IL TRIBUNALE Sciogliendo la riserva formulata all'udienza del 31 marzo 2011 nel giudizio iscritto al n. 761/2010 R.G. del Tribunale di Lecce Sezione di Maglie, promosso da Cancelli Antonio contro Unicredit Banca di Roma spa, Osserva La banca ha invocato a sostegno delle proprie ragioni il comma 61 dell'art. 2 del decreto-legge 29 dicembre 2010 n. 225 convertito con legge 26 febbraio 2011 n. 10, il quale testualmente recita: «In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l'art. 2935 del cod. civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi gia' versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». L'applicazione della su indicata disposizione alla presente controversia rileva sotto un duplice profilo. Innanzi tutto, perche', ai sensi della prima parte della norma, che il legislatore qualifica come norma interpretativa, dovrebbero essere dichiarate prescritte tutte le somme illegittimamente addebitate, che siano state annotate anteriormente al ... e cioe' piu' di dieci anni prima della notifica dell'atto di citazione. In secondo luogo, perche', in applicazione della seconda parte della norma, tutte le somme indebitamente iscritte nel conto non potrebbero essere ripetute, trattandosi di operazioni anteriori alla data di entrata in vigore della legge citata, verificatasi il 27 febbraio 2011. Le considerazioni sopra svolte rendono evidente che le questioni di legittimita' costituzionale delle due previsioni contenute nel comma 61 dell'art. 2 del decreto-legge n. 225/2010, sono rilevanti. Orbene le norme sopra menzionate appaiono in contrasto con numerosi principi della Carta costituzionale. E' necessario al riguardo, esaminare partitamente le due previsioni. La prima, concernente l'introduzione di una norma di interpretazione autentica dell'art. 2935 c.c., e' in contrasto con i principi di cui agli arti. 3, 24, 111, 47 e 117 Cost. Prima di delineare i profili di legittimita' costituzionale della norma considerata, e' utile premettere alcuni cenni su alcuni aspetti del contratto di conto corrente bancario, cosi' come si e' ormai delineato nella interpretazione della dottrina e della giurisprudenza. Al riguardo, sotto l'aspetto che qui interessa, ha un ruolo centrale la decisione della Sezioni Unite della cassazione Civile che, con sentenza n. 24418 del 2 dicembre 2010, ha enunciato il seguente principio: se dopo la conclusione di un contratto, il correntista agisce per far dichiarare la nullita' che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione e' soggetta, decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista, in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui e' stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati» (Cass. 2 dicembre 2010 n. 24418 in Foro It. 2011, I, 428). La Suprema Corte giunge a tale conclusione osservando che, nell'ambito del rapporto di conto corrente bancario, i versamenti operati dal correntista con la mera finalita' di ripristinare la provvista, non possono essere considerati atti di pagamento. Questo perche', sebbene le annotazioni in conto corrente si risolvano in un incremento del debito o in una riduzione del credito, non costituiscono comunque un atto solutorio, in quanto non sono volte a soddisfare il creditore, bensi' da ampliare o ripristinare la facolta' di indebitamento del correntista. Ne deriva che il carico di interessi illegittimamente computati, si traduce in una indebita limitazione della facolta' di indebitamento, ma non nell'anticipato pagamento degli interessi addebitati. E' solo in sede di chiusura del conto che si definiscono le posizioni di debito/credito tra il correntista e la banca e quindi e' solo in quel momento, di conseguenza, che i versamenti effettuati assumono definitivita' e percio' acquistano il carattere estintivo proprio dell'adempimento. La ricostruzione operata dalla Suprema Corte prescinde dal rilievo del carattere unitario del rapporto di conto corrente, valorizza il significato di «pagamento» e precisa il rapporto tra pagamento e annotazione. In particolare sottolinea che l'annotazione non e' un pagamento e che, quindi, l'azione di ripetizione non puo' svolgersi sulla base di una mera annotazione. Essa potra' svolgersi solo all'esito della chiusura del conto ed e', percio', da quel momento che deve essere calcolato il periodo di inerzia del correntista rilavante ai fini della prescrizione. Cosi' ricostruiti, secondo l'insegnamento della Suprema Corte, i tratti in questa sede rilevanti del rapporto di conto corrente, occorre osservare che la pretesa interpretazione autentica contenuta nella prima parte del comma 61 dell'art. 2 del decreto-legge n. 225/2010 appare, innanzitutto, del tutto irrazionale e, percio', in contrasto con l'art. 3 Costituzione. Al riguardo e' utile, preliminarmente, rammentare che la Corte costituzionale ha, in piu' occasioni, affermato