poi  la  censura   riferita   alla
violazione  dell'art.  117,  terzo  comma,  della  Costituzione.  Con
riferimento al citato art. 6 del decreto legislativo n. 219 del 2006,
la Regione ribadisce  che  detta  disposizione  non  puo'  venire  in
rilievo nella presente  controversia,  in  quanto  essa  sancisce  il
divieto di immettere in commercio farmaci non autorizzati, laddove la
disposizione   impugnata   ha   ad   oggetto   farmaci   regolarmente
autorizzati. 
    Riguardo all'art. 1, comma 4, del decreto-legge n. 536 del  1996,
secondo la difesa regionale detta disposizione deve essere letta come
una «norma che fissa un livello essenziale di  prestazione»,  con  la
conseguenza che la Regione non potrebbe precludere «l'erogabilita' di
tali farmaci». 
    La norma impugnata non contrasterebbe con quanto  disposto  dalla
indicata norma statale in quanto il  legislatore  avrebbe  provveduto
proprio nel senso da essa indicato, stabilendo, in particolare,  che,
anche qualora esista «una alternativa  terapeutica  "scientificamente
valida"», ma risultasse «impraticabile per ragioni  di  costo»,  come
nel caso di specie, l'assistenza  ospedaliera  fornita  dal  Servizio
sanitario possa utilizzare off label  «principi  attivi  ricavati  da
farmaci autorizzati per altri usi».  E  cio',  prosegue  la  Regione,
«quando tale  estensione  consenta,  a  parita'  di  efficacia  e  di
sicurezza rispetto a farmaci gia' autorizzati», di ridurre  la  spesa
farmaceutica a carico del Servizio sanitario nazionale. 
    Non risulterebbe,  altresi',  violato,  contrariamente  a  quanto
ritenuto dal ricorrente, l'art. 3, comma 2, del decreto-legge  n.  23
del 1998, in quanto la disposizione impugnata non  inciderebbe  sulla
discrezionalita' del medico, la  quale  risulterebbe,  al  contrario,
oggetto di specifica tutela. 
    Quanto all'asserito contrasto della  disposizione  regionale  con
l'art. 1, comma 796, lettera z), della legge  n.  296  del  2006,  la
difesa regionale sottolinea che lo scopo della citata norma  statale,
al pari di quella regionale, e' limitare la spesa. Cio' premesso,  la
Regione precisa che la norma  impugnata  non  permetterebbe  «un  uso
generale e sistematico  dei  farmaci  in  modalita'  off  label»,  ma
soltanto in casi specifici e  «a  parita'  di  efficacia»;  efficacia
stabilita non dalla Regione,  ma  dalla  «comunita'  scientifica  dei
medici». 
    Del tutto infondata, prosegue la difesa regionale, sarebbe  anche
la censura secondo la  quale  la  norma  regionale  attribuirebbe  ad
organi politici il compito  di  decidere  in  merito  a  scelte  che,
invece, dovrebbero  «basarsi  su  valutazioni  scientifiche  e  della
scienza  medica».  Al  riguardo,  la  Regione  puntualizza   che   la
legislazione statale (sia quella che in  generale  prevede  l'obbligo
dell'equilibrio finanziario  del  Servizio  sanitario  regionale  sia
quella sul servizio farmaceutico e sull'uso dei  farmaci  nell'ambito
dell'assistenza fornita dalle strutture del servizio sanitario), pone
in capo alle Regioni il compito  di  effettuare  «una  "politica  del
farmaco"» che non «si traduce in  una  sovrapposizione  degli  organi
politici alle scelte del  medico  [...]  bensi'  nell'organizzare  le
strutture tecniche del servizio sanitario», affinche' «con le proprie
scelte  possano  raggiungere  gli  obiettivi  posti  dal  legislatore
statale». Nella realizzazione della suddetta "politica del  farmaco",
la Regione, pertanto,  non  potrebbe  che  avvalersi  delle  «risorse
tecnico-scientifiche  delle  proprie  strutture»;  risorse  che   non
possono essere delegittimate solo per il fatto di operare  a  livello
regionale. 
