Ordinanza nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'articolo 15, comma 3, del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 195 (Disposizioni urgenti per la cessazione dello stato di emergenza in materia di rifiuti nella regione Campania, per l'avvio della fase post emergenziale nel territorio della regione Abruzzo ed altre disposizioni urgenti relative alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed alla protezione civile), convertito, con modificazioni, in legge 26 febbraio 2010, n. 26, promosso dal Collegio arbitrale di Roma nel procedimento vertente tra l'Arcadia Costruzioni s.r.l. e l'Ufficio del Commissario delegato per l'emergenza ambientale nella Regione Calabria con ordinanza del 24 maggio 2010 iscritta al n. 203 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, 1ª serie speciale, dell'anno 2010. Visti l'atto di costituzione della Arcadia Costruzioni s.r.l. nonche' l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nell'udienza pubblica del 14 dicembre 2010 il giudice relatore Paolo Grossi; Uditi l'avvocato Maurizio Zoppolato per l'Arcadia Costruzioni s.r.l. e l'avvocato dello Stato Antonio Palatiello per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che il Collegio arbitrale di Roma, costituitosi in data 27 ottobre 2009 per decidere (in virtu' della clausola compromissoria contenuta in un contratto di appalto per la realizzazione di un depuratore, stipulato il 3 novembre 2003) una controversia tra una societa' di costruzioni e l'Ufficio del Commissario delegato per l'emergenza ambientale della Regione Calabria, con ordinanza del 24 maggio 2010 ha sollevato - in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 25, 41, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, «nonche' al principio comunitario di legittimo affidamento» - questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 15, comma 3, del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 195 (Disposizioni urgenti per la cessazione dello stato di emergenza in materia di rifiuti nella regione Campania, per l'avvio della fase post emergenziale nel territorio della regione Abruzzo ed altre disposizioni urgenti relative alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed alla protezione civile), convertito, con modificazioni, in legge 26 febbraio 2010, n. 26, in base al quale «Al fine di assicurare risparmi di spesa, i compromessi e le clausole compromissorie inserite nei contratti stipulati per la realizzazione d'interventi connessi alle dichiarazioni di stato di emergenza ai sensi dell'art. 5, comma 1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225, e di grande evento di cui all'art. 5-bis del decreto-legge 7 settembre 2001, n. 343, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 novembre 2001, n. 401, sono nulli. Sono fatti salvi i collegi arbitrali presso cui pendono i giudizi per i quali la controversia abbia completato la fase istruttoria alla data di entrata in vigore del presente decreto»; che, affermata la necessita' di valutare pregiudizialmente l'eccezione di nullita' della clausola compromissoria, proposta dalla difesa della parte pubblica in ragione appunto della operativita' della previsione in esame, il Collegio ritiene, in termini di rilevanza della questione, che la sopravvenuta normativa - che il rimettente reputa non direttamente disapplicabile, nonostante l'invocata contrarieta' della stessa ai principi' espressi dall'articolo 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e dall'art. 47 della Carta Europea dei diritti fondamentali - trovi applicazione anche nel giudizio arbitrale a quo, non ancora pervenuto alla conclusione della fase istruttoria; che, nel merito, il Collegio rimettente denuncia innanzitutto la violazione dei principi' costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata del processo, con riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, in quanto - a parte il generico fine di risparmio di spesa - la previsione della decadenza di giudizi arbitrali correttamente instaurati e della attribuzione del contendere alla giurisdizione ordinaria, oltre che violare il principio codificato dall'art. 5 del codice di procedura civile, si tradurrebbe necessariamente in un