Ordinanza 
 
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'articolo 275,  comma
4,  del  codice  di  procedura  penale  promosso  dal  Tribunale   di
Catanzaro, sezione del riesame, nel procedimento penale a  carico  di
P. R. con ordinanza del 24 novembre  2010,  iscritta  al  n.  25  del
registro ordinanze 2011, e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  della
Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell'anno 2011. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella camera di consiglio del 22  giugno  2011  il  Giudice
relatore Alessandro Criscuolo. 
    Ritenuto che il Tribunale di Catanzaro, sezione del riesame,  con
ordinanza del 24 novembre 2010, ha  sollevato,  in  riferimento  agli
articoli  3  e  32  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art.  275,  comma  4,  del  codice  di  procedura
penale, nella parte in cui «non prevede che non puo' essere  disposta
la custodia cautelare in carcere quando imputata sia la madre  di  un
figlio minore invalido al 100%, con  lei  convivente,  che  necessiti
della costante presenza della madre»; 
        che il rimettente riferisce di doversi pronunciare in  ordine
all'appello proposto dai difensori  di  P.  R.  avverso  l'ordinanza,
emessa il 30 settembre 2010, dal Giudice per le indagini  preliminari
del Tribunale di Catanzaro, con la quale e' stata respinta  l'istanza
per la revoca o sostituzione della misura della custodia cautelare in
carcere, adottata nei confronti dell'indagata; 
        che, in particolare, il Tribunale espone che,  con  ordinanza
n. 2367/09 R.G., il Giudice per le indagini preliminari del  medesimo
Tribunale ha disposto l'applicazione a carico di P. R. della indicata
misura, perche' gravemente indiziata dei reati di cui agli artt. 73 e
74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309
(Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli  stupefacenti
e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,  cura  e  riabilitazione   dei
relativi stati di tossicodipendenza); 
        che avverso tale ordinanza la difesa di  P.  R.  ha  proposto
istanza di riesame, ai sensi dell'art. 309 cod. proc.  pen.,  istanza
che, all'esito dell'udienza camerale del 5  gennaio  2010,  e'  stata
respinta; 
        che con successiva istanza, formulata ai sensi dell'art.  299
cod. proc. pen., i difensori di P. R. hanno presentato  richiesta  di
revoca o sostituzione della misura in atto; 
        che all'istanza e' stata allegata una  relazione  medica  del
dirigente dell'Unita' operativa neuropsichiatria infantile - ASP - di
Catanzaro, in data 9 agosto 2010, relativa alle condizioni di  salute
del figlio  minore  della  donna,  nella  quale  si  afferma  che  la
maturita' psicofisica di detto minore, per le deficienze intellettive
da cui e' affetto,  corrisponde  a  quella  di  un  bambino  di  eta'
inferiore ad anni tre; 
        che,  alla  luce  di   tale   documentazione,   i   difensori
dell'indagata hanno sostenuto  che,  nel  caso  di  specie,  dovrebbe
trovare applicazione la disciplina di cui all'art. 275, comma 4, cod.
