Ricorso della Regione Lombardia (c.f. 80050050154), in persona del Presidente della Giunta regionale pro-tempore, on. Roberto Formigoni, rappresentata e difesa, ai sensi della delibera della Giunta regionale n. IX/2490 del 14 novembre 2011, giusta procura a margine del presente atto, dal prof. avv. Beniamino Caravita di Toritto (c.f. CRVBMN54D19H501A), del libero foro, ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, via di Porta Pinciana n. 6 (fax: 06/42001646; pec abilitata: cdta@legalmail.it); Contro il Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale (degli articoli 14 e 16 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni nella legge 14 settembre 2011, n. 148, avente ad oggetto «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo», pubblicata nella Gazzetta Ufficiale - serie generale - n. 216 del 16 settembre 2011, per violazione degli articoli 117, commi 3 e 4, 119, 120, 122, 123 e 133, comma 2, della Costituzione. F a t t o Con d.l. n. 138 del 13 agosto 2011, il Governo ha inteso adottare una serie di disposizioni per la stabilizzazione finanziaria e per il contenimento della spesa pubblica al fine di garantire la stabilita' del Paese con riferimento alla eccezionale situazione di crisi economica internazionale e di instabilita' dei mercati, anche al fine di rispettare gli impegni assunti in sede di Unione europea, nonche' di adottare misure dirette a favorire lo sviluppo e la competitivita' del Paese e il sostegno all'occupazione. Il decreto costituisce un intervento normativo di vasta portata, diviso in quattro titoli: nel primo sono comprese disposizioni per la stabilizzazione finanziaria, nel secondo norme in materia di liberalizzazioni, privatizzazioni e altre misure per incentivare lo sviluppo, nel terzo titolo misure a sostegno dell'occupazione e, infine, nel quarto titolo trovano spazio norme relative alla riduzione dei costi degli apparati istituzionali. Il decreto-legge n. 138 e' stato convertito, con numerose modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale - serie generale - n. 216 del 16 settembre 2011. In particolare, tra i vari emendamenti apportati all'originaria formulazione, la suddetta legge di conversione ha modificato l'art. 14, avente ad oggetto «Riduzione del numero dei consiglieri e assessori regionali e relative indennita'. Misure premiali». In ragione di finalita' di conseguimento degli obiettivi stabiliti nell'ambito del coordinamento della finanza pubblica, tale disposizione condiziona la collocazione delle regioni nella classe di enti territoriali piu' virtuosa prevista dall'art. 20, comma 3, del d.l. n. 98/2011 (convertito dalla legge n. 111/2011), all'adeguamento dei rispettivi ordinamenti ad una serie di particolari parametri. Il richiamato art. 20, comma 3, del d.l. n. 98/2011 ha previsto, nell'ambito della definizione del nuovo Patto di stabilita' interno, una serie di meccanismi premiali in favore degli enti territoriali che conseguano determinati parametri di virtuosita', con particolare riferimento alla ripartizione del concorso alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica fissati. Al fianco dei suddetti parametri di virtuosita', inerenti precipuamente al conseguimento di obiettivi di natura economico-finanziaria, quali ad esempio la convergenza tra spesa storica e costi e fabbisogni standard, il rispetto del patto di stabilita', ovvero l'autonomia finanziaria, l'art. 14 del d.l. n. 138/2011, come modificato dalla legge di conversione n. 148/2011, ha introdotto una serie di ulteriori parametri, la cui portata - sia consentito osservare fin da subito - trascende da un contesto specificamente finanziario. In particolare, ai fini del godimento dei meccanismi premiali previsti dal citato art. 20, oltre al rispetto delle indicazioni previste da tale disposizione, le regioni sono ora tenute all'adeguamento dei propri ordinamenti ai seguenti ulteriori parametri: a) previsione di un numero massimo di consiglieri regionali, escluso il Presidente della Giunta, non superiore a 20 per le regioni con popolazione fino ad un milione di abitanti; a 30 con popolazione fino a due milioni; a 40 con popolazione fino a quattro milioni; a 50 con popolazione fino a sei milioni; a 70 con popolazione fino ad otto milioni; a 80 con popolazione superiore ad otto milioni di abitanti. La riduzione del numero dei consiglieri regionali deve avvenire entro sei mesi dall'entrata in vigore del decreto legge ed essere efficace dalla prima legislatura regionale successiva a quella in corso. Le regioni che, abbiano un numero di consiglieri inferiore a quello previsto dal decreto, non possono aumentarlo; b) previsione di un numero massimo di assessori non superiore ad un quinto del numero dei consiglieri (con arrotondamento all'unita' superiore). La riduzione deve essere operata entro sei mesi dall'entrata in vigore della disposizione ed essere efficace dalla prima legislatura regionale successiva a quella in corso; c) riduzione degli emolumenti e delle utilita', comunque denominati, a favore dei consiglieri regionali entro il limite dell'indennita' massima spettante ai membri del Parlamento, come rideterminata dall'art. 13 del medesimo d.l. n. 138/2011, a partire dal 1° gennaio 2012; d) commisurazione del trattamento economico dei consiglieri regionali all'effettiva partecipazione ai lavori del Consiglio regionale; e) istituzione, dal 1° gennaio 2012, di un Collegio dei revisori dei conti, quale organo di vigilanza sulla regolarita' contabile, finanziaria ed economica della gestione regionale, che, ai fini del coordinamento della finanza pubblica, opera in raccordo con le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti; f) passaggio, entro sei mesi dall'entrata in vigore della disposizione e con efficacia dalla prima legislatura regionale successiva a quella in corso, al sistema previdenziale contributivo per i consiglieri regionali. Interessato da numerose modificazioni da parte della legge di conversione n. 148/2011 e' stato anche l'art. 16, il quale contiene misure volte alla riduzione dei costi relativi alla rappresentanza politica nei comuni e alla razionalizzazione dell'esercizio delle funzioni comunali, nell'affermato perseguimento delle finalita' di conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, di ottimale coordinamento della finanza pubblica, di contenimento delle spese degli enti territoriali e di migliore svolgimento delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici. Il