IL TRIBUNALE Premesso che il 16. 9. 2010 il Gip del Tribunale di Venezia ha emesso decreto di giudizio immediato nei confronti di Costa Paolo, Hadir Jamal e Idridssi Aattouf, con imputazione di "sequestro di persona a scopo di estorsione" (art. 630 comma e che in relazione a tale accusa, gli interessati, sottoposti a custodia cautelare in carcere, hanno chiesto e ottenuto che la le')ro posizione processuale fosse definita nelle forme del giudizio abbreviato; Dato atto che la discussione si e' svolta all'udienza di data 8.4.2011 e che nel prendere le loro conclusioni i difensori hanno posto questione di legittimita' costituzionale dell'art. 630 c.p.; Rilevato che ad ore 15,30 del 17 giugno 2010 l'offeso Chigri Monir e' stato indotto con un pretesto a recarsi a casa di Idridssi Aattouf, sita ad Albignasego di Padova, dove, privato della liberta' personale, e' stato trattenuto con la forza e manomesso, fino all'intervento degli inquirenti, riusciti a liberarlo ad ore 19.50 di quello stesso 17 giugno 2010; Rilevato che tale iniziativa delittuosa e' stata posta in essere dagli imputati allo scopo di sostenere l'ingiunzione volta a ottenere la restituzione del denaro consegnato immediatamente prima a uno spacciatore, dileguatosi senza corrispondere loro la fornitura di hashish attesa, nonostante il fatto che, avendo gestito la mediazione nella illecita transazione, l'offeso Chigri Monir fosse rimasto con gli acquirenti a fare da "garante" del comune "dante causa"; Rilevato che per questo motivo, indotto con un pretesto a recarsi a casa di uno degli imputati, privato della liberta' personale e percosso, l'offeso Chigri Monir e' stato costretto a contattare suoi parenti (taluno dei quali al corrente dei pregressi rapporti illeciti), tramite telefono - per buona sorte sottoposto a intercettazione - al fine di ingiungere loro di reperire la somma pretesa dagli imputati, con minaccia d'essere trattenuto e ulteriormente manomesso, qualora l'ingiusta pretesa creditoria non fosse stata soddisfatta. Osserva quanto segue Ad avviso del giudice rimettente, il fatto ascritto agli imputati deve essere detto conforme al tipo del "sequestro di persona a scopo di estorsione" 630/comma 1 c.p.), punito, nella forma-base, con edittale minima di venticinque anni di reclusione. Al riguardo, il rimettente Osserva essere vincolante e insuscettibile d'essere disattesa l'interpretazione accolta dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con sentenza n. 962 del 2004 (Rv. 226489), in forza della quale, ai fini della configurabilita' del delitto di cui all'art. 630 c.p., il requisito di fattispecie costituito dalla "ingiustizia" del profitto (oggetto di dolo specifico) deve essere apprezzato utilizzando canoni legali, senza che possa assumere rilevanza la peculiare prospettiva dell'agente. Con la conseguenza che "sequestro di persona a scopo di estorsione" sussiste, anche quando l'agente intenda perseguire il risultato del pagamento di un debito che derivi da preesistenti rapporti illeciti con la vittima (quale quello scaturente dalla mancata consegna, da parte della stessa, di una fornitura di droga, a fronte del pagamento del prezzo pattuito), appunto trattandosi di pretesa sostenuta "non iure" e "contra ius". Invero, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno da tempo chiarito che la condotta criminosa che consiste nella privazione della liberta' di una persona, teleologicamente atta a conseguire una prestazione patrimoniale, pretesa in esecuzione di un precedente rapporto illecito, integra il reato di cui all'art. 630 c.p. e non del mero concorso dei delitti di sequestro di persona (605 c.p.) e di estorsione tentata (629 e 56 c.p.). Della suddetta pronuncia devono essere condivise le argomentazioni secondo cui, quand'anche la privazione della liberta' dell'offeso (pure di breve durata) risulti essere atta a conseguire una prestazione patrimoniale che abbia ragion