IL TRIBUNALE 
 
    A scioglimento della  riserva,  nel  procedimento  a  seguito  di
ricorso ex art. 700 c.p.c. (RG n. 7618/2010) osserva e ritiene quanto
segue. 
    1. - Con ricorso depositato in data 25 maggio 2010, i  ricorrenti
hanno chiesto «che il Tribunale di Firenze, preso atto della sentenza
adottata dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo,  1ª  sez.,  SH  e
altri/Austria, del  1°  aprile  2010,  ritenuta  la  rilevanza  della
medesima nel giudizio a quo, valutata l'impossibilita' di operare  in
via di interpretazione l'adeguamento della norma di cui  all'art.  4,
comma 3, legge n. 40/2004  a  quanto  previsto  dalla  Convenzione  e
deciso dalla Corte. 
    Disattesa  ogni  contraria  istanza,  difesa  ed  eccezione,  con
provvedimento ex art. 700 c.p.c. 
    Nel merito e in via principale: preso atto in forza dell'art. 6/2
del Trattato di Lisbona  ratificato  il  1º  dicembre  2009  e  della
conseguente  integrazione   del   «sistema   CEDU»   nell'ordinamento
comunitario; disapplicare l'art. 4, comma 3 della legge n. 40 del  16
febbraio 2004 per contrasto con gli artt. 8 e 14  della  CEDU  e  per
l'effetto dichiarare il diritto dei ricorrenti di: 
        a) ricorrere  alle  metodiche  di  procreazione  medicalmente
assistita di tipo eterologo; 
        b) utilizzare il materiale genetico di terzo donatore anonimo
acquisito direttamente dalla coppia ovvero dal centro secondo  quanto
previsto  dai  d.lgs.  n.  191/2007  e  d.lgs.  n.  16/2010,  per  la
fecondazione degli ovociti della sig.ra B.; 
        c) sottoporsi ad un protocollo di PMA adeguato ad  assicurare
le piu' alte chances di  risultato  utile  compatibilmente  a  quanto
stabilito dalla sentenza Corte cost. n. 151/2009; 
        d) sottoporsi  ad  un  trattamento  medico  eseguito  secondo
tecniche e modalita' compatibili con un  elevato  livello  di  tutela
della salute della donna nel caso concreto; 
        e) disporre, in attesa  della  definizione  del  giudizio  di
merito e in via incidentale dell'eventuale giudizio  di  legittimita'
costituzionale,  la  crioconservazione  degli  embrioni  prodotti   e
destinati al ciclo di PMA di tipo eterologo. 
    In ogni caso renda in via d'urgenza ogni  provvedimento  ritenuto
opportuno in relazione al caso di specie, indicando le  modalita'  di
esecuzione; renda ogni provvedimento relativo e conseguente. 
    In via subordinata, per le ragioni sopra richiamate, ritenuta  la
portata della pronuncia della Corte Europea quale canone  ermeneutico
generale con valore sub-costituzionale, disapplicare l'art. 4,  comma
3, legge n. 40/2004 per contrasto con gli artt. 8 e  14  della  CEDU,
per l'effetto dichiarare il diritto  dei  ricorrenti  come  formulato
supra,  e  sollevare  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 4, comma 3, legge n. 40/2004 per contrasto con l'art. 11  e
117 Cost. e per violazione degli artt. 2, 3, 13, 32 Cost. 
    In via  ulteriormente  subordinata,  sollevare  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 3,  legge  n.  40/2004
per contrasto con l'art. 11 e 117 Cost. per violazione degli artt.  8
e 14 della CEDU e 2, 3, 13, 32 Cost. 
    Con vittoria di spese, competenze e onorari. 
    2. - I ricorrenti hanno esposto in fatto: 
        di essere coniugati dal 2004  e  di  non  essere  riusciti  a
concepire un figlio per vie naturali, essendo risultata  la  assoluta
sterilita' del marito come da documentazione medica che producevano; 
        di aver  tentato  vanamente  all'estero,  stante  il  divieto
previsto dalla legge n. 40/2004, la  fecondazione  eterologa  sia  in
vivo sia in vitro; 
        che  i  tre  anni  trascorsi  nel  tentare  la   procreazione
medicalmente assistita (PMA) all'estero avevano  comportato  notevoli
sacrifici economici oltre che un notevole stress psico-fisico  dovuto
all'invasivita' dei trattamenti necessari; 
        che, conosciuta la sentenza della Corte Europea  dei  Diritti
dell'Uomo, resa il 1º aprile 2010, con cui  questa  aveva  condannato
l'Austria per violazione degli art. 8 e 14 della Convenzione  Europea
dei  Diritti  dell'Uomo  (CEDU)   in   ragione   dell'illegittima   e
irragionevole  discriminazione  tra  coppie   operata   dalla   legge
nazionale di quello Stato che proibiscono il ricorso  alla  donazione
di gameti per la fertilizzazione  in  vitro  ove  questa  costituisca
l'unica possibilita' di avere un figlio e dovendo  ritenersi  che  le
decisioni della Corte non siano solo un parametro interpretativo  per
i  giudici  nazionali  ma  -  a  seguito  dell'ingresso  della   CEDU
nell'ordinamento comunitario avvenuto con la ratifica del Trattato di
Lisbona - abbiano valore vincolante in quanto diritto comunitario, si
erano rivolti al Centro convenuto per sottoporsi a trattamento di PMA
in vitro; 
        che il Centro aveva rifiutato,  assumendo  che  la  legge  n.
