Sentenza 
 
nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'articolo 5-bis, commi
3 e 4 del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il
risanamento della finanza pubblica), convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, nonche'  dell'articolo  16,  commi
quarto e quinto (recte: commi quinto e sesto) della legge 22  ottobre
1971, n. 865 (Programmi e  coordinamento  dell'edilizia  residenziale
pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilita'; modifiche
ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18  aprile  1962,
n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed  autorizzazione  di  spesa  per
interventi  straordinari  nel  settore  dell'edilizia   residenziale,
agevolata e convenzionata), come sostituiti  dall'articolo  14  della
legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilita' dei suoli),
promossi dalla Corte d'appello di Napoli, con ordinanze del 7  aprile
e del 19 marzo 2010 e dalla Corte d'appello di  Lecce  con  ordinanza
dell'8 ottobre 2010, rispettivamente iscritte ai nn. 305, 351  e  399
del registro ordinanze 2010 e  pubblicate  nella  Gazzetta  Ufficiale
della Repubblica nn. 42 e 47, prima serie speciale, dell'anno 2010  e
n. 1, prima serie speciale, dell'anno 2011. 
    Visti gli atti di costituzione di F. L., di F. N. W., del  Comune
di Salerno,  nonche'  gli  atti  di  intervento  del  Presidente  del
Consiglio dei ministri; 
    Udito nell'udienza pubblica del 10 maggio 2011 e nella camera  di
consiglio  dell'11  maggio  2011  il  Giudice   relatore   Alessandro
Criscuolo; 
    Uditi gli avvocati Giorgio Stella Richter per  F.  L.,  Edilberto
Ricciardi per il Comune di Salerno e l'avvocato dello  Stato  Giacomo
Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - La Corte di appello di Napoli, con ordinanza  depositata  il
19 marzo 2010 (r. o. n. 351 del 2010), ha sollevato,  in  riferimento
agli  artt.  3,  42,  terzo  comma,  e  117,   primo   comma,   della
Costituzione,  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
5-bis, comma 4, del decreto-legge 11  luglio  1992,  n.  333  (Misure
urgenti per il risanamento della finanza pubblica),  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359,  nonche'  dell'art.
16, commi quarto e quinto (recte: commi quinto e sesto)  della  legge
22 ottobre 1971, n.  865  (Programmi  e  coordinamento  dell'edilizia
residenziale  pubblica;  norme  sulla  espropriazione  per   pubblica
utilita'; modifiche ed integrazioni alle leggi  17  agosto  1942,  n.
1150; 18  aprile  1962,  n.  167;  29  settembre  1964,  n.  847;  ed
autorizzazione di  spesa  per  interventi  straordinari  nel  settore
dell'edilizia  residenziale,   agevolata   e   convenzionata),   come
sostituiti dall'art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per
la edificabilita' dei suoli). 
    2. -  La  Corte  territoriale  riferisce  di  essere  chiamata  a
pronunziarsi in un giudizio, promosso dalla  signora  N.  W.  F.  nei
confronti del Comune di Montoro Superiore e diretto  ad  ottenere  la
condanna di quest'ultimo al pagamento (tra  l'altro)  dell'indennita'
di  espropriazione  e  dell'indennita'  di   occupazione   legittima,
relative all'esproprio di un suolo, appartenente all'attrice, situato
nel territorio del detto ente. In una  prima  fase  del  processo  il
consulente  di  ufficio  aveva  rilevato  che  il  terreno,  pur   se
classificato come agricolo nel piano di  fabbricazione  adottato  dal
Comune di  Montoro  Superiore,  era  ubicato  a  ridosso  del  centro
cittadino, in una zona in possesso di tutte  le  caratteristiche  dei
suoli edificatori, e sicuramente appetibile anche in vista di un  suo
possibile sfruttamento per fini diversi dall'edificazione, sicche' lo
aveva valutato in lire 55.851 al mq.,  con  riferimento  al  dicembre
1982; successivamente era stata disposta una nuova consulenza,  volta
a verificare se, alla data del decreto di esproprio (20 marzo  1985),
il suolo de quo avesse valore agricolo o edificabile e a  determinare
l'importo delle due indennita'. Il consulente aveva accertato che  il
terreno in questione era classificato nel catasto terreni del  Comune
di Montoro Superiore come "seminativo arborato" e  che,  in  base  al
programma di fabbricazione vigente nel Comune dal 30 ottobre 1972  al
12 maggio 1997, era, per la sua maggiore estensione, destinato ad uso
pubblico per servizi vari, per una parte minore inserito in zona B di
completamento e per una terza parte interessato alla realizzazione di
una strada. Tuttavia, in base  alle  prescrizioni  del  programma  di
fabbricazione, nella zona B dell'area espropriata era  precluso  ogni
tipo di edificazione e non era consentita neppure la  costruzione  in
aderenza  con  l'edificio,  di  proprieta'  dell'attrice,  con   essa
confinante, soggetto,nel piano di recupero del  Comune,  soltanto  ad
interventi di restauro e di risanamento conservativo. 
    Una  volta  accertata  la  non  edificabilita'  del   suolo,   il
consulente aveva applicato i criteri di liquidazione delle indennita'
stabiliti dagli artt. 16 e 20 della legge n. 865 del 1971, cui rinvia
l'art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992 e,  rilevato  che  il
Comune di Montoro Superiore ricadeva nella regione agraria n. 8 della
Provincia di Avellino e che, nel 1985,  in  tale  regione  il  valore
agricolo medio di un terreno seminativo arborato era di lire 1.200  a
mq.,  aveva  determinato  l'indennita'  di  espropriazione  spettante
all'attrice in complessivi euro 588,76 (lire 1.140.000) e  quella  di
occupazione in complessivi euro 49,06. 
    Tanto  premesso,  la  Corte  rimettente,  chiamata   a   decidere
unicamente della misura  delle  indennita'  di  espropriazione  e  di
occupazione  spettanti   all'attrice,   dubita   della   legittimita'
costituzionale dell'art. 5-bis,  comma  4,  d.l.  n.  333  del  1992,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del  1992,  nonche'
dell'art. 16, quinto e sesto comma, della legge n. 865 del 1971, come
sostituiti dall'art. 14 legge  n.  10  del  1977,  «che,  secondo  il
diritto vivente, sono tuttora in vigore esclusivamente  con  riguardo
alle aree non aventi destinazione edilizia». 
    Ad avviso della rimettente tali disposizioni, non suscettibili di
un'interpretazione  diversa  da  quella  letterale,  stabiliscono  un
criterio di  determinazione  dei  suoli  agricoli  e  dei  suoli  non
edificabili del  tutto  disancorato  dal  loro  effettivo  valore  di
mercato. 
    Invero - la Corte di  merito  prosegue  -  «ancorche'  non  possa
escludersi che valore di mercato e valore agricolo medio (V.A.M.)  di
tali categorie di immobili siano talvolta, in concreto,  coincidenti,
non v'e' dubbio che assai  spesso  il  primo  valore  risulti  (anche
notevolmente) superiore al secondo, in quanto l'appetibilita'  di  un
terreno sul mercato non dipende solo dalla sua edificabilita', ma  da
molteplici altri fattori, primi fra  tutti  la  sua  posizione  e  le
concrete possibilita' di suo  sfruttamento  per  fini  diversi  dalla
coltivazione». 
    La questione sarebbe rilevante nel  presente  giudizio.  Infatti,
sarebbe rimasto accertato che il valore di  mercato  del  terreno  in
questione era stato calcolato in lire 65.000 al mq., con  riferimento
al gennaio 1986 (previa rivalutazione a tale data del valore di  lire
55.851 al mq., riferito al dicembre 1982), mentre il valore  agricolo
medio della coltura in atto sul suolo era, nel 1985, di  appena  lire
1.200 al mq. o, al piu', di  lire  6.200  al  mq.  (volendo  ritenere
erronea la determinazione del C.T.U. per non  aver  considerato  che,
trattandosi di terreno compreso in un centro edificato,  l'indennita'
si sarebbe dovuta commisurare al valore agricolo medio della  coltura
piu' redditizia tra quelle che, nella regione agraria, coprivano  una
superficie superiore al 5 per cento di quella coltivata nella regione
stessa). 
    Inoltre,  il  suolo  di  proprieta'  della  F.   era   certamente
inedificabile,  avuto  riguardo  alla  natura  conformativa  (e   non
espropriativa) dei vincoli su di esso gravanti, all'inesistenza di un
presunto giudicato  sull'edificabilita'  di  fatto  del  suolo,  alla
costante giurisprudenza della Corte di cassazione, integrante un vero
e proprio diritto  vivente,  alla  stregua  della  quale  il  sistema
introdotto dall'art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992  si  caratterizza
per una rigida dicotomia, con esclusione di un "tertium  genus",  tra
"aree edificabili" ed "aree  agricole"  o  "non  classificabili  come
edificabili". 
    Al criterio dell'edificabilita' di fatto, dunque, potrebbe  farsi
riferimento in via complementare ed integrativa, agli  effetti  della
determinazione del concreto valore di mercato dell'area  espropriata,
soltanto nelle ipotesi (estranee al caso in esame) in cui  sussistano
cause  idonee  a  ridurre  o  escludere  le  possibilita'  reali   di
edificazione o in cui difetti una classificazione del suolo da  parte
della pianificazione urbanistica. 
    Si dovrebbe, percio', concludere che, trattandosi di giudizio  in
corso alla data di entrata in vigore della legge  n.  359  del  1992,
l'indennita' di esproprio andrebbe liquidata alla stregua dei criteri
dettati dalle norme  censurate,  con  la  conseguenza  che  la  somma
spettante alla parte privata per tale titolo risulterebbe irrisoria. 