d'essere in preesistenti rapporti illeciti "il prezzo e' la controprestazione che viene imposta quale corrispettivo della liberazione della persona", prezzo e liberazione costituendo i termini del sinallagma descritto dall'art. 630 c.p. Concludendo: se la pretesa dell'agente ha titolo in un negozio avente causa illecita, o, come nel concreto accade, in una frode "in re illicita", il profitto perseguito e' "ingiusto". Sicche', la condotta dell'agente non puo' essere scissa negli originari "formanti" del delitto complesso, e, cioe', in "sequestro di persona" (605 c.p.) ed "estorsione" tentata (629 e 56 c.p.). Puo' essere affermato che, sulla questione, si e' venuto oramai formando "diritto vivente": il binomio "ingiusto profitto - prezzo della liberazione" non esclude affatto che il suo perseguimento tragga movente da preesistenti rapporti illeciti, giacche' it dato normativo si limita a collegare la condotta estorsiva alla prospettiva della liberazione del sequestrato. L'agente, infatti, non ha una pretesa tutelabile dalla legge da far valere; sicche' l'utilita' non dovuta, che persegue, null'altro rappresenta se non il corrispettivo della liberazione dell'ostaggio. In questo senso, dopo Sezioni Unite n. 962 del 2004: 1. sez. l, sentenza n. 17728, Cc.1 aprile 2010, Rv. 247071, 2. sez. 1, sentenza n. 16177, Cc.11 febbraio 2010, Rv. 247230, 3. ed ancora, sez. 5, sentenza n. 12762, Cc.22 marzo 2006 Rv. 234553 . Orbene: non v'e' dubbio che l'intervento chiarificatore delle Sezioni unite della Corte di cassazione con sentenza n. 962 del 2004, "estenda" l'ambito di operativita' della fattispecie allo studio in termini imprevedibili e non previsti all'epoca dell'ultimo intervento normativo realizzato sull'edittale minima di cui si e' detto (anno 1980). Come noto, il testo dell'art.630 c.p. ha subito notevoli modifiche nel corso del tempo: prima, con l'art. 4 della legge 14 ottobre 1974, n. 497; a seguire, con l'art. 2 del D.L. 21 marzo 1978 n. 59, convertito in legge n. 191/1978; da ultimo, con legge 30 dicembre 1980, n. 894. Senza volere indugiare, in una sede come questa, sulle ragioni (note) che nel volgere di pochi anni andarono orientando la discrezionalita' legislativa ad elevare l'edittale minima prevista per la fattispecie in questione dalla soglia di otto anni di reclusione a quella di venticinque anni di reclusione (1) , sia dato sommessamente considerare che, in allora, non era prevedibile che l'ambito di operativita' dell'art. 630 c.p. potesse subire, come in effetti ha subito, in via interpretativa, tanto considerevole estensione. Ed invero, fino alla citata pronuncia delle Sezioni unite n. 962 del 2004, la giurisprudenza di legittimita' era costantemente orientata nel senso che il delitto di "sequestro di persona a scopo di estorsione" non fosse configurabile qualora privazione di liberta' e perseguimento del profitto fossero riconducibili ad una preesistente causa illecita. In tal senso: (1) Sezione II, sent. n. 9189 del 1.7.1993, Rv.195539; (2) Sezione I, sentenza n. 12992 del 12.11.2002, Rv.224080; (3) Sezione II, sentenza n. 45906 del 22.10.2001, Rv. 220500; (4) Sezione I, sentenza n. 428 del 5.12.2001, Rv. 220491; (5) Sezione V, sentenza n. 9617 del 22.6.2000, Rv.216643; (6) Sezione II, sentenza n. 12394 del 10.8.2000, Rv. 217917; (7) ed ancora, Sezione VI, sentenza n. 321 del 20.1.2000, Rv. 215646. Rimane fermo che il fatto di reato sub iudice e' di significato obiettivamente meno grave e complesso di quelli riconducibili ai limiti inferiori della classe di gravita' pensabile per fatti conformi al tipo-630 comma 1 c.p., specie se valutato in relazione al paradigma di "sequestro di persona a scopo di estorsione" che, in epoche meno recenti, e' andato orientando la discrezionalita' legislativa nel senso dell'incremento del minimo edittale previsto per tale delitto, dal precedente quantum di otto anni di reclusione all'attuale quantum di venticinque