Ordinanza 
 
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 275,  comma  3,
del codice di procedura  penale,  come  modificato  dall'art.  2  del
decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in  materia  di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche'  in
tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge
23 aprile 2009, n. 38, promosso dalla Corte di appello  di  Bari  nel
procedimento penale a carico di L.A., con ordinanza del  13  dicembre
2010, iscritta al n. 67 del  registro  ordinanze  2011  e  pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, 1ª  serie  speciale,
dell'anno 2011. 
    Udito nella camera di consiglio del 21 settembre 2011 il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
    Ritenuto che, con ordinanza del 13 dicembre  2010,  la  Corte  di
appello di Bari ha proposto, in riferimento agli artt. 3,  13,  primo
comma,  e  27,  secondo  comma,  della  Costituzione,  questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma  3,  del  codice  di
procedura penale, come modificato dall'art. 2  del  decreto-legge  23
febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica
e di contrasto alla  violenza  sessuale,  nonche'  in  tema  di  atti
persecutori), convertito, con modificazioni, dalla  legge  23  aprile
2009, n.  38,  nella  parte  in  cui  -  nel  prevedere  che,  quando
sussistono gravi indizi di  colpevolezza  in  ordine  al  delitto  di
associazione   finalizzata   al   traffico   illecito   di   sostanze
stupefacenti o psicotrope, di cui all'art. 74 del  d.P.R.  9  ottobre
1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina  degli
stupefacenti   e   sostanze   psicotrope,   prevenzione,    cura    e
riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), «nella forma
della mera  partecipazione  non  aggravata  dalla  disponibilita'  di
armi», e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano
acquisiti elementi specifici dai quali  risulti  che  non  sussistono
esigenze cautelari - non fa  salva  «anche  l'ipotesi  in  cui  siano
acquisiti elementi specifici dai quali risulti, in relazione al  caso
concreto, che le esigenze cautelari possono  essere  soddisfatte  con
altre misure»; 
        che il  giudice  a  quo  premette  di  dover  decidere  sulla
richiesta di revoca della misura cautelare in atto, o di sostituzione
della stessa con altra misura meno grave, formulata  da  una  persona
sottoposta  a  custodia  cautelare  in  carcere  per  il  delitto  di
partecipazione ad associazione finalizzata al  traffico  illecito  di
sostanze stupefacenti (art. 74, comma 2, del d.P.R. n. 309 del 1990); 
        che, al riguardo, il rimettente riferisce che,  con  sentenza
del 7  novembre  2008,  emessa  a  seguito  di  giudizio  abbreviato,
l'interessato era stato condannato, in primo grado, per detto  reato,
alla pena di  otto  anni  di  reclusione  e  assolto,  invece,  dalle
restanti imputazioni di partecipazione ad associazione mafiosa  (art.
416-bis  del  codice  penale)  e  di  detenzione  illegale  di  armi,
aggravata ai sensi dell'art. 7 del decreto-legge 13 maggio  1991,  n.
152  (Provvedimenti  urgenti  in  tema  di  lotta  alla  criminalita'
organizzata  e  di  trasparenza  e  buon   andamento   dell'attivita'
amministrativa), convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio
1991, n. 203; 
        che il Giudice  dell'udienza  preliminare  del  Tribunale  di
Bari, con provvedimento del 16 marzo 2009, aveva quindi  disposto  la
sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere  -  cui
l'imputato risultava sottoposto dal 30 novembre  2006  -  con  quella
degli arresti domiciliari; 
        che, nelle more  del  giudizio  di  appello,  il  Procuratore
generale aveva chiesto il ripristino della custodia in  carcere  alla
luce del nuovo  testo  dell'art.  275,  comma  3,  cod.  proc.  pen.:
richiesta che la Corte rimettente aveva rigettato, ritenendo la nuova
normativa non applicabile «alle situazioni cautelari pregresse»; 
        che avverso tale  provvedimento  la  Procura  generale  aveva
proposto appello ai sensi dell'art. 310 cod. proc. pen.: appello  che
era stato accolto dal Tribunale di Bari con ordinanza  del  15  marzo
2010, divenuta esecutiva a seguito del  rigetto,  nell'ottobre  2010,
del ricorso per cassazione proposto dall'imputato; 
        che, con sentenza della  Corte  rimettente  del  18  novembre
2010, l'imputato era stato dichiarato  responsabile,  oltre  che  del
reato di cui all'art. 74 del  d.P.R.  n.  309  del  1990  -  escluse,
tuttavia, le aggravanti originariamente contestate e, in particolare,
quella relativa al carattere armato dell'associazione  (comma  4  del
citato art. 74) - anche dei delitti  di  associazione  mafiosa  e  di
detenzione  illegale  aggravata  di  armi,   e   condannato,   previo
riconoscimento del vincolo della continuazione, alla pena complessiva
di nove anni e tre mesi di  reclusione,  con  applicazione,  inoltre,