comma 1 della previsione in oggetto dispone che, a decorrere dalla proclamazione degli eletti negli organi di governo successivamente al 13 agosto 2012, i comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti - salvo quelli il cui territorio coincida integralmente con quello di una o piu' isole, nonche' il comune di Campione d'Italia - esercitano obbligatoriamente in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici, loro spettanti sulla base della legislazione vigente, mediante un'unione di comuni ai sensi dell'art. 32 d.lgs. n. 267/2000. I successivi commi, da 2 a 16, disciplinano puntualmente l'unione obbligatoria prevista dal comma 1. E' tra l'altro previsto che, ai sensi del successivo comma 6, la popolazione residente nel territorio dell'unione istituenda deve essere superiore a 5.000 abitanti, ovvero 3.000 abitanti se i comuni membri appartengano o siano appartenuti a Comunita' montane. Entro due mesi dall'entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 138/2011, ciascuna regione ha facolta' di individuare diversi limiti demografici. Alle suddette unioni hanno facolta' di aderire anche comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti, al fine di esercitare in forma associata le sole funzioni fondamentali, ovvero tutte le funzioni e tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente (comma 2). Il successivo comma 8 prevede che, entro sei mesi dall'entrata in vigore, i comuni interessati avanzino alla regione una proposta di aggregazione per l'istituzione della rispettiva unione. Entro il termine perentorio del 31 dicembre 2010 e' poi previsto che la regione provveda a sancire l'istituzione di tutte le unioni del proprio territorio, anche qualora la proposta di aggregazione manchi o non sia conforme a quanto prescritto. Il richiamato articolo provvede, poi, a disciplinare l'organizzazione e le modalita' di funzionamento delle suddette forme associative. In particolare, si prevede che, alla data della sua istituzione, l'unione succede a tutti gli effetti nei rapporti giuridici in essere inerenti alle funzioni e ai servizi ad essa affidati, con trasferimento della totalita' delle relative risorse umane e strumentali (comma 5). Il comma 9, inoltre, recisamente dispone che, contestualmente all'istituzione delle unioni, gli organi di governo dei comuni parte dell'unione sono solo il sindaco ed il consiglio comunale, mentre le giunte in carica decadono di diritto. Le richiamate disposizioni del decreto violano l'autonomia regionale nella determinazione della propria forma di governo e i principi costituzionali in materia di coordinamento finanziario, i quali, pur attribuendo allo Stato un consistente potere di guida, garantiscono al tempo stesso - all'interno di quel potere di guida - le autonome determinazioni di ciascuna regione nell'esercizio della propria autonomia di spesa. Gli artt. 14 e 16 del d.l. n. 138/2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 148/2011, risultano quindi gravemente lesivi delle prerogative della Regione Lombardia, in quanto viziati da manifesta illegittimita' costituzionale per i seguenti motivi; D i r i t t o Premessa. Una tesi tradizionale, diffusa, affascinante, ma fortunatamente mai accolta, afferma che la vera fonte del decreto-legge non sia da ritrovare nell'art. 77 Cost., bensi' direttamente nell'emergenza come situazione che legittima interventi normativi extra ordinem. In questa ricostruzione la legge di conversione assume il ruolo di bill di indennita', che scarica il Governo dalla responsabilita' derivante da provvedimenti assunti anche ultra vires. Pur respinto dalla dottrina maggioritaria e dalla giurisprudenza, questo modello ogni tanto riemerge nella prassi politica: l'emergenza legittimerebbe interventi extra ordinem e ultra vires, che sarebbero poi «salvati» dalla legge parlamentare, nonostante la violazione delle regole costituzionali. Nonostante la suggestione, questo modello va respinto. Pur ipotizzando che un tal genere di argomentazioni possa trovare spazio di discussione teorica con riferimento, ad esempio, ai requisiti di necessita' ed urgenza, la cui eventuale mancanza potrebbe essere poi «sanata» dall'assunzione di responsabilita' politica operata dal parlamento con l'approvazione della legge di conversione, giammai un siffatto modo di argomentare potrebbe giustificare la radicale violazione di principi costituzionali, che di certo non puo' essere «ratificata» da alcuna legge di conversione. Ed e' per far valere il rispetto di tali principi costituzionali, relativi alle prerogative di autonomia regionale, che la Regione Lombardia ha deciso di impugnare il d.l. n. 138/2011. 1. - Illegittimita' dell'art. 14 e dell'art.16, del decreto-legge n. 138 del 2011, convertito con modificazioni dalla legge di conversione n. 148 del 2011, per contrasto con gli articoli 117, commi 3 e 4, e 119 Cost. In via del tutto preliminare, sia consentito precisare che la formulazione apparentemente facoltizzante del combinato disposto di cui all'art. 14, comma 1, d.l. n. 138/2011 e all'art. 20, commi 2 e 3, d.l. n. 98 del 2011, non attenua, in alcun modo, la lesivita' delle competenze regionali costituzionalmente garantite. Del tutto errato sarebbe ritenere che l'art. 14, comma 1, lascia libere le regioni di adeguarsi ai parametri ivi previsti. La non adesione delle regioni a tali previsioni - infatti - determinerebbe il mancato godimento delle cd. misure premiali e si tradurrebbe quindi nell'obbligo per le regioni di farsi carico di oneri straordinari per il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, nonostante il possesso di indici di virtuosita' che gia' da soli testimoniano l'ampio contributo dato al conseguimento di tali obiettivi. Il comma 1 dell'art. 14, aggravando i parametri gia' previsti dall'art. 20, del d.l. n. 98 del 2011 (come convertito dalla legge n. 111 del 2011) obbliga («debbono») le regioni gia' in possesso di ampi requisiti di «virtuosita'» - precedentemente individuati dal legislatore nazionale (nel d.l. n. 98/2011) come idonei ad «esonerare» dalla «realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica fissati, a decorrere dall'anno 2012, dal comma 5, nonche' dall'articolo 14 del decreto-legge n. 78 del 2010» (art. 20, comma 3, d.l. n. 98/2011) - ad adottare nuove stringenti misure che incidono in modo illegittimo non solo su voci di spesa, ma sull'ordinamento e sulla forma di governo della regione, in modo