anni di reclusione. Si consideri, in punto di "rilevanza", che, ancorche' l'offeso Chigri Monir risulti essere stato costretto per quattro ore presso l'abitazione dell'avente causa" Nadir Jamal (indotto a delinquere a causa della frode patita "in re illicita"), il sequestro di persona a scopo di estorsione, oggetto del giudizio "a quo", risulta essere frutto di una iniziativa estemporanea, d'occasione, realizzata senza predisposizione di mezzi, senza uso delle armi, senza premeditazione, essendo gli agenti perfettamente conosciuti dalla vittima, alla stessa stregua di taluno dei destinatari dell'ingiusta pretesa, in ragione della mediazione svolta per conto degli imputati in affari di droga : la' dove la diminuzione della liberta' personale dell'offeso ha avuto comunque modo di protrarsi per un tempo limitatissimo e di cagionare danno di non rilevante significato. Giusta le premesse cui si e' fatto cenno, sussistendo relazione stretta tra la disposizione di legge penale della cui legittimita' si dubita e la "regiudicanda", riconosciuto il carattere di pregiudizialita' della questione posta rispetto alla decisione da rendere "in vivo", e, certo, considerata l'eccessiva "rigidita'" della risposta sanzionatoria prefigurata dalla norma incriminatrice, di vincolante applicazione, il giudice rimettente Ritiene non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 630 comma 1 c.p., per violazione dell'art. 3 primo comma e dell'art. 27, primo e terzo comma, Costituzione. Per le ragioni appresso indicate [§.1] La norma, della cui legittimita' costituzionale si dubita, punisce con una sanzione di severita' straordinaria, tutta compressa verso l'alto, essendo il minimo edittale di venticinque anni di reclusione prossimo al massimo di trenta (quasi una pena "fissa"), condotte delittuose che, per quanto conformi al tipo considerato, sovente risultano essere assai meno gravi di altre, per durata, modalita' d'azione Osservate ed entita' dell'offesa recata alla vittima. L'eccessiva rigidita' della risposta sanzionatoria prefigurata dall'art. 630 comma 1 c.p., [anche tenuto conto della mancata previsione in relazione alla fattispecie in esame di un'attenuante speciale di carattere oggettivo, "analoga" nella struttura e negli effetti a quella prevista dall'art. 311 c.p., applicabile all'omologo delitto di cui' all'art. 289-bis c.p., (veggasi infra §.2)], viola, a sommesso avviso del rimettente, il limite della "ragionevolezza" imposto al legislatore nella determinazione della pena, il lignite della "finalita' rieducativa" che una sanzione sproporzionata non persegue, e quello della "natura personale della responsabilita' penale", che esige una qualche forma di "comprensione equitativa" dei fatti legalmente denotati, tramite il necessario adeguamento del trattamento sanzionatorio al grado di colpevolezza dell'agente reale e al suo personale bisogno di rieducazione. In verita', il "bisogno di differenza" nel trattamento sanzionatorio da riservare a fatti meno gravi, sia pure sussumibili alla fattispecie considerata, diventa insopprimibile "in vivo", specie ove si abbia a mente che dopo l'intervento chiarificatore delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza n. 962 del 2004, cit.), l'ambito di operativita' dell'art. 630 comma 1 c.p. risulta avere subito una straordinaria estensione, in via interpretativa (2) , tale delitto essendo configurabile, giusta costante giurisprudenza, anche se, volta al perseguimento di ingiusto profitto, la privazione della liberta' personale della vittima abbia a protrarsi per un tempo limitatissimo, sia connotata da modalita' di azione di minore offensivita' e cagioni danno di non rilevante significato. In realta', alla eccessiva rigidita' della risposta sanzionatoria prefigurata dall'art.630 primo comma c.p. risulta essere soggiacente un modello semplificante di trattamento punitivo; e, certo, una concezione extravalutativa della