proc. pen.; 
        che il giudice per  le  indagini  preliminari,  acquisito  il
parere negativo del pubblico ministero,  ha  respinto  l'istanza  con
l'ordinanza oggetto di impugnazione; 
        che avverso tale provvedimento  i  difensori  hanno  proposto
appello, con  il  quale  hanno  censurato  la  pronuncia  di  rigetto
riproponendo le argomentazioni gia' dedotte a  sostegno  dell'istanza
de libertate e contestando l'interpretazione  del  giudice  di  prime
cure, il quale ha ritenuto di non ricondurre il  caso  in  esame  nel
novero delle ipotesi di cui al comma 4 dell'art. 275 cod. proc. pen.; 
        che, al riguardo, il rimettente riferisce  le  argomentazioni
difensive dirette a sostenere la riconducibilita'  della  fattispecie
oggetto del giudizio a quo in quelle previste dalla norma ora citata,
basate  sull'assunto  che  la  deficienza  intellettiva  del  minore,
convivente con la prevenuta, lungi dal costituire  un  caso  analogo,
rappresenterebbe una situazione identica a quella  contemplata  dalla
norma  che  sancisce  il  divieto  di  applicazione  della   custodia
cautelare in carcere nei soli casi di donna incinta  o  di  madre  di
prole di eta' inferiore a tre anni con  lei  convivente,  ovvero  nei
confronti  del  padre,  laddove  la  madre   sia   deceduta   o   sia
assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole; 
        che da cio', ad avviso della difesa, dovrebbe dedursi che  il
legislatore abbia inteso tutelare l'eta'  evolutiva  e  non  il  dato
anagrafico, sicche' andrebbero riconosciuti la funzione sociale della
maternita' ed il rilievo dell'inserimento della donna nella famiglia,
nonche' andrebbe affermata l'esigenza della quotidiana partecipazione
della madre alla cura ed alla assistenza  morale  e  materiale  della
prole disabile, consentendo una  condizione  esistenziale  rispettosa
della dignita' umana e dei diritti di liberta'  e  di  autonomia  del
soggetto disabile; 
        che il rimettente, poi, espone che, all'udienza camerale  del
26 ottobre 2010, fissata per  la  trattazione  del  ricorso,  assente
l'indagata, la difesa ha prodotto documentazione attestante lo  stato
detentivo di  B.  S.  (marito  dell'indagata  e  padre  di  D.),  una
relazione medico-legale redatta da un consulente di parte in data  27
luglio 2010 e una nota dello stesso sanitario del  22  ottobre  2010,
concludendo per l'accoglimento dell'appello; 
        che, nel corso della discussione, il difensore  dell'indagata
ha eccepito l'illegittimita' costituzionale dell'art. 275,  comma  4,
cod. proc. pen., con riferimento agli articoli 3, 29, 30 e 31  Cost.,
nella parte in cui la norma  censurata  non  prevede  il  divieto  di
applicazione della custodia cautelare in carcere, quando imputata sia
madre (o padre, in caso di impossibilita' della prima) di  prole  con
lei convivente, portatore di handicap totalmente invalidante; 
        che, in punto di  non  manifesta  infondatezza,  il  collegio
rimettente ritiene che l'atto di appello in questione sia diretto  ad
ottenere, in vigenza della presunzione di  adeguatezza  della  misura
carceraria ai sensi dell'art. 275,  comma  3,  cod.  proc.  pen.,  la
concessione della  detenzione  domiciliare,  al  fine  di  consentire
all'indagata  di  prestare  effettiva  assistenza  psico-fisica   nei
confronti del figlio minore portatore  di  handicap,  accertato  come
totalmente  invalidante.  Tale  possibilita',  pero',   non   sarebbe
prevista dalle norme vigenti; 
        che al riguardo il giudice a quo rileva come  l'indagata  sia
sottoposta alla misura della custodia in carcere per il reato di  cui
all'art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, quindi  per  una  fattispecie
delittuosa ricompresa tra quelle previste  dall'art.  275,  comma  3,
cod. proc. pen. in relazione alle  quali,  in  presenza  di  esigenze
cautelari di cui all'art. 274 cod.  proc.  pen.,  il  legislatore  ha
previsto - in deroga all'ordinario potere discrezionale  del  giudice
di valutare e scegliere quale sia la misura  cautelare  proporzionata
