IL TRIBUNALE Visti gli atti del procedimento di esecuzione penale in atto nei confronti di D. M., nato in Mali, il 30 aprile 1985 (CUI 041 VIDC) attualmente detenuto presso la Casa Circondariale di Torino vista l'istanza formulata dal pubblico ministero con richiesta di provvedere in qualita' di Giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 673 c.p.p., alla revoca parziale della sentenza emessa in data 9 luglio 2010 dal Tribunale di Torino, irrevocabile il 9 marzo 2011 (con conseguente rideterminazione della pena inflitta) relativamente al solo capo B (avente ad oggetto la condanna dell'imputato per la violazione dell'art. 6, comma 3, d.lgs. n. 286/1998). Ritenuto che la competenza spetti a questo giudice, quale giudice dell'esecuzione ai sensi dell'art. 665 cpp, in quanto il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo; Sentite le parti all'udienza del 27 giugno 2011, che hanno concordemente richiesto l'accoglimento del ricorso presentato dal pubblico ministero. Osserva Il Giudice dell'esecuzione dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 673 c.p.p. e, pertanto, si rende necessaria la sospensione del procedimento, onde investire della questione la Corte costituzionale. 1. - Il procedimento di cognizione. Come si evince da quanto riportato in epigrafe, il sig. D.M. ha concordato ex art. 444 c.p.p. con il pubblico ministero l'applicazione della pena di mesi dieci di reclusione ed euro 2.200 di multa in relazione a due ipotesi di reato: capo A): violazione dell'art. 73, comma 5, D.P.R. n. 309/1990 (commesso in Torino, in data 11 giugno 2010); capo B) violazione dell'art. 6, comma 3, d.lgs. n. 286/1998 (commesso in Torino, in data 11 giugno 2010). Per completezza di informazione, va detto che l'accordo sulla pena e' determinato come segue: pena base per il capo A): anni l di reclusione ed euro 3.000 di multa; aumentata per la continuazione interna al capo A) ad anni 1 e mesi 2 di reclusione ed euro 3.200 di multa; aumentata per la continuazione con il capo B) ad anni 1 e mesi 3 di' reclusione ed euro 3.300 di multa; ridotta per la scelta del rito: a mesi 10 di reclusione ed euro 2.200 di multa. Il Giudice della cognizione ha quindi ratificato tale accordo sulla pena (riconoscendo il vincolo della continuazione tra le diverse ipotesi di reato in contestazione) emettendo la sentenza del 9 luglio 2010. All'udienza del 9 marzo 2011, la Settima Sezione della Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso «perche' non sono stati indicati i motivi a sostegno dell'impugnazione, se non la generica lamentela della violazione dell'art. 606 lett. c) c.p.p.» (C. Cass., Sez. settima, ord. 9 marzo 2011, n. 27296/2011, depositata in data 12 luglio 2011). 2. - Il quadro normativo e giurisprudenziale. Come noto, l'art. 6, comma 3, d.lgs. n. 286/1998 e' stato novellato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94. Il testo originario prevedeva che «Lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non esibisce, senza giustificato motivo, il passaporto o altro documento di identificazione, ovvero il permesso o la carta di soggiorno e' punito con l'arresto fino a sei mesi e l'ammenda fino a euro 413». A seguito della modifica la norma incriminatrice ora prevede che: «Lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non ottempera, senza giustificato motivo, all'ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato e' punito con l'arresto fino ad un anno e con l'ammenda fino ad euro 2.000». Dopo l'entrata in vigore della novella, e' sorta questione in merito all'applicabilita' di tale fattispecie incriminatrice ai cittadini di Paesi terzi non provvisti di permesso di soggiorno. Alcune opinioni, in dottrina, ritenevano che la novella avesse comportato una parziale abolitio criminis della fattispecie contestata al sig. D. che - secondo detta prospettiva interpretativa - doveva ritenersi indirizzata esclusivamente ai cittadini di Paesi terzi regolarmente dimoranti sul territorio nazionale (essendo previsto per gli stranieri irregolarmente dimoranti un diverso regime di incriminazione). Nelle sue prime decisioni, la Corte di cassazione ha pero' escluso che fosse intervenuta una abolitio criminis parziale (con richiami alla precedente sentenza delle Sezioni Unite n. 45801 del 29 ottobre 2003, ric. Mesky, CED Rv. 226102). Si menzionano, a mero titolo di esempio: Cass. Pen. Sez. 3, Sentenza n. 1857 del 3 dicembre 2010, ric. Ben Ali, Ced Rv. 249310. La fattispecie criminosa di ingresso e soggiorno illegale dello straniero nel territorio dello Stato, introdotta dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, non ha abrogato, ne' esplicitamente ne' implicitamente, il reato di omessa esibizione, senza giustificato motivo, dei documenti identificativi, previsto dall'art. 6, comma terzo, d.lgs. n. 286 del 1998. (In motivazione la Corte ha ulteriormente precisato che le due fattispecie penali possono concorrere tra loro). Cass. Pen. Sez. 1, Sentenza n. 44157 del 23 settembre 2009, ric. PG in proc. Calmus, Ced Rv. 245555. E' esigibile nei confronti dello straniero, che pure abbia fatto ingresso irregolare nel territorio dello Stato, salvo che ricorra un giustificato motivo, l'obbligo di esibizione dei documenti di identificazione o dei documenti di soggiorno e cio' pur dopo la novella della disposizione incriminatrice ad opera dell'art. 1, comma 22 lett. b), legge n. 94 del 2009. Sennonche' - a seguito di un dubbio sollevato dalla Prima sezione Penale della