cognizione giudiziaria, che, nel mortificare l'insopprimibile "bisogno di differenza" di cui si e' detto e si dira', oblitera il senso stesso della distinzione tra " legis-latio" e " iuris-dictio". Occorre invero significare che, presa cognizione di un fatto di reato tassativamente "denotato" dalla legge come tale, asseverato in base a prove l'enunciato che predica della sua realizzazione da parte dell'imputato, il giudice non puo' non guardare ai fini della decisione da rendere "in vivo" alla specifica gravita' del fatto medesimo, al contesto ambientale in cui si e' verificato, alle sue cause oggettive, alle reali motivazioni e al reale grado colpevolezza dell'agente; e, percio', alle circostanze specifiche che realmente connotano l'agire colpevole. La legge non potrebbe selezionare, infatti, per limite intrinseco alla sua forma, i connotati che accrescono o attenuano la gravita' dei fatti da essa tassativamente denotati : dei fatti conformi al tipo, la norma potra' orientare (ed e' certo auspicabile che cio' sia) i criteri di valutazione; ma non sopprimere la necessita' di apprezzamento, da parte del giudice, delle caratteristiche peculiari a quel fatto, tramite revoca sostanziale della discrezionalita' nella commisurazione della pena. Sennonche' nella specie accade che, a causa della previsione di un'edittale minima di inusitata severita', tutta compressa verso l'alto e prossima all'edittale massima, (quasi una pena "fissa"), dovere di accertamento di "legalita' penale" e dovere di "comprensione equitativa" dei fatti legalmente denotati, finiscono per essere irragionevolmente contrapposti. Come noto, sempre il giudizio di legalita' penale implica accertamento dei requisiti di fattispecie, essenziali e comuni, che permettono al giudice di stabilire che quel fatto (singolare) e' conforme al tipo di quelli qualificati dalla legge come reato. Ma e' ragionevole precludere, prefigurando una risposta sanzionatoria in termini tanto rigidi, la stessa possibilita' di "comprensione equitativa", da parte del giudice, delle caratteristiche accidentali e singolari del caso concreto? Ed ancora: la "comprensione equitativa" delle caratteristiche accidentali e singolari che diversamente connotano fatto e fatto recante lo stesso nome, ancorche' estranea alla questione della attendibilita' e della certezza da cui dipende la legalita' del giudizio, forma o non forma un aspetto essenziale e ineludibile della cognizione giudiziaria? Invero, la giurisdizione non e' solo interpretazione della norma e prova, con gli inevitabili margini di opinabilita' della prima e di probabilita' della seconda. Essa e' altresi' "comprensione equitativa" del fatto-oggetto di accertamento : il giudice che prenda cognizione di fatti relativi alla commissione di un reato, denotati dalla legge in maniera tassativa, non procede in termini puramente sussuntivi . Non si limita a verificare se la fattispecie concreta corrisponda o meno al tipo astratto delineato dalla norma. La norma, certo, potra' e dovra' tendere a garantire tassativita' e determinatezza nella denotazione fattuale, che, tuttavia, data la necessaria astrattezza dei formanti linguistici che la costituiscono, non potra' mai dirsi perfetta. Il giudice, dovra', allora, ponderare i connotati singolari del caso. Dovra' valutare le peculiarita' e le circostanze specifiche che lo caratterizzano: e trarre da tale "comprensione equitativa" le necessarie conseguenze in sede di commisurazione della pena da irrogare "in vivo". Sennonche', il remittente Ritiene che fa necessita' di garantire al giudice margini di "discrezionalita'" di reale significato, in sede di decisione sul trattamento sanzionatorio, sia costituzionalmente necessaria. Non e' ragionevole revocare, attraverso la prefigurazione di una risposta sanzionatoria tanto "rigida", quale quella in esame, il beneficio della distinzione tra fatto e fatto recante lo stesso nome. Non e' ragionevole