ai fatti concreti ed adeguata a tutelare le esigenze cautelari -  una
presunzione di adeguatezza della massima misura di rigore; 
        che  detta   presunzione,   salvo   essere   superata   dalla
valutazione circa l'assenza  di  esigenze  cautelari,  e'  derogabile
soltanto nelle tassative ipotesi previste dalla  medesima  norma,  di
seguito indicate: 1) se l'imputata sia donna incinta o madre di prole
di eta' inferiore a  tre  anni  con  lei  convivente,  ovvero  padre,
qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a  dare
assistenza alla prole; 2) se imputata sia persona che abbia  superato
l'eta' di settanta anni; 3) se imputata sia persona affetta  da  AIDS
conclamata o da  grave  deficienza  immunitaria  accertate  ai  sensi
dell'art. 286-bis, comma 2, cod.  proc.  pen.;  4)  se  imputata  sia
persona affetta da altra malattia particolarmente grave, per  effetto
della quale le sue condizioni di salute risultano  incompatibili  con
lo stato di detenzione e, comunque, tali da non  consentire  adeguate
cure in caso di detenzione in carcere; 
        che, ad avviso del giudice a quo,  attraverso  la  previsione
delle dette ipotesi, il legislatore ha inteso codificare il principio
di attenuazione della custodia cautelare in carcere nei confronti  di
quelle persone che si trovano «in particolari  condizioni  soggettive
che di per se' sconsiglierebbero la restrizione in carcere»; 
        che  le  ipotesi  innanzi   indicate,   seppure   differenti,
presenterebbero - ad avviso del collegio -  un  comune  denominatore,
ravvisabile nella necessita' di garantire la protezione  di  soggetti
deboli non necessariamente coincidenti con il destinatario  esclusivo
della misura cautelare; 
        che, infatti, nel primo caso il beneficiario della previsione
normativa  sarebbe  il  minore  di  eta'  inferiore  ai   tre   anni,
convivente, per assicurare la tutela del quale il legislatore avrebbe
prescritto il divieto di custodia cautelare in carcere  della  madre,
ovvero del padre  qualora  la  madre  sia  deceduta  o  assolutamente
impossibilitata a  prestargli  assistenza,  onde  si  tratterebbe  di
ipotesi tassative e non suscettibili di interpretazione analogica; 
        che, in proposito, il rimettente  ricorda  la  giurisprudenza
della Corte di cassazione, la quale, con piu' pronunzie, ha affermato
che, in tema di provvedimenti coercitivi, il divieto di  disporre  la
custodia cautelare in carcere, previsto dall'art. 275, comma 4,  cod.
proc.  pen.,  costituendo  norma  eccezionale,  non  e'   applicabile
estensivamente ad altre ipotesi non espressamente contemplate  ed  ha
carattere eccezionale, sicche' ne e' preclusa l'applicazione  a  casi
analoghi; 
        che, inoltre,  il  rimettente  riferisce  che  i  giudici  di
legittimita' hanno evidenziato, occupandosi  di  un  caso  analogo  a
quello in esame, che «in tema di provvedimenti coercitivi, la "ratio"
della limitazione al  potere  del  giudice  di  scegliere  la  misura
cautelare personale, introdotta dall'art. 5 legge 8 agosto  1995,  n.
332», che ha modificato l'art. 275, comma 4, cod. proc. pen., secondo
cui non puo' essere disposta la custodia cautelare in carcere,  salvo
casi eccezionali, quando imputati siano  donna  incinta  o  madre  di
prole di eta' inferiore ai tre anni con lei convivente, ovvero padre,
qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a  dare
assistenza alla prole,  va  individuata  nell'avvertita  esigenza  di
garantire   ai   figli   l'assistenza   familiare   in   un   momento
particolarmente significativo e qualificante  della  loro  formazione
fisica e, soprattutto psichica, qual e'  quello  fino  ai  tre  anni,
giacche' con il superamento di tale limite di eta' puo', considerarsi
concluso il primo e il piu' importante ciclo formativo ed aperto  uno
nuovo, nel quale le esigenze della prole possono  essere  soddisfatte
da un qualsiasi altro  congiunto  ed,  all'occorrenza,  dai  pubblici
istituti a cio' deputati. Non  e'  pertanto  consentito  interpretare
estensivamente la norma fino a ricomprendere nel divieto ivi previsto
