Sentenza 
 
nei giudizi di legittimita' costituzionale  dell'art.  10,  comma  3,
della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche  al  codice  penale  e
alla  legge  26  luglio  1975,  n.  354,  in  materia  di  attenuanti
generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze
di reato per i recidivi, di usura e di  prescrizione),  promossi  con
ordinanze dell'11 giugno  2010  dalla  Corte  di  cassazione,  del  4
novembre 2010 dalla Corte d'appello di Venezia e del 17 dicembre 2010
dalla Corte d'appello di Bari, rispettivamente iscritte al n. 344 del
registro ordinanze 2010 ed ai nn. 1 e 47 del registro ordinanze  2011
e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.  45,  prima
serie speciale, dell'anno 2010 e nn. 3 e 13,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2011. 
    Visti gli atti di costituzione di De Giovanni Fabrizio, Micciche'
Giovanni, Deliu Fatos nonche' gli atti di intervento  del  Presidente
del Consiglio dei ministri; 
    Udito nell'udienza pubblica del 21 giugno 2011 e nella camera  di
consiglio del 22 giugno 2011 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi; 
    Uditi gli avvocati Emanuele  Fragasso  per  Deliu  Fatos,  Franco
Coppi e Francesco Bertorotta per Micciche' Giovanni, Pilerio Plastina
per De Giovanni Fabrizio e l'avvocato dello Stato  Massimo  Giannuzzi
per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.  -  La  Corte  di  cassazione,  seconda  sezione  penale,  con
ordinanza emessa l'11 giugno 2010 e pervenuta a  questa  Corte  il  6
ottobre 2010 (r.o. n. 344 del 2010),  ha  sollevato,  per  violazione
dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art.
7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto
1955, n. 848 (d'ora in avanti «CEDU»), come interpretato dalla  Corte
europea   dei   diritti   dell'uomo,   questione   di    legittimita'
costituzionale dell'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n.
251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n.  354,
in materia di attenuanti  generiche,  di  recidiva,  di  giudizio  di
comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di
prescrizione), nella parte in cui esclude  l'applicazione  dei  nuovi
termini di prescrizione, se piu' brevi, ai «processi gia' pendenti in
grado di appello o avanti alla Corte di cassazione». 
    Il giudice a quo premette che con sentenza del 30 maggio 2007  la
Corte  di  appello  di  Palermo  aveva  confermato  la  sentenza  del
Tribunale di Agrigento, la quale aveva dichiarato gli imputati G.  M.
e F. D.G. colpevoli del delitto  di  cui  all'art.  12-quinquies  del
decreto-legge 8 giugno 1992,  n.  306  (Modifiche  urgenti  al  nuovo
codice  di  procedura  penale  e  provvedimenti  di  contrasto   alla
criminalita' mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla  legge  7
agosto 1992, n. 356. 
    La Corte rimettente riferisce che gli imputati avevano  proposto,
a mezzo dei rispettivi difensori, tempestivo ricorso  per  cassazione
contro la sentenza di secondo grado, chiedendone l'annullamento,  tra
l'altro, perche' al momento dell'entrata in vigore della legge n. 251
del 2005 il procedimento non era  ancora  pendente  in  appello,  non
essendo gli atti pervenuti al giudice di  secondo  grado:  il  reato,
pertanto, si sarebbe prescritto prima della pronuncia della  sentenza
di appello. In via subordinata, la difesa di G.  M.  aveva  sollevato
eccezione di illegittimita' costituzionale  dell'art.  10,  comma  3,
della legge n. 251 del 2005 per contrasto con l'art. 117 Cost. 
    Secondo il giudice a quo, il motivo  con  il  quale,  sulla  base
della normativa vigente, era stata dedotta l'avvenuta prescrizione e'
infondato, in quanto le sezioni unite della Corte di cassazione hanno
stabilito, con sentenza n. 47008 del 29 ottobre 2009, che -  ai  fini
dell'applicazione della disciplina transitoria  di  cui  all'art.  10
della legge n. 251 del 2005 - il processo deve considerarsi  pendente
in appello subito dopo la pronuncia della  sentenza  di  condanna  di
primo grado. Nel caso in esame, la  sentenza  di  condanna  di  primo
grado era stata pronunciata il 2 maggio 2005  e  quindi,  secondo  il
diritto vivente, il processo doveva ritenersi pendente in appello  in
data anteriore all'entrata in vigore dei nuovi,  e  piu'  favorevoli,
termini di prescrizione. 
    La Corte rimettente, innanzitutto, ricorda che il  ricorrente  ha
richiamato l'art. 15, primo comma, del Patto internazionale  relativo
ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966,
ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre  1977,  n.  881,  il
quale stabilisce che  «se,  posteriormente  alla  commissione  di  un
reato, la legge prevede l'applicazione di una  pena  piu'  lieve,  il
colpevole deve beneficiarne», e ha «correttamente osservato che  gia'
questa  norma  internazionale,  se  parametrata  non  all'art.  3  ma
all'art.  117,   primo   comma,   della   Costituzione,   rende   non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
della disciplina transitoria in esame, perche' priva  l'imputato,  il
cui  processo  sia  gia'  pendente  in  appello  o   in   cassazione,
dell'ottemperanza alla regola cogente, imposta dalla  norma  pattizia
("deve beneficiarne") per la quale  la  lex  mitior  deve  essere  di
immediata applicazione, senza che le  deroghe  disposte  dalla  legge
ordinaria possano essere giustificate dal bilanciamento con interessi
di analogo rilievo». 
    Cio' premesso, muovendo dall'analisi della sentenza  n.  393  del
2006,  la  Corte  di   cassazione   richiama   l'orientamento   della
giurisprudenza costituzionale secondo cui,  da  un  lato,  l'art.  2,
quarto comma, del codice penale deve essere  interpretato  nel  senso
che la locuzione «disposizioni piu' favorevole al reo» si riferisce a
tutte quelle norme che apportino modifiche in melius alla  disciplina
di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono  sulla
prescrizione del reato, dall'altro, «il  regime  giuridico  riservato
alla lex mitior, e segnatamente la  sua  retroattivita',  non  riceve
nell'ordinamento la tutela privilegiata di cui all'art.  25,  secondo
comma, della  Costituzione,  che  concerne  soltanto  il  divieto  di
applicazione  retroattiva  della  norma  incriminatrice,  nonche'  di
quella altrimenti piu' sfavorevole per il reo»,  con  la  conseguenza
che «eventuali deroghe  al  principio  di  retroattivita'  della  lex
mitior, ai sensi  dell'art.  3  della  Costituzione,  possono  essere
disposte dalla legge ordinaria quando ricorra una sufficiente ragione
giustificativa». 
    Viene  poi  in  rilievo,   nella   prospettazione   della   Corte
rimettente, la giurisprudenza costituzionale sulle norme della  CEDU,
«che - nel  significato  loro  attribuito  dalla  Corte  europea  dei
diritti  dell'uomo,  specificamente  istituita  per  dare   ad   esse
interpretazione  ed  applicazione  (art.  32,  paragrafo   1,   della
Convenzione)  -  integrano,  quali  norme  interposte,  il  parametro
costituzionale   espresso   dall'art.   117,   primo   comma,   della
Costituzione, nella  parte  in  cui  impone  la  conformazione  della
legislazione   interna   ai   vincoli   derivanti   dagli    obblighi
internazionali (sentenze n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008)». 
    Il giudice a quo richiama, infine, la giurisprudenza della  Corte
europea dei diritti  dell'uomo,  e  segnatamente  la  sentenza  della
Grande Camera del 17 settembre 2009 (Scoppola contro Italia), secondo
cui «l'art. 7 della Convenzione,  che  stabilisce  il  principio  del
divieto di applicazione retroattiva  della  legge  penale,  incorpora
anche il corollario del diritto  dell'accusato  al  trattamento  piu'
lieve», sancendo non solo il  principio  dell'irretroattivita'  della
legge penale piu' severa,  ma  anche,  implicitamente,  il  principio
della  retroattivita'  della  legge  penale  meno  severa.  Per  cui,
prosegue la Corte di cassazione, «se la legge  penale  in  vigore  al
momento della perpetrazione del reato e le  leggi  penali  posteriori
adottate prima  della  pronuncia  di  una  sentenza  definitiva  sono
diverse, il giudice deve applicare quella le  cui  disposizioni  sono
piu' favorevoli all'imputato». 
    Poiche' l'art. 7 della CEDU, nel  significato  chiarito,  integra
una norma interposta rispetto  al  parametro  costituzionale  di  cui
all'art. 117 Cost. -  conclude  il  giudice  rimettente  -  la  Corte
costituzionale,   nel   valutare   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 10, comma 3, della legge n.  251  del  2005,
«resta legittimata a verificare se la norma della Convenzione - norma
che si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale - si ponga
eventualmente in conflitto con altre norme della  Costituzione»,  nel
qual caso dovra' essere esclusa  la  sua  idoneita'  a  integrare  il
parametro considerato. Ad avviso della  Corte  di  cassazione  pero',
questo scrutinio non e' stato effettuato con la sentenza n.  393  del
2006, non solamente perche' il parametro di riferimento era l'art.  3
Cost.,  ma  anche  perche'  «gli  elementi   assunti   come   tertium
comparationis [erano] costituiti  da  interessi  di  analogo  valore,
senza indicazione  specifica  di  conflitto  con  altre  norme  della
Costituzione». 