gravemente lesivo dell'autonomia che la Costituzione assegna alle regioni. Parimenti, con riferimento al successivo art. 16, l'invocato richiamo alla finalita' di «assicurare il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, l'ottimale coordinamento della finanza pubblica, il contenimento delle spese degli enti territoriali e il migliore svolgimento delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici» non puo' certo ritenersi elemento sufficiente ad escludere la manifesta violazione delle competenze regionali costituzionalmente riconosciute. Invero, del tutto palese e' la violazione da parte dell'art. 14 e dell'art. 16 del riparto di competenze di cui all'art. 117, commi 3 (in relazione alla materia di legislazione concorrente«armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica») e 4 (in relazione alle competenze regionali esclusive residuali). E' opportuno da subito affermare che il titolo competenziale ripetutamente invocato dal legislatore statale, gia' a partire dal preambolo del decreto («disposizioni per la stabilizzazione finanziaria e per il contenimento della spesa pubblica»), non vale certamente a rendere conforme l'intervento legislativo qui contestato ai parametri costituzionali impropriamente evocati. Come chiarito da codesta ecc.ma Corte, infatti, «e' costante l'orientamento secondo cui, ai fini del giudizio di legittimita' costituzionale, la qualificazione legislativa non vale ad attribuire alle norme una natura diversa da quella ad esse propria, quale risulta dalla loro oggettiva sostanza» (sent. n. 169 del 2007 e le ivi richiamate sentenze n. 447 del 2006 e n. 482 del 1995); inoltre «per l'individuazione della materia alla quale devono essere ascritte le disposizioni oggetto di censure, non assume rilievo la qualificazione che di esse da' il legislatore, ma occorre fare riferimento all'oggetto ed alla disciplina delle medesime» (sent. n. 237 del 2009 e le ivi citate sentt. n. 430 e n. 165 del 2007). Cio' chiarito, occorre osservare come la giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte abbia, nel tempo, costantemente affermato che la finalita' del contenimento della spesa pubblica corrente rientra nella finalita' generale del coordinamento finanziario (sentt. n. 27 e n. 156 del 2010, n. 237 e n. 284 del 2009, n. 159 e n. 289 del 2008, n. 417 del 2005 e n. 4 del 2004). Pertanto sono stati ritenuti legittimi interventi del legislatore statale volti ad imporre alle regioni vincoli alle politiche di bilancio - anche se indirettamente incidenti sull'autonomia regionale di spesa - per ragioni di coordinamento finanziario a salvaguardia, attraverso il contenimento della spesa corrente, dell'equilibrio unitario della finanza pubblica complessiva, in connessione con il perseguimento di obiettivi nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari (cfr. sentt. n. 237 e n. 284 del 2009). Altresi' chiaro, nella giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte, e' l'esistenza nell'ordinamento di un «obbligo generale di tutte le regioni (...) di contribuire all'azione di risanamento della finanza pubblica» (sent. n. 289 del 2008, e le ivi richiamate sentt. n. 190 del 2008, n. 82 e n. 169 del 2007). Di conseguenza, in linea generale puo' osservarsi come sia riservata alla potesta' statale la sola previsione di un limite complessivo di spesa che faccia salva un'ampia discrezionalita' degli enti territoriali nell'allocazione delle risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di spesa e nella scelta, ai fini del rispetto dei limiti di spesa, di eventuali tagli. Di contro, e' pacificamente preclusa la possibilita' di vincolare le regioni all'adozione di misure analitiche e di dettaglio che illegittimamente comprimerebbero l'autonomia finanziaria di queste ultime. In tal senso, codesta ecc.ma Corte ha chiarito espressamente che «norme statali che fissano limiti alla spesa delle regioni e degli enti locali possono qualificarsi principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla seguente duplice condizione: in primo luogo, che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente; in secondo luogo, che non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalita' per il perseguimento dei suddetti obiettivi» (sent. n. 237 del 2009, citata; in senso conforme, sent. n. 341 del 2009). Conformemente ai principi appena richiamati, la sent. n. 27 del 2010 pur salvando dalla declaratoria di incostituzionalita' l'art. 76, comma 6-bis, d.l. n. 112/2008, convertito dalla legge n. 113/2008, che disponeva la riduzione dei trasferimenti erariali alle comunita' montane per gli anni 2009-2011, ritenendo che tale norma fosse effettivamente espressione di principi fondamentali della materia del coordinamento della finanza pubblica, ha viceversa stabilito che la previsione di un criterio quantitativo rigido (nel caso di specie altimetrico), quale strumento di individuazione dei soggetti per i quali attuare la riduzione dei trasferimenti suddetti, esorbita dai limiti della competenza statale di principio, contrastando pertanto con il riparto di competenze previsto dall'art. 117, comma 3, Cost. Sotto diverso profilo, la Corte, con sent. n. 289 del 2008, ha giudicato la legittimita' dell'art. 22, comma 1, d.l. n. 223/2006, che ha previsto la riduzione del 10% degli stanziamenti per i consumi intermedi degli enti pubblici non territoriali relativi al 2006, ritenendo che in tal caso il legislatore statale abbia legittimamente perseguito «generali obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, incidendo temporaneamente su una complessiva e non minuta voce di spesa», lasciando al contempo liberi gli enti destinatari di individuare le misure necessarie al contenimento della spesa per consumi intermedi. Peraltro, dall'esame della giurisprudenza costituzionale sembra possibile desumere alcune ulteriori indicazioni di rilevante significato per quanto qui di interesse. In particolare, con la citata sent. n. 289 del 2008, codesta ecc.ma Corte ha avuto modo di pronunciarsi sulla questione di legittimita' costituzionale proposta dalla Regione Veneto avverso l'art. 29 del d.l. n. 223/2006, il quale prevedeva, a decorrere dal 2006, la riduzione del 30% della spesa complessiva sostenuta nel 2005 dalle amministrazioni pubbliche per il funzionamento degli organi collegiali, disponendo l'adozione di una serie di misure dettagliate. Codesta ecc.ma Corte ha dichiarato inammissibile la suddetta questione