Ricorso  del  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,   (c.f.
80188230587)  rappresentato  e  difeso  per   legge   dall'Avvocatura
Generale        dello        Stato         (c.f.         80224030587)
ags_m2@mailcert.avvocaturastato.it;  fax  06/96514000  presso  i  cui
uffici e' domiciliato in Roma alla via dei Portoghesi, 12; 
    Contro la Provincia autonoma di Bolzano,  (c.f.  00390090215)  in
persona del Presidente della Provincia pro tempore; 
    Per la declaratoria di incostituzionalita' degli artt.  2,  comma
10, 3 commi 1 e 3, 5 commi 1, 4 e 9, comma 4, alinea 1, 9, commi 6  e
7, della legge della Provincia Autonoma di Bolzano n. 4 del 21 giugno
2011, pubblicata nel Bollettino ufficiale  n.28/I-II  del  12  luglio
2011, avente ad oggetto  «Misure  di  contenimento  dell'inquinamento
luminoso e disposizioni in materia di utilizzo  di  acque  pubbliche,
procedimento amministrativo ed urbanistica», in relazione agli  artt.
4 e 5 del D.P.R. n. 670/1972  recante  lo  Statuto  speciale  per  il
Trentino-Alto Adige, nonche' in relazione all'art 117, comma primo  e
secondo, lett. e), l) s) e comma terzo Cost. 
    La legge, del 21 giugno 2011, n. 4 della  provincia  Autonoma  di
Bolzano che detta misure di contenimento dell'inquinamento luminoso e
disposizioni in materia di utilizzo di acque pubbliche,  procedimento
amministrativo ed urbanistica della  Provincia  di  Bolzano  presenta
diversi aspetti di illegittimita' costituzionale. 
    Si  premette,  in  via  generale,  che  la  Provincia,  ai  sensi
dell'art. 8, comma 1, punti nn. 5, 10 e 14 , del D.P.R.  n.  670/1972
recante lo Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige ha  competenza
primaria in materia di urbanistica, edilizia,  miniere,  comprese  le
acque minerali e termali, cave e torbiere, e, in base ai punti nn.  9
e  10  dell'articolo  9  dello  stesso  Statuto  speciale  competenza
legislativa concorrente  in  materia  di  utilizzazione  delle  acque
pubbliche, escluse  le  grandi  derivazioni  a  scopo  idroelettrico,
nonche' di igiene e sanita'. 
    Ai  sensi  delle  citate  norme   statutarie   dette   competenze
legislative devono svolgersi con i limiti esplicitati negli  articoli
4 e 5 dello stesso Statuto di autonomia, ovvero  in  armonia  con  la
Costituzione e i principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica
e con il rispetto degli obblighi  internazionali  e  degli  interessi
nazionali   nonche'   delle    norme    fondamentali    di    riforma
economico-sociale della Repubblica  e,  per  le  competenze  di  tipo
concorrente, nei limiti dei  principi  stabiliti  dalle  leggi  dello
Stato. 
    Cio' premesso,  alcune  norme  della  legge  regionale  in  esame
risultano eccedere dalle competenze statutarie, in quanto invasive di
competenze legislative che l'articolo 117, secondo comma, lettere e),
l) ed s) della Costituzione riserva in via  esclusiva  allo  Stato  ,
nelle materie della tutela della concorrenza, dell'ordinamento civile
e della tutela dell'ambiente. 
    In particolare per  quel  che  concerne  la  materia  «ambiente»,
secondo una  consolidata  giurisprudenza  costituzionale,  confermata
nella pronuncia n. 378/2007, la potesta' di  disciplinare  l'ambiente
nella sua interezza e' stata affidata in via  esclusiva  allo  Stato,
dall'art. 117, comma secondo,  lettera  s),  della  Costituzione,  il
quale, come e' noto, parla di «ambiente» (ponendovi accanto la parola
«ecosistema») in termini generali e onnicomprensivi. 
    Ne consegue che spetta allo Stato  disciplinare  l'ambiente  come
una entita' organica, dettando delle norme di  tutela  che  hanno  ad
oggetto il tutto e le singole componenti considerate come  parti  del
tutto. 
    Ed e' da notare che la disciplina unitaria e complessiva del bene
ambiente, inerisce ad un interesse pubblico di valore  costituzionale
primario (sent. n. 151/1986) ed assoluto (sent. n. 210/ 1987) e  deve
garantire, come prescrive il diritto comunitario, un elevato  livello
di tutela, come tale inderogabile da altre discipline di settore. 