    La difesa regionale, in subordine, sottolinea che  in  capo  alle
Regioni sussiste l'obbligo, la cui  violazione  e'  sanzionata  dalla
legislazione statale, di pareggiare i conti del Servizio sanitario  e
di rispettare i limiti percentuali relativi alla spesa  farmaceutica.
Pertanto, a suo avviso, sarebbe costituzionalmente illegittimo «porre
a carico delle Regioni un obbligo», sanzionarne il mancato  rispetto,
«senza contestualmente attribuire il potere di controllare la spesa».
Ne consegue, che qualora le disposizioni statali e,  in  particolare,
l'art. 1, comma 796, lettera z), dovessero essere intese nel senso di
«precludere al Servizio sanitario regionale l'utilizzo off  label  di
farmaci di minor costo ma di pari efficacia  dei  farmaci  registrati
per  uso  specifico,  quando  ne  fosse  accertato  il  pari   valore
terapeutico», esse risulterebbero in contrasto  sia  con  l'art.  97,
primo comma, della Costituzione, con riferimento al principio di buon
andamento   dell'amministrazione,   sia   con   l'art.   119    della
Costituzione, «in relazione all'autonomia finanziaria dal lato  della
spesa». 
    2.2. - Successivamente la Regione procede all'esame dei motivi di
censura riferiti all'art. 48 della legge n. 24 del 2009. 
    Per quanto attiene all'asserita illegittimita' del  comma  1,  la
resistente, nel concludere per l'infondatezza della censura,  precisa
che la disposizione in parola non  intende  attribuire  ai  cittadini
dell'Unione specifici diritti verso  «la  generalita'  dei  privati».
Essa, nella parte in cui prevede che la Regione «riconosce» a tutti i
cittadini dell'Unione europea i diritti di  accesso  ai  servizi,  si
limiterebbe «a prendere atto della loro esistenza,  ed  informare  il
proprio  comportamento  al  loro  riconoscimento».  Si   tratterebbe,
precisa ancora la difesa  regionale,  di  garantire  l'accesso  «alle
strutture private -  ed  in  questo  senso  ai  servizi  "privati"  -
nell'ambito dell'azione pubblica che direttamente o indirettamente fa
capo  alla  Regione».  La  disposizione   pertanto   non   troverebbe
applicazione in relazione ai pubblici esercizi ed  il  richiamo  alla
sentenza n. 253 del 2006 risulterebbe inconferente,  considerato  che
«la situazione e' del tutto diversa» rispetto a quella che ha portato
la Corte a dichiarare incostituzionale, con la predetta sentenza,  la
disposizione  regionale  che  prevedeva  obblighi  di  contrarre  tra
privati, sanzionandone l'eventuale inosservanza. 
    2.3. - Anche la censura che  investe  il  comma  2  dell'art.  48
sarebbe infondata, poiche' la disposizione in parola non avrebbe  «un
vero carattere normativo»; essa si limiterebbe ad esprimere «in forma
solenne l'adesione della Regione ai valori di civilta' espressi dalle
direttive». La  resistente  contesta  poi  l'assunto  del  ricorrente
secondo  cui  la  nozione   di   non   discriminazione   rientrerebbe
nell'ambito della materia «ordinamento civile». Al riguardo,  secondo
la difesa regionale, si tratterebbe, piuttosto,  di  una  nozione  di
diritto costituzionale generale «che puo' e deve trovare applicazione
nei diversi settori dell'ordinamento, ivi compreso quello dei servizi
dell'amministrazione». 
    Quanto all'asserito contrasto del citato comma 2 con l'art.  117,
quinto comma, della Costituzione, la difesa regionale ritiene che  la
censura, fondandosi sulla  presunta  incompetenza  della  Regione  in
materia di non discriminazione, risulterebbe  una  mera  «ripetizione
della censura precedente». Non  essendovi,  inoltre,  alcun  «profilo
specifico», in relazione al suddetto parametro costituzionale, sempre
secondo la resistente, la censura sarebbe anche inammissibile. 