    La questione sarebbe infine rilevante: in primo luogo, perche' il
reato per cui si procede e' punito nel massimo con la pena  detentiva
di  sei  anni  di  reclusione,  sicche'  secondo  la  regola  dettata
dall'art. 157 cod. pen., come modificato dalla legge n. 251 del 2005,
la prescrizione massima, tenuto conto del novellato art.  160,  terzo
comma, cod. pen., e' di sette anni e sei mesi e  il  termine  sarebbe
gia' decorso; in secondo luogo, perche' - a fronte  dell'infondatezza
di altri motivi di ricorso - e', invece, fondato quello  con  cui  le
difese degli imputati avevano lamentato la violazione  dell'art.  519
cod. proc. pen., perche' il Tribunale di Agrigento, prima, e la Corte
di appello di Palermo, poi, non avevano proceduto  all'assunzione  di
una prova decisiva (l'audizione di nuovi testimoni), richiesta  dagli
imputati a seguito della  modifica  dell'imputazione  effettuata  dal
pubblico ministero. 
    Ad avviso della Corte  rimettente,  l'accoglimento  del  suddetto
motivo  di  ricorso  comporterebbe  l'annullamento   della   sentenza
impugnata con rinvio ad altra  sezione  della  Corte  di  appello  di
Palermo. Pertanto - conclude il giudice  a  quo  -  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 10, comma 3, della legge n. 251
del  2005  e'   rilevante:   «ove   [infatti]   dovesse   dichiararsi
l'estinzione per prescrizione del reato ascritto, sarebbe  del  tutto
inutile procedere all'assunzione delle prove indicate  dalla  difesa,
in omaggio alla regola dettata dall'art. 129 cod. proc. pen.». 
    1.1. - E' intervenuto nel giudizio di costituzionalita', con atto
depositato il 30 novembre  2010,  il  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata. 
    La difesa dello Stato rileva come l'art. 10, comma 3, della legge
n. 251 del 2005 contenga una disposizione,  derogatoria  rispetto  al
principio di retroattivita'  della  norma  piu'  favorevole  al  reo,
ragionevole  e  rispettosa  degli  altri   principi   costituzionali.
L'intervenuta  condanna  degli  imputati  in  primo  grado,  infatti,
renderebbe ragionevole la scelta normativa di mantenere il  pregresso
termine di prescrizione, «non venendo meno la pretesa punitiva [dello
Stato] in presenza di un fumus di colpevolezza  derivante  da  quella
condanna». 
    Inoltre,  conclude  l'Avvocatura   generale   dello   Stato,   la
circostanza che si sia interamente svolto il giudizio di primo grado,
con l'acquisizione delle prove  e  la  pronuncia  della  sentenza  di
condanna, avrebbe l'effetto di evitare che  la  causa  estintiva  del
reato ponga nel nulla un intero dibattimento, vanificando l'attivita'
processuale compiuta,  con  conseguente  lesione  del  principio  del
giusto processo sancito dall'art. 111 Cost. 
    1.2. - Nel giudizio di costituzionalita' si  e'  costituito,  con
memoria depositata il 10 novembre 2010, G. M., imputato nel  giudizio
a  quo,  che  ha  concluso  per  la  declaratoria  di  illegittimita'
costituzionale della norma impugnata. 
    La difesa dell'imputato premette che la questione sollevata dalla
Corte remittente e' rilevante, in quanto l'applicazione del  nuovo  e
piu' favorevole termine di prescrizione, che imporrebbe al giudice di
pronunciare sentenza dichiarativa di estinzione  del  reato,  sarebbe
impedita, nel processo in corso, dal  contenuto  normativo  dell'art.
10, comma 3, della legge n. 251 del 2005: il giudizio a carico di  G.
M., infatti, era  gia'  pendente  in  grado  di  appello  al  momento
dell'entrata in vigore della  suddetta  legge  (l'8  dicembre  2005),
essendo stata pronunciata sentenza di condanna in primo grado in data
2 maggio 2005. 
    In  ordine   alla   fondatezza   della   questione,   la   difesa
dell'imputato   richiama,   da   un   lato,   l'orientamento    della
giurisprudenza costituzionale sul rapporto tra le  fonti  di  diritto
interno e il diritto internazionale pattizio, tra cui si  colloca  la
CEDU, dall'altro, le sentenze della Corte costituzionale n.  393  del
2006 e n. 72 del 2008 che hanno negato la  costituzionalizzazione,  e
quindi l'inderogabilita', del principio sancito dall'art.  2,  quarto
comma, cod. pen. Con la seconda pronuncia, in particolare,  la  Corte
costituzionale ha ritenuto infondata  la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 10, comma 3, della legge n.  251  del  2005,
reputando   ragionevole   la   scelta   legislativa   di    escludere
l'applicazione della lex mitior  per  gli  imputati  i  cui  processi
pendano in grado di appello o in cassazione, al momento  dell'entrata
in vigore della legge stessa. 
    Tuttavia, a parere  della  difesa  dell'imputato,  «il  parametro
costituzionale prospettato dal giudice a quo  nel  presente  giudizio
(art. 117, primo comma, della Costituzione) fa mutare il criterio  di
valutazione e (...) anche il risultato del giudizio di compatibilita'
costituzionale della norma oggi sindacata (...)».  Il  parametro  che
viene in rilievo, infatti, non e' quello della  ragionevolezza  della
scelta normativa  nell'individuazione  del  momento  processuale  dal
quale far scaturire l'irretroattivita' della norma penale favorevole,
bensi' quello del contrasto della legge che impedisce  l'applicazione
della lex mitior ai processi in corso con la disposizione dell'art. 7
della CEDU,  nel  significato  ad  essa  attribuito  dalla  Corte  di
Strasburgo. 
    La difesa dell'imputato richiama, in proposito, la  sentenza  del
17 settembre 2009 (Scoppola contro Italia), con cui la Grande  Camera
della Corte europea dei diritti dell'uomo ha affermato che  l'art.  7
della CEDU - che sancisce  il  principio  di  irretroattivita'  della
legge penale sfavorevole - include nel suo contenuto normativo  anche
il principio del diritto dell'accusato ad ottenere un trattamento  in
mitius nel caso di successione di leggi penali nel  tempo  prima  del
passaggio  in  giudicato  della  sentenza.  La  difesa  dell'imputato
ricorda, ancora, come tra le  disposizioni  piu'  favorevoli  al  reo
rientrino anche quelle in materia di  prescrizione,  data  la  natura
sostanziale   dell'istituto   e   considerato   l'effetto   prodotto,
consistente nella rinuncia totale dello Stato alla potesta' punitiva:
la disposizione transitoria contenuta nell'art. 10,  comma  3,  della
legge  n.  251  del  2005,  nella   parte   in   cui   non   consente
l'applicabilita' dei piu' brevi termini di prescrizione  nei  giudizi
in corso alla data della sua entrata in vigore, pertanto, «negando il
principio  di  retroattivita'  della  legge  penale  piu'  favorevole
all'accusato, [contrasterebbe] con l'art. 7  della  CEDU  e,  quindi,
[violerebbe] l'art. 117 della Costituzione». 
    Il principio di retroattivita' in mitius riconosciuto dall'art. 7
della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo - conclude la
difesa dell'imputato - da un lato, determina un ampliamento di tutela
di un diritto fondamentale della persona ed e' connaturato  a  valori
che trovano la loro espressione nel  principio  di  uguaglianza,  nel
principio  di  legalita'  materiale,   nella   presunzione   di   non
colpevolezza dell'imputato e in quello del favor rei, dall'altro, non
contrasta con  altre  norme  costituzionali  poste  a  loro  volta  a
garanzia di  diritti  fondamentali.  In  particolare,  gli  interessi
dell'efficienza del processo e della  salvaguardia  dei  diritti  dei
destinatari  della   funzione   giurisdizionale,   che   sono   stati
individuati dalla Corte costituzionale come parametro del giudizio di
ragionevolezza della scelta  legislativa  di  derogare  al  principio
sancito dall'art. 2, quarto comma,  cod.  pen.  in  quanto  privi  di
copertura costituzionale, non possono essere  ritenuti  in  contrasto
con il principio dell'applicazione  retroattiva  della  legge  penale
mitior, inteso come  diritto  inalienabile  ed  universale  dell'uomo
riconosciuto  a  livello  di  diritto  internazionale  pattizio.   Il
principio di retroattivita' della legge penale  piu'  favorevole  non
contrasterebbe ne' con il principio di efficienza del  processo,  «di
per  se'  di  difficile  collocazione  all'interno   di   una   norma
costituzionale (che non sia l'art. 111 del Costituzione)», ne' con il
principio della salvaguardia dei diritti dei soggetti che,  in  vario
modo, sono destinatari della funzione giurisdizionale: l'imputato non
subirebbe alcuna  diminuzione  delle  garanzie  offerte  dalle  norme
costituzionali; la parte civile non perderebbe il diritto di agire in
giudizio, in sede civile, per il risarcimento del danno; il principio
di obbligatorieta'  dell'azione  penale  non  subirebbe  limitazioni,
attesa la natura sostanziale e non processuale della prescrizione. 
    1.3. -  Si  e'  altresi'  costituito  nel  presente  giudizio  di
costituzionalita', con memoria depositata il  23  novembre  2010,  F.