che ai fini della violazione del principio di eguaglianza, non e' necessaria la comparazione tra due posizioni simili, essendo sufficiente a violare il dettato costituzionale la irragionevolezza di una norma la quale in se' stessa appaia in contrasto con il sistema o comporti conseguenze pratiche in se' e per se' aberranti (cfr. Corte cost. 9 luglio 2009 n. 206 in Foro it. 2009, I, 2573; Corte cost. 5 marzo 2009 n. 62 in Foro it. 2009, I, 1999; Corte cost. 13 giugno 2008 n. 206 in Notariato, 2008, 6, 616; Corte cost. 10 febbraio 2006 n. 50 in Foro it. 2006, I, 966). La pretesa interpretazione autentica, contenuta nella norma qui impugnata, introduce un profilo di irrazionalita' sotto molteplici aspetti. Innanzitutto attribuisce all'annotazione un effetto solutorio che l'annotazione non puo' per se stessa avere. Essa, difatti, ha finalita' meramente contabili essendo esclusivamente volta a consentire il calcolo, man mano, dell'ulteriore indebitamento consentito. Solo il calcolo finale e' idoneo a cristallizzare definitivamente i rapporti di dare e avere. La previsione del legislatore del 2011 appare irrazionale anche perche' fa decorrere il termine di prescrizione da un momento nel quale non e' ancora possibile esperire l'azione di ripetizione dell'indebito non essendovi stato il pagamento. La previsione, di conseguenza, riduce irrazionalmente i termini di prescrizione dell'azione di ripetizione, in quanto quest'ultima vede esistere i propri presupposti di fatto solo all'atto della chiusura del conto e, tuttavia, ai fini della prescrizione, bisognerebbe tener conto del periodo intercorso tra l'annotazione e la chiusura del conto. Se, poi, la norma dovesse interpretarsi nel senso che si riferisca all'azione volta a far dichiarare la nullita' della previsione contrattuale in base alla quale e' stata effettuata l'annotazione, si sarebbe in presenza di una disposizione di carattere eccezionale priva di qualsiasi giustificazione. E' principio generale, difatti, e che non tollera eccezioni, che l'azione di nullita' e' imprescrittibile. La disposizione, viceversa, introdurrebbe un limite temporale all'esperimento di tale azione decorrente dall'annotazione. Laddove si attribuisse alla su indicata disposizione la natura di norma di interpretazione autentica, con conseguente efficacia retroattiva, aderendo alla qualificazione fatta dallo stesso legislatore, la stessa sarebbe in contrasto con l'art. 3 cost. sotto un ulteriore profilo. Come ha dichiarato la Corte costituzionale in piu' decisioni, il legislatore non puo' arbitrariamente introdurre norme retroattive. Le medesime, difatti, devono rispettare una serie di limiti che «attengono alla salvaguardia oltre che dei principi costituzionali, di altri fondamentali valori di liberta' giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza che ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate disparita' di trattamento, la tutela dell'affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto, la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico» (cfr. Corte cost. 11 giugno 2010 n. 209 in Foro it., 2011, 1, 375; Corte cost. 23 novembre 1994 n. 397 in Foro it. 1995, I, 1440). La norma considerata viola i predetti canoni. Innanzitutto, la stessa introduce una deroga al principio generale stabilito dall'art. 2935 c.c. che non trova alcuna ragionevole giustificazione, non solo, ma lede l'affidamento dei risparmiatori ingenerato dalla legge vigente e da consolidata giurisprudenza circa l'aspettativa di ottenere la ripetizione di quanto illegittimamente addebitato dalla banche, minando in tal modo anche la certezza dei rapporti giuridici e la coerenza del sistema. Alla violazione poi dell'art. 3 cost. si deve aggiungere anche la palese violazione degli arti. 24 e 111 Cost. La norma considerata, difatti, ha un rilievo non solo di carattere sostanziale, ma anche di carattere processuale nel momento in cui attribuisce effetti decisori alla prova formata da una sola delle parti. Al riguardo, e' utile rammentare che nell'ordinamento non e' dato riconoscimento alla prova precostituita da una sola delle parti. Difatti, se si fa riferimento al tema dei rapporti contenziosi con l'imprenditore, si deve rilevare che gli artt. 2709 e ss c.c. riconoscono efficacia probatoria alle scritture dell'imprenditore solo «contro» di lui. Ove si faccia riferimento alla disciplina dettata dagli artt. 633 e ss. cpc in materia di procedimento di ingiunzione, si deve evidenziare che l'art. 634 cpc attribuisce rilevanza alle su indicate scritture contabili in favore dell'imprenditore solo ai fini di una tutela sommaria. Alle su indicate scritture, infatti, in ragione della loro formazione unilaterale, non e' riconosciuto valore di «prova piena» nell'ambito del giudizio di' cognizione ordinaria eventualmente instauratasi a seguito