in quanto l'articolo censurato prevedeva espressamente la non diretta applicazione delle disposizioni suddette alle regioni, rispetto alle quali le disposizioni stesse costituivano principi di coordinamento della finanza pubblica. In tal senso, il giudice costituzionale ha espressamente affermato che «i precetti specifici e puntuali previsti dalla disposizione denunciata non si riferiscono alle regioni, le quali, mentre sono tenute a rispettare il solo obiettivo finanziario globale da essa disposto, sono libere nello stabilire strumenti e modalita' per il conseguimento dello scopo divisato dal legislatore statale». E' pertanto del tutto palese che disposizioni puntuali come quelle di cui all'art. 14, comma 1, che prescrivono: a) la riduzione del numero dei consiglieri regionali secondo parametri stabiliti dal decreto in base al numero degli abitanti della regione; b) la corrispondente riduzione del numero degli assessori; c) la riduzione degli emolumenti dei consiglieri regionali entro il limite dell'indennita' massima spettante ai membri del Parlamento; d) la correlazione tra indennita' dei consiglieri e loro effettiva partecipazione ai lavori del Consiglio; e) la istituzione di un Collegio dei revisori dei conti; f) il passaggio al sistema previdenziale contributivo per i consiglieri regionali, non stabiliscono certo principi, ma piuttosto indicano misure rigidamente predefinite che non lasciano margine alcuno alle regioni in ordine alle modalita' di autonomo conseguimento degli obiettivi. Dall'analisi delle singole previsioni, emerge con chiarezza che le stesse non risultano compatibili con la duplice condizione cui la giurisprudenza costituzionale subordina la riconducibilita' di una norma statale a principio di coordinamento della finanza pubblica. In primo luogo, le misure disciplinate non si limitano all'individuazione di obiettivi volti al transitorio contenimento complessivo della spesa corrente, in quanto non risulta indicato un limite temporale di efficacia delle singole riduzioni di spesa. In secondo luogo, non e' soddisfatto neanche il requisito relativo alla garanzia della discrezionalita' regionale nella scelta degli strumenti e delle modalita' di perseguimento degli obiettivi posti a livello statale: l'applicazione delle misure di contenimento della spesa pubblica, infatti, non e' certamente modulabile da parte delle singole regioni. Orbene, alla stregua del costante insegnamento di codesta ecc.ma Corte, tali misure non potrebbero che intendersi applicabili solo con riferimento ai limiti di spesa, e dovrebbero invece lasciare libere le regioni di individuare gli strumenti mediante i quali dare attuazione alla riduzione della spesa corrente rispetto agli organi di governo e agli apparati amministrativi di propria competenza. Emerge con immediata evidenza l'impossibilita' di ritenere che le norme predette possano integrare i caratteri del principio fondamentale, stante la profonda incisione delle prerogative costituzionali delle regioni, peggiorata dalle gravose conseguenze derivanti dal mancato rispetto delle regole richiamate. Proprio la previsione di effetti fortemente pregiudizievoli a danno della finanza regionale finiscono per accrescere il livello di vincolativita' delle misure di contenimento della spesa degli apparati amministrativi nei confronti delle regioni, riverberando in violazione dell'art. 117, comma 3, Cost., nonche' in lesione del principio di corrispondenza tra le funzioni decentrate e le risorse necessarie a consentire di far fronte all'esercizio delle funzioni stesse, sancito dall'art. 119, comma 4, Cost. A fronte di questo ampio richiamo ai principi costituzionali elaborati dalla giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte, non residua dubbio alcuno sulla necessita' che le disposizioni di principio in materia di coordinamento della finanza pubblica debbano prescrivere solo criteri e obiettivi, ma mai porre vincoli specifici e puntuali (sent. n. 159/2008). La legge statale non puo' dunque «prevedere in modo esaustivo strumenti o modalita' per il perseguimento dei suddetti obiettivi» (ex multis, sent. n. 297/2009). Proprio il piu' volte evocato caso relativo alla disciplina delle comunita' montane ha messo in evidenza quali principi di coordinamento della finanza pubblica le previsioni statali secondo le quali le regioni «tengono conto», tra l'altro, dei principi di riduzione del numero dei componenti degli organi rappresentativi e di riduzione delle indennita' ad essi spettanti, limitandosi a fornire al legislatore regionale solo alcuni «indicatori» non vincolanti. Spetta dunque a ogni regione contribuire al contenimento della spesa secondo una valutazione operata in piena autonomia (sent. n. 237/2009). Molto di recente, infine, codesta ecc.ma Corte ha, ancora piu' chiaramente, dichiarato illegittimita' di una norma statale per violazione con l'art. 117, comma 3, Cost., in quanto contenente «una disciplina di dettaglio ed autoapplicativa che non puo' essere ricondotta all'alveo dei principi fondamentali della materia del coordinamento della finanza pubblica, giacche' non lascia alle regioni alcuno spazio di autonoma scelta» (Corte cost. n. 91 del 2011). Del tutto evidente appare quindi il contrasto delle censurate disposizioni con gli articoli 117, commi 3 e 4, e 119 Cost. 2. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 14 del d.l. n. 138 del 2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 148/2011 per contrasto con gli artt. 122 e 123 Cost. 2.1. - L'art. 14 del d.l. n. 138/2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 148/2011, appare in primo luogo costituzionalmente illegittimo in quanto, condizionando la possibilita' per le regioni di vedersi collocate nella classe di enti territoriali piu' virtuosa ex art. 20, comma 3, del d.l. n. 98/2011 all'adeguamento dei rispettivi ordinamenti ai parametri elencati, finisce in fatto per imporre alle stesse, laddove intendano godere delle connesse misure premiali, la riduzione o comunque il contenimento del numero dei consiglieri regionali entro determinate soglie rapportate alla popolazione residente nel territorio regionale, nonche' la riduzione del numero degli assessori regionali. Anche a voler per il momento tralasciare la palese irragionevolezza ed inidoneita' dei suddetti parametri rispetto all'asserito perseguimento delle finalita' di contenimento della spesa pubblica, non v'e' chi non veda come la disposizione statale