notevole ed ingiustificato prolungamento del contendere, derivante anche dalla necessita' di ripetere un'attivita' processuale gia' svolta, a cagione dell'impossibilita' (stante il disposto dell'articolo 819-ter cod. proc. civ.) di dar luogo ad una translatio iudicii dal processo arbitrale al processo giurisdizionale; che, sotto altro profilo, il Collegio denuncia la violazione dell'art. 25 Cost., in quanto - poiche' la norma sancisce retroattivamente la decadenza di un giudizio regolarmente instaurato, quale quello a quo (profilandosi quindi «conseguenze che contrastano con l'applicazione della norma generale di cui all'art. 5 c.p.c.») - «si impone di chiarire se, essendo la competenza arbitrale cristallizzata in un contratto avente forza di legge tra le parti ed essendo il Collegio arbitrale gia' costituito questo potra' essere ritenuto giudice naturale»; che, il rimettente - rilevando che la decadenza retroattiva riguarda unicamente le clausole compromissorie che accedono a contratti stipulati a norma dell'art. 5, comma 1, della richiamata legge 24 febbraio 1992, n. 225 (Istituzione del Servizio nazionale della protezione civile), la cui ratio e' quella di porre fine celermente a situazioni di emergenza ed alle relative controversie - ritiene che la norma contrasti anche con l'art. 3 Cost., in ragione della irragionevole contraddizione tra le finalita' della normativa dell'emergenza e l'obiettivo di contenimento della spesa perseguito dalla norma medesima, nonche' della altrettanto illogica discriminazione tra le parti degli arbitrati in corso, giacche' l'azzeramento di un giudizio gia' inoltrato sarebbe condizionato da un elemento (il «completamento» della fase istruttoria) non uniformemente disciplinato dalla legge; che, ancora, il Collegio denuncia la violazione degli artt. 3 e 24 Cost. e del «principio comunitario di legittimo affidamento», in quanto l'applicazione della norma vanificherebbe retroattivamente un processo ritualmente avviato da mesi e legittimamente coltivato, sacrificando in termini irragionevoli il diritto di difesa dell'attore; che, inoltre, il rimettente deduce che la previsione della decadenza di giudizi ritualmente instaurati, comporterebbe anche un'irragionevole lesione dell'autonomia privata (e quindi la violazione dell'art. 41, nonche' degli artt. 24 e 25 Cost.); che, infine, il Collegio denuncia la violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., «in quanto sia il principio del giudice precostituito per legge che quello di ragionevole durata del processo sono sanciti, oltre che direttamente dalla Carta Costituzionale, anche dall'art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, nonche' dall'art. 47 della Carta Europea dei diritti fondamentali»; che si e' costituita la societa' appaltatrice la quale, aderendo integralmente alle argomentazioni svolte nell'ordinanza di rimessione, ha concluso chiedendo la declaratoria di incostituzionalita' della norma censurata, per i medesimi motivi esposti dal Collegio; che e' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio del ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilita' o di infondatezza della questione, contestando innanzitutto le censure riferite agli artt. 2, 3, 24 e 111 Cost., in quanto gli asseriti inconvenienti derivanti dall'azzeramento del processo potrebbero semmai esser fatti valere davanti al tribunale ordinario, ove questo dovesse negare l'operativita' delle regole della translatio iudicii, sancite da norme diverse da quella oggetto di censura; che, inoltre, in relazione alla denunciata violazione dell'art. 25 Cost., la difesa erariale sostiene l'inconferenza del richiamo ai principi' di cui all'art. 5 cod. proc. civ., attesa la natura sostanziale della nullita' sancita dalla norma censurata, e deduce altresi' come il parametro evocato non si riferisca al giudizio arbitrale, che e' di per se' un'eccezione al sistema del giudice naturale; mentre poi - negata altresi' la configurabilita' della dedotta irragionevolezza della norma denunciata, che viceversa soddisferebbe il fine del notevole risparmio di spesa per la P.A. sugli onorari degli arbitri - l'Avvocatura sostiene l'infondatezza della censura riferita alla violazione del principio