40/2004 vietava in modo assoluto la fecondazione  eterologa,  che  la
sentenza della Corte EDU era destinata  a  produrre  effetti  diretti
solo nell'ordinamento austriaco e che l'eventuale applicazione  delle
disposizioni della Corte non poteva avvenire in  maniera  automatica,
essendo necessario un provvedimento di un giudice nazionale. 
    3. - In diritto i ricorrenti hanno rilevato: 
        che,  prima  della  ratifica  del  Trattato  di  Lisbona,  la
giurisprudenza  riteneva   costantemente   che,   mentre   le   norme
comunitarie avevano piena e diretta applicazione in tutti  gli  Stati
membri, in forza dell'art. 11 Cost., le norme  CEDU  non  producevano
«effetti diretti  nell'ordinamento  interno,  tali  da  affermare  la
competenza  dei  giudici  nazionali  a   darvi   applicazione   nelle
controversie ad essi sottoposte, non applicando  nello  stesso  tempo
norme interne in eventuale contrasto» (C. Cost. sent. n. 348/2007); 
        che la Corte costituzionale aveva  inoltre  ritenuto  che  il
nuovo  testo  dell'art.   117   cost.   comportava   che   l'asserita
incompatibilita' fra la legge ordinaria e la norma CEDU si presentava
come una questione di legittimita' costituzionale per violazione  del
primo comma di detta norma costituzionale e che «in  presenza  di  un
apparente contrasto  fra  disposizioni  legislative  interne  ed  una
disposizione della CEDU, anche  quale  interpretata  dalla  Corte  di
Strasburgo, puo' porsi un dubbio di costituzionalita', ai  sensi  del
primo comma dell'art. 117 Cost.,  solo  se  non  si  possa  anzitutto
risolvere il problema in  via  interpretativa.  Infatti  "al  giudice
comune spetta interpretare la norma interna  in  modo  conforme  alla
disposizione  internazionale,  entro  i  limiti  nei  quali  cio'  e'
permesso dai testi delle norme'' e qualora cio'  non  sia  possibile,
ovvero  dubiti  della  compatibilita'  della  norma  interna  con  la
disposizione convenzionale "interposta'', egli deve investire  questa
Corte  delle  relative  questioni  di   legittimita'   costituzionale
rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma» Cost. (sentenza  n.
349 del  2007,  par.  6  del  Considerato  in  diritto;  analogamente
sentenza n. 348 del 2007, par. 5 del Considerato in diritto)»  e  che
«solo  ove  l'adeguamento  interpretativo,  che  appaia  necessitato,
risulti impossibile o l'eventuale diritto vivente  che  si  formi  in
materia faccia sorgere dubbi sulla sua  legittimita'  costituzionale,
questa Corte potra' essere chiamata ad affrontare il  problema  della
asserita incostituzionalita' della disposizione di  legge  (C.  Cost.
sent. n. 239/2009); 
        che, a seguito della ratifica del  Trattato  di  Lisbona,  in
considerazione  dell'esplicito  richiamo  operato  dall'art.  6   del
riformato Trattato UE, l'Unione aderisce alla CEDU e che  «i  diritti
fondamentali, garantiti dalla  Convenzione  ...  e  risultanti  dalla
tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno  parte  del
diritto dell'Unione in quanto principi generali» per cui vi era stata
la comunitarizzazione ovvero l'ingresso del sistema CEDU  nell'ambito
del diritto della UE, con tutte le conseguenze in punto di  modalita'
di adeguamento del diritto interno al diritto  sovranazionale  e  dei
rapporti fra i sistemi normativi non piu' fondati dell'art.  117,  ma
sull'art. 11 Cost.; 
        che il rapporto fra legge nazionale e ordinamento della UE  -
derivante dal coordinamento fra ordinamento comunitario  e  nazionale
previsto dal Trattato di Roma e discendente dall'avere  la  legge  di
esecuzione  del  Trattato  trasferito  agli  organi  comunitari,   in
conformita' con l'art. 11 Cost., le  competenze  nelle  materie  loro
riservate - comportava  che  «il  giudice  italiano  accerta  che  la
normativa scaturente da tale fonte regola il caso sottoposto  al  suo
esame, e  ne  applica  di  conseguenza  il  disposto,  con  esclusivo
riferimento al  sistema  dell'ente  sovrannazionale:  cioe'  al  solo
sistema che governa l'atto  da  applicare  e  di  esso  determina  la
capacita' produttiva. Le confliggenti statuizioni della legge interna
non possono costituire ostacolo  al  riconoscimento  della  "forza  e
valore'', che il Trattato conferisce al regolamento comunitario,  nel
configurarlo  come   atto   produttivo   di   regole   immediatamente
applicabili. Rispetto alla sfera di questo atto, cosi'  riconosciuta,
la legge statale rimane infatti, a ben guardare, pur sempre collocata
in  un  ordinamento,  che  non  vuole  interferire  nella  produzione
normativa del  distinto  ed  autonomo  ordinamento  della  Comunita',
sebbene garantisca l'Osservanza di  essa  nel  territorio  nazionale.