    In questo quadro, sarebbe ravvisabile, in primo luogo, violazione
dell'art. 117, primo comma, Cost., per contrasto  delle  dette  norme
con l'art. 1 del primo protocollo addizionale della  Convenzione  per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali,
ratificata dalla legge n. 848 del 1955. 
    Il giudice a quo riassume, al riguardo, i principi  affermati  da
questa Corte con le sentenze n. 348 e n. 349 del  2007,  richiama  il
dettato della citata norma convenzionale e sottolinea  che  la  Corte
europea dei diritti dell'uomo ha interpretato tale norma in  numerose
sentenze, «dando vita ad un orientamento ormai consolidato, formatosi
anche in processi concernenti la disciplina ordinaria dell'indennita'
di espropriazione,  secondo  il  quale  una  misura  che  costituisce
un'ingerenza nel diritto al rispetto dei beni di una persona fisica o
giuridica deve realizzare un "giusto equilibrio" tra le  esigenze  di
interesse generale della comunita' ed il principio della salvaguardia
dei diritti e delle liberta' fondamentali». 
    La necessita' di salvaguardare  detto  equilibrio  riguarderebbe,
secondo la Corte europea, tutto il contenuto dell'art.  1  del  primo
protocollo. 
    Al fine  di  stabilire  se  le  misure  adottate  da  uno  Stato,
nell'interesse generale, garantiscano  un  giusto  equilibrio  e  non
riversino sul proprietario un peso sproporzionato,  andrebbero  prese
in considerazione le  modalita'  d'indennizzo  previste  dalle  leggi
interne. A questo proposito la Corte di Strasburgo avrebbe  osservato
che, senza il versamento di una  somma  ragionevole  in  rapporto  al
valore del bene, la  privazione  della  proprieta'  che  si  realizza
attraverso l'esproprio costituisce normalmente un'ingerenza eccessiva
in violazione dell'art. 1 del primo protocollo, aggiungendo  che,  in
caso di espropriazione isolata di un terreno, soltanto un  indennizzo
integrale puo' essere considerato ragionevole, mentre la mancanza  di
un  tale  indennizzo  puo'  giustificarsi  soltanto  in  presenza  di
obiettivi legittimi di pubblica utilita', volti a  perseguire  misure
di riforma economica o di giustizia sociale. 
    Ad  avviso  della  Corte  territoriale  la  normativa  censurata,
prevedendo  un  criterio   di   determinazione   dell'indennita'   di
esproprio, per  i  suoli  agricoli  e  per  quelli  non  edificabili,
astratto e predeterminato (qual e' quello del valore  agricolo  medio
della coltura in atto o  di  quella  piu'  redditizia  nella  regione
agraria di appartenenza dell'area da espropriare), quindi  del  tutto
svincolato dal valore di mercato dei suoli  stessi,  non  sarebbe  in
grado di assicurare all'avente  diritto  un  indennizzo  integrale  o
almeno "ragionevole", cosi' ponendosi in contrasto con l'art.  1  del
primo protocollo, nell'interpretazione data dalla Corte europea. 
    Andrebbe escluso, poi,  che  tale  interpretazione  si  ponga  in
conflitto con la  tutela  di  interessi  costituzionalmente  protetti
contenuta in altri articoli della Costituzione. Infatti, anche l'art.
42, terzo comma, Cost. sarebbe stato interpretato da questa Corte nel
senso che, per quanto il legislatore non sia tenuto ad individuare un
unico criterio di  determinazione  dell'indennita',  valido  in  ogni
fattispecie  espropriativa  o  idoneo   ad   assicurare   l'integrale
riparazione  della  perdita  subita  dal  proprietario   espropriato,
l'indennita' medesima non  deve  mai  essere  meramente  simbolica  o
irrisoria, ma deve rappresentare un serio ristoro (e'  richiamata  la
sentenza di questa Corte n. 5 del 1980). 
    E' vero che, con sentenza  n.  261  del  1997,  questa  Corte  ha
dichiarato non fondata la questione  di  legittimita'  costituzionale
della normativa censurata, sollevata in  riferimento  agli  artt.  3,
primo comma, 24 e 42, terzo comma,  Cost.  La  questione,  pero',  in
quella sede sarebbe stata  affrontata  in  base  a  rilievi  diversi,
sicche' la Corte si sarebbe limitata ad osservare  che  la  soluzione
adottata dal legislatore per semplificare  il  calcolo  indennitario,
ancorche' non obbligata,  non  era  irragionevole  o  arbitraria,  in
quanto di per se' non pregiudicava il serio ed effettivo ristoro  del
proprietario espropriato. 
    In questa sede, invece, verrebbe  in  evidenza  l'interpretazione
data dalla Corte  di  Strasburgo  all'art.  1  del  primo  protocollo
addizionale, in base alla quale non  potrebbe  ritenersi  ragionevole
qualsiasi criterio di determinazione  dell'indennita'  che  prescinda
dal dato di partenza, costituito  dal  valore  di  mercato  del  bene
espropriato, «non dovendosi piu' valutare se la norma interna di  per
se' "non pregiudichi" il serio ed effettivo ristoro della perdita del
bene ma, piuttosto, se essa sia in grado di assicurare  tale  ristoro
in ogni fattispecie in cui debba trovare applicazione e non  solo  in
via occasionale, in virtu' di fattori casuali e  contingenti,  legati
alla specifica situazione del terreno ablato». 
    In tale prospettiva - prosegue la Corte  territoriale  -  «e'  la
stessa dicotomia immaginata dal legislatore al fine  di  semplificare
il calcolo dell'indennizzo - e non gia' la mancata previsione di  una
terza tipologia di aree, intermedia  tra  quelle  agricole  e  quelle
edificabili - che appare priva di giustificazione». 
    La  considerazione,  del  resto,  sarebbe  in  linea  con  quanto
affermato da questa Corte nella sentenza n. 5 del 1980, poi  ribadito
nella  sentenza  n.  348  del  2007,  ovvero  che,  affinche'   possa
realizzarsi  un  serio  ristoro  «occorre  far  riferimento,  per  la
determinazione dell'indennizzo, al valore del bene in relazione  alle
sue  caratteristiche  essenziali,  fatte  palesi   dalla   potenziale
utilizzazione economica di esso, secondo legge» e che  «il  principio
del serio ristoro e' violato quando  per  la  determinazione  non  si
considerino le caratteristiche del bene da espropriare ma  si  adotti
un diverso criterio che prescinda dal valore di esso». 
    Tali principi, ancorche'  enunciati  da  questa  Corte  solo  con
riguardo ai  terreni  edificabili,  dovrebbero  ritenersi  validi  ed
operanti anche in relazione ai terreni agricoli e, a maggior ragione,
a quelli privi di possibilita' legali ed effettive  di  edificazione,
ai primi equiparati dalla legge n. 359 del 1992, perche' nell'attuale
contesto storico ed economico l'interesse del privato all'acquisto di
tali categorie di terreni sarebbe determinato dalle  possibilita'  di
sfruttarli  per  fini  diversi   da   quello   di   impiantarvi   una
coltivazione, sicche' non sarebbe piu' predicabile una corrispondenza
tra il loro valore agricolo medio e il loro valore di mercato. 
    Per  le  medesime   ragioni,   la   questione   di   legittimita'
costituzionale delle norme censurate  per  violazione  dell'art.  42,
terzo comma, Cost. non sarebbe manifestamente infondata. 
    Infine, non sarebbe  manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale relativa all'art.  5-bis,  comma  4,  del
d.l. n. 333 del 1992, e all'art. 16,  commi  quinto  e  sesto,  della
legge n. 865 del 1971, per violazione dell'art. 3 Cost. 
    Invero, rileva la  rimettente,  per  effetto  della  sentenza  di
questa Corte n. 348 del 2007, risultano rimosse  dall'ordinamento  le
disposizioni secondo le quali l'indennita'  di  esproprio  dei  suoli
edificabili andava determinata in  misura  pari  alla  media  tra  il
valore venale e il reddito dominicale rivalutato degli  ultimi  dieci
anni. 
    Per le espropriazioni ancora in corso (e per  quelle  future)  e'
intervenuto  l'art.  2  della  legge  24  dicembre   2007,   n.   244
(Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale
dello Stato - legge finanziaria 2008), il cui comma 89,  lettera  a),
ha sostituito l'art.  37,  comma  1,  decreto  del  Presidente  della
Repubblica 8 giugno 2001, n.  327  (Testo  unico  delle  disposizioni
legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica
utilita'.  Testo  A),  e  successive  modificazioni,  statuendo   che
l'indennita' di espropriazione di un'area edificabile e'  determinata
in  misura  pari  al  valore  venale   del   bene   e   che,   quando
l'espropriazione e' finalizzata  ad  attuare  interventi  di  riforma
economico-sociale, l'indennita' e' ridotta del 25 per  cento.  Per  i
giudizi ancora in  corso,  in  cui  e'  in  contestazione  la  misura
dell'indennita' di esproprio,  trova  applicazione  il  criterio  del
valore venale del bene, previsto dall'art. 39 della legge  25  giugno
1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa  di  utilita'  pubblica).  In
sostanza, quindi, fatta salva l'ipotesi di espropriazione finalizzata
alla attuazione d'interventi  di  riforma  economico-sociale  (per  i
quali, comunque, e' prevista una riduzione dell'indennita'  del  solo
25 per cento), l'indennita' di esproprio per i suoli  edificabili  e'
oggi corrispondente al valore di mercato del bene. 
    L'adozione  del  diverso  criterio,  astratto  e  predeterminato,
previsto, per i suoli agricoli e per quelli  non  edificabili,  dalle
norme della  cui  legittimita'  costituzionale  si  dubita  crea  una
ingiustificata disparita'  di  trattamento  tra  i  proprietari,  non
essendo ravvisabile alcuna plausibile ragione in base alla  quale  il
diritto a ricevere un indennizzo commisurato  al  valore  di  mercato
dell'area espropriata non debba essere riconosciuto  anche  a  coloro
che abbiano un terreno privo di vocazione edilizia. 