    La Regione ritiene poi infondata la censura avente ad oggetto  la
violazione dell'art. 3 della  Costituzione,  in  quanto  il  disposto
costituzionale asseritamente violato, nel  sancire  che  spetta  alla
Repubblica rimuovere ogni ostacolo di ordine economico e sociale  che
limiti di fatto  la  liberta'  e  l'uguaglianza  dei  cittadini,  non
intenderebbe riferirsi solo allo Stato, come  erroneamente  affermato
dal ricorrente, ma «a tutti gli enti che costituiscono la Repubblica,
ciascuno  nell'ambito  della   propria   competenza».   Inoltre,   la
resistente precisa che la legge regionale non disciplina  in  materia
di discriminazione, introducendo forme differenziate di  tutela,  «ma
si limita ad applicare nell'esercizio  della  propria  competenza  il
principio    di    non    discriminazione,    evitando     discipline
discriminatorie». 
    2.4. - Riguardo alla censura che investe il comma  3  del  citato
art.  48,  la  difesa  regionale  eccepisce,  in   via   preliminare,
l'inammissibilita'  della  stessa  per  genericita'.  Il  ricorrente,
infatti, avrebbe «semplicemente affermato, ma per nulla illustrato» i
motivi dell'asserito contrasto con l'art. 117, secondo comma, lettere
i)  e  l),  della  Costituzione.  Nel  merito,  la  censura   sarebbe
infondata, in quanto la  disposizione  regionale  si  limiterebbe  ad
«utilizzare la nozione fornita dalla legge statale per individuare  i
destinatari delle proprie norme», senza  disciplinare  nelle  materie
della «cittadinanza, stato civile e anagrafi» e «ordinamento civile».
La  resistente  sottolinea  al  riguardo  che,   sulla   base   della
giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 253 del 2006),  una  legge
regionale  puo'  utilizzare  nozioni  derivanti  dalla   legislazione
statale. 
    2.5. - Infine, anche la  censura  relativa  al  comma  4  sarebbe
inammissibile per genericita', non avendo  il  ricorrente  illustrato
«la presunta connessione con il comma 1, ne' quale interpretazione di
questo potrebbe o dovrebbe essere seguita». 
    Nel merito, la censura risulterebbe comunque infondata perche' la
disposizione prevede interventi promozionali «che non si traducono in
atti di autorita', ma suggeriscono azioni di contrasto alle  pratiche
discriminatorie su base puramente volontaria». 
    3. - In prossimita' dell'udienza il Presidente del Consiglio  dei
ministri  ha  depositato  una  memoria  con  la  quale  ribadisce  le
argomentazioni esposte nel ricorso ed insiste per la declaratoria  di
incostituzionalita' delle norme regionali impugnate. 
    4. -  Anche  la  difesa  regionale  ha  depositato  una  memoria,
allegando tra l'altro alcuni documenti,  con  la  quale  insiste  per
l'infondatezza del ricorso. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt. 3 e 117, commi secondo, lettere  i),  l),  m),
terzo  e  quinto,  della  Costituzione,  questione  di   legittimita'
costituzionale  degli  artt.  35  e  48  della  legge  della  Regione
Emilia-Romagna 22 dicembre 2009, n. 24 (Legge  finanziaria  regionale
adottata a norma dell'art. 40 della legge regionale 15 novembre 2001,
n. 40 in coincidenza con l'approvazione del  bilancio  di  previsione
della Regione Emilia-Romagna per l'esercizio finanziario 2010  e  del
bilancio pluriennale 2010-2012). 
    1.1. - L'art. 35 e' impugnato nella parte in cui attribuisce alla
Regione  il  potere  di  prevedere,  in  fase  di  aggiornamento  del
prontuario terapeutico regionale, «l'uso di farmaci anche al di fuori
delle indicazioni registrate  nell'autorizzazione  all'immissione  in
commercio». Ad avviso del  ricorrente,  la  citata  norma  violerebbe
l'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, in  quanto
esorbiterebbe dalle competenze regionali ed invaderebbe la competenza
esclusiva  dello  Stato  in  materia  di  livelli  essenziali   delle
prestazioni. In particolare, essa inciderebbe negativamente su questi
ultimi, poiche' darebbe luogo ad «una disparita' di  trattamento  tra
gli assistiti soggetti alle sue disposizioni ed il resto dei fruitori
del SSN su scala nazionale» e consentirebbe un «decremento [...]  del
regime di assistenza sanitaria riconosciuto, consistente nell'impiego
improprio di medicinali». 