    Inoltre, la disciplina unitaria del  bene  complessivo  ambiente,
rimessa in via esclusiva allo Stato,  viene  a  prevalere  su  quella
dettata dalle Regioni  o  dalle  Province  autonome,  in  materie  di
competenza propria, ed in riferimento ad altri interessi. 
    Codesta Corte ha inoltre affermato, nella sentenza n. 315/2009  ,
che la competenza statale, allorche'  sia  espressione  della  tutela
dell'ambiente, costituisce «limite»  all'esercizio  delle  competenze
regionali e provinciali. 
    Sulla  scorta  di  tali  considerazioni  introduttive,   appaiono
censurabili le seguenti norme della legge provinciale. 
    1) La  disposizione  contenuta  nel  comma  10  dell'articolo  2,
prevede il rinnovo automatico trentennale  di  tutte  le  concessioni
alla loro scadenza, sia pur nei limiti  ivi  indicati,  ad  eccezione
delle  concessioni  a  scopo  idroelettrico,   il   cui   regime   e'
disciplinato dal predetto successivo articolo 3. 
    La suddetta norma, nel disporre ex lege  il  rinnovo  trentennale
delle concessioni viola l'art. 117, comma 1, e l'art. 117,  comma  2,
lett. e) Cost., in  quanto  si  pone  in  contrasto  con  i  principi
dell'ordinamento comunitario e le leggi statali in materia di  tutela
della concorrenza, di esclusiva competenza statale. 
    Inoltre  tale  disposizione  non  subordina  il   rinnovo   delle
concessioni di derivazione dell'acqua alla procedura  di  Valutazione
di Impatto Ambientale per il rinnovo delle concessioni di derivazione
dell'acqua, come di contro previsto dal d.lgs. n. 152/2006  (Allegati
alla parte II), ed in particolare dall'Allegato II, punti 13, 16 e 18
e dall' Allegato III, lett. b), t), af)  e  ag)  e  non  prevede  una
verifica di assoggettabilita' a VIA per il rinnovo delle  concessioni
di derivazione dell'acqua rispetto ai riferimenti normativi di cui al
d.lgs. n. 152/2006 relativamente all'Allegato IV, punto 1, lett. d) e
all'Allegato IV punto 7, lett. d), m), o) e punto 8, lettera t). 
    La norma provinciale si pone pertanto in contrasto con la  citata
normativa statale vigente e viola, pertanto,  l'art.  117,  comma  2,
lett. s),  Cost.,  ai  sensi  del  quale  lo  Stato  ha  legislazione
esclusiva in materia di «tutela dell'ambiente e dell'ecosistema». 
    Con particolare riguardo a quest'ultimo punto si  rileva  che  in
tema di autorizzazioni «postume,» la giurisprudenza  della  Corte  di
giustizia   dell'Unione   europea   appare   ispirata    a    criteri
particolarmente  rigorosi  (sentenza  3  luglio  2008,   procedimento
C-215/06), essendosi ribadito che, «a livello di processo decisionale
e'  necessario  che  l'autorita'  competente  tenga  conto  il  prima
possibile delle eventuali  ripercussioni  sull'ambiente  di  tutti  i
processi  tecnici  di  programmazione  e  di  decisione,   dato   che
l'obiettivo consiste nell'evitare  fin  dall'inizio  inquinamenti  ed
altre perturbazioni, piuttosto che  nel  combatterne  successivamente
gli effetti». 
    Il che suona difficilmente compatibile con  un  sistema  che  non
prevedeva (o poteva non prevedere) l'obbligo della VIA, ne'  all'atto
della  adozione  del  provvedimento  autorizzatorio,  ne'  alla   sua
scadenza, posto che in luogo di una «nuova» autorizzazione (o  di  un
«rinnovo» della precedente), si sostituisce  ex  lege  la  perdurante
validita' del vecchio titolo, senza possibilita' di verificare se,  a
causa dell'esercizio della relativa (e  legittima)  attivita',  possa
essersi cagionato o meno un danno per l'ambiente. 
    In sostanza, da un lato,  nessun  elemento  normativo  garantisce
(ma,  anzi,  tutto  sembra  deporre  per   il   contrario)   che   le
autorizzazioni in  corso  di  «esercizio»  (originario  o  prorogato)
fossero state - ab origine o in sede  di  proroga  -  assoggettate  a
valutazione di impatto ambientale; dall'altro, il  perdurante  regime
normativo di mantenimento dello status  quo  cristallizza,  ex  lege,
l'elusione dell'obbligo e, con esso, attraverso il  meccanismo  della
legge-provvedimento, il mancato rispetto della normativa statale. 
