IL TRIBUNALE 
 
    Vista  la  richiesta  di'  revoca  o  sostituzione  della  misura
cautelare della custodia in carcere cui e' attualmente sottoposto  B.
B. nata a No nel procedimento sopraindicato formulata  dal  difensore
R. Brizio; 
    Visto il parere contrario espresso dal P.M.; 
 
                               Osserva 
 
    B.B.  e'  attualmente  sottoposta  alla  misura  cautelare  della
custodia in carcere a far data dal 22 aprile 2009 per i reati di  cui
agli artt. 74 e 73 d.P.R. n. 309/90 commessi a N. e S. dal 2006  fino
alla data di esecuzione della misura cautelare. 
    In particolare all'imputata B. sono  attribuite  la  condotta  di
partecipe ad un'associazione a delinquere finalizzata all'acquisto ed
alla successiva cessione di sostanze  stupefacenti,  nonche'  plurimi
episodi di acquisto e  vendita  di  stupefacente  commessi  nell'arco
temporale sopra descritto. 
    Nei confronti dell'imputata e' stato  celebrato  il  processo  di
primo grado con le  forme  del  giudizio  abbreviato,  all'esito  del
quale, in data 16 giugno 2010, e' stata emessa sentenza  di  condanna
alla pena complessiva di 9 anni di reclusione. 
    Il difensore chiede la revoca della misura cautelare in  corso  o
la sostituzione con misure cautelari meno afflittive, quali l'obbligo
di presentazione alla P.G.  o  gli  arresti  domiciliari,  ponendo  a
sostegno dell'intervenuta cessazione o affievolimento del pericolo di
reiterazione di reati analoghi plurime circostanze quali  l'efficacia
deterrente  del   lungo   periodo   di   detenzione   finora   patito
dall'imputata,    la    sua    incensuratezza,    il    comportamento
sostanzialmente  collaborativo  tenuto  nel  corso  del  processo   e
l'esigenza di riallacciare i rapporti con i figli minori di  dieci  e
nove anni ad oggi  in  affidamento  in  forza  di  provvedimento  del
Tribunale  peri  Minorenni,  rapporti  interrotti  dall'inizio  della
carcerazione preventiva e la cui ripresa e' subordinata  ad  una  sua
collocazione alternativa al carcere. 
    Il difensore ha prodotto una dichiarazione di  disponibilita'  ad
accogliere la signora B. in regime di arresti  domiciliari  da  parte
della responsabile dell'istituto Missionario della Carita' sito in M. 
    Ritiene questo giudice che le argomentazioni  difensive  poste  a
sostegno dell'istanza non siano idonee a convincere della  cessazione
delle esigenze cautelari a carico dell'imputata, anche con  specifico
riferimento  all'art.   74   d.P.R.   n. 309/1990,   considerata   la
professionalita' dimostrata nella  conduzione  nella  gestione  delle
attivita' di spaccio in cui si  e'  estrinsecata  l'operativita'  del
sodalizio a cui la stessa ha partecipato, circostanze queste che  non
consentono, allo stato, di rinunciare ad ogni forma  di  cautela  nei
suoi confronti. 
    Peraltro, le circostanze evidenziate dal  difensore  non  possono
non essere considerate quali elementi  da  valorizzare  positivamente
nell'ambito  di  una  valutazione  di   affievolimento   del   quadro
cautelare, anche in ragione delle peculiarita' della vicenda  in  cui
si inseriscono  le  condotte  di  reato,  che  ha  visto  il  vincolo
associativo svilupparsi in ambito  sostanzialmente  familiare  in  un
periodo nel quale quasi tutti gli associati erano  anche  consumatori
di  stupefacente:  il  lungo  periodo  di   carcerazione   patito   -
costituente per la signora B. la  prima  esperienza  detentiva  -  la
comprensione del disvalore delle proprie  condotte  e  l'esigenza  da
tempo manifestata dalla donna di riprendere  a  svolgere  il  proprio
ruolo genitoriale attraverso una progressiva ripresa di contatti  con
i figli minori sono tutti  elementi  che,  valutati  unitamente  alla
comprovata disponibilita' di  un  domicilio  idoneo  a  garantire  la
lontananza della stessa dagli ambienti criminali in cui sono maturate
le condotte  in  contestazione,  inducono  a  ritenere,  allo  stato,
adeguata a fronteggiare il sussistente pericolo  di  reiterazione  di
reati analoghi la misura cautelare degli arresti  domiciliare  presso
l'istituto religioso indicato dal difensore. 