dell'affidamento (ex art. 3 Cost.), giacche' il menzionato art. 5 cod. proc. civ. non gode di copertura costituzionale; che, infine - affermato che l'autonomia privata (garantita dall'art. 41 Cost.) non e' incompatibile con la prefissione di limiti a tutela di interessi generali -, l'Avvocatura dello Stato, con riferimento alla denunciata violazione dei vincoli derivanti dalle convenzioni internazionali e dalla disciplina comunitaria, osserva che la norma censurata sarebbe conforme al principio del giudice naturale precostituito (rafforzandolo anzi in ragione del venir meno della operativita' di una eccezione a tale principio) e non inciderebbe sulla durata del processo che non diventerebbe irragionevole per il sol fatto che debba essere adito ex novo il giudice ordinario. Considerato che il Collegio arbitrale di Roma dubita - in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 41, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, «nonche' al principio comunitario di legittimo affidamento» - della legittimita' costituzionale dell'articolo 15, comma 3, del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 195 (Disposizioni urgenti per la cessazione dello stato di emergenza in materia di rifiuti nella regione Campania, per l'avvio della fase post emergenziale nel territorio della regione Abruzzo ed altre disposizioni urgenti relative alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed alla protezione civile), convertito, con modificazioni, in legge 26 febbraio 2010, n. 26; che la disposizione prevede che: «Al fine di assicurare risparmi di spesa, i compromessi e le clausole compromissorie inserite nei contratti stipulati per la realizzazione d'interventi connessi alle dichiarazioni di stato di emergenza ai sensi dell'art. 5, comma 1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225, e di grande evento di cui all'art. 5-bis del decreto-legge 7 settembre 2001, n. 343, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 novembre 2001, n. 401, sono nulli. Sono fatti salvi i collegi arbitrali presso cui pendono i giudizi per i quali la controversia abbia completato la fase istruttoria alla data di entrata in vigore del presente decreto»; che, preliminarmente - dal contenuto delle doglianze, dalla natura dei parametri evocati e dalle argomentazioni svolte a sostegno della non manifesta infondatezza dei dubbi di costituzionalita' - e' agevole desumere che il rimettente richiede una pronuncia che venga ad estendere la portata della clausola di salvezza contenuta nel secondo periodo di tale disposizione, attraverso una applicabilita' della medesima a tutti i giudizi arbitrali instaurati al momento dell'entrata in vigore del decreto-legge in oggetto; che, cio' premesso in termini di individuazione del petitum e venendo al merito, il rimettente censura innanzitutto la norma per violazione degli articoli 2, 3, 24 e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, in quanto - a parte il generico fine di risparmio di spesa - la previsione della decadenza di giudizi arbitrali correttamente instaurati e della attribuzione del contendere alla giurisdizione ordinaria, oltre che violare il principio codificato dall'art. 5 del codice di procedura civile, si tradurrebbe necessariamente in un notevole ed ingiustificato prolungamento del contendere, derivante anche dalla necessita' di ripetere un'attivita' processuale gia' svolta, a cagione dell'impossibilita' di dar luogo ad una translatio iudicii dal processo arbitrale al processo giurisdizionale; che questa Corte (con la sentenza n. 376 del 2001 e con le ordinanze n. 169 del 2009, n. 122 e n. 11 del 2003) si e' gia' pronunciata, con riferimento a profili in parte coincidenti, nel senso della infondatezza dei dubbi a suo tempo espressi circa la legittimita' costituzionale della analoga normativa di cui all'articolo 3, comma 2, del decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180 (Misure urgenti per la prevenzione del rischio idrogeologico ed a favore delle zone colpite da disastri franosi nella regione Campania), secondo la quale: «Le controversie relative alla esecuzione di opere pubbliche comprese in programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamita' naturali non possono