sopprimere, cioe', la possibilita' di accertamento, nel grado, della reale colpevolezza dell'agente. Non e' ragionevole eludere l'insopprimibile "bisogno di differenza" nella determinazione della pena da irrogare "in vivo", come se all'accertamento di "legalita' penale" e alla "comprensione equitativa" del fatto legalmente denotato fossero soggiacenti modelli di giudizio alternativi l'uno rispetto all'altro: l'una e l'altra funzione costituendo, diversamente, aspetti non dissociabili della giurisdizione, anche e soprattutto nel momento di esercizio del potere di commisurazione della pena da irrogare in concreto. In verita', all'inderogabile necessita' di distinguere fatto e fatto recante lo stesso nome, si' associa, sul piano della stessa epistemologia del giudizio, la necessita' di "comprensione equitativa" del fatto legalmente denotato: e, percio', la necessita' di apprezzamento, nel grado, della colpevolezza dell'agente reale. La' dove e' iniquo parificare, in forma di risposta sanzionatoria irrazionalmente rigida, situazioni "eguali" quanto a requisiti di fattispecie, e tuttavia assai "diverse" quanto a specifici connotati di fatto, singolari e irripetibili. Concludendo: anche tenuto conto della mancata previsione di una attenuante che assuma la rilevanza della natura, della specie, dei mezzi, delle modalita' di azione, ovvero, della particolare tenuita' del danno o del pericolo cagionato (veggasi infra §.2), il minimo edittale di venticinque anni di reclusione previsto dall'art. 630 c.p., irragionevolmente compresso sul massimo di trenta (quasi una pena "fissa"), non e' in armonia con il "volto costituzionale" del sistema penale. Soprattutto, non risulta essere ragionevolmente proporzionato all'intera gamma di comportamenti riconducibili al tipo di reato descritto, specialmente dopo l'intervento chiarificatore delle Sezioni unite della Corte di cassazione con sentenza n. 962/2004 cit., in seguito al quale (gia' si e' detto) l'ambito di operativita' della fattispecie subisce una straordinaria estensione, in via interpretativa, il delitto "de quo" essendo configurabile anche se la diminuzione della liberta' personale abbia a protrarsi per un tempo limitatissimo, sia connotata da modalita' di azione di minore offensivita' e cagioni danno di non rilevante significato. E' dato percio' ritenere che l'eccessiva "rigidita'" della risposta sanzionatoria prefigurata dalla norma incriminatrice, di vincolante applicazione nel giudizio "a quo", realizzi in se' un "eccesso di mezzi" rispetto al "fine" di prevenzione, generale e speciale, di nuovi delitti; e, percio', un inaccettabile "surplus di afflizione" rispetto a quella costituzionalmente necessaria; un sacrificio non indispensabile in relazione a fatti connotati da "lieve entita'" (infra §.2); e, percio', non razionalmente compatibile con il limite di "ragionevolezza", con quello della necessaria "finalita' rieducativa della pena" e con quello della "natura personale della responsabilita' penale". Si osserva, a margine, che la stessa Corte Costituzionale, posta dinanzi al problema della relazione tra "finalita' rieducativa della pena" e funzione di "prevenzione generale" ha evitato di stabilire gerarchie univoche, ponendo che "tra le finalita' che la Costituzione assegna alla pena non puo' stabilirsi. a priori una gerarchia statica e assoluta che valga una volta per tutte e in ogni condizione", il legislatore potendo fare prevalere, di volta in volta, l'una o l'altra delle finalita' della pena coerenti con il sistema costituzionale, "nei limiti della ragionevolezza" e "a patto che nessuna di esse risulti obliterata" (sentenza n. 306/1993). Se cosi' fosse, nessuno spazio dovrebbe essere concesso, al di la' dei limiti costituiti dall'art. 3, primo comma, e dall'art. 27, primo e terzo comma, Costituzione, a intenti di "esemplarita' punitiva" nella prefigurazione della cornice edittale di riferimento,poiche' situazioni