censurata incida gravemente sulla potesta' riconosciuta a ciascuna regione di disciplinare in maniera autonoma la propria forma di governo mediante l'adozione del proprio Statuto. Orbene, per quanto riguarda la Regione Lombardia, nell'esercizio della potesta' di autonoma definizione della forma di governo regionale ad esso riconosciuta, lo Statuto ha previsto espressamente all'art. 12, comma 1, che «il Consiglio regionale e' composto da ottanta consiglieri, fatti salvi gli effetti dell'applicazione della legge elettorale». Parimenti, l'art. 27, comma 1, ha fissato a sedici il numero massimo degli assessori regionali, ai quali si aggiunge il Presidente della Giunta. Malgrado in applicazione delle prescrizioni recate dall'art. 14, comma 1, del d.l. n. 138/2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 148/2011, il numero dei componenti dei due organi regionali rimanga immutato, cio' non puo' valere comunque ad escludere la profonda ed illegittima incisione delle prerogative che la Costituzione rimanda in via esclusiva alla regione in ordine alla definizione della propria organizzazione istituzionale ai sensi dell'art. 123 Cost. Sia consentito rammentare come, a seguito della riformulazione avvenuta a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, il primo comma dell'art. 123 sancisca ora espressamente che «ciascuna regione ha uno statuto che, in armonia con la Costituzione, ne determina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento». Di contro, non essendo piu' prevista l'approvazione dello Statuto con legge della Repubblica, ai sensi dell'art. 122 Cost. la competenza del legislatore statale in materia di ordinamento regionale e' ora limitata alla sola predisposizione dei principi fondamentali in ordine al sistema di elezione e ai casi di ineleggibilita' e di incompatibilita' regionali, ovvero alla definizione della durata degli organi elettivi. Nessuno spazio e' invece riconosciuto allo Stato in merito alla individuazione della forma di governo regionale, stante l'assoluta ed esclusiva competenza dello Statuto sul punto. Del resto, la costante giurisprudenza costituzionale ha da tempo riconosciuto «il carattere fondamentale della fonte statutaria, comprovato dal procedimento aggravato previsto dall'art. 123, commi secondo e terzo, della Costituzione» (Corte cost., sent. n. 4 del 2010). A cio' si aggiunga che la disposizione costituzionale da ultimo richiamata ha espressamente individuato una serie di vere e proprie riserve normative a favore della fonte statutaria, sottratte alla disciplina da parte della legge sia statale che regionale, ed in particolare alla legislazione in materia elettorale (in tal senso, ex plurimis, Corte cost., sentt. n. 188 del 2007, n. 272 e n. 2 del 2004, e n. 196 del 2003). Come espressamente ribadito da codesta ecc.ma Corte in una recentissima pronuncia, «nell'ambito di tali riserve normative, rientra la determinazione del numero dei membri del Consiglio, in quanto la composizione dell'organo legislativo regionale rappresenta una fondamentale "scelta politica sottesa alla determinazione della forma di governo'' della Regione» (sent. n. 188 del 2011, e la ivi richiamata sent. n. 3 del 2006). Se, dunque, l'individuazione del numero dei consiglieri regionali va senza dubbio ricondotta nell'alveo delle decisioni correlate all'esercizio da parte della regione della propria autonomia politico-costituzionale nella definizione della forma di governo regionale, e' immediatamente evidente come la disposizione statale censurata arrechi un gravissimo vulnus a tale autonomia nel momento in cui impone alla regione stessa di ridurre il numero dei consiglieri regionali, condizionando a tale intervento la fruizione di misure premiali di rilievo essenziale per l'economia regionale. Le considerazioni appena svolte valgono, altresi', a comprovare l'illegittimita' dell'individuazione del numero massimo degli assessori regionali da parte dell'art. 14, comma 1, lett. b), del menzionato d.l. n. 138/2011. Atteso che, come si desume dalla giurisprudenza costituzionale sopra richiamata, la determinazione del numero dei componenti di un organo necessario della regione non puo' che attenere indissolubilmente all'atteggiarsi della forma di governo della regione stessa, anche la fissazione del numero dei membri della Giunta regionale non puo' che rientrare nella competenza esclusiva dello Statuto di autonomia. Del resto, siffatta conclusione trova conferma nell'art. 121, che annovera tra gli organi necessari della regione anche la Giunta, nonche' nell'art. 122, comma 5, Cost., che al secondo periodo espressamente prevede che i componenti della Giunta siano nominati e revocati dal Presidente della stessa. Di contro, il primo comma di tale ultimo articolo limita la potesta' legislativa statale alla sola predisposizione dei principi fondamentali in materia di ineleggibilita' e incompatibilita' dei membri di tale organo (oltre che del Presidente e dei consiglieri regionali). 2.2. - Il menzionato art. 14 del d.l. n. 138/2011 viola i richiamati parametri di cui agli artt. 122 e 123 Cost. anche sotto un ulteriore profilo, laddove alla lettera e) prescrive, ai fini della collocazione nella classe di enti territoriali piu' virtuosa ex art. 20 d.l. n. 98/2011, anche la necessaria istituzione da parte delle regioni di un Collegio dei revisori dei conti, quale organo di vigilanza sulla regolarita' contabile, finanziaria ed economica della gestione dell'ente, dettandone altresi' in maniera compiuta le modalita' di composizione ed i requisiti dei membri. Dall'esame di tale previsione emerge in maniera netta ed immediata la manifesta coartazione dell'autonomia regionale sancita dalla Carta costituzionale. Sia consentito rammentare, in tal senso, come l'art. 121, comma 1, Cost., individui espressamente quali organi necessari della regione il Consiglio regionale, la Giunta e il suo Presidente. A tale elenco, in forza dell'art. 123, comma 4, Cost., si aggiunge il Consiglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione fra la regione e gli enti locali, la cui disciplina e' attribuita alla competenza esclusiva del legislatore regionale statutario. Peraltro, e' dato ormai pacifico che, al di fuori degli organi sopra richiamati, la cui presenza e' indicata dalla Costituzione come indefettibile ai fini della regolare costituzione nell'ordinamento regionale, codesta ecc.ma Corte ha chiarito che non esiste un numerus clausus di organi