    3. - Nel giudizio di cui alla citata ordinanza n. 351 del 2010 si
e' costituita, con memoria depositata il 13 dicembre 2010, la signora
W. F., parte privata nel giudizio de quo chiedendo che sia dichiarata
l'illegittimita' costituzionale della normativa censurata. 
    Dopo avere premesso che  il  terreno  espropriato  costituiva  il
retrostante "giardino-orto murato" del  fabbricato  di  famiglia  nel
territorio di Montoro Superiore, che tale ente gia' dal 1997, con  il
piano regolatore generale, aveva eliminato i vincoli imposti  con  il
programma di fabbricazione del  1972,  classificando  il  fondo  come
edificabile,  e  che  nel  2008  aveva  alienato  parte   del   suolo
espropriato (mq.819), per  l'importo  di  euro  86.256,00,  la  parte
privata rileva che, con la sentenza n. 348 del 2007, questa Corte  ha
affermato  il  principio   secondo   cui,   al   fine   di   ritenere
costituzionalmente legittima la norma che disciplina l'indennita'  di
espropriazione,  e'  necessario  che  questa  costituisca  un  "serio
ristoro" e che sussista un ragionevole legame tra l'indennizzo  e  il
valore venale del bene, come prescritto dalla Corte di Strasburgo. 
    La mancanza del "ragionevole legame" tra l'indennizzo e il valore
di mercato, rileva, ad avviso della  deducente,  anche  con  riguardo
alle aree  non  edificabili,  in  quanto  il  valore  agricolo  medio
risulterebbe di molto inferiore al  detto  valore  di  mercato  (sono
richiamati i dati emergenti dalle  consulenze  espletate  durante  il
lungo iter  del  processo).  Pertanto,  la  normativa  censurata  con
l'ordinanza   di   rimessione   contrasterebbe   con   i    parametri
costituzionali evocati in tale provvedimento,  anche  alla  luce  dei
principi affermati da questa Corte con la sentenza n. 5 del 1980. 
    4. - La Corte di appello di Napoli, con ordinanza depositata il 7
aprile 2010 (r. o.  n.  305  del  2010),  dubita  della  legittimita'
costituzionale delle norme gia' censurate con l'ordinanza di  cui  si
e' trattato in precedenza, in riferimento ai  medesimi  parametri  da
questa evocati. 
    La Corte territoriale premette di essere chiamata a  pronunciarsi
in un giudizio vertente tra F. L. e il Comune di Salerno,  avente  ad
oggetto la domanda di pagamento delle indennita' di espropriazione  e
di occupazione temporanea, relative ad alcuni terreni  di  proprieta'
dell'attrice, espropriati dal Comune (con  decreti  del  10  febbraio
1998 e del 22  giugno  1999)  per  la  realizzazione  del  parco  del
Mercatello. 
    Dopo avere esposto il complesso iter processuale  della  vicenda,
la rimettente rileva che, con sentenza non definitiva, emessa in sede
di rinvio dalla Corte di cassazione, il Collegio ha accertato: a) che
il suolo era incluso dall'originario piano  regolatore  generale  del
Comune di Salerno, approvato con decreto del Presidente della  giunta
regionale in data 4 febbraio 1965, in zona intensiva C tipologia 9  a
formazione lineare e  semiaperta;  e  che  una  successiva  variante,
adottata con delibera della  stessa  amministrazione  n.  71  del  18
dicembre 1989, definitivamente approvata dal Presidente della  giunta
regionale della Campania con decreto n.  7265  del  13  luglio  1994,
aveva individuato una zona B (Pastena) omogenea gia'  satura  in  cui
l'aveva inclusa, con destinazione a standard urbanistici  consistenti
in spazi pubblici o  riservati  ad  attivita'  collettive,  al  verde
pubblico, a parcheggi, a servizi pubblici, o  attrezzature  pubbliche
d'interesse generico; b) che, sulla base dei criteri enunciati  dalla
Corte di cassazione, e cioe'  sulla  base  dell'esame  dei  requisiti
oggettivi,  di  natura  e  struttura,  che  presentavano  i   vincoli
contenuti nella variante, doveva ritenersi sussistente  il  carattere
conformativo di  essa  (che  consentiva  di  tenerne  conto  ai  fini
indennitari); c) che la natura inedificabile del suolo  emergeva  con
chiarezza proprio dal  disposto  dell'art.  7,  ultimo  comma,  della
variante, secondo cui «Tutte le  aree  attualmente  libere  ricadenti
nelle zone omogenee B, anche se comprese nei  piani  di  recupero,  a
servizio o pertinenze (cortili, giardini e comunque  spazi  liberi  a
qualsiasi uso destinati) di fabbricati o gruppi di  fabbricati,  sono
assolutamente   inedificabili   anche   in    sede    di    recupero,
ristrutturazione o ricostruzione di manufatti esistenti». 
    Cio'  posto,  la   Corte   napoletana   osserva   che,   per   la
determinazione delle indennita' di espropriazione  e  di  occupazione
temporanea, dovrebbe  applicarsi  il  criterio  del  valore  agricolo
medio, ai sensi dell'art. 16 legge n. 865 del 1971 (art. 5-bis, comma
4, del d.l. n. 333 del 1992,  convertito,  con  modificazioni,  dalla
legge n. 359 del 1992, che richiama appunto, per le aree agricole, le
norme di cui al titolo II della legge n. 865 del 1971). Essa,  pero',
dubita della legittimita' costituzionale del citato art. 5-bis, comma
4 (applicabile ai giudizi in corso alla data  di  entrata  in  vigore
della  legge  che  lo  ha  introdotto),  nonche'  della  legittimita'
costituzionale dell'art. 16, commi quinto e sesto, della legge n. 865
del 1971, come sostituiti dall'art. 14 della legge n. 10 del 1977, in
quanto tali norme contemplano un  criterio  di  determinazione  delle
indennita' per i suoli agricoli e  per  quelli  non  edificabili  del
tutto disancorato dal loro effettivo valore di mercato. 
    La rimettente segnala che  la  questione  e'  rilevante  in  quel
giudizio. Infatti essa, con sentenza non definitiva, ha accertato  la
natura non edificabile del suolo e il valore agricolo  medio  per  le
colture  prevalenti  (agrumeto  e  frutteto),  riportate   nei   dati
catastali. In particolare, espone che il detto valore, all'epoca  dei
decreti di esproprio (anni 1998 e 1999), era per il frutteto di  lire
8.670 a mq. e, per l'agrumeto, di lire 13.770  a  mq.  per  il  1998,
ridotte poi a lire 12.000 a mq. nel 1999, a fronte di  un  valore  di
mercato  (emergente  dagli  atti  di   comparazione   acquisiti   dal
consulente di ufficio) pari a lire 59.524 per il 1996 (desunto da  un
atto notarile di  compravendita)  ed  a  lire  188.580  per  il  1997
(desunto da un atto notarile di chiusura espropriativa). 
    A  sostegno  della  non  manifesta  infondatezza,   poi,   svolge
argomentazioni analoghe a quelle addotte nell'ordinanza depositata il
19 marzo 2010. 
    5. -  Nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale,  con  atto
depositato il 4 novembre  2010,  e'  intervenuto  il  Presidente  del
Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso   dall'Avvocatura
generale dello Stato,  chiedendo  che  la  questione  sia  dichiarata
manifestamente infondata. 
    L'interveniente ripercorre l'iter normativo e  giurisprudenziale,
riguardante  l'indennita'  di  espropriazione,  prendendo  le   mosse
dall'art. 39 della legge n. 2359  del  1865.  Richiama  alcune  leggi
speciali, pone l'accento sulla legge n. 865 del 1971, come modificata
dalla legge n.  10  del  1977,  e  rileva  che  con  tale  disciplina
l'indennita' fu commisurata al valore agricolo, ovvero allo stato dei
luoghi  relativo  alle  colture  effettivamente   praticate.   Questa
impostazione, ad avviso dell'Avvocatura dello Stato,  fu  determinata
dal passaggio da  un  sistema  di  pianificazione  edilizia  di  tipo
autorizzatorio ad un sistema concessorio, in forza del quale  lo  jus
aedificandi non fu piu' considerato una facolta' compresa nel diritto
di proprieta' del suolo ma  una  situazione  giuridica  attribuita  a
seguito di concessione. Tale normativa, pero', non supero' il  vaglio
di legittimita' costituzionale (e' richiamata la sentenza  n.  5  del
1980), poiche' questa Corte affermo' che «l'indennizzo  espropriativo
deve costituire un "serio ristoro", e pertanto deve  essere  riferito
al valore del bene ricavabile dalle sue caratteristiche essenziali  e
dalla sua potenziale utilizzazione economica». 
    Dopo  una   normativa   transitoria,   ritenuta   a   sua   volta
costituzionalmente non legittima  (sentenza  n.  223  del  1983),  il
legislatore intervenne di nuovo con l'art. 5-bis del d.l. n. 333  del
1992, convertito, con modificazioni, dalla legge  n.  359  del  1992,
prevedendo due differenti criteri, il primo per i  suoli  edificabili
(commi 1 e 2), il secondo per  le  aree  agricole  o,  comunque,  non
edificabili (comma 4). Questi  criteri,  ritenuti  costituzionalmente
legittimi (e' richiamata la sentenza n.  283  del  1993),  furono  in
sostanza riprodotti dagli artt. 37 e 40, commi 1 e 2, d.P.R.  n.  327
del 2001, recante il T.U. delle espropriazioni per pubblica utilita'. 