    Risulta infatti conforme allo  spirito  delle  norme  in  materia
cautelare il fatto  che  il  processo  di  graduale  superamento  dei
fattori criminogeni e  della  conseguente  pericolosita'  sociale  da
parte dell'imputato venga accompagnato da misure  cautelari  via  via
attenuate durante le quali si' possa verificare la  reale  intenzione
dello  stesso  di  impostare  il  proprio  futuro  comportamento  nel
rispetto  della  legalita'  e  dei   valori   tutelati   dal   nostro
ordinamento. 
    Cio' posto si rileva che la normativa  attualmente  esistente  in
materia di criteri di scelta delle misure cautelari non consente, pur
in presenza di un giudizio di affievolimento del quadro cautelare, di
adottare il provvedimento di sostituzione  richiesto  dal  difensore.
L'ostacolo e' costituito dalla presunzione  assoluta  di  adeguatezza
della sola misura della custodia  cautelare  in  carcere,  introdotta
dalla  recente  modifica  dell'art.  275,  comma  3  c.p.p.   operata
dall'art. 2, comma 1, lett a) del decreto-legge 23 febbraio 2009,  n.
11 - convertito con legge 23 aprile 2009 n. 45 - applicabile in  caso
di sussistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine ad una serie
molto ampia di reati, individuati attraverso il rinvio ai delitti  di
cui all'art. 51 commi 3-bis e quater c.p.p. operato  dalla  norma  in
questione, tra i quali e' compreso quello di cui all'art.  74  d.P.R.
n. 309/90 per cui si procede. La norma stabilisce una  presunzione  -
relativa - di sussistenza di esigenze  cautelari  («salvo  che  siano
acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono  esigenze
cautelari»), in presenza delle quali vi  e'  una  presunzione  legale
assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare della custodia in
carcere. 
    Tale ultima disposizione pone, a parere di chi scrive,  dubbi  di
legittimita'  costituzionale  che  impongono   la   sospensione   del
procedimento  e  la  rimessione  degli  atti  all'esame  della  Corte
costituzionale. 
    La  rilevanza  della   questione   discende   oltre   che   dalle
argomentazioni  sopra  esposte  in   ordine   alla   valutazione   di
attenuazione   delle   esigenze   cautelari   che   imporrebbero   la
sostituzione della misura cautelare in corso, anche dalla consolidata
e condivisibile interpretazione della giurisprudenza di  legittimita'
secondo cui l'applicabilita' della disposizione di cui all'art.  275,
terzo comma c.p.p., quale norma di carattere processuale ed in virtu'
del principio tempus  regit  actum,  si  estende  anche  alla  misure
cautelari da adottare peri fatti  delittuosi  commessi  anteriormente
alla entrata in vigore della norma stessa (da ultimo Cass. 16  giugno
2008,  n.  24433):  cio'  in  ossequio  alla  distinzione  tra  norme
sostanziali e norme processuali e  per  il  carattere  proprio  della
materia cautelare, caratterizzata dalla  strumentalita'  rispetto  al
procedimento  di  merito,  dalla  fluidita'  e  conseguente  continua
modificabilita' delle decisioni, perche'  rivolte  alla  salvaguardia
delle esigenze cautelari, in una visione sempre prognostica e  sempre
necessariamente aderente allo stato del procedimento. 
    A parere  di  chi  scrive  non  e'  manifestamente  infondata  la
questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  275,  comma  3,
c.p.p., per violazione degli artt. 3, 13 primo  comma  e  27  secondo
comma della Costituzione. 