regionali. Gia' a partire dalla sentenza n. 48 del 1983, nella vigenza dell'originario ad. 121, comma 1, Cost. - la cui formulazione, peraltro, e' rimasta invariata anche a seguito delle modifiche apportate dalla L. cost. n. 3/2001 - il Giudice costituzionale ha osservato come tale disposizione «non ha inteso dettare un elenco esaustivo degli uffici regionali competenti ad adottare atti provvisti di rilevanza esterna, ma piu' semplicemente ha indicato gli organi necessari dell'ente in questione, risolvendo pertanto un problema attinente alla forma regionale di governo». La possibilita' di istituire altri organi regionali in aggiunta a quelli costituzionalmente previsti e' stata riaffermata anche in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione. Particolari indicazioni al riguardo possono desumersi dalla giurisprudenza formatasi in ordine all'ammissibilita', nell'ambito dell'ordinamento regionale, di collegi di garanzia statutaria. In tal senso, codesta ecc.ma Corte ha ritenuto compatibile in astratto con il dettato costituzionale la previsione di organi di garanzia da parte degli statuti regionali, escludendone la legittimita' solo laddove ad essi siano riconosciute competenze di natura giurisdizionale (in tal senso, Corte cost., sentt. n. 200 del 2008 e n. 378 del 2004). Se, dunque, non pare revocabile in dubbio la possibile previsione di eventuali ulteriori organi regionali, allo stesso modo deve ritenersi indubitabile che la competenza circa tale previsione e' integralmente rimessa allo Statuto, che - come visto sub § 1.1. - si pone quale fonte fondamentale e sedes materiae esclusiva in riferimento alla forma di governo della regione e alla sua organizzazione istituzionale. Di contro, nessuno spazio in materia puo' essere riconosciuto al legislatore statale, in considerazione della circostanza che, nel vigente assetto costituzionale di rapporti tra Stato e regioni, lo Statuto regionale di autonomia risulta tenuto esclusivamente all'osservanza della Costituzione, essendo venuto meno il vincolo di armonia con le leggi della Repubblica, presente nell'originaria formulazione dell'art. 123 Cost. Alla luce di tali considerazioni, la disposizione statale impugnata risulta senza ombra di dubbio viziata da grave illegittimita' costituzionale. E', infatti, evidente che, imponendo alle Regioni di istituire un organo quale il Collegio dei revisori e, al contempo disciplinandone in maniera compiuta le modalita' di composizione ed i requisiti di professionalita' dei componenti, lo Stato ha illegittimamente invaso le competenze regionali, dettando disposizioni non riconducibili ad alcun titolo competenziale proprio, in quanto immediatamente rientranti nella potesta' statutaria delle regioni. Anche sotto tale profilo, pertanto, non potra' che dichiararsi l'illegittimita' costituzionale dell'art. 14 del menzionato d.l. n. 138/2011, per violazione degli artt. 122 e 123 Cost. 3. - Illegittimita' dell'art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 148/2011, per contrasto con gli articoli 117, commi 3 e 4, e 120 Cost. 3.1. - Il d.l. n. 138/2011, convertito in legge n. 148/2011, risulta altresi' viziato da illegittimita' costituzionale nella parte in cui, al primo comma dell'art. 16, dispone che i comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti esercitano obbligatoriamente in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente mediante un'unione di comuni ai sensi dell'art. 32 del d.lgs. n. 267/2000 (T.U. Enti locali). La disposizione statale impugnata, infatti, incide illegittimamente sulla sfera di competenze legislative che la Costituzione riserva alle regione in materia di disciplina delle forme associative degli enti locali presenti sul loro territorio. Ne', del resto, ad escludere l'illegittimita' dell'intervento normativo censurato potrebbe invocarsi la competenza esclusiva statale ex art. 117, comma 2, lettera p), Cost., relativa a «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e citta' metropolitane». Codesta ecc.ma Corte ha da tempo chiarito come il suddetto titolo competenziale debba essere inteso nel senso che il riferimento deve ritenersi tassativamente rivolto agli enti locali elencati all'art. 114 Cost., cosi' come tassativo e' il contesto oggettivo interessato, che si sostanzia esclusivamente nella disciplina del sistema elettorale, della forma di governo e delle funzioni fondamentali di detti enti. Di contro, al di fuori dell'ambito materiale come ora circoscritto, la regolamentazione degli enti locali deve essere di certo ricondotta nella competenza residuale delle regioni ex art. 117, comma 4, Cost. Cio' anche al fine di garantire la possibilita' che la singola regione, nel ruolo di ente rappresentativo delle diverse istanze presenti sul proprio territorio, provveda all'adozione di previsioni differenziate che tengano in adeguata considerazione le esigenze espresse dalla comunita' di riferimento, in osservanza dei principi di sussidiarieta', adeguatezza e differenziazione consacrati nell'art. 118, comma 1, Cost. Tali considerazioni trovano conferma nella costante giurisprudenza costituzionale, sviluppatasi in particolare in merito alla disciplina delle comunita' montane. E' opportuno precisare come alle stesse sia stata attribuita la natura giuridica di ente autonomo, quali proiezioni dei comuni facenti capo ad esse, ovvero quali «unioni di comuni, enti locali costituiti fra comuni montanti» (Corte cost., sent. n. 244 del 2005, richiamata da ultimo dalla sent. n. 27 del 2010). In tal senso, codesta ecc.ma Corte ha avuto modo di precisare che la disciplina delle comunita' montane rientra nella competenza residuale delle regioni (si vedano, in tal senso, sentt. n. 237 del 2009 e n. 456 e n. 244 del 2005). Il riconoscimento della predetta potesta' regionale esclusiva trova, in particolare, fondamento nel fatto che tali comunita' devono essere identificate come autonomie sub-regionali meramente strumentali e non gia' rientranti tra gli enti necessari sulla base di norme costituzionali; alla luce di cio', pertanto, «rientra nella potesta' legislativa delle regioni disporne anche, eventualmente, la soppressione» (Corte cost., sent. n. 27 del 2010, citata, e le ivi richiamate sentt. n. 237 del 2009, citata, e n. 229 del 2001). Orbene, non v'e' chi non veda come i principi affermati dalla giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte nelle pronunce sopra richiamate trovino immediata applicabilita' alla