D'altra parte,  la  garanzia  che  circonda  l'applicazione  di  tale
normativa e' - grazie al precetto dell'art. 11  Cost.,  com'e'  sopra
chiarito - piena e continua. Precisamente, le disposizioni della CEE,
le quali soddisfano i requisiti dell'immediata applicabilita' devono,
al medesimo titolo, entrare e  permanere  in  vigore  nel  territorio
italiano, senza che  la  sfera  della  loro  efficacia  possa  essere
intaccata dalla legge ordinaria dello  Stato»  (C.  Cost.,  sent.  n.
170/1984); 
        che, conseguentemente, a seguito  dell'ingresso  del  sistema
CEDU nel diritto comunitario, le  decisioni  della  Corte  EDU  sulla
questioni  di  sua  competenza  dovevano   ritenersi   immediatamente
applicabili all'ordinamento interno e che, in ipotesi di disposizione
interna confliggente con la norma e/o la decisione  della  Corte,  il
giudice ordinario, operato il  controllo  di  compatibilita',  doveva
disapplicare la norma interna; 
        che, quanto al caso  di  specie,  cio'  voleva  dire  che  la
decisione della Corte adottata nel caso SH  e  altri  contro  Austria
poneva prescrizioni aventi valore generale stabilendo un principio di
diritto che il giudice nazionale, adito da cittadini che lamentino la
lesione di un identico diritto soggettivo fondamentale, effettuato il
controllo di compatibilita', doveva applicare; 
        che la pronuncia della Corte EDU aveva deciso il  ricorso  di
due coppie di cittadini che avevano  sostenuto  che  le  disposizioni
della legge austriaca in materia che vietava  l'uso  di  ovuli  e  di
spermatozoi di donatori per la fecondazione in vitro erano  contrarie
al diritto al rispetto della vita privata e  familiare  in  combinato
disposto   con   il    divieto    di    discriminazione    (previsti,
rispettivamente, all'art. 8 e all'art. 14 della CEDU); 
        che la Corte aveva  ritenuto  che  quando  era  in  gioco  un
aspetto  importante  della  vita  di  un  individuo,  il  margine  di
regolamentazione  concesso  allo  Stato  doveva  essere  limitato  e,
considerato che il desiderio di  avere  un  bambino  era  un  aspetto
particolarmente importante, il divieto  di  procreazione  artificiale
eterologa non rappresentava una ragionevole sintesi, non essendovi un
rapporto di proporzionalita' fra mezzi impiegati e  scopo  perseguito
posto che il divieto di ingerenza nella vita privata e familiare  era
derogabile  solo  nell'interesse  della  sicurezza  nazionale,  della
pubblica  sicurezza,  del  benessere  economico  del   paese,   della
protezione della salute o  della  morale  o  per  la  protezione  dei
diritti e delle liberta' altrui; 
        che inoltre la Corte aveva ritenuto che  fosse  irragionevole
la disparita' di trattamento fra le coppie che per soddisfare il loro
desiderio di un bambino  potevano  ricorrere  alla  fecondazione  con
donazione di gameti in vivo (ammessa dalla legge austriaca) e  quelle
che potevano ricorrere solo alla fecondazione con donazione di gameti
in vitro (vietata dalla legge austriaca) ed aveva  pertanto  ritenuto
la violazione del combinato disposto degli artt. 8 e 14 del CEDU; 
        che vi era identita' di petitum e assimilabilita' della causa
petendi fra il loro caso e quello delle coppie austriache; 
        che il divieto assoluto di PMA  di  tipo  eterologo  -  nelle
ipotesi in cui sia la generazione per via naturale sia la PMA di tipo
omologo fossero precluse per la assoluta  inidoneita'  del  materiale
generico dell'uomo a fini procreativi - costituiva una  irragionevole
e sproporzionata compressione di un fondamentale diritto  soggettivo,
lesiva anche del principio di non discriminazione, discriminando  fra
coppie sterili o infertili in base  alla  gravita'  della  condizione
patologica; 
        che le implicazioni della sentenza della Corte EDU  nel  caso
di specie  potevano  avere,  in  relazione  alla  qualificazione  del
sistema CEDU accolte dal giudice (post o pre  Trattato  di  Lisbona),
effetto di dictum con effetti  diretti  sull'ordinamento  interno  in
forza della comunitarizzazione per violazione degli artt. 8 e 14 CEDU
o  criterio  interpretativo  in  forza  del  quale  il  giudice  deve
procedere all'adeguamento  del  diritto  interno  con  rilievo  della
questione di legittimita' costituzionale  solo  ove  cio'  non  fosse
possibile o l'eventuale disciplina derivante facesse sorgere dubbi di
legittimita' costituzionale; 
        che  la  lamentata  violazione  del  diritto   di   procreare
costituiva anche violazione di norme costituzionali (artt. 2, 3 e 13,
oltre che 32 ove la sterilita' fosse qualificata come patologia e  le
tecniche di PMA come trattamenti terapeutici); 
        che   la    disapplicazione    o    la    dichiarazione    di
incostituzionalita' dell'art. 4, terzo comma della legge  n.  40/2004
non creerebbe alcun vuoto  normativo  in  quanto  la  parte  relativa
all'approvvigionamento,  controllo,  conservazione  e  donazione  dei
gameti era disciplinata dai d.lgs. n. 191/2007 e  n.  16/2010  mentre
quella relativa alla tutela dei nati e dell'integrita' della famiglia
era disciplinata dall'art. 9 della  legge  n.  40/2004,  che  prevede
l'esclusione dell'azione di disconoscimento della paternita' da parte
di colui che in qualita' di partner della donna l'aveva autorizzato a
sottoporsi a PMA di tipo eterologo  e  l'assenza  di  ogni  relazione
giuridica fra il nato ed donatore dei gameti che non puo' far  valere
alcun diritto nei suoi confronti ne' essere soggetto ad obblighi; 
        che sussistevano i requisiti per il  richiesto  provvedimento
d'urgenza: il fumus boni iuris risultando dai principi costituzionali
richiamati, mentre il periculum  in  mora  derivando  dai  rischi  di
ulteriori danni alla loro integrita' psico-fisica e  dall'eta'  della
ricorrente (nata nel 1972). 