    La  norma  in  questione,  nella  parte  in  cui   estendeva   la
presunzione  assoluta  di  adeguatezza  della   misura   di   massima
afflittivita' ai reati sessuali, e' gia' stata sottoposta  al  vaglio
della Corte Costituzionale che, con la pronuncia  n.  265  del  2010,
(G.U. 28 luglio 2010) ha dichiarato «l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 275, comma 3,  secondo  e  terzo  periodo,  del  codice  di
procedura penale, come modificato dall'art. 2  del  decreto-legge  23
febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica
e di contrasto alla  violenza  sessuale,  nonche'  in  tema  di  atti
persecutori), convertito, con modificazioni, dalla  legge  23  aprile
2009, n.  38,  nella  parte  in  cui  -  nel  prevedere  che,  quando
sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti  di  cui
agli articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater  del  codice
penale, e' applicata la custodia  cautelare  in  carcere,  salvo  che
siano  acquisiti  elementi  dai  quali  risulti  che  non  sussistono
esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in  cui  siano
acquisiti elementi specifici, in  relazione  al  caso  concreto,  dai
quali risulti che le esigenze cautelari  possono  essere  soddisfatte
con altre misure». 
      
    La sentenza richiamata ha evidenziato la sussistenza  di  profili
di contrasto della normativa in questione con gli artt. 3,  13  primo
comma e 27 secondo comma della Costituzione sulla base di un percorso
argomentativo che investe i principi cardine in materia  di  liberta'
personale e misure cautelari. 
    Partendo dal presupposto secondo cui  i  limiti  di  legittimita'
costituzionale delle  norme  in  materia  di  misure  cautelari  sono
espressi dal principio di inviolabilita' della liberta' personale  di
cui all'art.  13  primo  comma  Cost.  e  dalla  presunzione  di  non
colpevolezza, in forza della  quale  l'imputato  non  e'  considerato
colpevole fini alla condanna definitiva, la Corte  ha  osservato  che
"l'apparente antinomia tra  la  presunzione  di  non  colpevolezza  e
l'espressa previsione da parte della stessa carta  Costituzionale  di
una detenzione ante iudicium e' in effetti solo  apparente:  giacche'
e'  proprio  la  prima  a  segnare,  in  negativo,   i   confini   di
ammissibilita' della seconda. Affinche' le restrizioni della liberta'
personale dell'indagato o imputato nel corso del  procedimento  siano
compatibili con la presunzione di non colpevolezza e' necessario  che
esse assumano connotazioni nitidamente differenziate da quelle  della
pena,  irrogabile   solo   dopo   l'accertamento   definitivo   della
responsabilita': e cio', ancorche' si tratti di misure -  nella  loro
specie piu' gravi - ad essa corrispondenti sul  piano  del  contenuto
affluivo. Il principio enunciato dall'art. 27, secondo  comma,  Cost.
rappresenta, in altre parole, uno sbarramento  insuperabile  ad  ogni
ipotesi di assimilazione della coercizione  processuale  penale  alla
coercizione propria del  diritto  penale  sostanziale,  malgrado  gli
elementi che le accomunano. 
    Da cio' consegue - come questa Corte ebbe a  rilevare  sin  dalla
sentenza n. 64 del 1970 - che l'applicazione delle  misure  cautelari
non puo' essere  legittimata  in  alcun  caso  esclusivamente  da  un
giudizio anticipato di colpevolezza, ne' corrispondere  -direttamente
o indirettamente - a finalita' proprie della  sanzione  penale,  ne',
ancora e correlativamente, restare indifferente ad un  preciso  scopo
(cosiddetto «vuoto dei fini»). Il legislatore  ordinario  e'  infatti
tenuto, nella tipizzazione dei casi e dei modi  di  privazione  della
liberta', ad individuare - soprattutto all'interno del procedimento e
talora anche all'esterno (sentenza n. 1 del 1980) - esigenze  diverse
da  quelle  di  anticipazione  della  pena  e  che   debbano   essere
soddisfatte - entro tempi  predeterminati  (art.  13,  quinto  comma,
Cost.)  -  durante  il  corso  del  procedimento  stesso,   tali   da
giustificare, nel bilanciamento di interessi meritevoli di tutela  il
temporaneo sacrificio della liberta' personale di chi  non  e'  stato
ancora giudicato colpevole in via definitiva. 
    Ulteriore indefettibile corollario dei principi costituzionali di
riferimento e' che la disciplina della materia debba essere  ispirata
al criterio del «minore sacrificio necessario» (sentenza n.  299  del
2005): la compressione della liberta' personale dell 'indagato o dell
'imputato va contenuta, cioe', entro i limiti minimi indispensabili a
soddisfare le esigenze cautelari riconoscibili nel caso concreto. 