che non possono essere razionalmente equiparate devono essere trattate diversamente. In una bellissima sentenza del 1980, la n. 50, la Corte costituzionale ha saputo porre in evidenza i principi che impongono al legislatore di predeterminare la pena in modo tale da consentirne la necessaria individualizzazione : "l'individualizzazione della pena - e' stato detto - si pone come naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio di uguaglianza), quanto attinenti direttamente la materia penale L'adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti, in termini di eguaglianza e/o di differenziazione di trattamento, contribuisce, da un lato, a rendere quanto piu' possibile "personale" la responsabilita' penale, nella prospettiva segnata dall'art. 27, comma primo; nello stesso tempo e' strumento per una determinazione dellapena quanto piu' possibile'finalizzata" nella prospettiva dell'art.27, comma terzo, Costituzione [.]. Se cosi' e', non suoni declamatorio il richiamo al fatto che, dalla pronuncia della sentenza n. 50 del 1980, "eguaglianza" di fronte alla pena significa "proporzione" rispetto alle "personali" responsabilita' dell'agente e alle esigenze di risposta che ne conseguono : la' dove la risposta sanzionatoria prefigurata dalla norma della cui legittimita' si dubita non risulta essere "proporzionata" all'intera gamma dei comportamenti conformi al tipo descritto (630 comma i c.p.), e, certo, a quelli riconducibili ai limiti "inferiori" della classe di gravita' pensabile dopo Sezioni Unite n. 962 del 2004. Ne deriva che, qualora la risposta sanzionatoria prefigurata dalla norma della cui legittimita' si dubita non trovasse adeguata ragione giustificatrice nel corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti, essa stessa costituirebbe lesione dell'art. 3 Costituzione, sub specie di "irragionevolezza", a causa di uso "eccessivo" della discrezionalita' legislativa. Giacche' e' vero che la' dove uno o piu' valori coinvolti dalla norma risultino essere sviliti, sara' la stessa discrezionalita' legislativa a non potersi dire essere stata correttamente esercitata, perche' carente di alcuno dei termini sui quali poteva e doveva fondarsi. [§.2] Il rimettente intende essere precluso al giudice delle leggi un "sindacato di merito" sulle scelte sanzionatorie operate dal legislatore. Egli comprende che, ordinariamente, il punto di equilibrio tra legalita' delle pene e necessita' di individualizzazione della sanzione risiede nella predeterminazione, per ogni figura di reato, di una cornice edittale di riferimento. Percio', quanto al "petitum", il giudice rimettente non auspica un intervento "diretto" sul minimo edittale stabilito dall'art. 630 primo comma c.p. Egli ritiene, tuttavia, che la norma oggetto di scrutinio si ponga in contrasto con l'art. 3, primo comma, Costituzione, sotto il profilo della irragionevole disparita' di trattamento riservata a fatti di "lieve entita'" conformi al tipo dell'art. 630 primo comma c.p., rispetto a fatti di "lieve entita'" conformi al tipo di cui all'art. 289-bis c.p. : figura criminosa, questa, comparabile a quella in esame, per oggettivita' giuridica, struttura, requisiti di fattispecie, risposta sanzionatoria prefigurata per l'ipotesi di base; e, certo, per l'elevato rango degli interessi tutelati. La' dove l'art. 630 c.p. non prevede un'attenuante speciale, di carattere oggettivo, idonea, cioe', a soddisfare quel "bisogno di differenza" nella commisurazione della pena di cui si e' detto nel paragrafo che precede : una diminuente, cioe', "analoga" nella struttura e negli effetti a quella nominata dall'art. 311 c.p., prevista per i delitti contro la personalita' dello Stato, e, percio', applicabile anche al "sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione". Risultandone, di conseguenza, vulnus al principio di eguaglianza. Evocare come "tertium comparationis" la fattispecie di cui all'art. 