    Quale azione di merito, i ricorrenti hanno indicato le  richiesta
«di accertamento del loro diritto ad accedere a tecniche  di  PMA  di
tipo eterologo; di  realizzare  la  fecondazione  in  vitro  mediante
utilizzo del materiale genetico fornito dalla coppia  ricorrente  e/o
comunque proveniente da un  terzo  donatore  anonimo  individuato  di
concerto col centro medico; di aver trasferito gli embrioni  che  sia
con riguardo al numero che alle modalita', risultino compatibili  con
la tutela del proprio diritto  alla  salute;  di  crioconservare  gli
eventuali embrioni risultati soprannumerari all'esito del trattamento
di PMA realizzato con successo». 
    4. - Si costituiva il  centro  convenuto  che  rilevava  che,  in
presenza dell'art. 4, comma 3 della  legge  n.  40/2004  che  vietava
senza eccezione la PMA di tipo eterologo, esso  non  poteva,  pur  in
presenza della sentenza della Corte  EDU  citata  dalle  controparti,
adempiere alle loro  richieste  senza  una  specifica  pronuncia  del
giudice competente. 
    Rilevava comunque di condividere  le  argomentazioni  di  cui  al
ricorso, osservando che il TAR del Lazio, con sentenza n.  1198/2010,
aveva ritenuto che l'adesione della UE alla CEDU ed il riconoscimento
che «i  diritti  fondamentali,  garantiti  dalla  Convenzione  ...  e
risultanti dalla tradizioni costituzionali comuni agli Stati  membri,
fanno parte del diritto  dell'Unione  in  quanto  principi  generali»
comportava la  conseguenza  che  le  norme  della  Convenzione  erano
immediatamente operanti negli  ordinamenti  nazionali  e  percio'  in
Italia ai sensi dell'art. 11 Cost. con l'obbligo per  il  giudice  di
applicare le norme nazionali in conformita' al diritto comunitario  o
di procedere in via diretta alla loro disapplicazione in  favore  del
diritto comunitario senza dover transitare per il filtro  della  loro
incostituzionalita'. 
    Osservava   infine    la    piena    fattibilita'    sul    piano
tecnico-sanitario e normativo della  prestazione  media  chiesta  dai
ricorrenti e si dichiarava remissiva alle loro richieste. 
    5. - Intervenivano volontariamente in causa  con  unico  atto  le
associazioni Luca Coscioni per la liberta'  di  ricerca  scientifica,
Amica Cicogna ONLUS e  Cerco  un  bimbo  e,  con  atto  distinto,  la
associazione Liberididecidere, assistite dal  medesimo  avvocato  dei
ricorrenti e tutte ad adiuvandum i ricorrenti di  cui  ribadivano  le
deduzioni, richiamando anch'esse la sentenza del TAR  del  Lazio.  In
udienza anche l'avvocato dei ricorrenti richiamava  la  sentenza  del
TAR del Lazio come conferma della ricostruzione di cui al ricorso, in
punto di diretta applicabilita' delle decisioni della  sentenza  CEDU
agli Stati membri. 
    6. - Si rileva anzitutto (questione che deve essere esaminata  di
ufficio) che la fattispecie non rientra in nessuna delle  ipotesi  di
intervento obbligatorio del PM tassativamente indicate dall'art.  70,
secondo comma c.p.c. 
    7. - Rilevanza della questione di legittimita' costituzionale. 
    7.1. - I ricorrenti si trovano nelle condizioni  stabilite  dagli
artt. 1, secondo comma, e 4, primo comma, della legge n. 40/2004  che
prevedono, rispettivamente, che il ricorso alla  PMA  «e'  consentito
qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per  rimuovere
le cause di sterilita' o infertilita'» e «solo quando  sia  accertata
l'impossibilita' di rimuovere altrimenti le  cause  impeditive  della
procreazione ed e' comunque circoscritto ai casi di sterilita'  o  di
infertilita' inspiegate documentate da atto medico nonche' ai casi di
sterilita' o di infertilita' da causa accertata e certificata da atto
medico». 