    Sul versante della «qualita'» delle misure, ne  consegue  che  il
ricorso alle forme di restrizione piu' intense - e particolarmente  a
quella  «massima»  della  custodia  carceraria   -   deve   ritenersi
consentito solo quando le esigenze  processuali  o  extraprocessuali,
cui  il  trattamento  cautelare  e'  servente,  non  possano   essere
soddisfatte tramite misure di minore incisivita'. Questo principio e'
stato affermato in  termini  netti  anche  dalla  Corte  europea  dei
diritti dell 'uomo, secondo la quale, in riferimento alla  previsione
dell'art.  5,  paragrafo  3,  della  Convenzione,   la   carcerazione
preventiva «deve apparire come la soluzione estrema che si giustffica
solamente allorche' tutte le altre opzioni  disponibili  si  rivelino
insufficienti» (sentenze 2 luglio 2009, Vafiadis contro Grecia,  e  8
novembre 2007, Lelievre  contro  Belgio).  Il  criterio  del  "minore
sacrificio necessario" impegna,  dunque,  in  linea  di  massima,  il
legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo
il modello  della  "pluralita'  graduata",  predisponendo  una  gamma
alternativa di misure, connotate da  differenti  gradi  di  incidenza
sulla  liberta'  personale;  dall'altra,  a  prefigurare   meccanismi
"individualizzati"   di   selezione   del   trattamento    cautelare,
parametrati sulle esigenze configurabili  nelle  singole  fattispecie
concrete. 
    Accanto al principio del «sacrificio minimo necessario», la Corte
ha individuato quale tratto  saliente  della  materia  relativa  alle
misure cautelari l'assenza di presunzioni o  automatismi,  in  quanto
contrastanti   con   la   necessita'   di   realizzare   una   «piena
individualizzazione»  della  coercizione   cautelare   basata   sulla
valutazione  del  caso  concreto,  alla  stregua  dei   principi   di
adeguatezza, proporzionalita' e minor sacrificio. 
    E' in tale  cornice  che  si  inserisce  la  disciplina  prevista
dall'art.  275,  terzo comma  c.p.p.,   che,   per   taluni   delitti
analiticamente elencati, opera una duplice presunzione: la  prima,  a
carattere relativo, riguarda la sussistenza di esigenze cautelari  in
assenza di prova della loro assenza; la seconda incide  sulla  scelta
della misura cautelare adeguata a fronteggiare tali esigenze,  scelta
che viene sottratta all'apprezzamento del giudice ed affidata ad  una
valutazione legale e precostituita, svincolata dal caso concreto. 
    La Corte rammenta che tale disciplina,  derogatoria  rispetto  ai
principi generali sopra ricordati, non era  originariamente  presente
nell'impianto codicistico, ma e' stata via via inserita attraverso lo
strumento della decretazione d'urgenza: in un primo tempo  era  stata
introdotta la deroga con riferimento ai reati di criminalita' mafiosa
ed altri gravi reati, deroga poi  successivamente  limitata  ai  soli
reati di cui all'art.  416-bis  c.p.  o  commessi  avvalendosi  della
condizioni di cui all'art. 416-bis c.p. o al  fine  di  agevolare  le
associazioni previste da tale articolo. 
      
    Il vaglio costituzionale della norma novellata, effettuato  dalla
Corte con l'ordinanza n.450 del 1995, aveva consentito  di  delineare
le condizioni di compatibilita' della disciplina derogatrice rispetto
ai principi generali sopra enunciati. I giudici avevano escluso  che,
in relazione ai "reati di mafia" tale presunzione violasse gli  artt.
3, 13 primo comma e 27 della Costituzione osservando che la scelta di
affidare al giudice la valutazione circa l'adeguatezza  delle  misure
cautelare, non e' scelta indefettibile, "potendo essere effettuata in
termini generali dal legislatore, purche'  nel  rispetto  del  limite
della ragionevolezza e del  corretto  bilanciamento  degli  interessi
costituzionali coinvolti". Secondo la Corte la  non  irragionevolezza
dell'esercizio della discrezionalita' legislativa era resa  manifesta
dalla "delimitazione della norma all'area dei delitti di criminalita'
organizzata  di  tipo  mafioso  (..)  atteso   il   coefficiente   di
pericolosita' per le condizioni di  base  della  convivenza  e  della
sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere e' connaturato"
(Ordinanza Corte Cost. n. 450/1995). 