    In via subordinata, si deduce che la norma impugnata  violerebbe,
altresi', l'art. 117, terzo comma, della  Costituzione,  che  riserva
alla potesta' legislativa  concorrente  la  disciplina  della  tutela
della salute, in quanto risulterebbe  in  contrasto  con  i  principi
fondamentali dettati dal legislatore riguardo alle modalita'  e  alle
procedure per l'uso dei farmaci cd. off label, ovvero non inclusi nel
prontuario farmaceutico. 
    1.1.1. - In  via  preliminare,  deve  essere  dichiarata  fondata
l'eccezione di inammissibilita' proposta dalla Regione resistente  in
relazione all'asserito contrasto dell'impugnato art.  35  con  l'art.
117, secondo comma, lettera m),  della  Costituzione,  in  quanto  la
censura risulta formulata in modo generico. Il  ricorrente,  infatti,
ha omesso di indicare la disposizione statale contenuta nel  D.P.C.M.
29 novembre 2001 (Definizione dei livelli essenziali  di  assistenza)
con la quale la norma regionale risulterebbe in  contrasto  e  si  e'
limitato ad affermare, in modo apodittico,  che  la  norma  impugnata
«impatta negativamente sui LEA, determinando una evidente  disparita'
di trattamento tra gli assistiti soggetti alle sue disposizioni ed il
resto dei  fruitori  del  SSN  su  scala  nazionale,  consentendo  un
evidente decremento del regime di assistenza sanitaria  riconosciuto,
consistente nell'impiego improprio di medicinali». 
    Tale omissione rende inammissibile  la  censura,  poiche'  questa
Corte  ha  gia'  affermato  che  «l'inserimento  nel  secondo   comma
dell'art. 117 del nuovo Titolo V della Costituzione, fra  le  materie
di legislazione esclusiva  dello  Stato,  della  "determinazione  dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti  civili  e
sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale"
attribuisce al legislatore  statale  un  fondamentale  strumento  per
garantire il mantenimento di una adeguata uniformita' di  trattamento
sul piano dei  diritti  di  tutti  i  soggetti,  pur  in  un  sistema
caratterizzato  da  un  livello  di  autonomia  regionale  e   locale
decisamente  accresciuto»  e  che  «la  conseguente  forte  incidenza
sull'esercizio delle funzioni nelle materie assegnate alle competenze
legislative  ed  amministrative  delle  Regione  e   delle   Province
autonome» comporta  «che  queste  scelte,  almeno  nelle  loro  linee
generali, siano operate dallo Stato con  legge,  che  dovra'  inoltre
determinare adeguate procedure e precisi atti formali  per  procedere
alle  specificazioni  ed  articolazioni  ulteriori  che  si   rendano
necessarie nei vari  settori»  (sentenza  n.  88  del  2003,  nonche'
sentenza n. 134 del 2006). 
    1.1.2. - La questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
35, prospettata con riferimento  all'art.  117,  terzo  comma,  della
Costituzione, e' fondata. 
    Prima di procedere  all'esame  della  censura,  appare  opportuno
ricostruire il quadro  normativo  entro  il  quale  si  inserisce  la
questione oggetto del presente giudizio. Al riguardo va osservato che
il  legislatore  statale,  nell'esercizio  della  propria  competenza
concorrente  in  materia  di  tutela  della  salute,  e'  piu'  volte
intervenuto per individuare i principi fondamentali volti a  regolare
le modalita' ed i criteri in base  ai  quali  e'  ammesso  l'uso  dei
farmaci  al  di  fuori  delle  indicazioni  per  le  quali  e'  stata
autorizzata la loro immissione in commercio (AIC). 