normativa statale della cui legittimita' costituzionale qui si sospetta. Se la ratio della competenza regionale in materia di comunita' montane deve essere rinvenuta nel carattere non essenziale e non costituzionalmente indefettibile delle stesse, non puo' dubitarsi come nella suddetta competenza vada, altresi', ricondotta la disciplina delle forme associative di comuni e, in particolare, delle unioni. Peraltro, e' appena il caso di rammentare che lo stesso d.lgs. n. 267/2000, all'art. 32, ha espressamente affermato che «le unioni di comuni sono enti locali costituiti da due o piu' comuni di norma contermini, allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralita' di funzioni di loro competenza» e che all'art. 33 viene riservata alle regioni l'individuazione dei livelli ottimali di esercizio delle funzioni ai fini di favorirne l'esercizio associato e viene previsto in capo alle regioni l'esercizio di un eventuale potere sostitutivo per il caso di inerzia dei comuni nell'individuazione di soggetti, forme e metodologie per l'esercizio in forma associata delle funzioni. Cosi' correttamente ricostruito il riparto di attribuzioni tra Stato e regioni in materia, risulta netto il contrasto del citato art. 16 d.l. n. 138/2011 con il dettato costituzionale, derivandone di conseguenza la manifesta violazione delle competenze normative regionali. 3.2. - In via subordinata, nella denegata e non creduta ipotesi in cui codesta ecc.ma Corte non ritenesse di riconoscere la manifesta violazione della competenza residuale della Regione Lombardia in merito alla disciplina delle forme associative degli enti locali, l'impugnato art. 16 risulta in ogni caso collidere con le competenze normative riconosciute alle regioni dai commi 3 e 4 dell'art. 117 Cost., nonche' con il principio fondamentale di leale collaborazione, sancito dall'art. 120 Cost. In particolare, nella misura in cui la norma statale prescrive ai comuni interessati l'esercizio «in forma associata di tutte le funzioni amministrative e di tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente», essa viola in maniera palese il riparto costituzionale di potesta' legislative tra Stato e regioni in materia di disciplina dell'esercizio delle funzioni amministrative da parte degli enti locali. Sia consentito rammentare come, ai sensi dell'art. 118 Cost., nella formulazione successiva alla riforma del Titolo V della Costituzione, sono attribuite in via di principio ai comuni tutte le funzioni amministrative, a prescindere dalla materia cui afferiscano, salvo la possibilita' che le stesse siano conferite, sulla base dei principi di sussidiarieta', differenziazione e adeguatezza, ai livelli di governo superiori, al fine di garantirne il migliore esercizio. Pare, altresi', opportuno ribadire che, in forza del citato art. 117, comma 2, lettera p), Cost., la competenza legislativa esclusiva dello Stato inerisce ora alla determinazione delle sole «funzioni fondamentali» di comuni, province e citta' metropolitane. Nell'interpretare il rapporto tra le rinnovate potesta' legislative regionali risultanti dall'art. 117, come riformato dalla Legge cost. n. 3/2001 e l'art. 118 Cost., codesta ecc.ma Corte ha chiaramente affermato che «quale che debba ritenersi il rapporto fra le "funzioni fondamentali'' degli enti locali di cui all'articolo 117, secondo comma, lettera p), e le "funzioni proprie'' di cui a detto articolo 118, secondo comma, sta di fatto che sara' sempre la legge, statale o regionale, in relazione al riparto delle competenze legislative, a operare la concreta collocazione delle funzioni, in conformita' alla generale attribuzione costituzionale ai comuni o in deroga ad essa per esigenze di "esercizio unitario'', a livello sovra comunale» (Corte cost., sent. n. 43 del 2004). Pertanto, alla luce dei principi desumibili dalla richiamata giurisprudenza, non e' revocabile in dubbio come la competenza della regione in materia di disciplina dell'esercizio delle funzioni amministrative sussista ogni qualvolta le funzioni stesse interessino ambiti materiali di diretta pertinenza regionale (esclusiva o concorrente). Di contro, la censurata disposizione statale ha inteso fare riferimento indistinto a tutte le funzioni amministrative attualmente esercitate dai comuni interessati. Cosi' facendo, il legislatore statale ha sicuramente ricompreso anche funzioni ricadenti in ambiti materiali regionali, violando in tal modo le attribuzioni costituzionalmente garantite alla regione. In aggiunta, alla luce delle evidenti attribuzioni regionali sottese allo svolgimento delle funzioni comunali, non e' rinvenibile nel corpo dell'impugnato art. 16 alcuna forma di cooperazione fra Stato e regioni, idonea a garantire una tutela delle richiamate competenze regionali. Questa difesa certo non ignora l'orientamento di codesta ecc.ma Corte alla stregua per il quale il principio di leale collaborazione non trova applicazione nelle procedure di formazione delle leggi (ex multis cfr. Corte cost., sentt. n. 33 del 2011 e n. 326 del 2010). Tuttavia, pare opportuno richiamare che, a fronte di un intervento normativo di tale portata, promosso attraverso lo strumento della decretazione d'urgenza, giustificato in nome di esigenze straordinarie di contenimento della spesa, che potrebbe quasi ricondursi nell'abito di una procedura «sostitutiva» rispetto ad un impegno regionale ritenuto inadeguato nel contenimento della spesa pubblica, sarebbe stata costituzionalmente necessaria la salvaguardia del principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 Cost., quale principio «operante piu' in generale nei rapporti fra enti dotati di autonomia costituzionalmente garantita» (Corte cost., sent. n. 43 del 2004), che «viene in particolare evidenza in ogni ipotesi ... nelle quali non sia (eccezionalmente) applicabile l'opposto principio della separazione delle sfere di attribuzione (v. sentt. n. 153 e n. 294 del 1986). E fra queste garanzie deve considerarsi inclusa l'esigenza del rispetto di una regola di proporzionalita' tra i presupposti che, nello specifico caso in considerazione, legittimano l'intervento sostitutivo e il contenuto e l'estensione del relativo potere, in mancanza della quale quest'ultimo potrebbe ridondare in un'ingiustificata compressione dell'autonomia regionale (v. sentt. n. 177 e n. 294 del 1986)» (Corte cost. n. 177 del 1988). In definitiva, la mancata previsione di qualsivoglia spazio cooperativo con la regione