    Tale valutazione era stata condivisa dalla  Corte  di  Strasburgo
che - pronunciando su un ricorso volto a  denunciare  l'irragionevole
durata della custodia cautelare in carcere applicata ad  un  indagato
per il delitto di cui all'art. 416-bis cod.  pen.  e  la  conseguente
violazione dell'art. 5, paragrafo 3, della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo - aveva ritenuto la disciplina  in
esame giustificabile alla luce "della natura specifica  del  fenomeno
della criminalita' organizzata e  soprattutto  di  quella  di  stampo
mafioso",  segnatamente  in   considerazione   del   fatto   che   la
carcerazione  provvisoria  delle  persone  accusate  del  delitto  in
questione «tende  a  tagliare  i  legami  esistenti  tra  le  persone
interessate e il  loro  ambito  criminale  di  origine,  al  fine  di
minimizzare il rischio che esse mantengano contatti personali con  le
strutture delle organizzazioni criminali  e  possano  commettere  nel
frattempo delitti" (sentenza 6.11.3003 Pantano contro Italia). 
    La normativa introdotta dal D.L. 23 febbraio 2009 n.11  del  2009
compie, secondo i giudici della Corte costituzionale,  un  "salto  di
qualita'  a  ritroso"  rispetto  alla  novella  del  1995  in  quanto
"riespande l'ambito di applicazione della disciplina  eccezionale  ai
procedimenti aventi ad oggetto numerosi altri reati,  individuati  in
parte mediante diretto richiamo agli articoli di legge che descrivono
le relative fattispecie e per il resto tramite rinvio "mediato"  alle
norme processuali di cui all'art. 51, commi 3-bis  e  3-quater,  cod.
proc. pen.», facendo ricadere nell'operativita' della  norma  di  cui
all'art. 275 comma III c.p.p. «fattispecie penali eterogenee, poste a
tutela di differenti beni giuridici assai diversamente strutturate  e
con trattamenti sanzionatori anche notevolmente differenziati.». 
    La Corte costituzionale, chiamata a valutare la  legittimita'  di
tale deroga in relazione ad una specifica categoria di reati (i reati
sessuali) introdotta  con  la  novella  legislativa,  ha  ribadito  e
definitivamente  cristallizzato  il   principio   secondo   cui   "le
presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto  fondamentale
della  persona,  violano  il  principio  di  eguaglianza,   se   sono
arbitrarie  e  irrazionali,  cioe'  se  non  rispondono  a  dati   di
esperienza  generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod
plerumque accidit»" e  ha  definito  in  positivo  il  contenuto  del
principio di ragionevolezza nella  materia  in  questione  affermando
che, "l'irragionevolezza della presunzione assoluta si  coglie  tutte
le volte in cui sia "agevole" formulare ipotesi di accadimenti  reali
contrari  alla  generalizzazione  posta  a  base  della   presunzione
stessa». 
    Quindi ha spiegato i motivi per i quali tale generalizzazione sia
possibile con  riferimento  ai  reati  di  mafia  in  senso  stretto,
ribadendo le peculiarita' della struttura  dei  delitti  di  mafia  e
delle   relative   connotazioni   criminologiche   nel   senso    che
l'appartenenza ad associazioni di tipo  mafioso  implica  un'adesione
permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel
territorio,  caratterizzato  da  una  fitta  rete   di   collegamenti
personali e dotato di particolare forza intimidatrice -  peculiarita'
che consentono di enucleare la  regola  di  esperienza  di  carattere
generale secondo la quale soltanto la  misura  cautelare  di  massima
afflittivita' puo' essere ritenuta idonea a fronteggiare le  esigenze
cautelari ed in particolare la necessita' di recidere i rapporti  tra
l'indiziato    e    l'ambito    delinquenziale    di    appartenenza,
neutralizzandone la pericolosita'. 