    L'art. 1, comma 4, del decreto-legge n. 536 del 1996 (Misure  per
il contenimento della spesa farmaceutica e  la  rideterminazione  del
tetto di spesa per l'anno 1996), convertito dalla legge  23  dicembre
1996, n. 648, statuisce che, «qualora non esista  valida  alternativa
terapeutica, sono erogabili a totale carico del SSN, a partire dal 1°
gennaio 1997, i medicinali innovativi la cui  commercializzazione  e'
autorizzata in  altri  Stati  ma  non  sul  territorio  nazionale,  i
medicinali non ancora autorizzati  ma  sottoposti  a  sperimentazione
clinica e i medicinali da impiegare  per  un'indicazione  terapeutica
diversa  da  quella  autorizzata,  inseriti  in  un  apposito  elenco
predisposto e periodicamente aggiornato dalla Commissione  unica  del
farmaco  [oggi  sostituita   dall'Agenzia   Italiana   del   Farmaco]
conformemente alle procedure ed ai criteri adottati dalla stessa». 
    Con  il  successivo  decreto-legge  17  febbraio  1998,   n.   23
(Disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo
oncologico e altre misure in materia sanitaria), convertito in  legge
con modificazioni dalla legge 8 aprile 1998, n.  94,  il  legislatore
statale e' nuovamente intervenuto nella materia considerata. 
    In particolare  l'art.  3,  comma  2,  del  citato  decreto-legge
prevede che il medico, in deroga al principio generale  secondo  cui,
nel  prescrivere  una  specialita'  medicinale  o  altro   medicinale
prodotto industrialmente, e' tenuto ad  attenersi  «alle  indicazioni
terapeutiche, alle vie e alle modalita' di somministrazione  previste
dall'autorizzazione  all'immissione  in  commercio   rilasciata   dal
Ministero della Sanita'», puo' «in singoli casi, sotto la sua diretta
responsabilita' e previa informazione del paziente e acquisizione del
consenso   dello   stesso,   impiegare   un    medicinale    prodotto
industrialmente per un'indicazione o una via  di  somministrazione  o
una modalita' di  somministrazione  o  di  utilizzazione  diversa  da
quella    autorizzata,    ovvero    riconosciuta     agli     effetti
dell'applicazione dell'art. 1, comma 4, del decreto-legge 21  ottobre
1996,   n.   536».   Tale   potere   del   medico   e'    subordinato
all'accertamento, «in base a dati  documentabili»,  che  il  paziente
«non possa essere utilmente trattato con medicinali per i  quali  sia
gia'  approvata  quella  indicazione  terapeutica  o  quella  via   o
modalita' di somministrazione e  purche'  tale  impiego  sia  noto  e
conforme a lavori apparsi su pubblicazioni  scientifiche  accreditate
in campo internazionale». 
    Il successivo comma 4 precisa, inoltre, che «in  nessun  caso  il
ricorso, anche improprio, del medico alla facolta' prevista dai commi
2 e  3  puo'  costituire  riconoscimento  del  diritto  del  paziente
all'erogazione  dei  medicinali"  a  carico  del  SSN,  al  di  fuori
dell'ipotesi disciplinata dal citato art. 1, comma 4, del d.l. n. 536
del 1996». 
    L'art. 6, comma 1, del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219
(Attuazione della direttiva 2001/83/CE  (e  successive  direttive  di
modifica) relativa ad un codice comunitario concernente i  medicinali
per uso umano, nonche' della  direttiva  2003/94/CE),  a  sua  volta,
sancisce il principio  di  carattere  generale,  secondo  cui  nessun
medicinale puo' essere immesso in commercio sul territorio  nazionale
senza aver ottenuto un'autorizzazione dell'AIFA  o  un'autorizzazione
comunitaria a norma del regolamento  CE  n.  726/2004,  in  combinato
disposto con il regolamento CE n. 1394/2007. Il  successivo  comma  2
stabilisce poi che «quando per un medicinale e' stata rilasciata  una
AIC  ai  sensi  del  comma  1,   ogni   ulteriore   dosaggio,   forma
farmaceutica, via di somministrazione  e  presentazione,  nonche'  le
variazioni ed estensioni sono ugualmente soggetti  ad  autorizzazione
ai sensi dello stesso comma 1». 