    Sul  tema,  pero',  intervenne  la  Corte  europea  dei   diritti
dell'uomo che, con decisione del 29 marzo  2006  (in  causa  Scordino
contro  Italia),  defini'  non  ragionevole  e  iniqua   l'indennita'
contemplata in applicazione  del  criterio  di  cui  all'art.  5-bis,
stabilendo, tra l'altro, che, pur sussistendo al  riguardo  un  ampio
potere discrezionale dello Stato,  senza  una  somma  ragionevolmente
proporzionale al valore venale del bene, una privazione di proprieta'
costituisce generalmente un pregiudizio eccessivo, nonche'  chiarendo
che un'assenza totale di  indennizzo  puo'  giustificarsi,  sotto  il
profilo dell'art. 1 (del protocollo addizionale), solo in circostanze
eccezionali, ancorche' detta norma non garantisca sempre  il  diritto
ad una riparazione integrale. 
    L'indirizzo espresso dalla Corte europea  -  prosegue  la  difesa
dello Stato - fu poi condiviso da questa Corte che, con  sentenza  n.
348  del  2007,  dichiaro'  fondata  la  questione  di   legittimita'
costituzionale dell'art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992, sollevata in
relazione ai commi 1 e 2 di detta norma, estendendo  la  declaratoria
all'art. 37, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 327 del 2001. 
    La  Corte,  infatti,  «ha  ritenuto  che   i   criteri   per   la
determinazione  dell'indennita'  di   espropriazione   debbano   aver
riguardo della base di calcolo rappresentata  dal  valore  del  bene,
quale emerge dal suo potenziale  sfruttamento  non  in  astratto,  ma
secondo le norme e i vincoli degli strumenti urbanistici vigenti  nei
diversi territori», pur non essendo necessario un ristoro integrale. 
    Quanto fin qui riportato,  ad  avviso  dell'Avvocatura  erariale,
farebbe interamente riferimento  alle  aree  edificabili.  In  ordine
all'indennita' espropriativa  concernente  le  aree  non  edificabili
(art. 5-bis, comma 4, del  d.l.  n.  333  del  1992,  ora  sostituito
dall'art. 40, commi 1 e 2, d.P.R.  n.  327  del  2001),  oggetto  del
presente giudizio, il giudice a quo si sarebbe limitato ad effettuare
un parallelismo con  la  diversa  vicenda  relativa  ai  terreni  non
edificabili, senza alcuna motivazione sul punto. Infatti, non avrebbe
spiegato per quali ragioni, nel caso di specie, non  vi  sarebbe  una
determinazione dell'indennita' commisurata all'effettivo  valore  del
bene. 
    Invece,  andrebbe  posto  in  evidenza  che,  con  riguardo  alla
disciplina previgente, questa Corte  gia'  avrebbe  rilevato  che  le
norme concernenti la determinazione dell'indennita' «sono,  pertanto,
tuttora  applicabili  all'espropriazione  di  aree  con  destinazione
agricola,in  relazione  alle  quali   non   e'   stato   riconosciuto
sussistente  alcun  profilo   di   incostituzionalita',   stante   il
collegamento della  liquidazione  dell'indennita'  con  le  effettive
caratteristiche e la destinazione economica del  bene»  (sentenza  n.
1022 del 1988). 
    La difesa dello Stato richiama l'art. 16 della legge n.  865  del
1971, cui l'art. 5-bis, comma 4 cit., rinvia, nonche' l'art.  40  del
d.P.R. n. 327 del  2001,  rilevando  che  da  entrambe  le  norme  si
potrebbe evincere  come  il  valore  dell'indennita'  sia  legato  al
concreto valore del fondo, determinato  dal  valore  agricolo  e  dai
manufatti  legittimamente  realizzati,  ed  afferma  che  le  vicende
relative ai terreni agricoli mai avrebbero evidenziato  problematiche
particolari   in    ordine    all'effettivo    ristoro    determinato
dall'indennita' espropriativa. Per le  aree  edificabili,  invece,  i
problemi maggiori sarebbero  stati  collegati  al  passaggio  «da  un
sistema di licenza edilizia a un  sistema  concessorio»,  diretto  in
sostanza   ad   equiparare,    ai    fini    della    quantificazione
dell'indennizzo,  aree  edificabili  ad  aree  non  edificabili,  sul
presupposto che la  possibilita'  di  costruire  su  un  terreno  non
sarebbe una facolta' insita nel diritto di proprieta'  sullo  stesso,
ma dovesse costituire oggetto di una specifica concessione  da  parte
dell'Amministrazione. 
    Cio'  non  sarebbe  avvenuto  con  riguardo  all'indennita'   per
l'espropriazione delle aree non edificabili, della  cui  legittimita'
la giurisprudenza mai avrebbe dubitato. Infatti, basare  l'indennizzo
sulla coltura praticata sul terreno, o,  in  mancanza,  sul  tipo  di
coltura praticata nella zona, tenuto conto del valore  dei  manufatti
legittimamente realizzati, costituirebbe un criterio adeguato per  la
determinazione del "serio ristoro". 
    Inoltre,  andrebbe  considerata  la  possibilita'  del  sindacato
giurisdizionale   sulle    tabelle    formate    dalle    commissioni
amministrative per il calcolo dell'indennizzo,  giungendo  fino  alla
relativa disapplicazione.  Ancora,  andrebbe  ricordato  che  sia  la
decisione della Corte europea nella causa Scordino  contro  lo  Stato
italiano, sia la sentenza di questa Corte n. 348 del 2007,  avrebbero
ritenuto non idonea l'indennita' a causa della  decurtazione  del  40
per cento del valore, qualora non si fosse  pervenuti  alla  cessione
volontaria. Mai si sarebbe postulata  una  determinazione  precisa  e
puntuale del valore del  bene  -  quasi  che  l'indennizzo  fosse  un
risarcimento dei danni - ma anzi si  sarebbe  sottolineato  come  «il
ristoro possa non essere  integrale  purche'  faccia  riferimento  al
valore del bene determinato in ragione del suo effettivo e potenziale
utilizzo», proprio come stabilito dall'art. 16 legge n. 865 del  1971
e dall'art. 40 d.P.R. n. 327 del 2001. 
    Nessuna decurtazione sarebbe  stata  prevista  per  le  aree  non
edificabili, sicche' il giudice a quo si sarebbe limitato a tracciare
un astratto parallelismo con la disciplina dettata  per  l'indennita'
espropriativa dei suoli edificabili, senza tener conto delle concrete
differenze tra le due fattispecie. 
    6. - Nel giudizio di  legittimita'  costituzionale,  con  memoria
depositata il 5 novembre 2010, si e' costituita la parte  privata  L.
F., aderendo alle argomentazioni esposte nell'ordinanza di rimessione
e concludendo per la declaratoria di fondatezza della questione. 
    7. - Con memoria depositata l'8 novembre 2010  si  e'  costituito
anche  il  Comune  di  Salerno,  in  persona   del   Sindaco   legale
rappresentante pro tempore (previa delibera della  Giunta  municipale
n. 1130 del 15 ottobre 2010). 
    L'ente territoriale, dopo aver richiamato le  vicende  che  hanno
scandito la controversia in corso tra le parti, ricorda che  la  tesi
sostenuta nell'ordinanza di rimessione ha  gia'  formato  oggetto  di
esame da parte di questa Corte con sentenza  n.  261  del  1997,  che
dichiaro' non fondata la  questione  di  legittimita'  costituzionale
della normativa in questa sede censurata,  sollevata  in  riferimento
agli artt. 3, primo comma, 24 e 42, terzo comma, Cost. 
    Il  Comune  richiama  i  principi  affermati   dalla   menzionata
sentenza, rimarcando che  essa,  nell'escludere  la  possibilita'  di
introdurre nell'ordinamento un "tertium genus" tra aree edificabili e
quelle  non  edificabili,  ha  ritenuto  la  detta   disciplina   non
irragionevole e non arbitraria, e comunque non idonea a  pregiudicare
il serio ristoro del proprietario espropriato;  ed  afferma  che  «il
Collegio distrettuale, mentre non ha potuto sostenere  che,  in  ogni
caso, il valore di mercato e il V. A.  M.  sono  sempre  notevolmente
differenziati, attraverso  i  riferimenti  alle  ipotesi  elencate  a
titolo di esempio si  e'  collocato  pur  sempre  nell'ottica  di  un
utilizzo del suolo agricolo privo di  attitudine  edificatoria  quale
complemento  di  insediamenti  edilizi  e,   quindi,   mirando   alla
valorizzazione,  ai  fini  della  determinazione  dell'indennita'  di
espropriazione, di quel tertium genus dei beni ablati», per l'appunto
escluso dalla sentenza n. 261 del 2007. 
    La  Corte  rimettente  avrebbe  ritenuto  di  poter  superare  la
preclusione derivante  da  tale  sentenza,  evocando  come  parametro
costituzionale violato l'art. 117, primo comma, Cost., per  contrasto
con le norme internazionali  convenzionali  e,  in  particolare,  col
primo protocollo addizionale della CEDU. 
    Ad  avviso  dell'ente,  le  argomentazioni  al  riguardo   svolte
nell'ordinanza non sarebbero rilevanti ai fini del tema in questione,
perche' non vi sarebbe alcuna  norma  o  direttiva  comunitaria  (cui
peraltro la materia espropriativa e' estranea) in  contrasto  con  il
criterio di calcolo dell'indennita' di espropriazione delle aree  non
edificabili, come disciplinato  dalle  disposizioni  oggi  in  esame,
mentre tutte le decisioni della Corte di Strasburgo  avrebbero  avuto
riguardo a suoli  con  destinazione  edificatoria,  per  i  quali  il
meccanismo  fissato  dalla  normativa,  poi  dichiarata  illegittima,
avrebbe comportato una  sensibilissima  decurtazione  del  valore  di
mercato. 