D.G., anch'egli imputato nel giudizio a quo, chiedendo che  la  norma
impugnata   sia   dichiarata   incostituzionale   sulla    base    di
considerazioni del tutto analoghe a quelle svolte dalla difesa di  G.
M. 
    1.4. - Con una successiva memoria, depositata il 31 maggio  2011,
l'Avvocatura generale dello Stato rileva che le norme  internazionali
pattizie citate dall'ordinanza di rimessione, facendo riferimento  al
principio  «dell'applicazione  retroattiva  della  pena  piu'  mite»,
utilizzano una formula ben diversa  da  quella  dell'art.  2,  quarto
comma, cod. pen. Ne consegue che solamente una  forzatura  del  testo
sovranazionale potrebbe far rientrare tra le leggi  che  stabiliscono
una  pena  piu'  lieve  anche  quelle  che  riducono  i  termini   di
prescrizione del reato. 
    Inoltre - osserva  la  difesa  dello  Stato  -  il  sindacato  di
costituzionalita' per violazione dell'art. 117,  primo  comma,  Cost.
deve essere improntato al ragionevole bilanciamento  tra  il  vincolo
derivante  dagli  obblighi  internazionali  e  la  tutela  di   altri
interessi costituzionali. La deroga all'applicazione retroattiva  dei
piu' brevi termini di prescrizione, come chiarito dalla  sentenza  n.
72 del 2008, non e' irragionevole ed e' diretta a tutelare  interessi
di  non  minor  rilievo,  quali  l'efficienza  del  processo   e   la
salvaguardia dei soggetti destinatari della funzione giurisdizionale. 
    2. - La Corte di Appello di Venezia, con ordinanza  emessa  il  4
novembre 2010 e pervenuta a questa Corte il 3 gennaio 2011 (r.o. n. 1
del  2011),  dubita,  del  pari,  della  legittimita'  costituzionale
dell'art. 10, comma 3, della legge n. 251 del  2005,  per  violazione
degli artt. 111 e 117, primo comma, Cost., in  relazione  all'art.  7
della  CEDU,  come  interpretato  dalla  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo. 
    Il giudice a  quo  riferisce  di  essere  investito  dell'appello
proposto dall'imputato D. F. e dal  procuratore  generale  contro  la
sentenza emessa dal Tribunale di Padova il 15 gennaio 2001,  «che  ha
giudicato del reato di cui agli artt. 110 cod. pen., 3 n. 8 e 4 nn. 1
e 7 l. 75/1958 ed altro». 
    Il rimettente reputa la  questione  proposta  rilevante  ai  fini
della decisione, perche' «i fatti per cui e' processo sarebbero stati
commessi nel corso di  vari  mesi  (da  ultimo,  dicembre)  dell'anno
1995»; la sentenza di primo grado e' stata emessa nel 2001  per  cui,
ai sensi dell'art. 10, comma 3, della  legge  n.  251  del  2005,  si
applicano i termini di prescrizione precedentemente vigenti;  qualora
fossero applicabili le piu' favorevoli  disposizioni  previste  dalla
novella  legislativa,  invece,   i   reati   di   favoreggiamento   e
sfruttamento della prostituzione  sarebbero  prossimi  all'estinzione
per prescrizione e gli altri reati sarebbero gia' prescritti. 
    In ordine  alla  fondatezza  della  questione,  il  rimettente  -
premessa la rilevanza che  le  norme  internazionali  pattizie  hanno
assunto nel nostro ordinamento costituzionale - richiama  l'ordinanza
dell'11 giugno 2010 con cui  la  Corte  di  cassazione  ha  sollevato
analoga questione di legittimita' costituzionale, ritenendone fondati
i rilievi in  riferimento  all'art.  117  Cost.  e  si  riporta  alla
relativa motivazione, laddove rileva che,  secondo  l'interpretazione
della Corte di Strasburgo, l'art. 7 della CEDU sancisce il  principio
di retroattivita' della legge penale piu' favorevole al reo. 
    Il giudice a quo ritiene, inoltre, che «la modifica  dei  termini
di prescrizione e' stata determinata per  la  stragrande  maggioranza
dei reati evidentemente proprio dalla volonta' di non  mantenere  per
un tempo eccessivamente lungo un imputato  nel  circuito  penale»  e,
quindi, di «addivenire a tempi processuali maggiormente equilibrati».
Il proseguire ad applicare termini di prescrizione molto piu'  lunghi
di quelli attuali - conclude il  remittente  -  rappresenterebbe  «un
chiaro  vulnus  delle  regole  costituzionali  (...)  in  riferimento
all'art. 111». 
    2.1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  e'  intervenuto  nel
giudizio di costituzionalita', con atto depositato l'8 febbraio 2011,
chiedendo che la questione sia dichiarata infondata. 
    La difesa dello Stato rileva come l'art.  7  della  CEDU,  «lungi
dall'enunciare il principio della retroattivita'  della  lex  mitior,
(...)  non  [abbia]  fatto  altro  che  ribadire  il   principio   di
irretroattivita'  delle  norme  incriminatrici»:   ne   conseguirebbe
l'insussistenza della violazione dell'art. 117, primo comma, Cost. 
    Inoltre, conclude l'Avvocatura dello  Stato,  l'art.  111  Cost.,
nella parte in cui enuncia il principio della ragionevole durata  del
processo, ha valenza esclusivamente  processuale,  mentre  l'istituto
della prescrizione ha natura sostanziale: il fatto che  la  riduzione
dei  termini  di  prescrizione  comporti  una  riduzione  dei   tempi
processuali, pertanto, sarebbe solamente un effetto  indiretto  della
scelta del legislatore. 
    2.2. - Si e' costituito nel giudizio  di  costituzionalita',  con
memoria depositata il 16 febbraio 2011, D. F., imputato nel  giudizio
a  quo,  che  ha  concluso  per  la  declaratoria  di  illegittimita'
costituzionale della norma impugnata, condividendo le  argomentazioni
dell'ordinanza di  rimessione  e  prospettando  anche  la  violazione
dell'art. 3 Cost. per irragionevolezza. 
    2.3. - Con successiva memoria,  depositata  il  31  maggio  2011,
l'Avvocatura generale dello Stato eccepisce l'inammissibilita'  della
censura relativa alla violazione dell'art. 3 Cost. prospettata  dalla
parte privata, perche' mira ad ampliare il thema  decidendum  fissato
dall'ordinanza di rimessione. 
    Nel   merito,   rileva   che   la   questione   di   legittimita'
costituzionale sollevata in  relazione  all'art.  117,  primo  comma,
Cost. e' infondata, perche' sia l'art. 15,  primo  comma,  del  Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici,  sia  l'art.  7
della  CEDU,  come  interpretato  dalla  giurisprudenza   europea   e
segnatamente dalla sentenza del 17 settembre  2009  (Scoppola  contro
Italia), enunciano il principio di retroattivita'  della  lex  mitior
«con specifico riferimento alla comminatoria di una pena piu' lieve»,
con la conseguenza che detto principio non sarebbe  applicabile  alla
prescrizione. 
    Inoltre - osserva la difesa dello Stato - da un lato,  manca  una
giurisprudenza consolidata della  Corte  europea  sulla  portata  del
principio di retroattivita' in mitius, dall'altro,  il  sindacato  di
costituzionalita' per violazione dell'art. 117,  primo  comma,  Cost.
deve essere improntato al ragionevole bilanciamento  tra  il  vincolo
derivante  dagli  obblighi  internazionali  e  la  tutela  di   altri
interessi costituzionali. La Corte, con la sentenza n. 72  del  2008,
ha gia' ritenuto  ragionevole  la  scelta  legislativa  di  escludere
l'applicazione dei nuovi termini di prescrizione ai giudizi  pendenti
in appello o avanti alla Corte di cassazione. 
    L'Avvocatura  generale  rileva,  infine,   l'infondatezza   della
questione sollevata con riferimento all'art. 111  Cost.,  perche'  la
prescrizione ha natura sostanziale e non puo' «essere  valutata  alla
stregua  del  principio,  squisitamente  processuale,  della   durata
ragionevole del processo». 
    3. - L'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251,  e'
sottoposto  a   scrutinio   di   legittimita'   costituzionale,   con
riferimento all'art. 117 Cost., anche dalla Corte di appello di Bari,
con ordinanza emessa il 17 dicembre 2010 e pervenuta a  questa  Corte
il 16 febbraio 2011 (r.o. n. 47 del 2011). 
    Il giudice a quo reputa la  questione  rilevante  ai  fini  della
decisione,  perche'  «i  reati  oggetto  di  contestazione  sarebbero
suscettibili di estinzione per  prescrizione  nell'eventualita'  che,
venendo meno la previsione dell'art. 10, comma 3, della legge n.  251
del 2005, risultasse applicabile la piu' favorevole disciplina di cui
al combinato disposto degli artt. 157 e 161 cod. pen.». 
    A parere del giudice rimettente, la  questione  sarebbe  altresi'
fondata, per «le condivisibili  ragioni  ed  argomentazioni  espresse
dalla Suprema Corte  di  cassazione»  nell'ordinanza  dell'11  giugno
2010, con cui e' stata sollevata analoga  questione  di  legittimita'
costituzionale. 
    3.1. - E' intervenuto nel giudizio di costituzionalita', con atto
depositato il  12  aprile  2011,  il  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, che ha chiesto  la  declaratoria  di  inammissibilita'  e,  in
subordine, di infondatezza della questione. 