    Nel caso di specie, risulta  dalla  documentazione  prodotta  dai
ricorrenti  che  il  ricorrente  risulta  che  egli  e'  affetto   da
«azoospermia con assenza di cellule spermatogeniche» «azoospermia non
ostruttiva in ipogonadismo-ipogonadotropo (azoospermia non ostruttiva
secretoria pre-testicolare)» (cfr. certificato 11 maggio  2010  della
ASL CN1), risultata pur a seguito dei trattamenti con gonadotropine e
terapia androgenica sostitutiva  (cfr.  certificato  1º  luglio  2007
della Azienda Ospedaliera S. Croce e Carle-Cuneo e risultati  analisi
sperma); risultano peraltro effettuati vanamente alcuni tentativi  di
PMA. 
    Risultano  pertanto,  nelle  forme  richieste  dalla  norma,  sia
l'impossibilita' di rimuovere altrimenti le  cause  impeditive  della
procreazione sia la sussistenza di un caso  si  sterilita'  da  causa
accertata. 
    7.2.  -  I  ricorrenti  si  trovano  inoltre   nella   condizione
soggettiva stabilita dall'art. 5  della  legge  n.  40/2004,  essendo
viventi, coniugi,  maggiorenni  ed  in  eta'  potenzialmente  fertile
(avendo 34 anni il ricorrente e 38 la ricorrente). 
    7.3. - E' evidente che la sterilita' del ricorrente comporta  che
l'unica tecnica di PMA utilmente applicabile nel caso potrebbe essere
solo quella di tipo eterologo,  che  e'  -  appunto  -  assolutamente
vietata dal terzo comma dell'art. 4, legge n.  40/2004,  per  cui  la
richiesta comporta l'applicazione della suddetta norma. 
    7.4. - Quanto all'ammissibilita' del rilievo della  questione  di
legittimita'  costituzionale  in  sede  cautelare,  si  richiama,  da
ultimo, la sentenza della Corte costituzionale n. 151/2009 che, in un
giudizio promosso anche  da  questo  Tribunale  e  sempre  in  questa
materia, ha rilevato che «la giurisprudenza di questa  Corte  ammette
la  possibilita'  che  siano  sollevate  questioni  di   legittimita'
costituzionale in sede cautelare, sia quando il giudice non  provveda
sulla domanda, sia quando conceda la relativa  misura,  purche'  tale
concessione non si risolva  nel  definitivo  esaurimento  del  potere
cautelare del quale in quella sede il giudice  fruisce  (sentenza  n.
161 del 2008 e ordinanze n. 393 del 2008 e n.  25  del  2006).  Nella
specie, i procedimenti cautelare sono ancora in corso ed i giudici  a
quibus non hanno esaurito la  propria  potestas  iudicandi:  risulta,
quindi, incontestabile la loro legittimazione a  sollevare  in  detta
fase le questioni di costituzionalita' delle disposizioni di cui sono
chiamati a fare applicazione (sentenza n. 161 del 2008)». 
    Nel caso, il procedimento cautelare verra' sospeso per il rilievo
della questione di legittimita' costituzionale e dunque e' ancora  in
corso. 
    8. - Non manifesta infondatezza della questione  di  legittimita'
costituzionale. 
    8.1.   -   Deve   anzitutto   esaminarsi   la   questione   della
«comunitarizzazione» della Convenzione Europea dei Diritti  dell'Uomo
a seguito del Trattato di Lisbona secondo la tesi dei ricorrenti. 
    L'art. 6, comma 2, del Trattato UE come modificato a seguito  del
Trattato di Lisbona  dispone:  «L'Unione  aderisce  alla  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali. Tale adesione non modifica  le  competenze  dell'Unione
definite nei trattati». 
    Ritiene  il  giudice   -   contrariamente   alla   giurisprudenza
richiamata (e di  altra:  Cons.  Stato,  dec.  1220/2010)  -  che  il
trattato si limiti a consentire l'adesione della Unione Europea  alla
CEDU (dandole la base legale che il parere n.  2/1994  del  28  marzo
1996 della Corte UE aveva ritenuto inesistente), ma che essa  non  e'
ancora avvenuta, tanto che il protocollo n. 8 annesso al Trattato  ne
prevede le modalita' tramite apposito accordo di cui detta le  regole
(«Articolo  1.  L'accordo  relativo  all'adesione  dell'Unione   alla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta'   fondamentali   (in   appresso   denominata    "convenzione
europea''),  previsto  dall'articolo  6,  paragrafo  2  del  trattato
sull'Unione  europea  deve  garantire   che   siano   preservate   le
caratteristiche specifiche dell'Unione e del diritto dell'Unione,  in
particolare  per  quanto  riguarda:  a)   le   modalita'   specifiche
dell'eventuale partecipazione dell'Unione agli  organi  di  controllo
della convenzione europea; b) i meccanismi  necessari  per  garantire
che i procedimenti avviati da Stati non membri e le  singole  domande
siano indirizzate correttamente,  a  seconda  dei  casi,  agli  Stati
membri e/o all'Unione. Articolo 2. L'accordo di  cui  all'articolo  1
deve  garantire  che  l'adesione  non  incida  ne'  sulle  competenze
dell'Unione  ne'  sulle  attribuzioni  delle  sue  istituzioni.  Deve
inoltre garantire che nessuna disposizione dello stesso incida  sulla
situazione  particolare  degli  Stati  membri  nei  confronti   della
convenzione europea e, in particolare, riguardo ai  suoi  protocolli,
alle misure prese dagli  Stati  membri  in  deroga  alla  convenzione
europea ai sensi del suo articolo 15  e  a  riserve  formulate  dagli
Stati membri nei confronti della convenzione europea ai sensi del suo
articolo 57. Articolo 3. Nessuna  disposizione  dell'accordo  di  cui
all'articolo 1 deve avere effetti sull'articolo 292 del trattato  sul
funzionamento dell'Unione europea»). 