    In  particolare,  le  decisioni  del   giudice   di   Strasburgo,
pronunziate   contro   lo   Stato   italiano,   avrebbero    ritenuto
incompatibile  con  il  dettato  dell'art.  1  dell'allegato  1  alla
Convenzione la privazione di un terreno  in  forza  della  cosiddetta
"occupazione acquisitiva"(sono richiamate varie decisioni della Corte
europea), ed avrebbe chiarito che «benche' lo Stato  contraente  goda
di un margine di discrezionalita'  nel  determinare  l'indennizzo  in
dipendenza  di  un'espropriazione  legittima,  l'art.  5  bis   legge
n.359/1992, parametrando l'indennita' di espropriazione ad un  valore
largamente inferiore a quello di mercato del bene espropriato,  senza
prendere in considerazione la tipologia dell'esproprio, determina una
rottura  del  "giusto  equilibrio"  tra  le  esigenze  dell'interesse
generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali
dell'individuo,  violando  l'art.  1  del  Protocollo  n.   1   della
Convenzione europea dei  diritti  dell'uomo.  Infatti,  alla  stregua
della giurisprudenza della Corte dei diritti dell'uomo e'  consentita
una quantificazione dell'indennizzo inferiore al  valore  commerciale
nei soli casi  di  espropriazione  correlata  a  riforme  economiche,
sociali o politiche o  in  presenza  di  particolari  circostanze  di
pubblica utilita'» (e' richiamata la sentenza della Corte europea  in
causa Scordino contro Italia). 
    L'ente territoriale rileva che tale indirizzo e' stato confermato
da questa Corte con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007. 
    Osserva, poi, che non sarebbe determinante, ai fini del  giudizio
di legittimita' costituzionale  in  esame,  la  comparazione  operata
dalla  rimettente  tra  il  valore  agricolo  medio  per  le  colture
prevalenti (agrumeto o frutteto), riportate nei dati catastali, e  il
valore di mercato del suolo come emergente dagli atti  acquisiti  dal
consulente di ufficio. Infatti, andrebbe rilevato che il procedimento
di formazione delle tabelle del valore agricolo  medio,  disciplinato
dall'art. 16 legge n. 865 del 1971,  sarebbe  realizzato  da  esperti
particolarmente qualificati, sicche' non sarebbe possibile contestare
in linea di principio la congruenza  e  la  correttezza  delle  stime
eseguite atte ad individuare i dati per i calcoli necessari. 
    In particolare, la cadenza  annua  fissata  per  la  compilazione
delle tabelle comporterebbe un aggiornamento periodico delle stime e,
quindi, garantirebbe l'aderenza di queste ai dati reali, a differenza
della  normativa  dettata  per  le  aree  edificabili.  Ed  andrebbe,
altresi', sottolineato, come chiarito di recente anche dalla Corte di
cassazione, che l'indennita' di espropriazione per i terreni agricoli
«deve essere determinata secondo i criteri di cui alla L. n. 865  del
1971, artt. 15 e 16, richiamata dalla L. n. 359 del 1992, art. 5 bis,
comma 4, ovvero commisurata al valore agricolo medio, secondo i  tipi
di coltura effettivamente in atto, contemplati dalle tabelle  redatte
dalle competenti commissioni, disapplicabili dal giudice per vizi  di
legittimita', e non sostituendo ad esse, per ragioni di opportunita',
le proprie autonome valutazioni» (e'  richiamata  la  sentenza  della
Corte di cassazione, Sezioni Unite Civili, n. 22753 del 2009). 
    Inoltre, a prescindere dal  rilievo  che  manca  qualsiasi  prova
circa la natura dei suoli individuati  nell'ordinanza  di  rimessione
quali parametri di riferimento, sarebbe erronea la presunzione  della
Corte di merito, secondo cui si  potrebbe  valutare  la  legittimita'
costituzionale della normativa in esame con riguardo  ad  un  singolo
caso. 
    Ad avviso del Comune, la questione di legittimita' costituzionale
della normativa censurata andrebbe dichiarata inammissibile,  perche'
esporrebbe argomenti  gia'  respinti  da  questa  Corte,  e  comunque
infondata, anche in riferimento all'art.  117,  primo  comma,  Cost.,
perche' formulata sull'indimostrato presupposto che la determinazione
dell'indennita' secondo i criteri tabellari conduca in ogni caso alla
liquidazione di un indennizzo in misura irrisoria o, comunque,  molto
inferiore al valore di mercato del bene. 
    Non vi sarebbe dubbio, invece,  che  un  esproprio  compiuto  per
realizzare una variante generale al piano regolatore di  una  citta',
al  fine  di  garantire  il  rispetto  degli   standard   urbanistici
prescritti dal legislatore nazionale, e che ha comportato  una  nuova
zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso,  sia
sicuramente finalizzata ad  una  profonda  modifica  urbanistica  "di
pubblica utilita'", per la quale «e' consentita  una  quantificazione
dell'indennizzo inferiore al valore commerciale». 
    La tesi esposta nell'ordinanza di rimessione sarebbe  basata  sul
dato apodittico che il valore agricolo medio, maggiorato attraverso i
correttivi dettati dal legislatore, determini un'indennita' meramente
simbolica o arbitraria. 
    Il Comune, poi, contesta i rilievi mossi dalla Corte territoriale
alla sentenza di  questa  Corte  n.  261  del  1997,  richiamando  il
principio  affermato  da  detta  sentenza,  secondo  cui  «la  scelta
legislativa  non  presenta  caratteri  di   irragionevolezza   o   di
arbitrarieta' tali da  far  riscontrare  un  vizio  sotto  i  profili
denunciati, ne' comunque pregiudica di per se' il serio ed  effettivo
ristoro del proprietario espropriato».  Pertanto,  sarebbe  privo  di
pregio  l'assunto  che  «e'  la  stessa  dicotomia   immaginata   dal
legislatore al fine di semplificare il calcolo  dell'indennizzo  -  e
non gia' la mancata  previsione  di  una  terza  tipologia  di  aree,
intermedia tra quelle agricole e  quelle  edificabili  -  che  appare
priva di giustificazione». 
    Infatti,  come  gia'  sottolineato,  il   criterio   di   calcolo
dell'indennita' di espropriazione per i suoli agricoli o  non  aventi
attitudini  edificatorie  contemplerebbe  una  serie   di   parametri
correttivi  in  aumento,  proprio  allo  scopo  di  giungere  ad  una
individuazione del valore del bene espropriato prossimo a  quello  di
mercato. 
    In   questo   quadro    andrebbe    dichiarata    la    manifesta
inammissibilita'  o  la  manifesta  infondatezza,  e   in   subordine
l'inammissibilita' o l'infondatezza, delle questioni sollevate. 
    8. - La Corte di appello di Lecce, con ordinanza  depositata  l'8
ottobre 2010, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 117  Cost.,
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 5-bis, commi  3  e
4, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dal  d.l.
n. 333 del 1992, e dell'art. 40, commi 1 e 2, del d.P.R. n.  327  del
2001. 
    La  Corte  distrettuale  premette  di  dover  pronunciare   nella
controversia promossa da M. G. P. e M. A. (quali eredi di I.  M.  C.)
nei confronti del Comune di  Francavilla  Fontana,  concernente  (tra
l'altro) la determinazione dell'indennita' di espropriazione relativa
ad un suolo, gia'  oggetto  di  cessione  volontaria  con  acconto  e
riserva di conguaglio e qualificato non edificatorio  dalla  medesima
Corte di appello  con  sentenza  non  definitiva  n.  611  del  2010,
pronunciata a seguito di rinvio disposto dalla Corte di cassazione. 
    La rimettente ricorda che l'indennita' di  espropriazione  per  i
suoli agricoli e, come nella specie, per quelli gravati da vincolo di
inedificabilita' va determinata, ai  sensi  della  normativa  vigente
all'epoca della cessione, sulla base del «valore agricolo  medio  del
terreno, a prescindere dalla sua  destinazione  economica,  quale  si
determina in base alla media dei valori, nell'anno solare  precedente
il provvedimento ablativo,  dei  terreni  ubicati  nell'ambito  della
medesima regione agraria,  nei  quali  siano  praticate  le  medesime
colture  in  opera  nel  fondo  espropriato».  Cio'  per  consolidata
giurisprudenza della Corte di cassazione, in applicazione degli artt.
15 e 16 legge  n.  865  del  1971  e  successive  modificazioni,  che
devolvono alla commissione provinciale  l'individuazione  del  valore
agricolo medio. 
    La giurisprudenza  avrebbe  altresi'  puntualizzato,  sempre  con
orientamento univoco, «che il parametro di riferimento  non  coincide
con il prezzo di mercato del fondo e con il suo valore venale». 
    Ad avviso della rimettente, l'ordinamento si starebbe  «evolvendo
in senso divergente». In particolare,  per  le  aree  edificabili,  a
seguito della declaratoria di illegittimita' costituzionale, adottata
da questa Corte con la sentenza n. 348 del 2007 e  relativa  all'art.
5-bis,  commi  1  e  2,  d.l.  n.  333  del  1992,  convertito,   con
modificazioni, dalla legge n. 359  del  1992,  nonche'  all'art.  37,
commi 1 e 2, d.P.R. n. 327 del 2001, si applicherebbe il criterio del
valore di mercato del bene: ai sensi dell'art. 39 legge n.  2359  del
1865 «nei giudizi di  espropriazione  in  corso  soggetti  al  regime
pregresso»; ai sensi dell'art. 2, comma 89, lettera a), legge n.  244
del 2007, «nei procedimenti espropriativi in corso». 