    In primo luogo, la questione sarebbe  inammissibile,  perche'  il
giudice rimettente ha omesso di descrivere la fattispecie  sottoposta
alla sua cognizione, non indicando, in particolare, se il giudizio di
appello fosse pendente alla data di entrata in vigore della legge  n.
251 del 2005 (8 dicembre 2005). 
    Ulteriore  ragione  di  inammissibilita'  sarebbe  da   ravvisare
nell'omessa motivazione in ordine alla  non  manifesta  infondatezza,
essendosi limitato il giudice a quo a un mero richiamo  all'ordinanza
con cui la Corte di cassazione  ha  sollevato  analoga  questione  di
legittimita' costituzionale, senza indicare le ragioni per  le  quali
ritiene di dover condividere le  argomentazioni  poste  a  fondamento
della decisione richiamata. 
    In ordine alla fondatezza della questione, la difesa dello  Stato
richiama le sentenze n. 393 del 2006 e n. 72 del 2008, con  le  quali
la  Corte  costituzionale  ha   chiarito   che   «il   principio   di
retroattivita' della  lex  mitior,  lungi  dall'essere  assolutamente
cogente  sulla  base   delle   indicazioni   fornite   dai   trattati
internazionali cui l'Italia ha dato esecuzione, nonche'  del  diritto
comunitario, e' derogabile qualora le disposizioni derogatorie  siano
conformi al canone della ragionevolezza». La  scelta  legislativa  di
escludere  l'applicazione   retroattiva   delle   disposizioni   piu'
favorevoli all'imputato, introdotte in materia di prescrizione  dalla
legge n. 251 del 2005, sarebbe giustificata dall'esigenza di  evitare
la dispersione di attivita' processuali gia' compiute, in  omaggio  a
interessi  costituzionalmente  rilevanti,  quali   l'efficienza   del
processo e la salvaguardia dei diritti dei destinatari della funzione
giurisdizionale. Dalla ragionevolezza  della  scelta  effettuata  dal
legislatore  con  la  disposizione  censurata  deriverebbe  allora  -
conclude l'Avvocatura generale  -  l'insussistenza  della  denunciata
incostituzionalita' anche con riferimento all'art. 117 Cost. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.  -  La  Corte  di  cassazione,  seconda  sezione  penale,   in
riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione e  all'art.
7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto
1955, n. 848, dubita della legittimita' costituzionale dell'art.  10,
comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n.  251  (Modifiche  al  codice
penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di  attenuanti
generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze
di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte  in
cui esclude l'applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se piu'
brevi, ai «processi gia' pendenti in grado di appello o  avanti  alla
Corte di cassazione». 
    La Corte rimettente -  rilevato  che,  secondo  la  piu'  recente
giurisprudenza    costituzionale,    le     norme     della     CEDU,
nell'interpretazione loro attribuita dalla Corte europea dei  diritti
dell'uomo, costituiscono norme interposte ai fini della verifica  del
rispetto dell'art. 117, primo  comma,  Cost.  -  pone  a  base  delle
proprie censure l'affermazione contenuta nella sentenza della  Grande
Camera della Corte di Strasburgo  del  17  settembre  2009  (Scoppola
contro  Italia),  secondo  cui  «l'art.  7  della  Convenzione,   che
stabilisce il principio del divieto di applicazione retroattiva della
legge penale, incorpora anche il corollario del diritto dell'accusato
al trattamento piu' lieve». 
    Secondo il giudice a quo la disposizione  transitoria  censurata,
impedendo l'applicazione dei piu' brevi termini di  prescrizione  del
reato nei processi in corso, pendenti in grado di  appello  o  avanti
alla Corte di cassazione, si porrebbe in contrasto con l'art. 7 della
CEDU  che,  nell'interpretazione  della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo, sancisce non solo il principio dell'irretroattivita' della
legge penale piu' severa,  ma  anche,  implicitamente,  il  principio
della retroattivita' della legge penale piu' favorevole al reo. 
    2. - La Corte di appello  di  Venezia  dubita,  del  pari,  della
legittimita' costituzionale dell'art. 10, comma 3, della legge n. 251
del 2005, per violazione degli artt. 111 e 117, primo  comma,  Cost.,
in relazione all'art. 7 della CEDU,  come  interpretato  dalla  Corte
europea dei diritti dell'uomo. 
    Richiamata  l'ordinanza  con  cui  la  Corte  di  cassazione   ha
sollevato  un'analoga  questione  di  legittimita'  costituzionale  e
ritenuti fondati i rilievi in essa  svolti  in  riferimento  all'art.
117, primo comma, Cost., il giudice a quo afferma che la disposizione
censurata si pone in contrasto anche con l'art. 111,  secondo  comma,
Cost., in quanto la riduzione dei termini di  prescrizione  serve  ad
assicurare  tempi  processuali  maggiormente   equilibrati,   sicche'
«continuare ad applicare termini di prescrizione molto piu' lunghi di
quelli   attuali   rappresenterebbe   un    vulnus    delle    regole
costituzionali» e, in particolare, del  principio  della  ragionevole
durata del processo. 
    3. - Anche la Corte di appello di Bari, con riferimento  all'art.
117 Cost., muove analoghe censure all'art. 10, comma 3,  della  legge
n.  251  del  2005,  richiamandosi  alle  «condivisibili  ragioni  ed
argomentazioni  espresse   dalla   suprema   Corte   di   cassazione»
nell'ordinanza dell'11 giugno 2010, con cui  e'  stata  sollevata  la
medesima questione di legittimita' costituzionale. 
    4. - Le ordinanze di rimessione sollevano questioni  identiche  o
analoghe,  sicche'  i  relativi  giudizi  vanno  riuniti  per  essere
definiti con un'unica decisione. 
    5.   -   L'Avvocatura   generale   dello   Stato   ha    eccepito
l'inammissibilita' della questione sollevata dalla Corte  di  appello
di Bari, sulla  base  di  un  duplice  rilievo:  perche'  il  giudice
rimettente avrebbe omesso di  descrivere  la  fattispecie  sottoposta
alla  sua  cognizione  e  perche'  non  avrebbe  motivato  sulla  non
manifesta infondatezza, limitandosi a un mero richiamo  all'ordinanza
con cui la Corte di cassazione aveva sollevato  un'analoga  questione
di legittimita' costituzionale. 
    L'eccezione e' fondata. 
    Innanzi tutto  l'ordinanza  di  rimessione  presenta  carenze  di
descrizione  della  fattispecie  concreta  e  di  motivazione   sulla
rilevanza, omettendo di indicare il  titolo  del  reato  per  cui  si
procede, la data della sua commissione e se l'appello fosse  pendente
al momento dell'entrata in vigore della legge n. 251 del 2005: in tal
modo, impedisce a questa  Corte  di  verificare  la  rilevanza  della
questione (ex multis: sentenza n. 72 del 2008; ordinanza  n.  64  del
2011). 
    In secondo luogo, il giudice  a  quo  non  motiva  sulle  ragioni
dell'asserita  violazione  del  parametro  evocato,   limitandosi   a
richiamare, in termini puramente generici e  apodittici,  l'ordinanza
con cui la Corte di cassazione ha sollevato un'analoga  questione  di
legittimita' costituzionale, senza indicare le ragioni per  le  quali
ritiene di dover condividere le  argomentazioni  poste  a  fondamento
della decisione richiamata. Secondo  la  costante  giurisprudenza  di
questa Corte, la carente motivazione sulla non manifesta infondatezza
della questione non puo' essere colmata dal rinvio  al  contenuto  di
altre ordinanze di rimessione, dello stesso  o  di  diverso  giudice,
dovendo il rimettente rendere  esplicite  le  ragioni  per  le  quali
ritiene  rilevante  e  non  manifestamente  infondata  la   questione
sollevata, mediante una motivazione autonoma  e  autosufficiente  (ex
multis: sentenze n. 103 del 2007 e n. 266 del 2006; ordinanze n.  321
del 2010 e n. 75 del 2007). 
    6. - Anche la questione  sollevata  dalla  Corte  di  appello  di
Venezia e' inammissibile, per carente descrizione  della  fattispecie
concreta e difetto di rilevanza. 
    Il giudice a  quo,  infatti,  si  limita  a  riferire  di  essere
investito dell'appello contro la sentenza di primo grado,  emessa  il
15 gennaio 2001, «che ha giudicato del reato di cui  agli  artt.  110
cod. pen., 3 n. 8 e 4 nn. 1 e 7 l. 75/1958 ed altro»,  «commessi  nel
corso  di  vari  mesi  (da   ultimo,   dicembre)   dell'anno   1995»,
specificando che, qualora  fossero  applicabili  le  piu'  favorevoli
disposizioni  previste  dalla  novella  legislativa,   i   reati   di
favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione sarebbero prossimi
all'estinzione per prescrizione e  gli  altri  reati  sarebbero  gia'
prescritti. 