    Di conseguenza,  tutte  le  osservazioni  dei  ricorrenti  basate
sull'affermata attuale  «comunitarizzazione»  della  CEDU  non  hanno
rilievo. 
    8.2. - La questione del ritenuto contrasto fra  una  disposizione
della CEDU ed una norma  di  diritto  interno  si  pone  -  quindi  -
esattamente nei termini attestati nella  giurisprudenza  della  Corte
costituzionale a partire dalle sentenze nn. 348 e  349  del  2007  (e
confermati dalle sentenze nn. 39/2008, 239 e 311 del 2009). 
    Da essa risulta che «che l'art. 117, primo comma,  Cost.,  ed  in
particolare  l'espressione   "obblighi   internazionali''   in   esso
contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche
diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 e 11 Cost.
Cosi' interpretato, l'art. 117, primo comma,  Cost.,  ha  colmato  la
lacuna prima esistente quanto alle norme che a livello costituzionale
garantiscono l'osservanza degli obblighi internazionali  pattizi.  La
conseguenza e' che il contrasto di una norma nazionale con una  norma
convenzionale,  in  particolare  della  CEDU,  si  traduce   in   una
violazione dell'art. 117, primo comma, Cost. 
    Questa Corte ha, inoltre, precisato nelle predette  pronunce  che
al giudice nazionale, in quanto  giudice  comune  della  Convenzione,
spetta   il    compito    di    applicare    le    relative    norme,
nell'interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, alla  quale
questa competenza  e'  stata  espressamente  attribuita  dagli  Stati
contraenti. 
    Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma  interna  e
una norma della Convenzione  europea,  il  giudice  nazionale  comune
deve, pertanto, procedere ad una interpretazione della prima conforme
a quella convenzionale, fino a dove cio'  sia  consentito  dal  testo
delle disposizioni a confronto  e  avvalendosi  di  tutti  i  normali
strumenti di ermeneutica giuridica. Beninteso, l'apprezzamento  della
giurisprudenza  europea  consolidatasi  sulla  norma  conferente   va
operato in modo da rispettare la sostanza di  quella  giurisprudenza,
secondo un criterio gia' adottato dal giudice comune  e  dalla  Corte
europea (Cass. 20 maggio 2009, n. 10415;  Corte  eur.  dir.  uomo  31
marzo 2009, Simaldone c. Italia, ric. n. 22644/2003). 
    Solo quando ritiene che non sia possibile comporre  il  contrasto
in via interpretativa, il giudice comune, il quale non puo' procedere
all'applicazione della norma della CEDU (allo stato, a differenza  di
quella comunitaria provvista di effetto diretto) in luogo  di  quella
interna contrastante, tanto  meno  fare  applicazione  di  una  norma
interna che egli stesso abbia ritenuto in contrasto con  la  CEDU,  e
pertanto  con  la  Costituzione,  deve  sollevare  la  questione   di
costituzionalita' (anche sentenza n. 239 del 2009),  con  riferimento
al  parametro  dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  ovvero   anche
dell'art. 10,  primo  comma,  Cost.,  ove  si  tratti  di  una  norma
convenzionale ricognitiva di una  norma  del  diritto  internazionale
generalmente riconosciuta. La clausola del  necessario  rispetto  dei
vincoli derivanti dagli obblighi  internazionali,  dettata  dall'art.
717, primo comma, Cost., attraverso un meccanismo  di  rinvio  mobile
del diritto interno alle norme internazionali pattizie  di  volta  in
volta rilevanti, impone infatti il  controllo  di  costituzionalita',
qualora il giudice comune ritenga lo  strumento  dell'interpretazione
insufficiente ad eliminare il contrasto». (C. Cost. sentenza  n.  311
del 2009). 
    8.3. - La Corte costituzionale ha anche escluso  l'ammissibilita'
del richiamo all'art. 11 Cost.  rilevando  che  ha  escluso  che  «la
rilevanza del parametro dell'art. 11 puo'  farsi  valere  in  maniera
indiretta, per effetto della qualificazione, da parte della Corte  di
giustizia della Comunita' europea, dei diritti  fondamentali  oggetto
di  disposizioni  della  CEDU  come  principi  generali  del  diritto
comunitario. 