    Pertanto, prima il giudice delle leggi, poi il legislatore  e  la
giurisprudenza formatasi a seguito dei relativi interventi, avrebbero
preso come "punto di arrivo" - quanto  alle  aree  edificabili  -  il
valore di mercato del bene; e cio' starebbe a significare  che  oggi,
per i giudizi in corso, sempre in relazione alle  aree  predette,  il
"serio ristoro", richiamato in numerose  sentenze  di  questa  Corte,
sarebbe fatto coincidere con il prezzo di mercato. 
    Gia' sotto questo profilo, la  diversa  disciplina  di  cui  alla
normativa censurata, disancorata  dal  prezzo  di  mercato  o  valore
venale, applicabile ai suoli agricoli e a quelli (come nella  specie)
raggiunti da vincoli di inedificabilita',  apparirebbe  irragionevole
e, quindi, di dubbia costituzionalita', ai sensi dell'art. 3 Cost. 
    Il valore agrario, previsto di fatto in via automatica,  potrebbe
non  rivelarsi  un  "serio  ristoro"  e,   plausibilmente,   non   si
rivelerebbe tale nella presente vicenda, avuto riguardo alla qualita'
e alla localizzazione del suolo (alla periferia del paese). 
    Sotto altro aspetto, la questione di legittimita'  costituzionale
della normativa censurata si  porrebbe  con  riguardo  all'art.  117,
primo comma, Cost., costituente il parametro in base al quale  questa
Corte pronuncio' la declaratoria di illegittimita' costituzionale  di
cui alla sentenza n. 348 del 2007. 
    La  rimettente,  poi,  richiama  la  giurisprudenza  della  Corte
europea dei diritti dell'uomo e il  dettato  dell'art.  1  del  primo
protocollo  addizionale  alla  Convenzione  europea,  rimarcando  che
l'osservanza  degli  obblighi  internazionali   che   ne   discendono
esigerebbe    piena    riparazione    del    pregiudizio    derivante
dall'esproprio, anche  nel  caso  di  suoli  agricoli  o  equiparati,
mediante la commisurazione dell'indennita' al loro valore di mercato. 
    9. - Nel giudizio di legittimita' costituzionale e'  intervenuto,
con atto depositato il 19 gennaio 2011, il Presidente  del  Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo  che  la  questione  sia  dichiarata  manifestamente
infondata, sulla base di considerazioni analoghe a quelle esposte con
l'atto d'intervento depositato nel giudizio r. o.  n.  305  del  2010
(punto 5, che precede). 
    10. - Nei giudizi contrassegnati con i n. r. o. 305 e del  2010.,
in prossimita' dell'udienza di discussione, il Comune di Salerno e la
parte privata (quest'ultima, pero', fuori termine)  hanno  depositato
memorie illustrative. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - La Corte di appello di  Napoli  (sezione  prima  civile,  in
diversa composizione), con le due ordinanze indicate in epigrafe,  ha
sollevato - in riferimento agli articoli 3, 42, terzo comma,  e  117,
primo  comma,  della  Costituzione  -   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 5-bis,  comma  4,  decreto-legge  11  luglio
1992, n.  333  (Misure  urgenti  per  il  risanamento  della  finanza
pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto  1992,
n. 359, nonche' dell'art. 16, commi quarto  e  quinto  (recte:  commi
quinto  e  sesto),  legge  22  ottobre  1971,  n.  865  (Programmi  e
coordinamento  dell'edilizia  residenziale  pubblica;   norme   sulla
espropriazione per pubblica utilita'; modifiche e  integrazioni  alle
leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167;  29  settembre
1964, n.847; ed autorizzazione di spesa per  interventi  straordinari
nel settore dell'edilizia residenziale, agevolata  e  convenzionata),
come sostituiti dall'art. 14 legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme  per
la edificabilita' dei suoli). 
    A sua volta la Corte di appello di  Lecce,  con  l'ordinanza  del
pari indicata in epigrafe, ha  sollevato  questione  di  legittimita'
costituzionale del citato art. 5-bis, commi 3 e 4, del  d.l.  n.  333
del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992,
nonche' dell'art. 40, commi 1 e 2,  d.P.R.  8  giugno  2001,  n.  327
(Testo  unico  delle  disposizioni  legislative  e  regolamentari  in
materia di espropriazione  per  pubblica  utilita'  -  Testo  A),  in
riferimento agli artt. 3 e 117 Cost. 
    Ad avviso delle rimettenti, la normativa censurata, prevedendo un
criterio di determinazione dell'indennita' di esproprio, per i  suoli
agricoli e per quelli  non  edificabili,  astratto  e  predeterminato
(qual e' quello del valore agricolo medio della coltura in atto o  di
quella  piu'  redditizia  nella  regione  agraria   di   appartenenza
dell'area da espropriare), del tutto svincolato dalla  considerazione
dell'effettivo valore di mercato dei suoli medesimi  e  tale  da  non
assicurare  all'avente  diritto  il  versamento  di   un   indennizzo
integrale o, quanto meno, "ragionevole", si porrebbe in contrasto con
l'art.  1,  primo  protocollo,  allegato  alla  Convenzione  per   la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), cui e' stata data esecuzione con legge 4 agosto 1955, n.  848
(Ratifica ed esecuzione della Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il  4
novembre 1950, e  Protocollo  addizionale  alla  Convenzione  stessa,
firmato a Parigi il 20  marzo  1952),  nella  interpretazione  datane
dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, cosi' violando l'art. 117,
primo comma, Cost., rispetto al quale la  disposizione  convenzionale
opererebbe come norma interposta. 
    Inoltre, sarebbe  violato  l'art.  42,  terzo  comma,  Cost.,  in
quanto, benche' il legislatore non sia tenuto ad individuare un unico
criterio di determinazione dell'indennita' di  esproprio,  valido  in
ogni  fattispecie  espropriativa,   o   ad   assicurare   l'integrale
riparazione della perdita subita dal proprietario,  l'indennita'  non
puo' mai essere simbolica  o  irrisoria,  ma  deve  rappresentare  un
"serio ristoro". Per  realizzare  tale  risultato  si  dovrebbe  fare
riferimento «al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche
essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica  di
esso», secondo il principio affermato da questa Corte con la sentenza
n. 5 del 1980 e  ribadito  con  la  sentenza  n.  348  del  2007,  in
relazione ai terreni edificabili, ma  applicabile,  ad  avviso  delle
rimettenti, anche con riguardo ai terreni agricoli  e  a  quelli  non
edificabili. 
    Infine, sarebbe configurabile anche violazione dell'art. 3 Cost.,
perche' il criterio dettato per i suoli agricoli  e  per  quelli  non
edificabili creerebbe una ingiustificata  disparita'  di  trattamento
tra  i  proprietari  di  questi  ultimi  e  i  proprietari  di  suoli
edificabili, per i quali l'indennizzo va  commisurato  al  valore  di
mercato (o venale) dell'area oggetto dell'ablazione. 
    2.  -  I  tre  giudizi  di   legittimita'   costituzionale,   per
l'identita' dell'oggetto e dei parametri  evocati,  vanno  riuniti  e
decisi con la medesima sentenza. 
    3. - L'ordinanza della Corte di appello  di  Lecce  censura  (tra
l'altro) l'art. 5-bis, comma 3, del d.l. n. 333 del 1992, convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992. 
    Detta norma dispone che «Per la valutazione della  edificabilita'
delle aree, si devono considerare le possibilita' legali ed effettive
di edificazione esistenti al  momento  dell'apposizione  del  vincolo
preordinato all'esproprio». 
    Come il dettato  normativo  rivela,  si  tratta  di  disposizione
diretta ad individuare i criteri per la valutazione di edificabilita'
delle aree. Nel caso di specie, e' pacifico, ed emerge dall'ordinanza
di rimessione, che il suolo de quo, oggetto  di  cessione  volontaria
con  acconto  e  riserva  di  conguaglio,  e'  stato  dichiarato  non
edificatorio dalla  Corte  di  appello  di  Lecce  con  sentenza  non
definitiva n. 611 del 2010. Pertanto la  Corte  rimettente  non  deve
fare applicazione della norma suddetta, in  ordine  alla  quale,  del
resto, non  si  rinviene  nell'ordinanza  una  specifica  motivazione
diretta a spiegare le ragioni della sua evocazione. 
    Ne deriva che la questione, sollevata con riferimento  al  citato
art. 5-bis, comma 3, deve essere dichiarata inammissibile per difetto
di rilevanza. 
    4. - Ai  fini  dell'identificazione  del  thema  decidendum,  con
riguardo alle norme  censurate  e  ai  parametri  invocati,  si  deve
osservare che le due ordinanze della Corte di appello di Napoli,  nei
rispettivi dispositivi, censurano  (tra  l'altro)  l'art.  16,  commi
quarto e quinto,  della  legge  n.  865  del  1971,  come  sostituiti
dall'art. 14 della legge n. 10 del 1977.  Peraltro,  come  emerge  in
modo  chiaro  dalle  motivazioni  delle  ordinanze,  le  disposizioni
impugnate sono quelle dettate dall'art. 16, commi quinto e sesto,  il
cui tenore e' anche  trascritto  nelle  ordinanze  medesime,  sicche'
nessun dubbio puo' nutrirsi circa l'oggetto delle questioni, in forza
del noto criterio secondo  cui  il  dispositivo  va  interpretato  in
riferimento alla motivazione (sentenza n. 236 del 2009). 
    A sua volta, l'ordinanza della Corte  di  appello  di  Lecce  nel
dispositivo solleva la questione di legittimita'  costituzionale  con
riferimento al citato art. 5-bis, comma 4, e all'art. 40, commi  1  e
2, del d.P.R. n. 327 del 2001, senza menzionare la legge n.  865  del
1971,  al  cui  titolo  II  il  medesimo  art.  5-bis  rinvia.  Nella
motivazione, pero', sono richiamati gli artt. 15 e 16 della legge  n.