ulteriori ipotesi, non espressamente contemplate, in cui si deduca la
necessita',  da  parte  dell'indagato,  di  prestare   assistenza   a
familiari diversi da quelli  indicati  nella  disposizione  predetta»
(Corte di cassazione, sez. II, sentenza 14 febbraio 1996, n. 795); 
        che il  rimettente,  inoltre,  prosegue  osservando  come  la
scelta del legislatore, di ancorare la possibilita' di  applicare  la
misura cautelare degli arresti domiciliari al limite  (convenzionale)
fissato in tre anni di  eta'  del  figlio  ed  al  presupposto  della
convivenza,  impedirebbe  di  seguire   l'interpretazione   estensiva
invocata dal difensore dell'indagata; 
        che,   pertanto,   superato   tale   limite   di   eta',   in
considerazione del fatto che lo Stato dovrebbe offrire le provvidenze
legislative a  favore  ed  a  sostegno  della  genitorialita'  (anche
attraverso il ricorso ad istituti  sostitutivi  ed  economici,  quali
asili nido, o scuole dell'infanzia pubbliche e private  convenzionate
con il sistema pubblico), non sarebbe invocabile l'applicazione della
norma anche nell'ipotesi in cui il minore sia, per il  suo  stato  di
portatore di handicap totalmente invalidante, incapace di  provvedere
da solo alle piu' elementari esigenze quotidiane ed anche se,  da  un
punto di vista mentale (ma non anagrafico), si possa equiparare ad un
minore di anni tre; 
        che il Tribunale,  dunque,  alla  luce  delle  argomentazioni
esposte, ritiene che la disciplina vigente, siccome finalizzata  alla
tutela e protezione di determinate categorie  di  soggetti  "deboli",
sia in contrasto con il principio di uguaglianza e di ragionevolezza,
in  quanto  contemplerebbe  un  trattamento  difforme  in  ordine   a
situazioni familiari analoghe ed equiparabili tra  loro,  quali  sono
quella della madre di un figlio minore di anni  tre  e  quella  della
madre di un figlio disabile e totalmente incapace  di  provvedere  da
solo anche alle piu'  elementari  esigenze:  quest'ultimo,  ancorche'
maggiore degli anni tre, avrebbe necessita' di essere assistito dalla
madre allo stesso modo di un bambino di eta' inferiore agli anni tre; 
        che  il  giudice  a   quo   si   sofferma   sull'orientamento
maggioritario della giurisprudenza di legittimita' (sopra richiamato)
circa la ratio della limitazione al potere del giudice  di  scegliere
la misura cautelare personale, introdotta dall'art. 5 della  legge  8
agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in  tema
di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto
di difesa). Tuttavia, ritiene che, se essa fosse la  ratio  esclusiva
della previsione normativa, allora sarebbe ragionevole la scelta  del
legislatore di escludere dalla previsione normativa stessa  l'ipotesi
in cui imputata sia madre di figlio maggiore di tre anni,  totalmente
e   permanentemente   invalido,    perche'    oltre    tale    limite
(discrezionalmente fissato  dal  legislatore)  non  vi  sarebbe  piu'
necessita'  della  presenza  materna,  dovendosi   considerare   gia'
compiuta la fase iniziale dello sviluppo psico-fisico  del  minore  e
possibile il ricorso, anche in via esclusiva, a strutture a  sostegno
della genitorialita'; 
        che,  ad  avviso  del  collegio,  la  disposizione  impugnata
dovrebbe essere considerata alla luce del piu' generale  contesto  in
cui essa e' inserita, con la conseguenza che, nella valutazione della
scelta legislativa, non si potrebbe prescindere, da  un  lato,  dalla
finalita' di  assicurare  il  ricongiungimento  tra  madre  e  figlio
incapace, e, dall'altro, da quello  che  e'  il  comune  denominatore
delle ipotesi previste dai commi 4 e 4-bis dell'art. 275  cod.  proc.
pen., ossia la tutela e la protezione  di  determinate  categorie  di
soggetti deboli; 
        che, peraltro,  tale  esigenza  sarebbe  sottesa  anche  alla
disposizione che vieta l'applicazione della  misura  carceraria  alla
madre di prole di eta' inferiore a tre anni; 
        che cio' si  desumerebbe  anche  dalla  evoluzione  normativa
delle ipotesi derogatorie, previste  dall'art.  275,  comma  4,  cod.