    Al fine di circoscrivere ulteriormente le condizioni in base alle
quali  e'  possibile  fare  ricorso  a  medicinali  per   indicazioni
terapeutiche diverse da quelle autorizzate, il  legislatore  statale,
ancor piu' recentemente, con l'art. 2,  comma  348,  della  legge  24
dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la  formazione  del  bilancio
annuale  e  pluriennale  dello  Stato-legge  finanziaria  2008),   ha
stabilito che «In nessun caso il medico curante puo' prescrivere, per
il trattamento di una determinata patologia, un medicinale di cui non
e'  autorizzato  il  commercio  quando  sul  proposto   impiego   del
medicinale  non  siano  disponibili   almeno   dati   favorevoli   di
sperimentazioni cliniche di fase seconda. Parimenti, e' fatto divieto
al medico curante di impiegare, ai sensi dell'articolo  3,  comma  2,
del  decreto-legge  17  febbraio  1998,  n.   23,   convertito,   con
modificazioni, dalla legge  8  aprile  1998,  n.  94,  un  medicinale
industriale  per  un'indicazione  terapeutica   diversa   da   quella
autorizzata  ovvero  riconosciuta  agli   effetti   dell'applicazione
dell'articolo 1, comma 4, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n.  536,
convertito dalla legge 23 dicembre 1996, n.  648,  qualora  per  tale
indicazione  non  siano  disponibili  almeno   dati   favorevoli   di
sperimentazione clinica di fase seconda». 
    La medesima legge, all'art. 2,  comma  349,  ha  attribuito  alla
Commissione tecnico-scientifica dell'Agenzia Italiana del Farmaco, in
sostituzione della Commissione unica del farmaco,  la  competenza  di
valutare, «oltre ai profili di sicurezza,  la  presumibile  efficacia
del medicinale, sulla base dei dati disponibili delle sperimentazioni
cliniche  gia'  concluse,  almeno  di  fase   seconda»;   competenza,
quest'ultima, che deve essere esercitata proprio in riferimento  alle
«decisioni da  assumere  ai  sensi  dell'articolo  1,  comma  4,  del
decreto-legge 21 ottobre 1996, n.  536,  convertito  dalla  legge  23
dicembre 1996, n. 648, e dell'articolo 2, comma  1,  ultimo  periodo,
del  decreto-legge  17  febbraio  1998,  n.   23,   convertito,   con
modificazioni, dalla legge 8 aprile 1998, n. 94». 
    1.1.3.  -  Nel  riportato  quadro  normativo  si   inserisce   la
disposizione regionale censurata. 
    Essa attribuisce alla Regione il potere di prevedere, in fase  di
aggiornamento del  Prontuario  terapeutico  regionale  e  avvalendosi
della Commissione regionale del farmaco, «l'uso di farmaci  anche  al
di   fuori   delle   indicazioni    registrate    nell'autorizzazione
all'immissione in  commercio,  quando  tale  estensione  consenta,  a
parita'  di  efficacia  e  di  sicurezza  rispetto  a  farmaci   gia'
autorizzati, una significativa riduzione della spesa  farmaceutica  a
carico del Servizio sanitario  nazionale  e  tuteli  la  liberta'  di
scelta terapeutica da parte dei professionisti del SSN». 
    Risulta evidente  il  contrasto  tra  la  norma  regionale  e  le
richiamate  disposizioni  statali.  La  norma   impugnata,   infatti,
individua  condizioni  diverse  rispetto  a  quelle   stabilite   dal
legislatore per l'uso dei  farmaci  al  di  fuori  delle  indicazioni
registrate nell'AIC. In particolare, laddove le disposizioni  statali
circoscrivono il ricorso  ai  farmaci  cd.  off  label  a  condizioni
eccezionali  e  ad  ipotesi  specificamente  individuate,  la   norma
regionale  introduce   una   disciplina   generalizzata   in   ordine
all'indicato utilizzo dei farmaci,  rimettendo  i  criteri  direttivi
alla Commissione regionale del farmaco, cosi' eludendo il  ruolo  che
la legislazione statale attribuisce all'Agenzia Italiana del  Farmaco
nella materia considerata. 