289-bis c.p. non pare essere frutto di una interpretazione "eccessiva", ove si consideri l'identita' della condotta materiale descritta da tale fattispecie rispetto a quella descritta dall'art. 630 c.p. (privazione della liberta' personale), identico essendo il trattamento sanzionatorio stabilito per l'ipotesi di base, identico essendo il trattamento sanzionatorio previsto per il caso di morte dell'ostaggio quale conseguenza non voluta dall'agente, identico essendo il trattamento sanzionatorio previsto in caso di morte del sequestrato quale conseguenza caduta nel "fuoco" del dolo; analoghe nella struttura e nella "ratio" essendo finanche le attenuanti relative al caso di dissociazione cui segua la liberazione dell'ostaggio (3) (4) . Evocato come "tertium comparationis" il delitto di cui all'art. 289-bis c.p. in relazione alla diminuente prevista dall'art.311 c.p., e ritenuta lesiva del principio di eguaglianza la mancata previsione di una'analoga" attenuante speciale, di tipo oggettivo, in relazione all'art. 630 comma 1 c.p., il giudice remittente Osserva che la diversita' di disciplina cui si e' fatto cenno non puo' essere considerata ragionevole sulla base di valutazioni concernenti la diversa pregnanza del bene giuridico protetto dall'art. 630 c.p. rispetto a quello protetto dall'art. 289-bis c.p.: l'una fattispecie avendo riguardo a forme di iniqua mercificazione della persona e «certo, ove "lieve entita' del fatto" non sussista] al pericolo di trasferimento di risorse verso plessi criminali; l'altra a forme di prevaricazione della persona altrettanto inique e alla rottura delle condizioni di sicurezza indispensabili alla primaria esplicitazione della convivenza civile e dell'ordine democratico. Sennonche' un intervento [in senso lato, "manipolativolo") che autorizzasse l'interprete a ritenere applicabile al delitto di "sequestro di persona a scopo di estorsione" un'attenuante speciale di carattere oggettivo, "analoga" nella struttura e negli effetti a quella prevista dall'art. 311 c.p., permetterebbe di superare l'antinomia di cui si' e' detto. Un intervento del tipo di quello auspicato potrebbe essere detto in linea di principio ammissibile, giacche' nell'attenuare la responsabilita' penale, la diminuente nominata dall'art.311 c.p. non costituisce espressione di "ius singolare". Ne' la lacuna cui si e' accennato, relativa alla mancata previsione in relazione a fatti conformi al tipo-630 c.p. di una diminuente "analoga" a quella di cui all'art. 311 c.p. (la' dove la diminuzione della liberta' personale abbia a protrarsi per un tempo limitatissimo, ove risulti essere connotata da minore offensivita' e ove cagioni pericolo di non grave significato) puo' essere detta "intenzionale" : esito, cioe', di una precisa scelta del legislatore, risoltasi in una regolamentazione compiuta, e, per quel che in questa sede interessa, chiusa ad ogni sorta di integrazione "in bonam partern (5) Osserva a margine il giudice rimettente che, in materia penale, un intervento del tipo di quello auspicato [declaratoria di illegittimita' costituzionale della norma impugnata "nella parte in cui" non prevede taluni elementi che comportano una mitigazione del sistema delle sanzioni,] non costituirebbe un inammissibile elemento di novita' : la pronuncia di una sentenza che autorizzasse l'interprete a colmare "in bonam" la lacuna descritta, potrebbe essere detta non diminutiva dello spazio costituzionalmente riservato al legislatore. Del resto, sentenze manipolative "in bonam" non sono sconosciute alla tradizione, riducono l'impatto della declaratoria di illegittimita' costituzionale, e, in via di principio, sono compatibili con la riserva di legge in materia di sanzione penale (25 comma 2 Costituzione). Sotto altro profilo occorre considerare che, se l'individuazione del disvalore oggettivo dei fatti di reato tipici e nominati - e, certo, la determinazione del loro diverso grado di