proc. pen., giacche' ad un ampliamento  dei  casi  di  accessibilita'
alla misura degli arresti domiciliari, in deroga alla presunzione  di
adeguatezza del comma 3, determinato dalle modifiche apportate  dalla
legge n.  332  del  1995  e  dalla  legge  12  luglio  1999,  n.  231
(Disposizioni in materia di  esecuzione  della  pena,  di  misure  di
sicurezza e di misure cautelari nei confronti dei soggetti affetti da
AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria o da altra malattia
particolarmente grave), avrebbe corrisposto, quanto alla tutela della
genitorialita', l'inserimento di un parametro convenzionale, quale e'
quello dell'eta' della  prole,  sostituendo  l'originaria  previsione
(donna che allatta la prole) con l'attuale, ancorata  al  limite  dei
tre anni, secondo una tendenza alimentata da spirito di favore  verso
le esigenze di sviluppo e formazione del bambino; 
        che, invero, il soddisfacimento  di  tali  esigenze  potrebbe
essere gravemente pregiudicato dall'assenza della figura genitoriale; 
        che,  pero',   cosi'   interpretata,   la   norma   censurata
introdurrebbe,  in   modo   ingiustificato   ed   irragionevole,   un
trattamento peggiore  nei  confronti  dell'indagata  madre  di  figli
minori conviventi che, pur essendo di eta'  superiore  ai  tre  anni,
siano  affetti  da  handicap  invalidanti  che  impediscono  loro  di
adempiere alle piu' elementari esigenze di vita, al pari  del  minore
di anni tre; 
        che, ad avviso del rimettente,  la  salute  psico-fisica  del
figlio   portatore   di   handicap   potrebbe   essere   notevolmente
pregiudicata dall'assenza della madre, ristretta in regime  cautelare
carcerario, e dalla mancanza di cure da parte di questa, non  essendo
indifferente per il disabile grave, a qualsiasi eta', che le  cure  e
l'assistenza siano prestate da persone diverse dal genitore; 
        che, sotto tale profilo, il giudice  a  quo  ritiene  che  la
possibilita'  di  applicare  la  misura   cautelare   degli   arresti
domiciliari  al  genitore  indagato,  convivente  con  figlio  minore
«totalmente handicappato», risulterebbe funzionale all'impegno  della
Repubblica, sancito  nell'art.  3,  secondo  comma,  Cost.,  volto  a
rimuovere gli ostacoli di ordine sociale  che  impediscono  il  pieno
sviluppo della personalita', oltre che funzionale  all'impegno  della
Repubblica di tutelare, anche nel contesto della  famiglia  nucleare,
la salute come fondamentale diritto dell'uomo; 
        che, sul punto,  verrebbero  in  rilievo:  1)  l'esigenza  di
favorire  la  socializzazione  del  soggetto   disabile,   presa   in
considerazione dal legislatore sin dalla legge 5  febbraio  1992,  n.
104 (Legge  quadro  per  l'assistenza,  l'integrazione  sociale  e  i
diritti delle persone handicappate),  che  ha  predisposto  strumenti
rivolti ad agevolare il suo pieno inserimento nella  famiglia,  nella
scuola e nel lavoro; 2) il particolare  ruolo  della  famiglia  nella
socializzazione  del  soggetto  debole,  che,  nel  caso  in   esame,
rileverebbe sotto il profilo della tutela  del  minore  disabile;  3)
l'esigenza di tutelare e garantire il diritto alla salute del  minore
disabile consentendo adeguate cure in un contesto protetto, quale  e'
quello familiare; 
        che, alla luce di tali considerazioni, secondo il rimettente,
la norma censurata si porrebbe  in  contrasto  con  il  principio  di
ragionevolezza,  prevedendo  «un  sistema  rigido  che  preclude   al
giudice, ai fini  della  concessione  della  misura  cautelare  della
detenzione domiciliare,  di  valutare  l'esistenza  delle  condizioni
necessarie per un'effettiva assistenza psico-fisica  da  parte  della
madre indagata nei confronti del figlio minore portatore di  handicap
accertato come totalmente invalidante»; 
        che  cio',   inoltre,   determinerebbe,   come   gia'   prima
evidenziato, un trattamento difforme rispetto a  situazioni  analoghe