della misura di sicurezza della liberta' vigilata per  la  durata  di
due anni; 
        che, tutto cio' premesso, il giudice a quo  osserva  come  le
esigenze cautelari poste a base delle misura coercitiva in  atto  non
possano ritenersi cessate, tenuto conto dei  «precedenti  penali  non
lievi benche' non recenti» dell'imputato, della  gravita'  dei  reati
per i quali egli ha riportato  condanna  in  secondo  grado  e  della
ritenuta applicabilita', a pena espiata, di una misura  di  sicurezza
personale, che «presuppone  un  positivo  giudizio  di  pericolosita'
sociale»; 
        che  l'avvenuta  esclusione  delle  aggravanti  relative   al
delitto di cui all'art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990  consentirebbe,
peraltro, di applicare, in fase esecutiva, l'indulto  previsto  dalla
legge 31 luglio 2006, n. 241 (Concessione di indulto), il cui art. 1,
comma 2, lettera b), esclude dal beneficio le sole ipotesi di cui  ai
commi 1, 4 e 5 del citato art. 74: circostanza, questa,  da  ritenere
rilevante  ai  fini  del  giudizio  di  proporzionalita'  prefigurato
dall'art. 275, comma 2, cod. proc. pen., stante anche il  periodo  di
custodia cautelare gia' sofferto dall'imputato; 
        che, in questa prospettiva, il periculum libertatis  potrebbe
essere  adeguatamente  fronteggiato  con  la  misura  degli   arresti
domiciliari, tenuto conto del fatto che il reato  e'  stato  commesso
«in epoca non recentissima» e che, nel periodo trascorso agli arresti
domiciliari, l'istante ha sempre rispettato le prescrizioni,  tant'e'
che la misura e' stata  aggravata  solo  per  l'intervenuta  modifica
normativa; 
        che all'accoglimento  dell'istanza  osterebbe,  tuttavia,  la
preclusione,  introdotta  dalla  novella   legislativa   modificativa
dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., in forza della quale, quando
sussistono gravi indizi di colpevolezza per una serie di reati -  tra
cui quello  di  associazione  finalizzata  al  traffico  illecito  di
sostanze  stupefacenti  o  psicotrope  (evocato  tramite  il   rinvio
all'art. 51, comma  3-bis,  cod.  proc.  pen.)  -  «e'  applicata  la
custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai
quali risulti che non sussistono esigenze cautelari»; 
        che  il  rimettente  dubita,  tuttavia,  della   legittimita'
costituzionale della norma denunciata, in riferimento agli  artt.  3,
13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost.; 
        che, al riguardo, rileva come questa Corte, con  la  sentenza
n. 265 del 2010, abbia gia' dichiarato costituzionalmente illegittima
la norma censurata, per contrasto con gli artt. 3, 13, primo comma, e
27, secondo comma, Cost., nella parte in cui  -  nel  prevedere  che,
quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine  ai  delitti
di cui agli artt. 600-bis, primo comma,  609-bis  e  609-quater  cod.
pen., e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che  siano
acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono  esigenze
cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in cui siano  acquisiti
elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali  risulti
che le  esigenze  cautelari  possono  essere  soddisfatte  con  altre
misure; 
        che nella citata  sentenza  si  afferma  che  le  presunzioni
assolute in materia di misure cautelari (quale, in specie, quella  di
adeguatezza della sola custodia carceraria, sottesa  alla  previsione
normativa denunciata) si giustificano solo quando rispondono  a  dati
di esperienza generale,  riassumibili  nella  formula  dell'«id  quod
plerumque accidit»: il che avviene per i «delitti di mafia  in  senso
stretto»  -  implicanti  «un'adesione  permanente  ad  un   sodalizio
criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato
da una fitta rete di collegamenti personali e dotato  di  particolare
forza intimidatrice», donde l'inidoneita' delle misure diverse  dalla
custodia carceraria a neutralizzare la pericolosita'  dell'indiziato,
troncando  i  suoi  rapporti   con   l'ambiente   delinquenziale   di
appartenenza -  ma  non  per  i  reati  a  sfondo  sessuale  oggetto,
nell'occasione, dello scrutinio; 
        che, ad avviso del giudice a quo, la situazione  non  sarebbe
diversa in rapporto al delitto di cui all'art. 74 del d.P.R.  n.  309
del 1990, quanto meno nelle ipotesi  non  escluse  dalla  concessione
dell'indulto; 
        che -  premesso  che  la  concedibilita'  di  tale  beneficio
assumerebbe «un indubbio significato criminologico» -  il  rimettente
rileva come l'associazione finalizzata al  narcotraffico  costituisca
«un'attivita' imprenditoriale con oggetto illecito,  l'adesione  alla
quale non e' correlata a  una  specifica  subcultura  e  appartenenza
personale, come e' tipico del sodalizio mafioso»; 
        che, in  particolare,  diversamente  da  quanto  avviene  per
l'adesione alla mafia - che e' di regola irreversibile, salvi «i casi
in cui il sodalizio venga interamente  sgominato,  oppure  l'aderente