offensivita' spetta al legislatore in forza del principio di riserva di legge, tale principio non puo' non essere coordinato con quello, costituzionalmente rilevante, di necessaria individualizzazione della pena. Peraltro, nel garantire una migliore capacita' di adeguamento della risposta sanzionatoria prefigurata dalla norma incriminatrice all'intera gamma di comportamenti conformi al tipo descritto (630 comma 1 c.p.), l'intervento auspicato potrebbe essere detto non dissonante, ed anzi, tutto coerente, con l'intervento chiarificatore operato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 962 del 2004, di cui si e' detto (e, certo, col "diritto vivente"). E' necessario, per le ragioni sopra esposte, promuovere giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 630 comma 1 c.p., con conseguente sospensione del procedimento e immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. (1) come noto, l'eccezionale inasprimento del trattamento sanzionatorio del delitto in questione, attuato, da ultimo, con la legge 30 dicembre 1980, n. 894 (Modifiche all'articolo 630 del codice penale) rispose, a fini di prevenzione generale, allo straordinario incremento, verificatosi negli anni 1970-1980, dei sequestri di persona a scopo di estorsione posti in essere da plessi di criminalita' organizzata, qualificati da privazioni di liberta' protrattesi, in taluni casi, per anni, con episodi di efferata crudelta', in vista del conseguimento di profitti ingenti (2) «estensione», gia' si e' detto, imprevedibile e non prevista all'epoca dell'ultimo intervento sul testo della edittale minima di cui si e' detto (operato con legge 30 dicembre 1980, n. 894); e, certo, estranea alle finalita' di prevenzione generale correlate allo straordinario incremento, verificatosi nel decennio I970-1980, di sequestri di persona a scopo di estorsione posti in essere da strutturate organizzazioni criminali, protrattisi, in taluni casi, per anni, con episodi di efferata crudelta', in vista del conseguimento di profitti ingentissimi (3) diversa (4) essendo, come ovvio, la proiezione teleologica della condotta, ovvero, lo «scopo» ad essa funzionale (di natura lato sensu «politica», anziche' «estorsiva»); e, certo, il bene giuridico protetto (5) Meditatamente, il giudice remittente si astiene dal denunciare come lesiva del principio di eguaglianza la mancata previsione, per i fatti di «lieve entita'» conformi al tipo-630 c.p., di un'attenuante ad effetto speciale «analoga» a quella prevista dal terzo comma dell'ari 3 della legge n. 718 del 1985. Per quanto affine al sequestro di persona a scopo di estorsione, la fattispecie di «sequestro di ostaggi», introdotta dalla legge di ratifica della Convenzione internazionale aperta alla firma a New York il 18 dicembre 1979, costituisce figura «residuale» rispetto a quella oggetto di scrutinio in questa sede, come si desume dalla espressa previsione della «clausola di salvezza» delle ipotesi criminose di cui agli artt. 289-bis e 630 c.p. Invero, il delitto di «sequestro di ostaggi» si configura la' dove la privazione della liberta' dell'offeso sia volta a finalita' altre da quelle nominate dagli artt. 289-bis e 630 c.p., anche in assenza di finalita' di «terrorismo internazionale», mentre il destinatario della pretesa non deve necessariamente essere uno Stato, un'organizzazione internazionale o una collettivita', potendo bene identificarsi in una persona giuridica o in una persona fisica. Di qui, l'ipotesi interpretativa secondo cui la mancata previsione, per i fatti di «lieve entita'» conformi al tipo-630 c.p. di un'attenuante ad effetto speciale analoga a quella prevista dal terzo comma dell'art. 3 della legge n. 718 del 1985, possa essere detta «intenzionale»: esito, cioe', di una precisa scelta del legislatore, risoltasi in una regolamentazione compiuta, e, per quel che in questa sede interessa, chiusa ad ogni sorta di integrazione «in bonam partem».