    2) La disposizione di  cui  all'art.  3,  comma  1,  della  legge
provinciale in esame prevede che «Ai fini di migliorare lo  stato  di
qualita' ambientale dei corsi d'acqua interessati, i titolari di  due
o piu' concessioni  di  derivazioni  d'acqua  a  scopo  idroelettrico
esistenti,  relative  ad  impianti  consecutivi,  possono  richiedere
l'accorpamento delle stesse» e  che,  in  tal  caso,  il  termine  di
scadenza delle concessioni accorpate corrisponde alla scadenza  della
concessione accorpata con la durata residua piu' lunga (comma 3). 
    Tale previsione, in quanto suscettibile di  determinare  in  modo
automatico la proroga di una o piu' delle concessioni di  derivazione
a scopo idroelettrico accorpate, si pone in contrasto con l'art.  12,
comma 1, del d.lgs. n. 79/1999 (Attuazione della  direttiva  96/92/CE
recante norme comuni per il mercato interno dell'energia  elettrica),
il quale, in conformita' ai principi di tutela della concorrenza e di
apertura al  mercato,  di  derivazione  comunitaria,  stabilisce  che
l'attribuzione  della  concessione  avviene  tramite  «una  gara   ad
evidenza  pubblica,  nel  rispetto  della  normativa  vigente  e  dei
principi  fondamentali  di  tutela  della  concorrenza,  liberta'  di
stabilimento, trasparenza e non discriminazione». 
    Sul tema, come noto, ha avuto  modo  di  soffermarsi  piu'  volte
codesta Corte costituzionale, da ultimo nella  sentenza  n.  205  del
2011. In proposito preme evidenziare che la legislazione  provinciale
e' in ogni caso assoggettata agli obblighi internazionali e,  quindi,
ai vincoli derivanti dall'appartenenza  dell'Italia  all'U.E.  e  che
nella  materia  dell'affidamento  delle  concessioni  di  derivazione
d'acqua a scopo idroelettrico, la disciplina rientra nella competenza
esclusiva statale in materia di «tutela della concorrenza». 
    La norma si pone, pertanto, in contrasto con l'art. 117, comma 2,
lett. e) della Costituzione. 
    3) L'art. 5, primo comma, prevede la  cessione,  da  parte  degli
enti locali, della proprieta' degli  impianti,  delle  reti  e  delle
altre dotazioni destinate all'esercizio dei servizi di acquedotto. 
    La    suddetta    norma    viola    il     principio     generale
dell'inalienabilita' dei beni demaniali ex artt. 822, 823 e  824  del
codice civile. Tale divieto  e'  richiamato  espressamente  dall'art.
143, comma 1, d.lgs. n. 152/2006 il quale recita: «Gli acquedotti, le
fognature, gli impianti di  depurazione  e  le  altre  infrastrutture
idriche di  proprieta'  pubblica,  fino  al  punto  di  consegna  e/o
misurazione, fanno parte del demanio ai sensi degli  articoli  822  e
seguenti del codice civile e sono inalienabili se non nei modi e  nei
limiti stabiliti dalla legge». 
    In  questo   contesto   appare   inoltre   opportuno   richiamare
l'ulteriore divieto espresso dal d.lgs. n. 267/2000, art. 113,  comma
2, in base al quale «Gli enti locali non possono cedere la proprieta'
degli  impianti,  delle  reti  e  delle  altre  dotazioni   destinati
all'esercizio dei servizi pubblici di cui al comma  1,  salvo  quanto
stabilito dal comma 13». 
    La norma, pertanto, contrasta con l'art. 117, comma 2, lett.  l),
della Costituzione che riserva alla competenza esclusiva  statale  la
materia dell'ordinamento civile. 
    4) Le disposizioni di cui agli artt. 5, comma 4, e  9,  comma  4,
alinea 1,  rinviano  alla  Giunta  provinciale,  rispettivamente,  la
definizione di procedure e direttive tecniche per la realizzazione di
sonde geotermiche  in  falda  per  la  produzione  di  calore,  e  la
determinazione delle prestazioni energetiche degli edifici. 
    Va osservato al riguardo che tali disposizioni non richiamano  la
Giunta all'osservanza di quanto stabilito dal d.lgs.  n.  28/2011  in
materia di procedure semplificate per  la  posa  in  opera  di  sonde
geotermiche (art. 7, comma 5) ed in materia  di  principi  minimi  di
integrazione  delle  fonti  rinnovabili  negli   edifici   di   nuova
costruzione e negli edifici esistenti sottoposti  a  ristrutturazione
rilevanti (art. 11 ed allegato 3). 