collabori con la giustizia» - l'adesione al sodalizio finalizzato  al
narcotraffico e' normalmente reversibile, non essendo infrequente che
un  narcotrafficante  abbandoni  l'associazione  pur   «senza   avere
iniziato a collaborare con la giustizia, e senza che il sodalizio sia
venuto meno»; 
        che, di  conseguenza,  la  «pacifica»  inclusione  del  reato
previsto dall'art. 74 del d.P.R.  n.  309  del  1990  tra  quelli  di
criminalita'  organizzata  non  potrebbe   comportarne   l'automatica
assimilazione ai delitti di mafia; 
        che, in questa prospettiva,  il  rimettente  ritiene  che  la
presunzione censurata si ponga in contrasto sia con il  principio  di
uguaglianza,  sancito  dall'art.  3   Cost.,   per   l'ingiustificata
parificazione dei procedimenti relativi al  delitto  in  questione  a
quelli concernenti i delitti  di  mafia,  nonche'  per  l'irrazionale
assoggettamento a un medesimo regime cautelare delle diverse  ipotesi
concrete riconducibili al paradigma punitivo considerato; sia con  il
principio  di  inviolabilita'  della  liberta'  personale,  enunciato
dall'art. 13, primo comma, Cost., quale  referente  fondamentale  del
regime ordinario delle misure cautelari privative di detta  liberta';
sia,  infine,  con  la  presunzione  di  non  colpevolezza,  espressa
dall'art. 27, secondo comma,  Cost.,  in  quanto  attribuirebbe  alla
misura cautelare tratti funzionali  tipici  della  pena,  applicabile
solo a seguito di un giudizio definitivo di responsabilita'. 
    Considerato che la Corte di appello  di  Bari  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275,
comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall'art.  2
del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in  materia
di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale,  nonche'
in tema di atti persecutori), convertito,  con  modificazioni,  dalla
legge 23 aprile 2009, n. 38, nella  parte  in  cui  non  consente  di
applicare misure cautelari meno afflittive della custodia in  carcere
nei confronti della persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza
in ordine al delitto di associazione finalizzata al traffico illecito
di sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui all'art. 74 del  d.P.R.
9 ottobre 1990, n.  309  (Testo  unico  delle  leggi  in  materia  di
disciplina degli stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,
cura e  riabilitazione  dei  relativi  stati  di  tossicodipendenza),
allorche' si tratti di ipotesi di «mera partecipazione non  aggravata
dalla disponibilita' di armi»; 
        che il giudice a quo chiede, nella sostanza, di  estendere  a
tale   ipotesi   criminosa   la   declaratoria   di    illegittimita'
costituzionale della norma censurata gia' pronunciata da questa Corte
con la sentenza n. 265 del 2010, in riferimento a  taluni  delitti  a
sfondo sessuale: sentenza con la quale  la  presunzione  assoluta  di
adeguatezza della sola custodia in carcere a soddisfare  le  esigenze
cautelari relative a tali delitti, sancita dal  novellato  art.  275,
comma 3, cod. proc. pen., e' stata trasformata  in  presunzione  solo
relativa, superabile in presenza di elementi specifici che dimostrino
l'idoneita' allo scopo di altre misure; 
        che,  successivamente   all'ordinanza   di   rimessione,   la
disposizione  denunciata  e'  stata  oggetto  di   altra   pronuncia,
comprensiva del  petitum  dell'odierno  rimettente:  avendone  questa
Corte dichiarato, con la sentenza n. 231 del  2011,  l'illegittimita'
costituzionale nella  parte  in  cui  -  nel  prevedere  che,  quando
sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto  di  cui
all'art. 74 del d.P.R. n. 309 del  1990  (senza  distinzione  tra  le
diverse fattispecie in esso contemplate), e'  applicata  la  custodia
cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti  elementi  dai  quali
risulti che  non  sussistono  esigenze  cautelari  -  non  fa  salva,
altresi', l'ipotesi in cui siano  acquisiti  elementi  specifici,  in
relazione al  caso  concreto,  dai  quali  risulti  che  le  esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure; 
        che,  dunque,  la  questione  va  dichiarata   manifestamente
inammissibile per  sopravvenuta  mancanza  di  oggetto,  giacche',  a
seguito della sentenza da  ultimo  citata,  la  norma  censurata  dal
giudice a quo -  ossia  quella  che  impedisce,  per  la  fattispecie
criminosa  avuta  di  mira,  di  applicare  misure  diverse  e   meno
afflittive  della  custodia  carceraria,  in  presenza  di  specifici
elementi  che  ne  rivelino  l'idoneita'  a  soddisfare  le  esigenze
cautelari - e' gia' stata rimossa dall'ordinamento con  efficacia  ex
tunc (ex plurimis, sentenza n. 80 del 2011 e  ordinanza  n.  306  del
2010, nonche', con riferimento ad altra questione avente  ad  oggetto
il medesimo art. 275, comma 3, cod. proc. pen., ordinanza n. 225  del
2011). 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti  alla
Corte costituzionale.