    La questione di legittimita' costituzionale pertanto e' in  parte
irrilevante,  in  quanto,  con  riferimento   alle   imputazioni   di
favoreggiamento e di sfruttamento della prostituzione, anche nel caso
di   declaratoria   di   illegittimita'   della   norma    censurata,
l'applicazione della lex mitior non comporterebbe  una  pronuncia  di
estinzione del reato, non essendo ancora maturato - per  affermazione
dello stesso rimettente -  il  piu'  breve  termine  di  prescrizione
introdotto dalla legge n. 251 del 2005. Inoltre, con riferimento alle
altre  imputazioni  -  per  le  quali,  secondo  il  giudice  a  quo,
applicando la legge  penale  piu'  favorevole,  sarebbe  maturato  il
termine di prescrizione -  l'ordinanza  di  rimessione  non  descrive
compiutamente le fattispecie oggetto  del  giudizio,  omettendo  ogni
indicazione sul titolo e sulla natura degli «altri reati» per cui  si
procede,  con  conseguente  impossibilita',  per  questa  Corte,   di
verificare la rilevanza della questione. 
    7. - La questione sollevata dalla Corte di cassazione  invece  e'
ammissibile, ma non fondata nel merito. 
    8.  -  L'art.  10,  comma  3,  della  legge  n.  251   del   2005
originariamente era cosi' formulato: «Se,  per  effetto  delle  nuove
disposizioni, i termini di  prescrizione  risultano  piu'  brevi,  le
stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla  data
di entrata in vigore della presente legge, ad esclusione dei processi
gia' pendenti in primo grado ove vi sia  stata  la  dichiarazione  di
apertura del dibattimento, nonche'  dei  processi  gia'  pendenti  in
grado di appello o avanti alla Corte di cassazione». 
    Con la sentenza n. 393  del  2006,  questa  Corte  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale della disposizione,  nella  parte  in
cui individuava nella dichiarazione di apertura del  dibattimento  di
primo grado il discrimine temporale per  l'applicazione  della  nuova
disciplina della prescrizione, se piu' favorevole al  reo,  ritenendo
che questa scelta legislativa non fosse «assistita da ragionevolezza»
e quindi violasse l'art. 3 Cost. 
    Per effetto della pronuncia i nuovi termini  piu'  favorevoli  di
prescrizione  sono  rimasti  inapplicabili  nei  soli  processi  gia'
pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione. Sotto
tale profilo la norma e' stata nuovamente investita da una  questione
di legittimita' costituzionale, che questa Corte, con la sentenza  n.
72 del 2008, ha giudicato priva di fondamento, ritenendo  ragionevole
il residuo limite  posto  alla  retroattivita'  del  piu'  favorevole
regime di prescrizione. 
    La nuova questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  10,
comma 3, della legge n. 251 del  2005,  nel  testo  risultante  dalla
sentenza n. 393 del 2006, proposta dalla Corte di cassazione, non  fa
riferimento all'art. 3 Cost., ma chiama in causa il diverso parametro
espresso dall'art. 117, primo comma, Cost.,  assumendo,  quale  norma
interposta, l'art. 7 della CEDU, come  interpretato  dalla  Corte  di
Strasburgo nella sentenza della Grande Camera del 17  settembre  2009
(Scoppola contro Italia). 
    9. - Il contenuto della nuova censura mossa nei  confronti  della
norma impugnata, concernendo la  sua  conformita'  all'art.  7  della
CEDU,  impone,  in  via  preliminare,  di  ricordare  quale  sia   la
giurisprudenza di questa Corte sul  rango  delle  disposizioni  della
CEDU nel nostro ordinamento  e  sulla  loro  efficacia,  quali  norme
interposte, rispetto all'art. 117, primo comma, Cost. 
    A  partire  dalle  sentenze  n.  348  e  n.  349  del  2007,   la
giurisprudenza costituzionale e' costante nel ritenere che «le  norme
della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea  dei
diritti  dell'uomo,  specificamente  istituita  per  dare   ad   esse
interpretazione  ed  applicazione  (art.  32,  paragrafo   1,   della
Convenzione)  -  integrano,  quali  norme  interposte,  il  parametro
costituzionale espresso dall'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  nella
parte in cui impone la conformazione della  legislazione  interna  ai
vincoli derivanti dagli obblighi internazionali» (sentenze n.  113  e
n. 1 del 2011, n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010, n. 317 e n. 311  del
2009,  n.  39  del  2008;  sulla  perdurante  validita'   di   questa
ricostruzione dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13
dicembre 2007, sentenza n. 80 del 2011). 
    Questa Corte ha chiarito che «l'art. 117, primo comma, Cost.,  ed
in  particolare  l'espressione  "obblighi  internazionali"  in   esso
contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche
diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 e 11 Cost.
Cosi' interpretato, l'art. 117, primo comma,  Cost.,  ha  colmato  la
lacuna  prima  esistente  rispetto   alle   norme   che   a   livello
costituzionale    garantiscono    l'osservanza     degli     obblighi
internazionali pattizi. La conseguenza e' che  il  contrasto  di  una
norma nazionale con una norma  convenzionale,  in  particolare  della
CEDU, si traduce in una violazione dell'art. 117, primo comma, Cost.»
(sentenza n. 311 del 2009). 
    Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma  interna  e
una norma della CEDU,  quindi,  «il  giudice  nazionale  comune  deve
preventivamente verificare la  praticabilita'  di  un'interpretazione
della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a  tutti  i
normali strumenti di ermeneutica giuridica» (sentenze n. 93 del 2010,
n. 113 del 2011, n. 311 e n. 239 del 2009). Se  questa  verifica  da'
esito negativo  e  il  contrasto  non  puo'  essere  risolto  in  via
interpretativa, il giudice comune, non potendo disapplicare la  norma
interna ne' farne applicazione, avendola ritenuta in contrasto con la
CEDU, e pertanto con la Costituzione,  deve  denunciare  la  rilevata
incompatibilita'   proponendo   una   questione    di    legittimita'
costituzionale in  riferimento  all'art.  117,  primo  comma,  Cost.,
ovvero all'art. 10, primo comma, Cost., ove si tratti  di  una  norma
convenzionale ricognitiva di una  norma  del  diritto  internazionale
generalmente riconosciuta (sentenze n. 113 del 2011, n. 93 del 2010 e
n. 311 del 2009). 
    Sollevata la questione  di  legittimita'  costituzionale,  questa
Corte - dopo aver accertato che il  denunciato  contrasto  tra  norma
interna e norma della CEDU sussiste e non puo' essere risolto in  via
interpretativa  -  e'  chiamata  a  verificare  se  la  norma   della
Convenzione  -  norma  che  si  colloca  pur  sempre  ad  un  livello
sub-costituzionale - si ponga eventualmente in  conflitto  con  altre
norme della Costituzione. In  questa,  seppur  eccezionale,  ipotesi,
deve essere esclusa l'idoneita' della norma convenzionale a integrare
il parametro costituzionale considerato (sentenze n. 113 del 2011, n.
93 del 2010, n. 311 del 2009, n. 349 e n. 348 del 2007). 
    Questa Corte ha, inoltre, reiteratamente affermato di  non  poter
sindacare l'interpretazione della Convenzione fornita dalla Corte  di
Strasburgo: le norme della CEDU, quindi, devono essere applicate  nel
significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo
(sentenze n. 113 e n. 1 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 e n. 239 del
2009, n. 39 del 2008, n. 349 e n. 348 del 2007). 
    Ma se questa Corte non puo' sostituire la propria interpretazione
di una disposizione della CEDU a quella della  Corte  di  Strasburgo,
puo'  pero'  «valutare  come  ed   in   qual   misura   il   prodotto
dell'interpretazione    della    Corte    europea    si     inserisca
nell'ordinamento costituzionale italiano. La norma CEDU, nel  momento
in cui va ad integrare il primo comma dell'art. 117 Cost., da  questo
ripete il suo rango nel sistema  delle  fonti,  con  tutto  cio'  che
segue, in termini di interpretazione e  bilanciamento,  che  sono  le
ordinarie operazioni cui questa Corte e' chiamata in tutti i  giudizi
di sua competenza» (sentenza n. 317 del 2009). 
    A questa Corte compete, insomma, di apprezzare la  giurisprudenza
europea consolidatasi sulla norma conferente, in modo da  rispettarne
la sostanza, ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento  che
le  consenta  di  tener  conto  delle  peculiarita'  dell'ordinamento
giuridico in cui la norma  convenzionale  e'  destinata  a  inserirsi
(sentenza n. 311 del 2009). 
    10. - Poiche', come si e' visto, la norma oggetto di impugnazione
e'  censurata  in  quanto  introduce  un  limite   all'applicabilita'
retroattiva della nuova disciplina della  prescrizione,  qualora  sia
piu' favorevole al reo,  occorre  anche  ripercorrere  brevemente  la
giurisprudenza costituzionale in tema di retroattivita' in mitius. 
    Questa Corte ha reiteratamente  affermato  che  il  principio  di
retroattivita' della disposizione penale piu'  favorevole  al  reo  -
previsto a livello di legge ordinaria dall'art. 2, secondo,  terzo  e
quarto comma, cod. pen. - non e' stato costituzionalizzato  dall'art.
25,  secondo  comma,  Cost.,   che   si   e'   limitato   a   sancire
l'irretroattivita' delle norme incriminatrici e, in  generale,  delle
norme penali piu' severe. Esso, dunque, ben puo' subire  deroghe  per
via di legislazione ordinaria,  quando  ne  ricorra  una  sufficiente
ragione giustificativa (ex plurimis: sentenze n. 215 del 2008, n. 393
del 2006, n. 80 del 1995, n. 74 del 1980, n. 6 del 1978; ordinanza n.
330 del 1995). 