    E' vero, infatti, che una consolidata giurisprudenza della  Corte
di giustizia, anche a seguito  di  prese  di  posizione  delle  Corti
costituzionali di alcuni Paesi membri, ha  fin  dagli  anni  settanta
affermato che i diritti fondamentali, in particolare quali  risultano
dalla CEDU, fanno parte dei principi generali di cui essa  garantisce
l'osservanza. E' anche vero che tale giurisprudenza e' stata recepita
nell'art. 6 del Trattato sull'Unione Europea e, estensivamente, nella
Carta dei diritti  fondamentali  proclamata  a  Nizza  da  altre  tre
istituzioni comunitarie, atto  formalmente  ancora  privo  di  valore
giuridico ma di riconosciuto rilievo interpretativo (sentenza n.  393
del 2006). In primo  luogo,  tuttavia,  il  Consiglio  d'Europa,  cui
afferiscono il sistema di tutela dei diritti  dell'uomo  disciplinato
dalla CEDU e l'attivita'  interpretativa  di  quest'ultima  da  parte
della Corte dei diritti  dell'uomo  di  Strasburgo,  e'  una  realta'
giuridica,  funzionale  e  istituzionale,  distinta  dalla  Comunita'
europea creata con i Trattati di Roma del 1957 e dall'Unione  europea
oggetto del Trattato di Maastricht del 1992. 
    In secondo luogo, la giurisprudenza e' si nel senso che i diritti
fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto
comunitario di cui  il  giudice  comunitario  assicura  il  rispetto,
ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati  membri
ed in particolare alla Convenzione di  Roma  (da  ultimo,  su  rinvio
pregiudiziale della Corte costituzionale belga,  sentenza  26  giugno
2007,  causa  C-305/05  ...).  Tuttavia,   tali   principi   rilevano
esclusivamente rispetto a fattispecie alle  quali  tale  diritto  sia
applicabile: in primis gli atti comunitari, poi gli atti nazionali di
attuazione di normative comunitarie, infine le  deroghe  nazionali  a
norme comunitarie asseritamente giustificate dal rispetto dei diritti
fondamentali (sentenza 18 giugno 1991, C-260/89, ERT).  La  Corte  di
giustizia ha  infatti  precisato  che  non  ha  tale  competenza  nei
confronti di normative che non entrano nel campo di applicazione  del
diritto comunitario (sentenza 4 ottobre 1991, C-159/90 ...;  sentenza
29 maggio 1998 ...): ipotesi che si verifica precisamente nel caso di
specie». 
    Si tratta di principi applicabili anche dopo  l'avvenuta  entrata
in vigore del Trattato di Lisbona che ha previsto, come si e'  detto,
che «i  diritti  fondamentali,  garantiti  dalla  Convenzione  ...  e
risultanti dalla tradizioni costituzionali comuni agli Stati  membri,
fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali», con
cio' recependo - come si legge nella sentenza citata - l'orientamento
interpretativo dominante. 
    8.4. - La sentenza della  Corte  EDU  richiamata  dai  ricorrenti
assume allora rilievo - per quanto esposto  sub  8.2.  -  dovendo  il
giudice nazionale applicare le norme della CEDU  nell'interpretazione
offertane dalla Corte di Strasburgo. 
    Essa, che non risulta essere divenuta  definitiva  ai  sensi  del
secondo comma dell'art. 44 della Convenzione,  deve  comunque  essere
presa in esame ai fini che qui interessano. 
    Nella sentenza in questione  la  Corte  ha  preso  in  esame  due
diversi ricorsi in materia di PMA riguardanti due situazioni diverse. 
    Il primo caso si trattava di una  coppia  in  cui  la  donna  era
infertile relativa alle tube di Falloppio e l'uomo sterile,  per  cui
poteva far ricorso soltanto alla  fecondazione  eterologa  in  vitro,
vietata dalla legge austriaca, che consente  invece  la  fecondazione
eterologa in vivo. 
    Il  secondo  riguardava  una  coppia  in   cui   la   donna   era
completamente sterile non producendo ovuli, mentre  l'uomo  produceva
sperma adatto alla procreazione, per cui poteva far ricorso solo alla
donazione  di  ovuli,  non  consentita  dalla  legge   austriaca,   a
differenza di quella di gameti maschili consentita, come si e' detto,
sia pure solo per la fecondazione in vivo. 
    La Corte ha ritenuto sussistenti in entrambi i casi la violazione
del combinato disposto degli artt.  8  e  14  della  Convenzione  che
stabiliscono, rispettivamente, il  diritto  al  rispetto  della  vita
provata e familiare e il divieto di discriminazione. 
    Il rilievo che la decisione sul primo caso - motivata ai §  86/94
-  e'  basata  solo   sull'irragionevolezza   dell'esclusione   della
donazione di gameti in vitro una volta  che  sia  ammessa  quella  in
vivo, impedisce di trarre conseguenze ai fini della sua  applicazione
riguardo alla legge italiana posto che  essa  vieta  la  fecondazione
eterologa in ogni caso. 
    La Corte ha deciso il secondo caso  -  ai  §  70/85  -  ritenendo
l'irragionevolezza dell'ammissibilita', nella legge austriaca,  della
donazione di spermatozoi ma non di ovuli. 
    Per   arrivare    a    questa    conclusione,    pero',    (forse
significativamente anteponendolo l'esame di questo caso all'altro) ha
esposto principi di ordine generale che, ad  avviso  del  giudicante,
paiono pertanto applicabili in sede interpretativa ai  fini  che  qui
interessano. 
    La Corte afferma (§ 74) che non vi e' un obbligo  per  gli  Stati
membri di adottare una  legislazione  che  consenta  la  fecondazione
assistita, ma che una volta che essa sia  consentita,  nonostante  il
largo margine di discrezionalita' lasciato agli Stati contraenti,  la
sua disciplina dovra'  essere  coerente  in  modo  da  prevedere  una
adeguata considerazione dei differenti interessi legittimi  coinvolti
in accordo con gli obblighi derivanti dalla Convenzione. 