    A quest'ultimo riguardo deve osservarsi che questa Corte, con  la
sentenza n. 185 del 1998, ha gia' affermato che competono allo  Stato
le responsabilita', «attraverso gli organi  tecnicoscientifici  della
sanita', con riguardo  alla  sperimentazione  e  alla  certificazione
d'efficacia, e di non nocivita', delle sostanze farmaceutiche  e  del
loro impiego terapeutico a tutela della salute pubblica». 
    Sempre al fine di assicurare la protezione della salute pubblica,
con la sentenza n. 282 del 2002 questa Corte ha avuto modo, altresi',
di precisare che «un intervento sul merito delle scelte  terapeutiche
in  relazione  alla  loro  appropriatezza  non  potrebbe  nascere  da
valutazioni  di   pura   discrezionalita'   politica   dello   stesso
legislatore, bensi' dovrebbe prevedere  l'elaborazione  di  indirizzi
fondati sulla verifica dello stato delle  conoscenze  scientifiche  e
delle  evidenze  sperimentali  acquisite,   tramite   istituzioni   e
organismi - di norma nazionali o sovranazionali - a cio' deputati» . 
    Pertanto, la violazione dei citati principi generali posti  dalla
legislazione statale comporta la declaratoria di illegittimita' della
norma regionale in esame. 
    1.2. - L'art. 48, comma  1,  e'  impugnato  nella  parte  in  cui
«riconosce a tutti i cittadini  di  Stati  appartenenti  alla  Unione
europea il diritto di accedere alla fruizione dei servizi pubblici  e
privati  in  condizioni   di   parita'   di   trattamento   e   senza
discriminazione, diretta o indiretta, di razza,  sesso,  orientamento
sessuale, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali
e sociali. L'accesso ai  servizi  avviene  a  parita'  di  condizioni
rispetto  ai  cittadini  italiani  e  con  la  corresponsione   degli
eventuali contributi da questi dovuti».  Secondo  il  Presidente  del
Consiglio dei ministri, la citata disposizione violerebbe l'art. 117,
secondo  comma,   lettera   l),   della   Costituzione,   in   quanto
introdurrebbe «un'ipotesi di obbligo legale a  contrarre»,  incidendo
cosi' sull'autonomia negoziale dei privati. 
    1.2.1. - La questione non e' fondata. 
    La disposizione si limita a richiamare l'obbligo  del  necessario
rispetto del principio di eguaglianza e di non discriminazione tratti
dalla Costituzione  e  dai  Trattati  europei.  Ne  consegue  che  la
disposizione impugnata non  e'  idonea  a  ledere  alcuna  competenza
riservata allo Stato. 
    1.3. - L'art. 48, comma  2,  e'  impugnato  nella  parte  in  cui
prevede che la Regione «assume» la nozione di discriminazione diretta
ed indiretta  contenuta  nella  direttiva  2000/43/CE  del  Consiglio
dell'Unione  europea,  relativa  al  principio   della   parita'   di
trattamento fra persone indipendentemente dalla razza e  dall'origine
etnica, nella direttiva 2000/78/CE del Consiglio dell'Unione europea,
che stabilisce un quadro generale per la parita'  di  trattamento  in
materia di occupazione e di condizioni di lavoro, e  nella  direttiva
2006/54/CE  del  Parlamento  europeo  e   del   Consiglio,   relativa
all'attuazione del principio delle pari opportunita' e della  parita'
di trattamento fra uomini e donne in  materia  di  occupazione  e  di
impiego. Ad avviso del ricorrente la norma violerebbe l'art. 3  della
Costituzione,  in  quanto  spetta  «alla  Repubblica  il  compito  di
rimuovere ogni ostacolo di ordine economico e sociale che  limiti  di
fatto la liberta' e l'uguaglianza  dei  cittadini».  La  disposizione
impugnata  risulterebbe,  altresi',  in  contrasto  con  l'art.  117,
secondo comma, lettera l), della Costituzione, poiche'  «il  concetto
di discriminazione» rientrerebbe nella «materia ordinamento  civile»,
di competenza esclusiva dello Stato. Essa, infine, violerebbe  l'art.