865  del  1971  e  successive  modificazioni,  «che  devolvono   alla
Commissione provinciale l'individuazione del valore agricolo  medio»,
mentre le argomentazioni svolte  rendono  palese  che  oggetto  delle
censure e', per l'appunto, il criterio del valore agricolo  medio,  o
"valore agrario", «previsto di fatto in via automatica e, come  tale,
non influenzabile da quello venale». Anche in tal  caso,  dunque,  in
base allo stesso principio dianzi indicato, l'oggetto della questione
e' agevolmente identificabile. 
    5. - Le ordinanze di rimessione (a parte l'accenno  contenuto  in
quella della  Corte  di  appello  di  Lecce)  non  coinvolgono  nello
scrutinio di legittimita' costituzionale l'art. 15 legge n.  865  del
1971, nel testo sostituito dall'art. 14 della legge n. 10  del  1977,
concernente la determinazione dell'indennita' di  espropriazione  non
accettata nel termine di cui all'art. 12, primo comma, della medesima
legge n. 865 del 1971. Ai sensi di tale  disposizione,  su  richiesta
del presidente della giunta regionale, la commissione competente  per
territorio di cui al successivo art. 16 determina l'indennita', sulla
base del valore agricolo con riferimento alle colture  effettivamente
praticate sul fondo espropriato,  anche  in  relazione  all'esercizio
dell'azienda agricola. Il dettato letterale della norma, dunque,  non
richiama il valore agricolo medio. Tuttavia la  giurisprudenza  della
Corte di cassazione, con indirizzo ormai configurabile  come  diritto
vivente, ha ripetutamente affermato che gli artt. 15 e 16 della legge
n. 865 del 1971 (nel testo sostituito dall'art. 14 della legge n.  10
del 1977) vanno letti in collegamento l'uno con l'altro,  sicche'  il
valore  agricolo  menzionato  nell'art.  15,  primo  comma,   secondo
periodo, e' per l'appunto il valore agricolo  medio  contemplato  dal
combinato disposto delle due norme (ex  multis:  Cass.,  sentenza  n.
17679 del 2010; Cass., Sezioni Unite Civili, sent. n. 22753 del 2009;
Cass., sent. n. 17394 del 2009; Cass., sent. n. 8243 del 2006). 
    Del  resto,   anche   le   ordinanze   di   rimessione   trattano
unitariamente i suoli agricoli e quelli non edificabili,  sicche'  lo
scrutinio di legittimita' costituzionale deve essere esteso anche  al
citato art. 15, primo comma, secondo periodo,  unico  essendo  per  i
detti  suoli  il  criterio  di  determinazione   dell'indennita'   di
espropriazione. 
    6. - Nel merito, le questioni sono fondate. 
    6.1. - In premessa, si deve ricordare che, ai sensi dell'art.  57
del d.P.R. n. 327 del 2001 «Le disposizioni del presente testo  unico
non si applicano ai progetti per i quali, alla  data  di  entrata  in
vigore dello stesso decreto,  sia  intervenuta  la  dichiarazione  di
pubblica  utilita',  indifferibilita'  ed  urgenza.   In   tal   caso
continuano ad applicarsi tutte le  normative  vigenti  a  tale  data»
(fissata al 30  giugno  2003:  art.  59  del  citato  d.P.R.).  Nelle
controversie a quibus, come si  evince  dalle  date  dei  decreti  di
esproprio e (quanto all'ordinanza della Corte di  appello  di  Lecce)
dalla data di stipula dell'atto di cessione volontaria con riserva di
conguaglio, le suddette  dichiarazioni  erano  intervenute  in  epoca
molto risalente, sicche' trova applicazione la  normativa  censurata,
non gia' l'art. 40, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 327 del 2001,  evocato
dalla Corte di appello di Lecce, norma della quale  detta  Corte  non
deve fare applicazione. 
    6.2. - La normativa censurata e' dettata dall'art.  5-bis,  comma
4, del d.l. n. 333 del 1992,  convertito,  con  modificazioni,  dalla
legge n. 359 del 1992 che, per la determinazione  dell'indennita'  di
espropriazione  relativa  alle  aree  agricole  ed   a   quelle   non
suscettibili di classificazione edificatoria, rinvia  alle  norme  di
cui al titolo  secondo  della  legge  n.  865  del  1971,  successive
modificazioni e integrazioni. In particolare, il rinvio  e'  all'art.
16, commi quinto e sesto, di detta legge, come  sostituiti  dall'art.
14 della legge n. 10 del 1977. 
    La norma,  per  la  parte  oggetto  di  censura,  stabilisce  che
l'indennita'  di  espropriazione,  per  le  aree  esterne  ai  centri
edificati di cui all'art. 18, e' commisurata al valore agricolo medio
annualmente calcolato da  apposite  commissioni  provinciali,  valore
corrispondente al tipo di coltura in atto  nell'area  da  espropriare
(comma quinto); ed aggiunge  che,  nelle  aree  comprese  nei  centri
edificati, l'indennita' e' commisurata al valore agricolo medio della
coltura piu' redditizia tra quelle che, nella regione agraria in  cui
ricade l'area da espropriare, coprono una superficie superiore  al  5
per cento di quella coltivata della  regione  agraria  stessa  (comma
sesto). 
    Tale disciplina, ad  avviso  delle  rimettenti,  si  porrebbe  in
contrasto  con  l'art.  1  del  primo  protocollo  addizionale   alla
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (d'ora in avanti,  CEDU),  nell'interpretazione
datane dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, e quindi violerebbe
l'art. 117, primo comma, Cost.,  nel  testo  introdotto  dalla  legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche  al  titolo  V  della
parte seconda della Costituzione). 
    6.3. - In via preliminare, si deve ricordare  che  questa  Corte,
con le sentenze n. 348 e 349 del 2007, ha chiarito i rapporti tra  il
citato art. 117, primo comma, Cost.  e  le  norme  della  CEDU,  come
interpretate dalla Corte europea. I principi metodologici  illustrati
nelle menzionate sentenze devono ritenersi in questa sede richiamati.
Alla luce di  essi,  si  deve,  dunque,  verificare:  a)  se  vi  sia
contrasto, non suscettibile di essere risolto in via  interpretativa,
tra la disciplina censurata e le norme della CEDU, come  interpretate
dalla  Corte  di  Strasburgo  ed  assunte  quali  fonti  integratrici
dell'indicato parametro costituzionale; b) se le  norme  della  CEDU,
invocate  come   integrazione   del   parametro   (cosiddette   norme
interposte), nell'interpretazione ad esse data dalla medesima  Corte,
siano compatibili con l'ordinamento costituzionale italiano (sentenza
n. 348 del 2007 citate). 
    Orbene, la Corte europea, con decisione della  Grande  Camera  in
data 29 marzo 2006, ha preso le mosse dal  dettato  dell'art.  1  del
protocollo n. 1, secondo cui: «Ogni persona  fisica  o  giuridica  ha
diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno puo' essere privato  della
sua proprieta'  se  non  per  causa  di  utilita'  pubblica  e  nelle
condizioni previste dalla legge e dai principi  generali  di  diritto
internazionale. Le precedenti disposizioni non portano pregiudizio al
diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi  da  essi  ritenute
necessarie  per  disciplinare  l'uso  dei  beni  in   modo   conforme
all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte  o
di altri contributi oppure di ammende» 
    Ha poi stabilito (tra gli altri) i seguenti principi: a)  le  tre
norme di cui si compone l'art. 1 del protocollo n. 1  sono  tra  loro
collegate, sicche' la seconda e la terza, relative a particolari casi
di  ingerenza  nel  diritto  al  rispetto  dei  beni,  devono  essere
interpretate alla luce del  principio  contenuto  nella  prima  norma
(punto 75); b) l'ingerenza nel diritto  al  rispetto  dei  beni  deve
contemperare un "giusto equilibrio" tra  le  esigenze  dell'interesse
generale della  comunita'  e  il  requisito  della  salvaguardia  dei
diritti fondamentali dell'individuo (punto 93); c) nello stabilire se
sia soddisfatto tale requisito, la Corte riconosce che lo Stato  gode
di un ampio margine di discrezionalita', sia nello scegliere i  mezzi
di  attuazione  sia  nell'accertare  se  le   conseguenze   derivanti
dall'attuazione siano giustificate, nell'interesse generale,  per  il
conseguimento  delle  finalita'  della  legge  che  sta   alla   base
dell'espropriazione (punto 94);  d)  la  Corte,  comunque,  non  puo'
rinunciare al suo potere di riesame e deve determinare se  sia  stato
mantenuto il necessario equilibrio in modo conforme  al  diritto  dei
ricorrenti al rispetto dei loro beni (punto 94); e) come la Corte  ha
gia' dichiarato, il prendere dei beni senza il pagamento di una somma
in ragionevole rapporto con il  loro  valore,  di  norma  costituisce
un'ingerenza sproporzionata e la totale  mancanza  d'indennizzo  puo'
essere  considerata  giustificabile,  ai  sensi   dell'art.   1   del
protocollo n. 1, soltanto in circostanze eccezionali,  ancorche'  non
sempre sia garantita dalla CEDU una riparazione integrale (punto 95);
f) in caso di "espropriazione isolata", pur se  a  fini  di  pubblica
utilita', soltanto una riparazione integrale puo' essere  considerata
in  rapporto  ragionevole  con  il  bene  (punto  96);  g)  obiettivi
legittimi di pubblica utilita', come quelli perseguiti da  misure  di
riforma economica o da misure  tendenti  a  conseguire  una  maggiore
giustizia sociale, potrebbero giustificare un indennizzo inferiore al
valore di mercato (punto 97). I principi, stabiliti  dalla  Corte  di
Strasburgo con la menzionata decisione, hanno  poi  trovato  conferma
nella giurisprudenza successiva di detta Corte, che  ad  essa  si  e'
richiamata (tra le piu' recenti: sentenza del  19  gennaio  2010,  in
causa Zuccala' contro Italia; sentenza dell'8 dicembre 2009, in causa
Vacca contro Italia; sentenza della Grande Camera del 1°aprile  2008,
in causa Gigli Costruzioni s.r.l. contro Italia). 