    E' proprio  partendo  dal  raffronto  con  tali   caratteristiche
strutturali che la Corte e' giunta ad una differente conclusione peri
delitti sessuali che, pur odiosi e riprovevoli, sono governati da una
regola di esperienza diversa, ossia quella secondo la quale  i  fatti
concreti   riferibili   a   tali   fattispecie,   sono    molteplici,
ricomprendono  condotte  nettamente  differenti  quanto  a  modalita'
lesive del bene protetto e possono essere caratterizzati dal fatto di
essere commessi all'interno di specifici contesti: presentano  dunque
disvalori differenziabili, ma soprattutto possono  proporre  esigenze
cautelari suscettibili di essere soddisfatte con diverse misure. 
    Le pronunce della Corte sopra analizzate consentono di  enucleare
precisi limiti rispetto ai quali misurare la costituzionalita'  della
disciplina derogatoria prevista dall'art. 275 comma  III  c.p.p.  con
riferimento ai reati introdotti dal D.L. del 2009 e, per cio' che qui
interessa,  al  reato  di  cui  all'art.  74 decreto  del  Presidente
della Repubblica n. 309/90. 
    Si tratta di limiti negativi, che derivano dall'operativita'  del
principio di non colpevolezz,a per cui  la  deroga  non  puo'  essere
giustificata ne' dalla gravita' astratta del reato  -  rilevante  nel
giudizio di determinazione della pena, ma non  idonea  a  fungere  da
elemento preclusivo ai  fini  della  verifica  della  sussistenza  di
misure cautelari -  ne'  dalla  necessita'  di  eliminare  o  ridurre
l'allarme sociale cagionato dal reato, che e' funzione  istituzionale
della pena perche' presuppone la certezza circa il responsabile della
persona che tale allarme ha provocato. 
    Ma vi sono anche limiti  positivi  costituiti  dal  rispetto  del
principio  di  ragionevolezza  posto  alla  base  del   giudizio   di
bilanciamento degli interessi tutelati  dall'ordinamento,  che  viene
declinato dalla Corte  nel  senso  di  ragionevole  possibilita',  in
relazione a specifiche fattispecie criminose, di enucleare regole  di
esperienza di carattere generale che consentano di formulare a priori
una valutazione di adeguatezza della sola misura cautelare carceraria
ed escludere, al contempo, la ragionevole possibilita' di  ipotizzare
accadimenti contrari a quelli considerati dalla regola di esperienza:
si tratta di una "prova di  resistenza"  da  effettuarsi  sulla  base
delle caratteristiche strutturali delle fattispecie  criminose  prese
in considerazione e  che  la  Corte  ha  affrontato  e  superato  con
riferimento ai delitti di mafia. 
    Il delitto di cui all'art. 74 d.P.R.  n.  309/90  e'  una  figura
speciale del delitto di associazione a delinquere che si  differenzia
da  questo  solo  per  la  specificita'  del   programma   criminoso,
costituito dalla commissione di  piu'  delitti  tra  quelli  previsti
dall'art. 73 d.P.R. n. 309/90. Le caratteristiche strutturali di tale
figura criminosa, per il resto, non divergono da quelle  proprie  del
reato associativo comune, come  e'  agevole  desumere  dalle  plurime
e ncordi pronunce della Suprema Corte che ne hanno delineato i tratti
distintivi  sottolineando  come   gli   elementi   essenziali   siano
costituiti dal carattere  indeterminato  del  programma  criminoso  e
dalla permanenza della struttura, non essendo necessario  un  accordo
consacrato in atti di costituzione, statuto, regolamento, iniziazione
o in altre manifestazioni di formale adesione, ne' una vera e propria
organizzazione con gerarchie interne e  distribuzione  di  specifiche
cariche  e  compiti,  ma  essendo  sufficiente  una  generica   forma
organizzativa, sia pure imperfetta e  rudimentale,  deducibile  dalla
predisposizione di  mezzi,  anche  semplici  ed  elementari,  per  il
perseguimento del fine comune. 