nella ridefinizione di ambiti non solo territoriali ma anche istituzionali come operata dall'impugnato art. 16 non puo' che ridondare in violazione del principio di leale collaborazione, in aperto contrasto con l'art. 120 Cost. 4. - Illegittimita' dell'art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 148/2011, per contrasto con l'art. 133, comma 2, Cost. L'art. 16 risulta, altresi', gravemente illegittimo nella parte in cui prevede l'istituzione di un ulteriore ente locale coincidente con la sostanziale fusione dei comuni partecipanti, senza osservare la procedura delineata dall'art. 133, comma 2, Cost., il quale riconosce in capo al legislatore regionale, sentite le popolazioni interessate, la competenza in materia di istituzione di nuovi comuni e di modificazione delle circoscrizioni e denominazioni di quelli gia' esistenti. Come gia' ampiamente ricostruito nella parte in «Fatto», la disposizione censurata prevede espressamente l'obbligo per i comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti di costituire unioni ai sensi dell'art. 32 del d.lgs. n. 267/2000. Secondo quanto espressamente affermato dal legislatore statale, tale obbligo risponderebbe, tra l'altro, anche alla garanzia del «migliore svolgimento delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici». Peraltro, malgrado le premesse suddette, lungi dal configurare le predette unioni quali mere forme associative volte all'esercizio congiunto di talune specifiche attribuzioni da parte dei comuni interessati, il menzionato art. 16 prevede l'istituzione di una struttura istituzionale stabile ed omnicomprensiva, dotata di propri organi, di autonomia statutaria e di specifici poteri precedentemente esercitati dagli organi comunali. Tale nuovo ente locale si sostituisce integralmente agli enti partecipanti, come comprovato in primo luogo dalla circostanza che ad esso e' demandato l'esercizio della totalita' delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici ai primi spettanti. La completa sostituzione delle unioni ai singoli comuni associati trova espressa conferma nel comma 5 della disposizione impugnata, a norma della quale «l'unione succede a tutti gli effetti nei rapporti giuridici (...) inerenti alle funzioni ed ai servizi ad essa affidati», con contestuale trasferimento di tutte le relative risorse umane e strumentali. Come si desume dalla lettura integrata di tale previsione con quella di cui al comma 1, la successione dell'unione ai comuni riguarda i rapporti giuridici inerenti tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici spettanti ai comuni. Ma vi e' di piu'. Oltre al conferimento al nuovo ente della totalita' delle funzioni comunali, allo stesso viene altresi' riconosciuta un'autonoma struttura organizzativo-istituzionale, che finisce per subentrare ed assorbire quelle dei singoli comuni. Sintomatica, in tal senso, e' la previsione che, a partire dall'istituzione delle unioni, le giunte comunali in carica decadono di diritto, senza successiva ricostituzione: il novero degli organi comunali viene limitato, infatti, esclusivamente al sindaco e al consiglio. Peraltro, pur non essendo oggetto di espressa soppressione al pari delle giunte, tali ultimi organi subiscono comunque la significativa riduzione delle proprie potesta'. In particolare, come riconosciuto dal comma 9 dell'articolo impugnato, ai consigli comunali competono esclusivamente poteri di indirizzo nei confronti del consiglio dell'unione. La norma afferma, poi, la permanenza delle funzioni normative spettanti in riferimento alle attribuzioni non esercitate mediante l'unione; peraltro, tale precisazione risulta ultronea e priva di contenuto, alla luce del conferimento all'unione della totalita' delle attribuzioni finora esercitate. Per quanto attiene ai sindaci, a norma del comma 12 dell'art. 16 spettano ad essi le sole attribuzioni di cui all'art. 54 d.lgs. n. 267/2000, ovvero solamente quelle attribuzioni esercitate dai sindaci in veste di ufficiali del Governo, non gia' in qualita' di organi apicali, rappresentativi e responsabili dell'amministrazione comunale. Di contro, l'Unione delineata dall'art. 16 del d.l. n. 138/2011 viene dotata di una propria organizzazione organica, composta dal consiglio, dal presidente e dalla giunta, nonche' del potere di dotarsi di un proprio statuto al fine di disciplinare le modalita' di funzionamento dei propri organi e i loro rapporti. Alla luce della ricostruzione appena operata dell'intervento normativo censurato, non v'e' chi non veda come il legislatore statale abbia inteso procedere alla sostanziale fusione dei comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, eludendo in maniera manifesta la procedura di cui all'art. 133, comma 2, Cost. Come si e' gia' avuto modo di osservare, tale ultimo articolo prevede che «La regione, sentite le popolazioni interessate, puo' con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni». Come costantemente riconosciuto da codesta ecc.ma Corte sul punto, «spetta alla legge regionale dare attuazione all'art. 133, secondo comma, della Costituzione, individuando le popolazioni interessate alla variazione territoriale; che e' sempre costituzionalmente obbligatoria la consultazione delle popolazioni residenti nei territori che sono destinati a passare da un comune preesistente ad uno di nuova istituzione, ovvero ad un altro comune preesistente» (Corte cost., sent. n. 47 del 2003). Nel caso di specie, invece, nessuna delle fasi espressamente individuate dalla Costituzione ha trovato osservanza da parte del legislatore statale, il quale per di piu' e' intervenuto in una materia sottratta alla propria sfera di competenza normativa. Ne' valga a condurre a diversa conclusione la mancata soppressione dei comuni obbligatoriamente partecipanti alle unioni. Se, infatti, da un punto di vista puramente formale, tali enti rimangono in essere, non e' revocabile in dubbio come, alla luce delle inequivoche previsioni di cui all'art. 16, gli stessi siano di fatto costretti a fondersi in un ente territoriale istituzionalmente nuovo e diverso, al quale viene conferita la totalita' delle attribuzioni precedentemente svolte a livello comunale. Anche sotto tale ulteriore profilo, il menzionato art. 16 del d.l. n. 138/2011, convertito con modificazioni nella legge n. 148/2011, risulta costituzionalmente illegittimo, in quanto manifestamente contrastante con la sfera di attribuzioni riconosciuta alla Regione Lombardia.