ed equiparabili; 
        che,  ancora,  il  Tribunale  ritiene  che  la  questione  di
legittimita' costituzionale sia senz'altro rilevante nel procedimento
in corso (tra l'altro) per le seguenti motivazioni: 
          1) l'indagata, madre convivente del minore B.  D.  di  anni
sette, e' detenuta in regime di custodia cautelare in carcere  per  i
reati di cui agli artt. 74 e 73 del d.P.R. n. 309 del 1990; 
          2) il minore e'  in  condizioni  di  invalidita'  assoluta,
equiparabile  alla  invalidita'  al  100  per  cento,  in  base  alle
risultanze  della  relazione  medica  in  data  27  luglio  2010  del
consulente tecnico di parte, secondo cui il quadro clinico del minore
«e' certamente rappresentativo di un Ritardo Mentale di  grado  Grave
con  marcata  compromissione  del  linguaggio  espressivo   e   della
comprensione»; «il piccolo D. non soltanto non espleta le funzioni  e
gli atti tipici della propria eta' ma  e'  del  tutto  dipendente  da
terzi nell'assolvimento degli atti quotidiani  della  vita  dai  piu'
semplici ai piu' complessi»; 
          3) con la relazione  del  dirigente  dell'Unita'  operativa
neuropsichiatria infantile - ASP - di Catanzaro del 9 agosto 2010, si
certifica, tra l'altro, che «le abilita' inerenti la cura e  l'igiene
della persona, ossia del minore B. D., non sono  confacenti  all'eta'
(non ha acquisito il controllo degli sfinteri), non essendo in  grado
di  svolgere  autonomamente  le  principali   funzioni   della   vita
quotidiana»; 
          4) B. S., marito dell'indagata, nonche' padre  del  minore,
e' anch'esso ristretto in carcere per i  medesimi  reati  nell'ambito
dello stesso procedimento penale; 
        che,  infine,  il  Tribunale  richiama   la   relazione   del
consulente di parte in data 27 luglio 2010, nella  quale  si  attesta
che «il piccolo D. nonostante abbia vissuto gli ultimi 7 mesi,  dalla
precedente valutazione, in un ambiente protetto e familiare, nel  cui
contesto era contornato da figure a lui  note  poiche'  suoi  diretti
congiunti  (nonni,   sorelle,   zie)   ha   manifestato   un   severo
peggioramento delle proprie abilita'  cognitive  e  comportamentali»,
ribadendo la rilevanza della questione,  in  quanto,  per  provvedere
sull'appello, e' necessario fare applicazione della norma censurata; 
        che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  e'  intervenuto  nel
giudizio con atto depositato in data 1° marzo 2011, ed ha chiesto che
la questione sia dichiarata non fondata; 
        che, al riguardo, la difesa  statale  osserva  che  la  ratio
giustificativa  della  disposizione  censurata  sarebbe   quella   di
assicurare la presenza di  almeno  un  genitore,  essendo  essa  sola
idonea  a  garantire,   preservare   e   salvaguardare   l'integrita'
psico-fisica  del  bambino  minore  degli  anni  tre  in  un  momento
particolarmente significativo della sua vita; 
        che, invece, qualora sia  imputata  la  madre  di  un  figlio
gravemente ammalato, con lei convivente, l'auspicata previsione della
possibilita' per la madre in vinculis di  ottenere  la  misura  degli
arresti domiciliari non costituirebbe l'unico mezzo per soddisfare la
diversa esigenza che siano assicurate la necessaria assistenza e cura
del minore, di eta' superiore a tre  anni  ma  affetto  da  patologie
invalidanti, in quanto esse ben potrebbero essere apprestate da altri
familiari, o da altre strutture assistenziali, non potendosi a priori
ritenere il loro intervento infungibile rispetto  alla  presenza  del
genitore detenuto; 
        che,  ad  avviso  della  difesa  erariale,  inoltre,  non  si
potrebbe ragionevolmente  sostenere  che  l'affidamento,  a  soggetti
diversi dalla madre, dell'assistenza e cura di un minore  affetto  da
patologie gravemente invalidanti sia di per se'  lesivo  del  diritto
alla salute del soggetto disabile e, per cio'  stesso,  incompatibile
con l'art. 3 della Costituzione. 