essere devolute a collegi arbitrali. Sono fatti salvi i lodi gia' emessi e le controversie per le quali sia stata gia' notificata la domanda di arbitrato alla data di entrata in vigore del presente decreto»; che, anche nel presente giudizio - premesso che «la discrezionalita' di cui il legislatore gode nell'individuazione delle materie sottratte alla possibilita' di compromesso incontra il solo limite della manifesta irragionevolezza» (citata sentenza n. 376 del 2001) -, va escluso che (come gia' allora rilevato per le opere di ricostruzione dei territori colpiti da calamita' naturali) siffatto limite possa dirsi superato dalla normativa oggi in esame, considerata l'identita' del «rilevante interesse pubblico» di cui risulta permeata anche la materia relativa alla realizzazione d'interventi connessi alle dichiarazioni di stato di emergenza, «in ragione dell'elevato valore delle relative controversie e della conseguente entita' dei costi che il ricorso ad arbitrato comporterebbe per le pubbliche amministrazioni interessate» (ordinanza n. 162 del 2009); che, pertanto - poiche' «le scelte legislative in materia di arbitrato nei lavori pubblici necessariamente si giustificano in funzione delle specifiche contingenze che caratterizzano le singole iniziative della pubblica amministrazione (cfr. sentenza n. 152 del 1996)» - va ribadito, in termini generali, che la valutazione del legislatore di escludere la compromettibilita' in arbitri delle controversie in questione, mediante la declaratoria di nullita' delle relative clausole compromissorie, «deve essere apprezzata, sul piano della relativa non manifesta irragionevolezza, in funzione di tutte le singole componenti (siano esse di ordine economico, di ordine funzionale, o di opportunita') che concorrono ad orientare la scelta di riservarle al controllo giurisdizionale» (ordinanza n. 162 del 2009); mentre, la sottolineata rilevante entita' dei costi degli arbitrati gravanti sulla P.A. conferma che la previsione di tale esclusione non appare certamente incongrua (e tantomeno manifestamente irragionevole) rispetto allo specifico fine del risparmio di spesa esplicitato dalla norma impugnata; che, dunque, la conseguenza della perdita di un parte di attivita' concretamente espletata negli arbitrati in corso (che, pur sempre, traggono origine dalla libera scelta delle parti di rinunciare alla giurisdizione, attraverso un atto di disposizione in senso negativo del diritto di azione: sentenza n. 221 del 2005), appare ampiamente giustificata nel contesto del bilanciamento con le esigenze, tanto piu' sentite in un contesto di crisi economica globale, di contenimento della spesa pubblica; che, poi, con riguardo alla argomentazione riferita alla necessita' (incidente in senso negativo sul principio di ragionevole durata del processo e su quello di cui all'art. 5 cod. proc. civ.) per i soggetti interessati di avviare ex novo l'azione davanti al giudice ordinario, senza potersi dar luogo alla translatio iudicii dal processo arbitrale a quello giurisdizionale (che per il Collegio non sarebbe consentita ex art. 819-ter, secondo comma, cod. proc. civ.), va ritenuto che - anche a voler ritenere rilevante una tale problematica per il giudice a quo, considerato che questa Corte ha affermato che «la conservazione degli effetti prodotti dalla domanda originaria discende non gia' da una dichiarazione del giudice che declina la propria giurisdizione, ma direttamente dall'ordinamento» (sentenza n. 77 del 2007) - il rimettente, in ragione della interpretazione ad essa data, avrebbe dovuto, semmai, censurare tale ultima previsione codicistica; che - quanto alla denunciata violazione dell'art. 25 Cost., che, secondo il rimettente deriverebbe dalla previsione di una decadenza retroattiva di un giudizio regolarmente instaurato, quale quello a quo, profilandosi quindi «conseguenze che contrastano con l'applicazione della norma generale di cui all'art. 5 c.p.c.» - va innanzitutto ribadito che il testo dell'evocato parametro fa riferimento al giudice naturale precostituito per legge (ordinanze n. 162 del 2010 e n. 11 del 2003) e non a quello, derogatorio, previsto contrattualmente dalle parti; che, peraltro, questa Corte ha ritenuto che - nel