    Si tratta, dunque, di una fattispecie aperta  nella  quale,  come
insegna  l'esperienza,  ricadono  una  molteplicita'  e  varieta'  di
fenomeni criminali, anche  molto  differenti  l'uno  dall'altro,  che
vanno  dal  sodalizio   operante   a   livello   internazionale   con
ramificazioni in piu' Stati, strutturato secondo una vera  e  propria
struttura imprenditoriale che controlla anche la produzione oltre che
l'immissione dello  stupefacente,  a  fenomeni  intermedi  di  gruppi
attivi in parti piu' o meno estese del  territorio,  che  operano  in
regime di monopolio, in collegamento con canali di fornitura estranei
al sodalizio, fino ad arrivare a gruppi  radicati  in  ambiti  locali
molto  ristretti,  con  organizzazione  assai   rudimentale   (spesso
limitata  al  possesso  di  autovetture  o  telefoni  cellulare),  ma
comunque  caratterizzati   dalla   c.d.   affectio   societatis   che
costituisce il nucleo essenziale del reato associativo comune,  cosi'
come di quello di cui all'art. 74  d.P.R.  n.  309/90.  La  Corte  di
Cassazione ha  ravvisato  l'associazione  per  delinquere  anche  nel
vincolo che accomuna, in maniera durevole, il fornitore  della  droga
ed i venditori che la ricevono per immetterla nel consumo al  minuto,
non ritenendo di ostacolo alla costituzione del rapporto  associativo
la diversita' degli scopi personali e la differente  utilita'  che  i
singoli si propongono di ricavare, sempre che  vi  sia  da  parte  di
tutti  la  consapevolezza  di   operare   nell'ambito   di   un'unica
associazione  e  di  contribuire  con   i   ripetuti   apporti   alla
realizzazione del fine comune di trarre profitto dal commercio  della
droga (Cass., Sez. 7 agosto 1996, Timpani). 
    La  stessa  norma  incriminatrice  mostra   di   considerare   la
molteplicita' di forme di manifestazione di tale reato e  la  diversa
rilevanza delle  stesse  sul  piano  della  lesione  degli  interessi
tutelati  laddove,  al  comma   VI,   prevede   l'ipotesi   specifica
dell'associazione costituita per commettere  i  fatti  descritti  dal
comma V dell'art. 73, d.P.R. n. 309/90, con un rinvio  alle  sanzioni
previste dall'art. 416 primo e secondo comma c.p. 
    Appaiono quindi  evidenti  le  differenze  strutturali  tra  tali
fattispecie e quelle proprie dei reati di mafia che  giustificano,  a
giudizio della Corte costituzionale, la presunzione assoluta  di  cui
all'art. 275 comma III c.p.p.: i reati previsti dall'art.  74  d.P.R.
n. 309/90 non sono necessariamente connotati da forte radicamento del
territorio, da fitti collegamenti personali o  da  particolare  forza
intimidatrice.     Difettano     soprattutto     le      peculiarita'
dell'associazione mafiosa, peculiarita' storiche e sociologiche prima
ancora  che   giuridiche,   che   consistono   nell'adesione,   senza
possibilita' di recesso, ad un sistema illegale  parallelo  a  quello
dello Stato, consolidato nel tempo e preesistente nella sua struttura
essenziale rispetto ai singoli fenomeni associativi, basato su regole
proprie ed  alternative  a  quelle  democratiche  e  che,  attraverso
attivita' criminose che coinvolgono i  piu'  svariati  settori  della
vita pubblica e privata, mira ad interferire con le  istituzioni  per
assicurarsi potere e stabilita'. Sono queste le  caratteristiche  che
rendono possibile,  per  i  reati  di  mafia,  enucleare  una  regola
generale  di  esperienza  secondo  la  quale  soltanto  la   custodia
cautelare in carcere e' strumento idoneo a preservare  le  condizioni
di base della convivenza e  della  sicurezza  collettiva  che  simili
reati mettono a rischio. 
    Tale generalizzazione non appare possibile per  i  reati  di  cui
all'art. 74  d.P.R.  n.  309/90  per  i  quali,  invece,  si  possono
ragionevolmente ipotizzare  situazioni  di  gravita'  e  complessita'
differenziata, che incidono in maniera nettamente differente sul bene
giuridico tutelato costituito dall'ordine pubblico;  situazioni  che,
sotto il profilo cautelare, possono  essere  fronteggiate  anche  con
misure cautelari diverse, in  una  valutazione  che  tenga  conto  di
plurimi elementi, anche sopravvenuti rispetto al momento  applicativo
della misura, quali  ad  esempio  l'allentarsi  dei  legami  tra  gli
associati in ragione di prolungate detenzioni, o  il  superamento  di
condizioni  personali,  quali  lo  stato  di  tossicodipendenza,  che
talvolta favoriscono la creazione di  gruppi  criminali  dediti  allo
spaccio. 