    Secondo la giurisprudenza costituzionale, infatti, «il  principio
di retroattivita' della  lex  mitior  ha  una  valenza  ben  diversa,
rispetto  al  principio  di  irretroattivita'  della   norma   penale
sfavorevole.  Quest'ultimo  si  pone  come  essenziale  strumento  di
garanzia del cittadino contro gli arbitri del legislatore, espressivo
dell'esigenza    della     "calcolabilita'"     delle     conseguenze
giuridico-penali della propria condotta, quale condizione  necessaria
per  la  libera  autodeterminazione  individuale.  (...)  In   questa
prospettiva, e' dunque incontroverso che il principio  de  quo  trovi
diretto riconoscimento nell'art. 25, secondo comma, Cost. in tutte le
sue espressioni: e, cioe', non soltanto con  riferimento  all'ipotesi
della   nuova   incriminazione,   sulla   quale   pure   la   formula
costituzionale  risulta  all'apparenza  calibrata;   ma   anche   con
riferimento a quella  della  modifica  peggiorativa  del  trattamento
sanzionatorio di un fatto gia' in precedenza penalmente represso.  In
questi termini, il principio in parola  si  connota,  altresi',  come
valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con  altri  valori
costituzionali. (...) Invece, il principio  di  retroattivita'  della
norma piu' favorevole non ha alcun collegamento con  la  liberta'  di
autodeterminazione individuale, per l'ovvia  ragione  che,  nel  caso
considerato, la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, al
quale l'autore si era  liberamente  autodeterminato  sulla  base  del
pregresso  (e  per  lui  meno  favorevole)  panorama  normativo.   In
quest'ottica,  la  Corte  ha  quindi  costantemente  escluso  che  il
principio di retroattivita' in mitius trovi copertura  nell'art.  25,
secondo comma, Cost.» (sentenza n. 394 del 2006). 
    L'ambito di  operativita'  del  principio  di  retroattivita'  in
mitius non deve essere limitato alle sole disposizioni concernenti la
misura della pena, ma va esteso a tutte le norme sostanziali che, pur
riguardando profili diversi dalla sanzione in senso stretto, incidono
sul complessivo trattamento riservato al  reo.  Come  chiarito  dalla
sentenza n. 393 del 2006, infatti, «la norma del codice  penale  [che
sancisce la regola generale della retroattivita'  della  lex  mitior]
deve essere interpretata,  ed  e'  stata  costantemente  interpretata
dalla giurisprudenza di questa Corte (e da quella  di  legittimita'),
nel senso che la locuzione "disposizioni piu' favorevoli al  reo"  si
riferisce a tutte quelle norme che apportino modifiche in melius alla
disciplina di una fattispecie  criminosa,  ivi  comprese  quelle  che
incidono sulla prescrizione del reato». 
    Cio'  premesso  sull'ambito  di  operativita'  del  principio  di
retroattivita' in bonam  partem,  merita  di  essere  ricordato  che,
secondo questa Corte,  «la  regola  della  retroattivita'  della  lex
mitior, pur avendo rango  diverso  dal  principio  d'irretroattivita'
della norma incriminatrice, di cui all'art. 25, secondo comma, Cost.,
non e' priva di un fondamento costituzionale» (sentenza  n.  215  del
2008). Questo fondamento  e'  stato  individuato  nel  «principio  di
eguaglianza, che impone,  in  linea  di  massima,  di  equiparare  il
trattamento sanzionatorio dei medesimi  fatti,  a  prescindere  dalla
circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo  l'entrata  in
vigore della norma che ha disposto l'abolitio criminis o la  modifica
mitigatrice» (sentenza n. 394 del 2006). 
    Non sarebbe  ragionevole  punire  (o  continuare  a  punire  piu'
gravemente)  una  persona  per  un  fatto  che,  secondo   la   legge
posteriore, chiunque altro puo'  impunemente  commettere  (o  per  il
quale  e'  prevista  una  pena  piu'  lieve).  Per  il  principio  di
eguaglianza, infatti, la modifica mitigatrice della legge  penale  e,
ancor di piu',  l'abolitio  criminis,  disposte  dal  legislatore  in
dipendenza di una mutata valutazione del disvalore del fatto  tipico,
devono riverberarsi anche a vantaggio di coloro che  hanno  posto  in
essere la condotta in un  momento  anteriore,  salvo  che,  in  senso
opposto, ricorra una sufficiente ragione giustificativa (sentenze  n.
215 del 2008, n. 394 e n. 393 del 2006, n. 80 del  1995,  n.  74  del
1980, n. 6 del 1978 e n. 164 del 1974). 
    Il principio di eguaglianza costituisce,  pero',  come  e'  stato
chiarito da questa Corte, non solo il fondamento, ma anche il  limite
dell'applicabilita' retroattiva della lex mitior. Mentre il principio
di  irretroattivita'  della  norma   penale   sfavorevole,   infatti,
costituisce  un  valore  assoluto  e   inderogabile,   quello   della
retroattivita' in mitius e' suscettibile  di  limitazioni  e  deroghe
legittime sul piano costituzionale, ove sorrette  da  giustificazioni
oggettivamente ragionevoli e, in  particolare,  dalla  necessita'  di
preservare interessi, ad esso contrapposti, di  analogo  rilievo  (ex
multis: sentenze n. 215 del 2008, n. 394 del 2006, n. 74 del  1980  e
n. 6 del 1978). 
    11. - La sentenza n. 393 del 2006, pur ammettendo che  «eventuali
deroghe al principio di retroattivita' della  lex  mitior,  ai  sensi
dell'art. 3 Cost., possono  essere  disposte  dalla  legge  ordinaria
quando  ricorra  una  sufficiente  ragione   giustificativa»,   cosi'
mostrando di condividere la  costante  giurisprudenza  costituzionale
sul «regime giuridico  riservato  alla  lex  mitior,  e  segnatamente
[alla] sua retroattivita'», non  si  e'  limitata  a  ricollegare  il
suddetto principio a quello di eguaglianza, ma gli ha riconosciuto un
valore  autonomo  anche  attraverso  il  riferimento  alla  normativa
internazionale e comunitaria. In tale sentenza questa  Corte  infatti
ha rilevato che il principio di  retroattivita'  della  legge  penale
piu' favorevole non e' affermato solamente, seppure come criterio  di
portata generale, da una norma del codice penale (l'art.  2),  ma  e'
riconosciuto anche  dal  diritto  internazionale  e  comunitario,  in
particolare dall'art.  15,  primo  comma,  del  Patto  internazionale
relativo ai diritti civili e politici, adottato  a  New  York  il  16
dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977,
n. 881, e dall'art. 49, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione  europea,  proclamata  a  Nizza  il  7  dicembre  2000  e
successivamente recepita dal Trattato di  Lisbona,  modificativo  del
Trattato  sull'Unione  europea  e  del  Trattato  che  istituisce  la
Comunita' europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, che  le  ha
attribuito lo stesso valore giuridico  dei  trattati.  Del  resto  la
Corte di giustizia dell'Unione europea, gia'  prima  dell'entrata  in
vigore del Trattato di Lisbona, aveva ritenuto che il principio della
lex mitior facesse parte delle tradizioni costituzionali comuni degli
Stati  membri  e,  come  tale,  dovesse  essere   considerato   parte
integrante dei principi generali del diritto comunitario  di  cui  la
Corte di giustizia stessa garantisce il rispetto  e  che  il  giudice
nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato
per  attuare  l'ordinamento  comunitario  (sentenza  3  maggio  2005,
Berlusconi e altri, cause riunite C-387/02, C-391/02, C-403/02;  tale
principio e' stato successivamente ribadito dalle sentenze  11  marzo
2008, Jager, C-420/06, e 28 aprile 2011, El Dridi, C-61/11). 
    Anche se, nella sentenza n. 393 del 2006, le fonti internazionali
non  sono  invocate   come   norme   interposte   nel   giudizio   di
costituzionalita', ma solo come dati normativi  da  cui  desumere  la
rilevanza dell'interesse tutelato  dal  principio  di  retroattivita'
della lex mitior, questa Corte, attraverso il loro richiamo, ha fatto
assumere  al  principio  di  retroattivita'  in  mitius  una  propria
autonomia, che ha ora, attraverso l'art.  117,  primo  comma,  Cost.,
acquistato un nuovo fondamento con l'interposizione dell'art. 7 della
CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo. 
    Rimane, pero', da stabilire se il riconoscimento, da parte  della
giurisprudenza europea, del principio di retroattivita'  della  norma
piu' favorevole e la sua iscrizione tra  le  garanzie  sancite  dalla
citata norma convenzionale, oltre a fargli acquistare  autonomia,  ne
abbia mutato natura e caratteristiche, se cioe' esso sia  assoluto  e
inderogabile come il principio  di  non  retroattivita'  delle  norme
penali di sfavore, ovvero se la sua diversita' rispetto alla garanzia
fondamentale che questo rappresenta renda possibile, in  presenza  di
particolari   ragioni    giustificative,    l'applicabilita'    della
disposizione meno favorevole che era in vigore  quando  il  reato  e'
stato commesso, o comunque l'introduzione di limiti alla regola della
retroattivita' in mitius. In secondo luogo, occorre individuare quale
ne sia l'oggetto, se cioe' riguardi  solamente  le  disposizioni  che
prevedono il reato e la pena o anche qualunque altra disposizione che
incida sul trattamento  penale,  come  in  particolare  quelle  sulla
prescrizione. 