contesto della ricordata ampia discrezionalita' di cui gode il legislatore in materia - gli interventi legislativi modificativi della competenza aventi incidenza anche sui processi in corso non sono necessariamente lesivi dell'art. 25 Cost. (sentenze n. 417 e n. 237 del 2007), e che «il principio costituzionale del giudice naturale viene rispettato allorche' la legge, sia pure con effetto anche sui processi in corso, modifica in generale i presupposti o i criteri in base ai quali deve essere individuato il giudice competente: in questo caso, infatti, lo spostamento della competenza dall'uno all'altro ufficio giudiziario non avviene in conseguenza di una deroga alla disciplina generale, che sia adottata in vista di una determinata o di determinate controversie, ma per effetto di un nuovo ordinamento - e, dunque, della designazione di un nuovo giudice naturale - che il legislatore, nell'esercizio del suo insindacabile potere di merito, sostituisce a quello vigente» (sentenza n. 237 del 2007); che tale affermazione consente anche di superare il profilo riguardante l'asserita violazione dell'art. 5 cod. proc. civ., che, quale norma processuale avente lo scopo di favorire la perpetuatio iurisdictionis (ordinanza n. 363 del 2008), e' servente alla realizzazione dei singoli principi' costituzionali in materia, ma non puo' assurgere ad autonomo parametro di giudizio di costituzionalita'; che, il rimettente denuncia altresi' la violazione dell'art. 3 Cost., in considerazione della asserita irragionevole contraddizione tra le finalita' della normativa dell'emergenza richiamata dalla disposizione impugnata e l'obiettivo di contenimento della spesa perseguito dalla disposizione medesima, nonche' della altrettanto illogica discriminazione tra le parti degli arbitrati in corso, giacche' l'azzeramento di un giudizio gia' inoltrato sarebbe condizionato da un elemento (il «completamento» della fase istruttoria) non uniformemente disciplinato dalla legge; che, in proposito, va rimarcato che - ritenuta congrua l'esclusione del ricorso ad arbitri rispetto al fine del risparmio di spesa, esplicitato dalla norma in esame (in un contesto in cui necessita di affermazione l'esigenza, globalmente sentita, di contenimento della spesa pubblica) - viene meno qualsiasi dubbio di irragionevolezza della norma censurata; laddove, peraltro, non appare possibile operare una comparazione (onde evincerne una contraddizione, come asserito dal rimettente) tra lo scopo perseguito (con misure ritenute adeguate) dalla disposizione in esame e la teleologicamente del tutto eterogenea ratio della legislazione riguardante gli interventi connessi alle dichiarazioni di stato di emergenza (di cui all'art. 5, comma 1, della legge n. 225 del 1992), che la norma impugnata richiama solo al fine di delimitare l'ambito di operativita' della nullita' delle clausole compromissorie de quibus; che, d'altra parte, questa Corte ha gia' chiarito che nessuna lesione del principio di eguaglianza puo' ravvisarsi nel fatto che controversie di uguale natura ed oggetto siano assoggettate o meno al divieto di arbitrato a seconda della fase in cui si trova il giudizio al momento dell'intervento del legislatore; infatti, il naturale fluire del tempo costituisce idoneo elemento di differenziazione delle situazioni soggettive, cosicche' non sussiste alcuna ingiustificata disparita' di trattamento per il solo fatto che situazioni pur identiche siano soggette a diversa disciplina ratione temporis (sentenza n. 376 del 2001 ed ordinanza n. 162 del 2009), mentre costituisce esercizio della discrezionalita' del legislatore la scelta (in se' non arbitraria) di collegare l'operativita' della clausola di salvezza all'intervenuto completamento della fase istruttoria (regolamentata dall'art. 816-ter cod. proc. civ.) e quindi ad un determinato formale stato di avanzamento del giudizio arbitrale; che altra censura e' sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. ed al «principio comunitario di legittimo affidamento», in quanto l'applicazione della norma vanificherebbe retroattivamente un processo ritualmente avviato da mesi e legittimamente coltivato, sacrificando in termini irragionevoli il diritto di difesa dell'attore; che - premessa la assoluta genericita' del riferimento al «principio comunitario di legittimo affidamento», che il rimettente si limita ad associare in combinato disposto con gli altri due evocati principi' costituzionali - la giurisprudenza costante di questa Corte ritiene che «nel nostro sistema costituzionale non e' affatto interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, anche se l'oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti (salvo, ovviamente, in caso di norme retroattive, il limite imposto in materia penale dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione)»; unica condizione essendo «che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l'affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello stato di diritto» (sentenze a n. 302 del 2010, n. 236 e n. 206 del 2009); che, invero, come gia' ritenuto, l'intervento sugli arbitrati, in quanto finalizzato al risparmio di spesa, non puo' dirsi irragionevole, giacche' tra l'altro «l'assetto recato dalla norma denunciata riguarda anche il complessivo riequilibrio delle risorse e non puo', pertanto, [essa] non essere attenta alle esigenze di bilancio» (sentenza n. 228 del 2010); ed, inoltre, la non configurabilita' di una regolamentazione irrazionale determina l'infondatezza anche dell'ulteriore profilo di censura riferito alla asserita violazione del diritto di difesa dell'attore, che - al pari della controparte - e' libero di proporre in ogni tempo il processo davanti all'autorita' giudiziaria; che il rimettente denuncia, inoltre, la violazione degli artt. 24, 25 e 41 Cost., in quanto la previsione della decadenza di giudizi ritualmente instaurati comporterebbe anche un'irragionevole lesione dell'autonomia privata; che, tuttavia, questa Corte ha gia' sottolineato che la riconosciuta sussistenza del «rilevante interesse pubblico, di cui risulta permeata la materia relativa alle opere di ricostruzione dei territori colpiti da calamita' naturali» (considerazione che si deve estendere alla analoga materia afferente la realizzazione d'interventi connessi alle dichiarazioni di stato di emergenza), consente di disattendere anche la censura riguardante una asserita irragionevole limitazione della autonomia privata derivante dal contestato divieto di devoluzione ad arbitri delle controversie de quibus (ordinanza n. 162 del 2009), poiche' l'art. 41 Cost. espressamente «tutela l'autonomia contrattuale in quanto strumento della liberta' di iniziativa economica, il cui esercizio puo' tuttavia essere limitato per ragioni di utilita' economico-sociale, che assumono anch'esse rilievo a livello costituzionale (sentenze n. 279 del 2006 e n. 264 del 2005)» e coerentemente anche l'art. 806 cod. proc. civ. prevede la possibilita' di devoluzione ad arbitri delle controversie «salvo espresso divieto di legge»; che, per i vari motivi espressi, tutte le censure finora esaminate sono manifestamente infondate; che, infine - quanto alla questione riferita all'art. 117, primo comma, Cost., per violazione del principio del giudice precostituito per legge e di quello di ragionevole durata del processo sanciti, oltre che direttamente dalla Carta Costituzionale, anche dall'art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, nonche' dall'art. 47 della Carta Europea dei diritti fondamentali - va rilevato che la prospettazione di tale ultima censura appare basata apoditticamente sulla mera affermazione che tali principi' risultino «sostanzialmente corrispondenti» a quelli «espressi dalla Costituzione italiana»; che cosi' argomentando il Collegio rimettente - che, quanto al richiamo alla Carta di Nizza, neppure si pone il problema pregiudiziale dell'applicabilita' della normativa comunitaria alla controversia in esame - non da', altresi', contezza alcuna ne' dell'esistenza di specifiche interpretazioni nel senso auspicato da parte della Corte di Strasburgo dell'evocato principio della CEDU, ne' di una valenza della norma della Carta recepita nel Trattato di Lisbona che consentano di configurare (almeno in tesi) la eventuale operativita' di un plus di tutela convenzionale o comunitaria rispetto a quella interna (sentenza n. 317 del 2009); che, pertanto, tale ultima censura e' manifestamente inammissibile.