    Accadimenti,  questi,  che  non   sono   invece   ragionevolmente
ipotizzabili per i reati di mafia che, secondo una regola generale di
esperienza, presuppongono un patto inscindibile tra gli associati che
resiste agli ostacoli costituiti  dalle  vicende  giudiziarie  e  che
presuppone una radicale scelta di vita alternativa alla legalita'. 
    Una  regola  generalizzata  di  esperienza  che  giustifichi   la
presunzione di adeguatezza di cui all'art. 275 comma III  c.p.p.  con
riferimento ai reati di cui all'art. 74 d.P.R. n. 309/90 non si  puo'
neppure trarre dal carattere di reato associativo che li  accomuna  a
quelli di mafia. Diversamente non  si  giustificherebbe  l'esclusione
dal novero dei reati introdotti dalla  novella  del  2009  dei  reati
associativi comuni in relazione ai quali tale presunzione non  opera(
fatta eccezione per ipotesi prevista dal comma VI dell'art. 416 c.p.)
Non e', dunque, su tale elemento strutturale che  puo'  fondarsi  una
giustificazione della disciplina derogatoria. 
    Ne' si possono operare generalizzazioni in ragione  della  natura
dei reati-scopo propri dell'associazione di cui all'art. 74 d.P.R. n.
309/90  e  della  tutela  particolarmente  rigorosa  approntata   dal
legislatore al bene della salute pubblica messo a repentaglio  da  un
fenomeno oramai capillare come quello dello spaccio di  stupefacente,
posto che, come ricordato dalla  Corte  Costituzionale,  la  gravita'
astratta del reato, sia in rapporto alla misura della pena, sia  alla
natura dell'interesse tutelato non puo' costituire una preclusione ai
fini della verifica del grado delle esigenze cautelari e della scelta
della misura piu' idonea a fronteggiarle, rilevando  invece  ai  fini
della commisurazione della sanzione o dell'esclusione  o  limitazione
di benefici o riti premiali - quali  ad  esempio  l'accesso  al  c.d.
patteggiamento allargato  o  la  concessione  dell'indulto  ai  sensi
dell'art. 1, comma 11, lett.  b) legge  n. 241/2006  -  istituti  che
attengono alla fase del giudizio di colpevolezza e che esulano  dalla
materia cautelare. 
    Alla luce  delle  considerazioni  sopra  esposte  ritiene  questo
giudice che la norma di cui all'art. 275 comma III  c.p.p.  contrasti
con il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione,
in quanto appare  irragionevole  l'estensione  della  presunzione  di
adeguatezza della sola misura cautelare carceraria ai  reati  di  cui
all'art. 74 d.P.R. n. 309/90, traducendosi  nella  previsione  di  un
uguale trattamento di situazioni differenti tra  loro  senza  che  vi
siano fondate ragioni per  impedire  la  "piena  individualizzazione"
della coercizione cautelare. 
    Di conseguenza la norma lede il principio di inviolabilita' della
liberta' personale tutelato dall'art. 13 Costituzione perche'  impone
il massimo sacrificio di tale bene primario all'esito di un  giudizio
di bilanciamento di interessi non corretto, in quanto non  rispettoso
del principio di ragionevolezza. 
    La  norma  contrasta,  infine,  con   la   presunzione   di   non
colpevolezza  prevista  dall'art.  27  comma  II  della  Costituzione
perche', vanificando il principio di adeguatezza in  difetto  di  una
ratio collegata alla struttura della  fattispecie  criminose  di  cui
all'art. 74 d.P.R. n. 309/90, affida  al  regime  cautelare  funzioni
proprie della sanzione penale che, per essere inflitta,  richiede  un
giudizio definitivo di responsabilita'. 
      
    Per questi motivi si impone la rimessione  della  questione  alla
Corte costituzionale, con conseguente sospensione del procedimento ed
immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.