    Per quanto sopra esposto tali disposizioni, anche alla luce della
giurisprudenza costituzionale secondo la quale  l'incostituzionalita'
di norme regionali deve discendere dall'impossibilita' di  darne  una
interpretazione conforme alla Costituzione,  nonche'  alla  luce  del
principio di leale collaborazione (Corte cost. sentenze n. 65/1999  e
n. 356/1996; ordinanza n. 299/2006),  si  pongono  in  contrasto  con
l'art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione in quanto violano la
competenza statale in materia di tutela dell'ambiente. 
    5) Le disposizioni di cui all'articolo 9, commi 6 e  7,  ai  fini
dell'isolamento termico degli edifici  e  dell'utilizzo  dell'energia
solare, prevedono la  possibilita'  di  derogare  alle  distanze  tra
edifici, alle altezze degli  edifici  e  alle  distanze  dai  confini
previsti nel piano urbanistico comunale o nel  piano  di  attuazione,
nel rispetto delle distanze prescritte dal codice civile. 
    Le suddette norme  contrastano  con  le  disposizioni  precettive
contenute nel decreto ministeriale n. 1444/1968. 
    Con particolare riferimento all'articolo 9 del  predetto  DM,  in
tema di distanze tra  edifici,  si  osserva  che  per  giurisprudenza
consolidata tale norma per la sua genesi (e' stata adottata  ex  art.
41-quinquies, comma 8, della legge 17 agosto 1942 n. 1150) e  per  la
sua  funzione  igienico-sanitaria  (evitare  intercapedini  malsane),
fissa  dei  valori  minimi  inderogabili  e  costituisce,   pertanto,
principio inderogabile della materia (cfr. ex plurimis, Consiglio  di
Stato, sez. IV, sentenze n. 7731/2010 e n. 4374/2011), anche  per  le
Regioni e Province autonome che, in base agli statuti  di  autonomia,
siano titolari di competenza esclusiva nella materia urbanistica. 
    E' necessario segnalare che codesta Corte, sin dalla sentenza  n.
120 del 1996, ha precisato che «La predetta norma sulle distanze  tra
edifici, deve considerarsi integrativa di quelle previste dal  codice
civile (art. 873 cod. civ. e segg.)» e  che  «le  disposizioni  sulle
distanze fra  costruzioni  sono  giustificate  dal  fatto  di  essere
preordinate, non solo alla tutela degli interessi dei due  frontisti,
ma, in una piu' ampia visione, anche al  rispetto  di  una  serie  di
esigenze generali, tra cui i bisogni di salute  pubblica,  sicurezza,
vie di comunicazione e buona gestione del territorio». 
    Si tratta, quindi, di una norma che prevale  sia  sulla  potesta'
legislativa regionale, in quanto integra la  disciplina  privatistica
delle distanze (cfr. anche Corte costituzionale 16  giugno  2005,  n.
232), sia sulla potesta' regolamentare e pianificatoria  dei  comuni,
in quanto deriva da una fonte normativa statale sovraordinata  (Cass.
civ., Sez. II, 31 ottobre 2006, n. 23495), sia infine  sull'autonomia
negoziale dei privati, in quanto tutela interessi pubblici che per la
loro natura igienico-sanitaria non sono  nella  disponibilita'  delle
parti (Cons. Stato, Sez. IV, 12 giugno 2007, n. 3094). 
    Corre l'obbligo di evidenziare che codesto Giudice  delle  leggi,
nella sentenza n. 232/2005, ha avuto modo di affermare, inoltre,  che
le normative locali (regionali o comunali) possono prevedere distanze
inferiori alla misura minima di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444/1968,
tuttavia  entro  precisi  limiti:  l'introduzione   di   deroghe   e'
consentita solo nell'ambito della  pianificazione  urbanistica,  come
nell'ipotesi espressamente prevista dall'art. 9, comma 3  del  DM  n.
1444/1968, che riguarda edifici tra loro omogenei perche' inseriti in
un piano particolareggiato o in un piano di lottizzazione. 
    Pertanto, per le  suesposte  argomentazioni  si  ritiene  che  le
disposizioni  di  cui  all'articolo  9,  commi  6  e  7  della  legge
provinciale in esame non prevedendo il rispetto delle altezze e delle
distanze di cui al suddetto  decreto  ministeriale,  contrastano  con
l'articolo 117, secondo comma, lettera l) Cost.