    Considerato che il Tribunale di Catanzaro, sezione  del  riesame,
dubita, in riferimento agli articoli 3 e 32 della Costituzione, della
legittimita' costituzionale dell'articolo 275, comma 4, del codice di
procedura penale, «nella parte in cui non prevede che non puo' essere
disposta la custodia cautelare in  carcere  quando  imputata  sia  la
madre di un figlio minore invalido al 100%, con lei  convivente,  che
necessiti della costante presenza della madre»; 
        che, ad avviso del rimettente, la norma censurata si porrebbe
in violazione dell'art.  3  Cost.:  a)  trattando  in  modo  difforme
situazioni  familiari  analoghe  ed  equiparabili  tra  loro,   quali
sarebbero quella della  madre  di  un  figlio  minore  di  anni  tre,
all'epoca dell'ordinanza di rimessione: limite poi  portato  ad  anni
sei con la legge 21 aprile  2011,  n.  62  (Modifiche  al  codice  di
procedura penale e alla  legge  26  luglio  1975,  n.  354,  e  altre
disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori)
e quella della madre di un figlio disabile e totalmente  incapace  di
provvedere da solo anche alle  piu'  elementari  esigenze,  il  quale
avrebbe necessita' di essere assistito dalla madre come un bambino di
eta' inferiore a tre anni; b)  non  prendendo  in  considerazione  la
condizione  del  figlio  minore  gravemente   invalido   e,   dunque,
introducendo in modo ingiustificato e  irragionevole  un  trattamento
peggiore  nei  confronti  dell'indagata,  madre   di   figli   minori
conviventi che, pur di eta' superiore ai tre anni (oggi a sei  anni),
siano affetti  da  handicap  invalidanti  tali  da  impedir  loro  di
adempiere alle piu' elementari esigenze di vita, al pari del soggetto
rientrante nei suddetti limiti di eta';  c)  prevedendo  «un  sistema
rigido che preclude al  giudice,  ai  fini  della  concessione  della
misura  cautelare  della  detenzione  domiciliare,  di  valutare   la
consistenza delle condizioni necessarie per  un'effettiva  assistenza
psico-fisica da parte della madre indagata, nei confronti del  figlio
minore portatore di handicap accertato come totalmente invalidante»; 
        che, inoltre,  la  detta  norma  si  porrebbe  in  violazione
dell'art. 32 Cost., in  quanto  la  salute  psico-fisica  del  figlio
portatore  di  handicap  «puo'   essere   notevolmente   pregiudicata
dall'assenza della madre, ristretta in regime cautelare carcerario, e
dalla mancanza di cure da parte di questa, non  essendo  indifferente
per il disabile grave, a qualsiasi eta', che le cure  e  l'assistenza
siano prestate da persone diverse dal genitore»; 
        che, con sentenza di questa  Corte  adottata  contestualmente
alla  pronuncia  del  presente  provvedimento,  e'  stata  dichiarata
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  275,  comma  3,  secondo
periodo,  cod.  proc.  pen.,  come   modificato   dall'art.   2   del
decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in  materia  di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche'  in
tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge
23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando
sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto  di  cui
all'art. 74 del decreto del Presidente  della  Repubblica  9  ottobre
1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina  degli
stupefacenti   e   sostanze   psicotrope,   prevenzione,    cura    e
riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), e' applicata
la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti  elementi
dai quali risulti che non sussistono  esigenze  cautelari  -  non  fa
salva, altresi', l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici,
in relazione al  caso  concreto,  da  cui  risulti  che  le  esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure; 
        che, a seguito  della  menzionata  sentenza,  la  presunzione
assoluta  -  secondo  la  quale,  in  presenza  di  gravi  indizi  di
colpevolezza in ordine ai delitti contemplati dalla  norma  censurata
e, segnatamente, per quanto qui rileva, in ordine al delitto  di  cui
all'art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, unica misura applicabile  era
la  custodia  cautelare  in  carcere,  salvo  che  fossero  acquisiti
elementi idonei a dimostrare l'insussistenza di esigenze cautelari  -
e' venuta meno, essendo stata restituita al giudice  la  possibilita'
di valutare elementi specifici, in relazione al  caso  concreto,  dai
quali risulti che le esigenze cautelari  possono  essere  soddisfatte
con altre misure; 
        che, pertanto, va disposta  la  restituzione  degli  atti  al
rimettente Tribunale di Catanzaro,  sezione  del  riesame,  affinche'
proceda a nuova valutazione della  rilevanza  della  questione,  alla
luce delle statuizioni contenute nella sentenza citata.