    12. - L'art. 7, paragrafo 1, della CEDU sancisce  il  divieto  di
applicazione retroattiva delle  norme  penali  incriminatrici  e,  in
generale, delle norme penali piu' severe, in modo da assicurare  che,
«nel momento in cui un imputato ha commesso l'atto che ha dato  luogo
all'azione penale, [esistesse] una disposizione  legale  che  rendeva
l'atto punibile, e che la pena imposta non [abbia] superato i  limiti
fissati da tale disposizione» (sentenza 22 giugno 2000, Coëme e altri
contro Belgio; sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia). 
    La Corte di Strasburgo ha  costantemente  escluso  che  l'art.  7
della  Convenzione  sancisse  anche  «il   diritto   di   beneficiare
dell'applicazione di una pena  meno  severa  prevista  da  una  legge
posteriore al reato» (decisione della Commissione 6  marzo  1978,  X.
contro Germania; decisione 5 dicembre 2000,  Le  Petit  contro  Regno
Unito; decisione 6  marzo  2003,  Zaprianov  contro  Bulgaria,  tutte
relative a ipotesi di successiva depenalizzazione del  reato  per  il
quale il ricorrente era stato  condannato),  pur  ammettendo  la  non
contrarieta'  alla  citata  norma   convenzionale   dell'applicazione
retroattiva della disposizione penale piu' favorevole da parte  delle
giurisdizioni interne (sentenza 27 settembre 1995, G. contro Francia;
decisione del 9 febbraio 2006, Karmo contro  Bulgaria).  Di  recente,
pero', con la sentenza del 17 settembre 2009 (Scoppola contro Italia)
la  Grande  Camera,  mutando  il  proprio  precedente  e  consolidato
orientamento, ha ammesso che «l'art. 7  §  1  della  Convenzione  non
sancisce solo il principio della irretroattivita' delle leggi  penali
piu'  severe,  ma  anche,  e  implicitamente,  il   principio   della
retroattivita' della legge penale meno severa»,  traducendosi  «nella
norma secondo cui, se la legge penale  in  vigore  al  momento  della
commissione del reato e le leggi  penali  posteriori  adottate  prima
della pronuncia definitiva sono diverse, il  giudice  deve  applicare
quella le cui disposizioni sono piu' favorevoli all'imputato». 
    A questa conclusione la Corte europea e' pervenuta tenendo  conto
dell'«evoluzione della situazione nello Stato convenuto e negli Stati
contraenti in generale» e dando atto della necessita' di adottare  un
«approccio  dinamico   ed   evolutivo»   nell'interpretazione   della
Convenzione, che renda «le garanzie  concrete  ed  effettive,  e  non
teoriche e illusorie»: ha cosi' registrato  «un  consenso  a  livello
europeo e internazionale per  considerare  che  l'applicazione  della
legge penale che prevede una pena meno severa,  anche  posteriormente
alla commissione del reato, e' divenuta un principio fondamentale del
diritto penale». 
    Il nuovo orientamento  e'  stato  confermato  in  una  successiva
pronuncia (decisione 27 aprile 2010, Morabito contro Italia), con cui
la Corte europea ha ribadito che «le disposizioni che  definiscono  i
reati e le pene sottostanno a delle regole particolari in materia  di
retroattivita', che includono anche il  principio  di  retroattivita'
della legge penale piu' favorevole all'imputato», sottolineando pero'
che l'art. 7 riguarda solamente le norme  penali  sostanziali,  e  in
particolare le disposizioni che influiscono sull'entita'  della  pena
da infliggere. 
    Ancorche' tenda ad assumere un valore generale e di principio, la
sentenza pronunciata dalla Corte  di  Strasburgo  nel  caso  Scoppola
resta pur sempre legata alla concretezza della  situazione  che  l'ha
originata: la circostanza che il giudizio della Corte  europea  abbia
ad oggetto un caso concreto e,  soprattutto,  la  peculiarita'  della
singola vicenda su cui e' intervenuta la pronuncia  devono,  infatti,
essere adeguatamente valutate e prese  in  considerazione  da  questa
Corte, nel momento in  cui  e'  chiamata  a  trasporre  il  principio
affermato dalla Corte di Strasburgo nel diritto interno e a esaminare
la legittimita' costituzionale di una norma per  presunta  violazione
di quello stesso principio. 
    13. - Se si ritenesse che il principio  di  retroattivita'  della
legge penale piu' favorevole, affermato dalla Corte di Strasburgo, si
differenzi per la sua rigidita' da  quello  che  aveva  gia'  trovato
riconoscimento nella giurisprudenza di questa Corte,  nel  senso  che
tale principio non tollera  deroghe  o  limitazioni  giustificate  da
situazioni  particolari,  se  ne  dovrebbe  vedere  in   questa   sua
caratteristica il profilo veramente innovativo,  fermo  rimanendo  in
ogni caso che il momento in cui la norma  CEDU  va  ad  integrare  il
primo comma dell'art. 117 Cost., da questo ripete il  suo  rango  nel
sistema delle  fonti,  con  tutto  cio'  che  segue,  in  termini  di
interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui
questa Corte e'  chiamata  in  tutti  i  giudizi  di  sua  competenza
(sentenza n. 317 del 2009). 
    Dalla  sentenza  della  Corte  europea  del  17  settembre   2009
(Scoppola contro Italia) pero' non emerge una novita' siffatta. Nulla
la Corte ha detto per far escludere la possibilita' che, in  presenza
di particolari situazioni, il principio di retroattivita'  in  mitius
subisca deroghe o limitazioni: e' un aspetto  che  la  Corte  non  ha
considerato,  e  che  non  aveva  ragione  di  considerare,  date  le
caratteristiche del  caso  oggetto  della  sua  decisione.  E'  pero'
significativo che la  Corte  abbia  espressamente  posto  un  limite,
escludendo  che  il  principio  in  questione  possa  travolgere   il
giudicato (nella sentenza si fa esclusivo riferimento a «leggi penali
posteriori  adottate  prima   della   pronuncia   di   una   sentenza
definitiva»), diversamente da quanto prevede nel  nostro  ordinamento
l'art. 2, secondo e terzo comma, cod. pen. E' da  aggiungere  che  la
sentenza Scoppola, anche se in modo non inequivoco, induce a ritenere
che il principio di retroattivita' della norma  piu'  favorevole  sia
normalmente collegato dalla  Corte  europea  all'assenza  di  ragioni
giustificative di deroghe  o  limitazioni.  Si  legge  infatti  nella
sentenza che «infliggere una pena piu' severa solo perche'  essa  era
prevista al momento della commissione del reato si tradurrebbe in una
applicazione a svantaggio dell'imputato delle norme che  regolano  la
successione delle leggi penali nel tempo» e  che  «cio'  equivarrebbe
inoltre a ignorare i cambiamenti legislativi favorevoli  all'imputato
intervenuti prima della sentenza e continuare a infliggere  pene  che
lo Stato e la collettivita' che esso  rappresenta  considerano  ormai
eccessive». Ma, se la retroattivita' non puo' essere  esclusa  "solo"
perche'  la  pena  piu'  mite  non  era  prevista  al  momento  della
commissione del reato, e' legittimo concludere che la soluzione  puo'
essere diversa  quando  le  ragioni  per  escluderla  siano  altre  e
consistenti. 
    Insomma,  secondo  la  Corte  europea,  la  circostanza  che   un
determinato fatto era previsto come reato dalla legge  in  vigore  al
momento della sua commissione ed era punito con un certa sanzione non
puo'  costituire,  di  per  se',  valida  ragione  per   giustificare
l'applicazione di tale legge, ancorche'  successivamente  abrogata  o
modificata in melius, continuando cosi' a  «infliggere  pene  che  lo
Stato e la  collettivita'  che  esso  rappresenta  considerano  ormai
eccessive». Percio', qualora vi sia una ragione diversa, che  risulti
positivamente apprezzabile, la deroga  all'applicazione  della  legge
sopravvenuta piu' favorevole  al  reo  dovrebbe  ritenersi  possibile
anche per la giurisprudenza di Strasburgo,  specie  quando,  come  e'
avvenuto nel caso in esame, fattispecie incriminatrice e  pena  siano
rimaste immutate. 
    Alla luce delle considerazioni che precedono, non  e'  arbitraria
la conclusione che il riconoscimento da parte della Corte europea del
principio di retroattivita' in mitius - che gia' operava  nel  nostro
ordinamento in forza dell'art. 2, secondo, terzo e quarto comma, cod.
pen. e aveva  trovato  un  fondamento  costituzionale  attraverso  la
giurisprudenza di questa Corte - non abbia escluso la possibilita' di
introdurre deroghe o limitazioni alla sua operativita', quando  siano
sorrette da una valida giustificazione. 