dell'opposizione al decreto ingiuntivo ammesso (cfr. Cass. civ. sez. III 28 giugno 2010 n. 15383 in Mass. Foro It. 695; Cass. civ. sez. III 3 marzo 2009 n. 5071 in Mass. Foro It. 2009, 301). La disposizione qui considerata, viceversa, consente ad una delle parti di precostituire la prova del dies a quo del termine di prescrizione, cosi' sovvertendo i principi generali in materia di prova. Si aggiunga che la norma di risolve nell'attribuzione alla banca di un potere di attestazione, attraverso l'annotazione, in contrasto con la marcata natura privatistica che la piu' recente legislazione in materia bancaria ha attribuito agli istituti di credito. Il sistema cosi' delineato appare in palese contrasto con i principi enunciati dagli artt. 24 e 111 Cost. Le norme costituzionali richiamate, lette in modo coordinato, esprimono, tra l'altro, l'esigenza che la difesa in giudizio possa svolgersi in modo adeguato e con parita' delle armi tra i contendenti. Tale parita' riguarda non solo il potere di allegazione, ma anche il diritto alla prova e, percio', rispetto ad essi le parti devono trovarsi in una posizione di assoluta parita', tale che non sembra possa essere consentito ad una di esse godere di una posizione privilegiata nella costituzione della prova. Infine, occorre rammentare che l'art. 47 cost. afferma che «la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme». La norma evidentemente, nel momento in cui fa riferimento al necessario incoraggiamento del risparmio, ha il chiaro obiettivo di assicurare che vi sia un sistema normativo e regolamentare e prassi amministrative che riconoscano tutela al singolo risparmiatore, in modo che sia incentivato a contribuire alla formazione di quella quota di risparmio collettivo che costituisce un elemento indispensabile per gli investimenti e per la complessiva evoluzione del sistema economico nazionale. Appare evidente che il comma 61 dell'art. 2 del decreto-legge n. 225/2010, nella parte sin qui considerata, introduce una disciplina di privilegio per le banche e percio', automaticamente, di svantaggio per le controparti stesse e, quindi, per i singoli risparmiatori. In questo senso la norma si sottrae al dettato di cui all'art. 47 cost. che, viceversa, individua nella protezione dei risparmiatori un interesse primario meritevole di tutela. La norma in esame si pone, inoltre, in contrasto con l'art. 117 1 comma Cost. in relazione all'art. 12 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea ai sensi del quale «nella definizione e nell'attuazione di altre politiche o attivita' sono prese in considerazione le esigenze inerenti alla protezione dei consumatori». Il legislatore del 2011, introducendo una disciplina palesemente di favore per le banche e sfavorevole ai consumatori, viola il fondamentale principio cui deve essere improntata l'attivita' legislativa dell'Unione e degli Stati che vi aderiscono, secondo cui, nei rapporti contrattuali con le imprese, deve essere assicurata particolare tutela e protezione al consumatore, in quanto contraente debole, nell'ottica di un necessario riassetto degli squilibri di fatto esistenti. Infine va presa in considerazione la seconda parte del comma 61 dell'art. 2 del decreto-legge n. 225/2010 a tenore del quale «in ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi gia' versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». La formulazione della norma e' certamente ambigua, in quanto si presta a due possibili interpretazioni. La prima, coerente con il periodo precedente, potrebbe essere quella secondo cui per «importi gia' versati» si debbono intendere gli importi gia' annotati. Una tale interpretazione significherebbe che gli importi erroneamente annotati, quale che sia la fonte dell'errore, non potrebbero essere oggetto di ricalcolo, laddove l'annotazione fosse avvenuta prima dell'entrata in vigore della legge. La seconda possibile interpretazione e' che l'espressione «importi gia' versati» si riferisca agli importi che, a chiusura del conto, siano stati determinati ed eventualmente anche corrisposti. La norma, cioe', avrebbe l'effetto di cristallizzare la situazione di fatto venutasi a creare a seguito della chiusura del conto. Tutte e due le interpretazioni appaiono in contrasto con fondamentali principi di ordine costituzionale e, in particolare, con gli artt. 3, 23, 24, 111 e 117 Cost. Innanzitutto appare manifesta l'irrazionalita' della disposizione, la quale determina un principio di irripetibilita' connesso al mero dato di fatto dell'entrata in vigore della legge senza alcuna esigenza di ordine pubblicistico che lo giustifichi. Sia che si voglia fare riferimento al versamento come annotazione, sia che si voglia fare riferimento al versamento come riferito alla chiusura del conto, si e' in presenza di diritti delle parti, scaturenti da un eventuale errore di calcolo o da