117,  quinto  comma,  della  Costituzione,  attraverso  il  parametro
interposto costituito dall'art. 16 della legge 4 febbraio 2005, n. 11
(Norme  generali  sulla  partecipazione   dell'Italia   al   processo
normativo dell'Unione europea e sulle procedure di  esecuzione  degli
obblighi comunitari), in quanto la Regione  avrebbe  «recepito»  atti
comunitari  in  una  materia  che  esula  dalla  propria   competenza
esclusiva. 
    1.3.1. - La questione non e' fondata. 
    Con tale disposizione il legislatore regionale non ha  provveduto
ad attuare atti comunitari, ma  si  e'  limitato,  evidentemente  con
riferimento all'esercizio  delle  molteplici  competenze  di  cui  e'
titolare,  a  servirsi  delle  "nozioni"   desumibili   dal   diritto
comunitario ai  fini  dell'autonomo  svolgimento  delle  attribuzioni
regionali. 
    La norma impugnata, pertanto, non e' suscettibile di recare alcun
vulnus alle competenze statali. 
    1.4. - L'art. 48, comma  3,  e'  censurato  nella  parte  in  cui
prevede  che  «i  diritti  generati  dalla   legislazione   regionale
nell'accesso ai servizi, alle azioni e agli interventi, si applicano»
anche «alle forme di convivenza» di cui all'art. 4  del  decreto  del
Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223 (Applicazione  del
nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente). Ad  avviso
del Presidente del Consiglio dei  ministri,  la  citata  disposizione
violerebbe  l'art.  117,  secondo  comma,  lettere  i)  e  l),  della
Costituzione, poiche' il richiamo operato dal  legislatore  regionale
alle «forme di convivenza», di cui al citato d.P.R. che, nel definire
la «famiglia anagrafica», ricomprenderebbe «l'insieme  delle  persone
legate da vincoli affettivi», eccederebbe le competenze regionali  ed
invaderebbe la competenza esclusiva  dello  Stato  nelle  materie  di
«cittadinanza, stato civile e anagrafi» e dell'«ordinamento civile». 
    1.4.1.  -  In  via  preliminare,  va  rigettata  l'eccezione   di
inammissibilita' per genericita' della  motivazione  sollevata  dalla
difesa  regionale,  posto  che  le  argomentazioni   sviluppate   dal
ricorrente sono sufficienti per l'individuazione  dell'oggetto  della
doglianza. 
    Nel merito la questione non e' fondata. 
    La censura  si  fonda  sull'erroneo  presupposto  interpretativo,
secondo cui il legislatore  regionale  ha  inteso  disciplinare  tali
forme di convivenza. Viceversa,  la  norma  impugnata  si  limita  ad
indicare l'ambito soggettivo di  applicazione  dei  diritti  previsti
dalla legislazione regionale nell'accesso ai servizi, alle  azioni  e
agli interventi senza introdurre alcuna disciplina sostanziale  delle
forme di convivenza. 
    Pertanto,   essa   risulta   inidonea    ad    invadere    ambiti
costituzionalmente riservati allo Stato. 
    1.5. - L'art. 48, comma  4,  e'  impugnato  nella  parte  in  cui
prevede che la Regione promuove «azioni positive per  il  superamento
di  eventuali  condizioni  di  svantaggio   derivanti   da   pratiche
discriminatorie». La  disposizione  violerebbe  l'art.  117,  secondo
comma, lettera l), della Costituzione, in quanto, «pur contenendo una
norma programmatica priva di  immediato  rilievo  costituzionale,  e'
strettamente  conness[a]  al  primo  comma  e  segue  di  conseguenza
l'interpretazione attribuita a quest'ultimo».  Pertanto,  secondo  il
ricorrente, la disposizione risulterebbe illegittima «per gli  stessi
motivi che affliggono» il primo comma dell'art. 48. 
    1.5.1.  -  L'eccezione  di  inammissibilita'   della   questione,
sollevata dalla difesa regionale, e' fondata. 
    La censura, infatti, e' formulata in  modo  generico,  senza  una
sufficiente ed autonoma motivazione in ordine  alla  dedotta  lesione
del parametro costituzionale invocato.