    A ben vedere, il principio di  retroattivita'  della  lex  mitior
presuppone un'omogeneita' tra i contesti fattuali o normativi in  cui
operano le disposizioni che si succedono nel tempo, posto  che,  come
e' stato chiarito da questa Corte, il principio di eguaglianza, cosi'
come ne costituisce un fondamento, puo' rappresentare anche il limite
dell'applicabilita' retroattiva della legge  penale  piu'  favorevole
(sentenza n. 394 del 2006). E' proprio la diversita' di contesto,  ad
esempio, che giustifica la deroga posta dal quinto comma dell'art.  2
cod. pen. stabilendo  che  «Se  si  tratta  di  leggi  eccezionali  o
temporanee,  non  si  applicano   le   disposizioni   dei   capoversi
precedenti»; cio' infatti significa che deve continuare ad applicarsi
la disposizione che vigeva al momento della  commissione  del  fatto,
anche se successivamente entra in vigore un trattamento  penale  piu'
favorevole o addirittura il fatto cessa  di  costituire  reato.  Alla
eccezionalita'  della   situazione   esistente   al   momento   della
commissione del fatto (tale e' anche quella che giustifica una  legge
temporanea) deve corrispondere  il  trattamento  che  il  legislatore
ritiene adeguato ad essa e non l'altro, successivo, piu'  favorevole,
dettato per una situazione di normalita'. 
    E' dunque chiaro che, a differenza di quello di  irretroattivita'
della legge penale sfavorevole, il principio di retroattivita'  della
legge favorevole non puo' essere senza eccezioni. 
    Oltre alla diversita' del contesto  di  fatto  anche  quella  del
contesto normativo puo' giustificare o addirittura imporre discipline
transitorie  volte  a  limitare   gli   effetti   retroattivi   delle
modificazioni normative piu' vantaggiose. E' quanto, ad  esempio,  e'
avvenuto allorche' per alcune ipotesi criminose si e'  sostituita  la
punibilita' d'ufficio con quella a querela e  si  e'  data,  con  una
norma transitoria, la possibilita'  di  presentare  la  richiesta  di
punizione entro un termine, diverso da  quello  ordinario  (art.  124
cod. pen.), decorrente dal giorno dell'entrata in vigore della  nuova
legge o, se gia' pendeva  il  procedimento,  dal  giorno  in  cui  il
giudice  aveva  informato  la  persona  offesa  della   facolta'   di
esercitare il diritto di querela (art. 99  della  legge  24  novembre
1981, n. 689; art. 19 della legge 25 giugno 1999,  n.  205;  si  veda
inoltre l'art. 5 del decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61). 
    Pure   la   norma   censurata,   nell'escludere    l'applicazione
retroattiva dei nuovi termini di prescrizione, se piu' favorevoli  al
reo, ai processi gia' pendenti in grado  di  appello  e  avanti  alla
Corte di  cassazione,  fa  riferimento  a  due  contesti  processuali
diversi: quello dei processi pendenti in  primo  grado,  ove  non  e'
ancora  stata   pronunciata   una   sentenza,   che,   mediante   una
riorganizzazione  dei  tempi  e  delle  attivita'  processuali,  sono
suscettibili di essere definiti prima che decorra  il  nuovo  e  piu'
breve termine  di  prescrizione;  quello  dei  processi  pendenti  in
appello, o avanti alla Corte di  cassazione,  in  cui  cio'  e'  meno
agevole o addirittura non e' piu' possibile, con la  conseguenza  che
il giudice in seguito all'entrata in vigore della legge  n.  251  del
2005 dovrebbe dichiarare l'estinzione del reato per prescrizione. 
    E' per tale ragione che questa Corte, con la sentenza n. 393  del
2006, facendo operare il principio di retroattivita'  in  mitius,  ha
dichiarato la parziale illegittimita'  costituzionale  dell'art.  10,
comma 3, della legge n. 251 del 2005, mentre successivamente, con  la
sentenza n. 72 del 2008, ha ritenuto priva di fondamento la questione
relativa allo stesso articolo nella parte  residua,  in  cui  esclude
l'applicazione dei nuovi termini di prescrizione  ai  «processi  gia'
pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di  cassazione».  La
ragionevolezza di questa soluzione, come ha rilevato la  sentenza  n.
72 del 2008, «e' poi ulteriormente comprovata dal rilievo che essa  -
poiche' nei giudizi in esame il materiale  probatorio,  in  linea  di
massima, e' ormai stato acquisito - mira ad  evitare  la  dispersione
delle attivita' processuali gia' compiute all'entrata in vigore della
legge n. 251 del 2005, secondo cadenze calcolate in base ai tempi  di
prescrizione piu' lunghi vigenti  all'atto  del  loro  compimento,  e
cosi' tutela interessi di rilievo costituzionale sottesi al  processo
(come la sua efficienza e la salvaguardia dei diritti dei destinatari
della funzione giurisdizionale», oltre -  si  puo'  aggiungere  -  al
principio di effettivita' del diritto penale). 
    14. - Come si e' gia' detto, questa Corte  deve  anche  chiedersi
quali norme penali formino oggetto del principio di retroattivita' in
mitius riconosciuto dalla giurisprudenza della  Corte  europea,  deve
cioe' verificare se  esso  riguardi  solamente  le  disposizioni  che
individuano il reato e la pena o anche qualunque  altra  disposizione
che  incida  sul  trattamento  penale,   come   in   particolare   le
disposizioni sulla prescrizione. 
    La  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo,  ritenendo  che   il
principio  in  esame  sia  un  corollario  di  quello  di  legalita',
consacrato dall'art. 7 della CEDU,  ha  fissato  dei  limiti  al  suo
ambito di applicazione, desumendoli dalla stessa norma convenzionale.
Il principio di retroattivita' della lex mitior, come in generale «le
norme in  materia  di  retroattivita'  contenute  nell'art.  7  della
Convenzione», concerne secondo la Corte  le  sole  «disposizioni  che
definiscono i reati e le pene che li reprimono» (decisione 27  aprile
2010,  Morabito  contro  Italia;  nello  stesso  senso,  sentenza  17
settembre 2009, Scoppola contro Italia). 
    Il principio riconosciuto dalla CEDU, quindi,  non  coincide  con
quello che vive nel nostro ordinamento ed e'  regolato  dall'art.  2,
quarto  comma,  cod.  pen.   Quest'ultimo   infatti   riguarda   ogni
disposizione  penale  successiva  alla  commissione  del  fatto,  che
apporti modifiche in melius di qualunque genere  alla  disciplina  di
una fattispecie  criminosa,  incidendo  sul  complessivo  trattamento
riservato al reo, mentre il primo ha una portata  piu'  circoscritta,
concernendo le sole  norme  che  prevedono  i  reati  e  le  relative
sanzioni. 
    La diversa, e piu' ristretta, portata del principio convenzionale
e' confermata dal riferimento che la giurisprudenza europea  fa  alle
fonti internazionali e comunitarie, e alle pronunce  della  Corte  di
giustizia dell'Unione europea. Sia l'art. 15 del Patto internazionale
sui diritti civili e politici, sia l'art. 49 della  Carta  di  Nizza,
infatti, non si riferiscono a qualsiasi disposizione penale, ma  solo
alla «legge [che] prevede l'applicazione di una pena piu' lieve». 
    Del resto la sentenza Scoppola riguardava proprio  una  questione
relativa alla pena, e non e' senza significato che, nel richiamare la
precedente e consolidata giurisprudenza  sull'art.  7  della  CEDU  e
sulla sua portata, la Corte europea  abbia  avvertito  l'esigenza  di
chiarire la nozione di  pena  cui  fa  riferimento  la  citata  norma
convenzionale, specificando che si  tratta  della  misura  che  viene
«imposta a seguito di una condanna per un reato», e non di  qualsiasi
elemento incidente sul trattamento penale. Percio' e' da ritenere che
il principio di retroattivita' della lex  mitior  riconosciuto  dalla
Corte  di   Strasburgo   riguardi   esclusivamente   la   fattispecie
incriminatrice  e  la  pena,  mentre  sono  estranee  all'ambito   di
operativita' di tale principio, cosi' delineato, le  ipotesi  in  cui
non si verifica un mutamento, favorevole al  reo,  nella  valutazione
sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque
di minore gravita'. 
    15. - Una volta individuati i limiti oggettivi del  principio  di
retroattivita' in mitius, riconosciuto dalla Corte europea sulla base
dell'art. 7 della CEDU, e' agevole la conclusione che esso  non  puo'
riguardare le norme sopravvenute che modificano, in senso  favorevole
al reo, la disciplina della prescrizione, con la riduzione del  tempo
occorrente perche' si produca l'effetto estintivo del reato. 
    Del resto dalla stessa giurisprudenza della Corte europea  emerge
che l'istituto della  prescrizione,  indipendentemente  dalla  natura
sostanziale o processuale che gli attribuiscono i diversi ordinamenti
nazionali, non forma oggetto  della  tutela  apprestata  dall'art.  7
della Convenzione, come si  desume  dalla  sentenza  22  giugno  2000
(Coëme e altri contro Belgio) con  cui  la  Corte  di  Strasburgo  ha
ritenuto che non fosse in contrasto con la citata norma convenzionale
una legge belga che prolungava, con efficacia retroattiva, i tempi di
prescrizione dei reati. 
    16. - In conclusione deve ritenersi che l'art. 10, comma 3, della
legge n. 251 del 2005 - nella parte in cui esclude l'applicazione dei
nuovi termini di prescrizione, se piu' brevi, nei  processi  pendenti
in appello o avanti alla Corte  di  cassazione  -  non  si  ponga  in
contrasto con l'art. 7 della CEDU, come interpretato dalla  Corte  di
Strasburgo, e quindi non violi l'art. 117, primo comma, Cost. 
    La questione sollevata dalla Corte di cassazione, seconda sezione
penale, va dichiarata, pertanto, non fondata.