nullita' della clausole sulla base dei quali i calcoli sono stati effettuati, i quali vengono ad essere cancellati dalla nuova disposizione. Quest'ultima, quindi, finisce con l'essere una norma retroattiva nel momento in cui viene ad incidere su posizioni giuridiche gia' formatesi, anche se non ancora accertate giudizialmente. In argomento, tuttavia, merita osservare che l'eventuale sentenza non avrebbe un effetto costitutivo sul rapporto, in quanto sarebbe di accertamento della nullita' o dell'errore e la condanna alla ripetizione dell'indebito sarebbe una mera conseguenza del predetto accertamento. Come sovra gia' chiarito, il legislatore non puo' arbitrariamente introdurre norme retroattive, ma deve rispettare i limiti rappresentati dal principio di ragionevolezza, di tutela dell'affidamento legittimamente sorto, di coerenza e di certezza dell'ordinamento giuridico(cfr. Corte cost. 11 agosto 2010 n. 209 in Foro It. 2011, I, 375; Corte cost. 23 novembre 1994 n. 397 in Foro It. 1995, I, 1440). La norma considerata viola tutti i predetti canoni. Sul piano della ragionevolezza non si comprende quale possa essere il fondamento tale da legittimare l'eccezione alla normale regola della irretroattivita' della legge. Si deve aggiungere che la norma, operando retroattivamente, lede palesemente l'affidamento dei cittadini nella legge, lacerando la coerenza dell'ordinamento stesso. Infine, il fatto stesso che si introduca una norma la quale regola anche per il passato in modo diverso i rapporti patrimoniali, arreca un vulnus evidente al principio della certezza del diritto. Sotto un ulteriore profilo, la disposizione considerata ha un sostanziale effetto ablativo nei confronti di chi sia stato vittima di un errore di annotazione ovvero di un'annotazione in forza di una clausola nulla. Difatti, la disposizione si risolve in una «espropriazione» dei diritti di una parte del rapporto contrattuale, che non potra' piu' far valere il diritto alla ripetizione dell'indebito nei confronti dell'altra parte. E' palese, nel senso indicato, la violazione dell'art. 23 Cost. che, seppur consente, mediante legge ordinaria, l'ablazione di diritti, presuppone, implicitamente, che cio' avvenga nell'interesse pubblico e non per scelta arbitraria di sacrificare il diritto di alcuni privati a favore di altri. Nella fattispecie, come si e' gia' piu' volte detto, non e' dato rinvenire alcuna ragione di interesse pubblico che possa legittimare il contenuto ablatorio della previsione. Sotto altro profilo va anche rilevato che la disposizione si risolve in una violazione dell'art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. La norma citata recita al comma 1 «ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno puo' essere privato della sua proprieta' se non per causa di utilita' pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale». Detta previsione e' stata interpretata dalla Corte Europea nel senso che «la nozione di "beni " puo' ricomprendere sia dei "beni effettivi " che dei valori patrimoniali compresi i crediti, in virtu' dei quali il ricorrente puo' pretendere di avere almeno una "speranza legittima" di ottenere l'effettivo godimento di un diritto di proprieta'. Al contrario, la speranza di vedere riconosciuto un diritto di proprieta' che si e' nell'impossibilita' di esercitare effettivamente non puo' essere considerato come un bene ai sensi dell'art. 1 del Protocollo n. 1 e lo stesso vale per un credito condizionale che si estingue a causa del mancato verificarsi della condizione» (cfr Maurizio De Stefano contro Italia n. 28443/06, Principe Hans-Adam IL del Liechtenstein ci Germania n. 45527/98 p. 82 e 83 CEDU 2001 VILI su www.osservatoriocedu.it). La norma qui considerata si risolve, come detto, in una ingiustificata ablazione di un diritto di credito e, percio', contrasta con l'art Protocollo addizionale alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, il quale attraverso l'art. 117 cost. e' parte integrante dell'ordinamento italiano. La Corte cost. ha chiarito, infatti che «l'art. 117 primo comma cost. condiziona l'esercizio della potesta' legislativa dello Stato e delle regioni al rispetto degli obblighi internazionali tra i quali rientrano quelli derivanti dalla Cedu (...) tra gli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la sottoscrizione e la ratifica della Cedu vi e' quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificatamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione (cfr. C. cost. 24 ottobre 2007 n. 348 in Foro It. 2008, I, 40; C. cost. 24 ottobre 2007 n. 349 in Foro It. 2008, I. 47). Alla stregua di tutte le considerazioni che precedono, deve dichiararsi rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale del comma 61 dell'art. 2 decreto-legge 29 dicembre 2010 n. 255 in riferimento agli artt. 3, 23, 24, 47, 111 e 117 Cost.