    Essa rileva poi (§ 76) che il divieto assoluto del  ricorso  alla
fecondazione eterologa mediante donazione di ovuli (e di  sperma  per
fecondazione in vitro) non  era  l'unico  mezzo  a  disposizione  del
legislatore austriaco per realizzare le finalita' perseguite,  quelle
di evitare il rischio di sfruttamento  delle  donne  e  di  abuso  di
queste tecniche e di impedire la realizzazione di parentele  atipiche
e che la relativa scelta e' sfornita di giustificazioni ragionevoli. 
    Rileva (§ 77) anzitutto che i primi due argomenti non  riguardino
specificamente le tecniche in questione, essendo  dirette  contro  la
procreazione assistita in generale. 
    Rileva poi (§ 81) che l'obiettivo di  mantenere  la  certezza  in
materia di diritto di famiglia deve tener  conto  del  fatto  che  in
molti Stati contraenti sono previsti rapporti familiari  atipici  che
non  seguono  la  relazione  genitore-figlio  basata  sulla   diretta
discendenza biologica (a partire dall'adozione) per cui  ritiene  che
non vi  siano  ostacoli  insormontabili  per  condurre  le  relazioni
familiari che risultassero dall'utilizzare con successo  le  tecniche
di  procreazione  assistita  in  questione  nell'ambito  del   quadro
generale della legislazione in materia  di  famiglia  e  negli  altri
campi giuridici collegati. 
    La Corte (§  84  e  ss.)  rileva  infine  che  anche  l'argomento
relativo al diritto all'informazione del bambino a conoscere  la  sua
discendenza effettiva non e' un diritto assoluto, rilevando  di  aver
gia' ritenuto l'assenza - in un caso gia' sottoposto al suo  giudizio
- di violazioni all'art. 8 della Convenzione avendo in quel  caso  lo
Stato raggiunto un giusto equilibrio fra  gli  interessi  pubblici  e
privati coinvolti, per cui il legislatore austriaco poteva  anch'esso
trovare una soluzione adeguata ai contrapposti interessi del donatore
che chiede l'anonimato e del bambino ad ottenere informazioni. 
    Pare al giudicante che tale ragionamento possa  far  ritenere  in
contrasto con la  Convenzione  europea  anche  il  divieto  contenuto
nell'art. 4, terzo comma, della legge n. 40/2004, essendo  del  tutto
analoghe le osservazioni spendibili contro le  rationes  legis  sopra
evidenziate, posto che anche in Italia sono gia' ammesse le parentele
atipiche  (come  l'adozione),  con   conseguente   esclusione   della
ragionevolezza della disciplina. 
    8.5.  -  Deve  ora  verificarsi,  come  richiesto   dalla   Corte
costituzionale, la possibilita' di una interpretazione della norma in
questione «conforme a quella convenzionale,  fino  a  dove  cio'  sia
consentito dal testo delle disposizioni a confronto e avvalendosi  di
tutti  i  normali  strumenti  di  ermeneutica  giuridica»  (C.  Cost.
sentenza n. 311 del 2009). 
    Essa non e' riscontrabile, posto  che  -  a  fronte  del  divieto
assoluto della fecondazione eterologa -  e  non  essendo  ravvisabili
nelle norme della CEDU, come interpretate dal giudice a cio' deputato
nella  sentenza  richiamata,  elementi  che  inducano  ad   ammettere
soltanto alcuni tipi di fecondazione eterologa (fra cui la quella  in
vitro mediante donazione di gameti, che e' quella  cui  i  ricorrenti
chiedono - nelle conclusioni di merito - di  far  riscorso),  l'unica
soluzione che se ne potrebbe ricavare sarebbe quella della sua totale
disapplicazione,   soluzione   evidentemente    inammissibile,    non
costituendo una forma di interpretazione. 
    Dalla  sentenza  in  esame   risulta   infatti   ammissibile   la
fecondazione eterologa in vitro mediante donazione di sperma e quella
eterologa mediante donazione di  ovuli,  mentre  quella  legislazione
nazionale gia' consentiva la fecondazione eterologa in vivo  mediante
donazione di sperma. 
    8.6. - Ricorrono  dunque  le  condizioni  per  il  rilievo  della
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4, comma  3  della
legge 19 febbraio 2004, n. 40 per contrasto  con  l'art.  117,  primo
comma, Cost. in relazione al combinato disposto degli artt.  8  e  14
CEDU come interpretate) dalla sentenza della Corte EDU del 1°  aprile
2010 emessa nel caso S.H. e altri contro Austria. 
    8.7. - Le stesse considerazioni esposte dalla Corte EDU in ordine
alla irragionevolezza della norma in questione paiono pertinenti  per
il rilievo della questione di legittimita' costituzionale anche sotto
il profilo dell'art. 3 Cost. sotto il  profilo  dell'escludere  dalla
PMA proprio i soggetti completamente  sterili,  tanto  piu'  che,  ai
sensi del secondo  comma,  dell'art.  1  della  legge  in  esame  «e'
consentito qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per
rimuovere le cause di sterilita' o infertilita'».