    6.4.  -  Nella  giurisprudenza  di  questa  Corte   e'   costante
l'affermazione che l'indennizzo assicurato all'espropriato  dall'art.
42,  terzo  comma,  Cost.,  se  non  deve  costituire  una  integrale
riparazione per la perdita subita - in quanto occorre  coordinare  il
diritto del privato con  l'interesse  generale  che  l'espropriazione
mira a realizzare - non puo' essere, tuttavia, fissato in una  misura
irrisoria o meramente  simbolica,  ma  deve  rappresentare  un  serio
ristoro (ex multis: sentenze n. 173 del 1991; sentenza  n.  1022  del
1988; sentenza n. 355 del 1985; sentenza n. 223 del 1983; sentenza n.
5 del 1980). Quest'ultima pronuncia ha chiarito che, per  raggiungere
tale finalita', «occorre  fare  riferimento,  per  la  determinazione
dell'indennizzo,  al  valore  del  bene   in   relazione   alle   sue
caratteristiche   essenziali,   fatte   palesi    dalla    potenziale
utilizzazione economica di esso, secondo legge. Solo in tal modo puo'
assicurarsi la congruita' del ristoro  spettante  all'espropriato  ed
evitare che esso sia meramente  apparente  o  irrisorio  rispetto  al
valore del bene». 
    Ad analoghe conclusioni e' giunta la gia' citata sentenza n.  348
del  2007,  la  quale  ha  ribadito  che  «deve  essere  esclusa  una
valutazione  del  tutto   astratta,   in   quanto   sganciata   dalle
caratteristiche essenziali del bene ablato» (principio gia' affermato
dalla sentenza n. 355 del 1985). 
    Si deve rilevare, a questo punto,  che  le  suddette  statuizioni
riguardano suoli edificabili. Cio' non significa, tuttavia, che  esse
non siano applicabili  anche  ai  suoli  agricoli  ed  a  quelli  non
suscettibili di classificazione edificatoria. 
    Invero, l'art. 1 del  primo  protocollo  della  CEDU,  nelle  sue
proposizioni, si riferisce con  previsione  chiaramente  generale  ai
beni, senza operare distinzioni in ragione della qualitas rei. E  non
a caso la Corte europea ha posto in risalto proprio  tale  previsione
generale, stabilendo che alla luce di essa (prima proposizione) vanno
interpretati  i  disposti  della  seconda  e  della  terza  (sentenza
Scordino contro Italia, punto 78).  Del  resto,  non  e'  ravvisabile
alcun motivo idoneo a giustificare, sotto il profilo qui in esame, un
trattamento differenziato, in presenza di  un  evento  espropriativo,
tra i suoli di cui si tratta (edificabili, da un lato, agricoli o non
suscettibili di classificazione edificatoria,  dall'altro).  Come  la
sentenza n. 348 del 2007 ha posto in  luce,  «sia  la  giurisprudenza
della Corte costituzionale italiana sia quella  della  Corte  europea
concordano nel ritenere che il punto di riferimento  per  determinare
l'indennita' di espropriazione deve essere il valore  di  mercato  (o
venale) del bene ablato».  E  tale  punto  di  riferimento  non  puo'
variare secondo la natura del bene, perche' in tal modo verrebbe meno
l'ancoraggio al dato della  realta'  postulato  come  necessario  per
pervenire alla determinazione di una giusta indennita'. 
    Con cio' non si vuol negare che  le  aree  edificabili  e  quelle
agricole o non edificabili abbiano carattere non omogeneo.  Si  vuole
dire che, pure in presenza di  tale  carattere,  anche  per  i  suoli
agricoli o non edificabili sussiste l'esigenza  che  l'indennita'  si
ponga «in rapporto ragionevole con il valore del bene». 
    In senso contrario non varrebbe richiamare la sentenza di  questa
Corte n. 261 del 1997, con la quale  fu  dichiarata  non  fondata  la
questione di legittimita' costituzionale della  normativa  censurata,
in riferimento agli artt. 3 e 24 e 42, terzo comma, Cost. 
    Infatti, quella pronuncia e' anteriore alla riforma attuata dalla
legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3  (Modifiche  al  titolo  V
della parte seconda della Costituzione), sicche' nella fattispecie in
essa trattata non poteva essere evocato come parametro costituzionale
il nuovo testo dell'art. 117, primo comma Cost., attualmente vigente. 
    7. - Alla luce di detto parametro, in relazione  all'art.  1  del
primo protocollo addizionale della CEDU  nell'interpretazione  datane
dalla Corte europea dei  diritti  dell'uomo,  nonche'  dell'art.  42,
terzo comma, Cost., si deve ora verificare  il  criterio  di  calcolo
dell'indennita'  di  espropriazione   contemplato   dalla   normativa
censurata, la quale prevede che, per i suoli agricoli  e  per  quelli
non edificabili,  la  detta  indennita'  sia  commisurata  al  valore
agricolo medio del terreno, secondo la disciplina  dettata  dall'art.
16 della legge n. 865  del  1971  e  successive  modificazioni.  Tale
valore e' determinato ogni anno, entro  il  31  gennaio,  nell'ambito
delle   singole   regioni   agrarie,   dalle   apposite   commissioni
provinciali, con le modalita' di cui  alla  norma  da  ultimo  citata
(dianzi richiamate). 
    Orbene, il valore tabellare cosi' calcolato  prescinde  dall'area
oggetto  del  procedimento   espropriativo,   ignorando   ogni   dato
valutativo inerente ai requisiti specifici del  bene.  Restano  cosi'
trascurate le caratteristiche  di  posizione  del  suolo,  il  valore
intrinseco del terreno (che  non  si  limita  alle  colture  in  esso
praticate, ma consegue anche alla presenza di elementi come  l'acqua,
l'energia elettrica, l'esposizione), la  maggiore  o  minore  perizia
nella conduzione del fondo e quant'altro  puo'  incidere  sul  valore
venale di esso. Il criterio, dunque, ha un carattere  inevitabilmente
astratto che elude il «ragionevole legame» con il valore di  mercato,
«prescritto  dalla  giurisprudenza  della  Corte  di   Strasburgo   e
coerente,  del  resto,  con  il  "serio  ristoro"   richiesto   dalla
giurisprudenza consolidata di questa  Corte»  (sentenza  n.  348  del
2007, citata, punto 5.7 del Considerato in diritto). 
    E' vero che il  legislatore  non  ha  il  dovere  di  commisurare
integralmente l'indennita' di espropriazione al valore di mercato del
bene ablato e che non sempre e' garantita dalla CEDU una  riparazione
integrale, come la stessa Corte di Strasburgo ha affermato, sia  pure
aggiungendo che in caso di "espropriazione isolata", pur se a fini di
pubblica utilita', soltanto una  riparazione  integrale  puo'  essere
considerata in rapporto ragionevole con il valore del bene. Tuttavia,
proprio  l'esigenza  di  effettuare  una  valutazione  di  congruita'
dell'indennizzo  espropriativo,  determinato   applicando   eventuali
meccanismi  di  correzione  sul  valore  di   mercato,   impone   che
quest'ultimo sia assunto quale termine di riferimento dal legislatore
(sentenza n. 1165  del  1988),  in  guisa  da  garantire  il  "giusto
equilibrio"tra  l'interesse   generale   e   gli   imperativi   della
salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui. 
    Sulla base delle esposte considerazioni  deve  essere  dichiarata
l'illegittimita' costituzionale della normativa censurata, perche' in
contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 1
del  primo  protocollo   addizionale   della   Convenzione   per   la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, e  con  l'art.
42, terzo comma, Cost. 
    Gli ulteriori profili dedotti in  riferimento  all'art.  3  Cost.
restano assorbiti. 
    8. - Ai sensi dell'art. 27 della  legge  11  marzo  1953,  n.  87
(Norme  sulla  costituzione   e   sul   funzionamento   della   Corte
costituzionale),    deve    essere    dichiarata     l'illegittimita'
costituzionale, in via consequenziale, dell'art. 40, commi 2 e 3, del
d.P.R. n. 327 del 2001, recante la  nuova  normativa  in  materia  di
espropriazione. Detta  norma,  che  apre  la  sezione  dedicata  alla
determinazione dell'indennita' nel caso di esproprio di  un'area  non
edificabile, adotta per tale determinazione, con  riguardo  ai  commi
indicati, il criterio del valore  agricolo  medio  corrispondente  al
tipo di  coltura  prevalente  nella  zona  o  in  atto  nell'area  da
espropriare e, quindi, contiene una disciplina che  riproduce  quella
dichiarata in contrasto con la Costituzione dalla presente sentenza. 
    La Corte non ritiene di  estendere  tale  declaratoria  anche  al
comma 1 del citato art.  40.  Detto  comma  concerne  l'esproprio  di
un'area non edificabile ma coltivata (il caso di area  non  coltivata
e' previsto dal comma 2), e stabilisce che l'indennita' definitiva e'
determinata in base al criterio del valore  agricolo,  tenendo  conto
delle colture effettivamente praticate sul fondo  e  del  valore  dei
manufatti  edilizi  legittimamente  realizzati,  anche  in  relazione
all'esercizio dell'azienda agricola. 
    La mancata previsione del valore agricolo medio e il  riferimento
alle  colture  effettivamente  praticate  sul  fondo  consentono  una
interpretazione della norma  costituzionalmente  orientata,  peraltro
demandata ai giudici ordinari.