S.C. - le Sezioni Unite hanno affermato il principio esattamente opposto, determinando un significativo revirement giurisprudenziale. Cass. Pen. Sez. U, Sentenza n. 16453 del 24 febbraio 2011, ric. PM in proc. Alacev, Ced Rv. 249546. Il reato di inottemperanza all'ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o dell'attestazione della regolare presenza nel territorio dello Stato e' configurabile soltanto nei confronti degli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, e non anche degli stranieri in posizione irregolare, a seguito della modifica dell'art. 6, comma terzo, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, recata dall'art. l, comma ventiduesimo, lett. h), legge 15 luglio 2009, n. 94, che ha comportato una «abolitio criminis», ai sensi dell'art. 2, comma secondo, cod. pen., della preesistente fattispecie per la parte relativa agli stranieri in posizione irregolare. Da segnalare che le Sezioni Unite -nel rendere note le ragioni del revirement - hanno sviluppato un complesso apparato argomentativo. La motivazione, da un lato, prende in esame le ragioni dell'orientamento sostenuto dalle due decisioni di segno contrario sopra menzionate; dall'altro lato, affronta una puntuale esegesi della norma, diffondendosi anzitutto sulle ragioni «grammaticali» (prima ancora che giuridiche) che giustificavano il principio di diritto appena riportato; ragioni grammaticali - quali il valore della congiunzione «e», in funzione disgiuntiva ovvero copulativa - che sono state interpretate anche alla luce «dell'analisi testuale del dettato normativo nel suo sviluppo diacronico (rispetto al precedente testo) e sincronico (rispetto alle coppie alternative poste all'interno delle due categorie di documenti» menzionate nella norma incriminatrice. Per rafforzare il proprio argomentare, le Sezioni Unite hanno quindi richiamato un precedente (e per certi versi analogo) conflitto interpretativo insorto sulla corretta interpretazione da dare all'art. 357 c.p. a seguito della novella del 1990 (conflitto risolto - anche in quel caso - dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 7958 del 27 marzo 1992, ric. Delogu). Per completare il ragionamento sviluppato per ricostruire l'esatta interpretazione della norma, le Sezioni unite, nella sentenza Alacev, hanno infine fatto ricorso alla ricostruzione dell'intenzione del legislatore (richiamando gli Atti parlamentari -Senato della Repubblica - n. 733-A, pag. 7). 3. - L'incidente di esecuzione relativo al sig. D. Il provvedimento con cui - in data 9 marzo 2011 - e' stato dichiarato inammissibile il ricorso per Cassazione del sig. D. non ha potuto tenere conto della decisione delle Sezioni Unite, non essendo ancora state pubblicate le motivazioni della stessa. Si badi: la Settima sezione - nel trattare l'impugnazione del sig. D. - ben avrebbe potuto assolvere l'imputato, anche in caso di ricorso inammissibile; il principio - gia' affermato piu' volte dalla giurisprudenza - e' stato recentemente ribadito dalla S.C. nella sentenza Cass. pen., sez. I, 28 aprile 2011 (dep. 1° giugno 2011), n. 22105, pres. Di Tomassi, rel. Caprioglio, ric. p.m. in proc. Tourghi, in cui si afferma che - pur in presenza di cause di inammissibilita' del ricorso - «fin tanto che il giudicato formale non si sia formato, spetta al giudice della cognizione prendere atto della intervenuta abolitio criminis e annullare la condanna per fatto divenuto privo di rilievo penale»; la ratio che sorregge tale assunto si fonda sul fatto che -diversamente opinandosi avrebbe il caso di una decisione il cui effetto consisterebbe nel rendere «definitiva» una sentenza di condanna destinata, immediatamente dopo, ad essere revocata. Se, dunque, la Settima Sezione della Corte di cassazione avesse percorso la strada indicata dalle Sezioni Unite, la sentenza di applicazione pena emessa nei confronti del sig. D. sarebbe stata annullata, limitatamente alla decisione intervenuta per il capo B), ossia per il capo della sentenza di cui il PM chiede la revoca nel precedente incidente di esecuzione. Va - a questo punto - posto nella giusta evidenza che questo Giudice dell'esecuzione si trova a condividere pienamente la decisione resa dalle Sezioni Unite nel caso Alacev ed intende quindi adeguarsi all'indicazione che la S.C. ha offerto alla giurisprudenza nel massimo esercizio della sua funzione nomofilattica. Sennonche', come evidente dalla disamina che precede, il caso in esame non e' perfettamente riconducibile al fenomeno dell'abolitio criminis, perche' la sentenza di applicazione pena emessa nei confronti del sig. D. e' relativa ad un fatto storico e ad una fattispecie di reato (art. 6, comma 3, d.lgs. n. 286/1998) che - al momento della commissione del reato e al momento di emissione della sentenza - era gia' formulata negli stessi termini in cui essa e' oggi in vigore. E, quindi, nel caso in esame, non si e' di fronte ad un fenomeno di successione nel tempo di leggi (intese come fonti formali), bensi' ad un fenomeno di successione nel tempo di diverse interpretazioni giurisprudenziali di una determinata fonte formale. In altri termini, il p.m. sollecita la revoca parziale della sentenza sulla base di una abolitio criminis che troverebbe la sua fonte - non gia' in una successione di fonti, bensi' - in un mutamento giurisprudenziale. Cio' che, tuttavia, non risulta praticabile alla luce del testo dell'art. 673 c.p.p., posto che: (1) tale ipotesi non risulta contemplata dall'art. 673 c.p.p.; (2) non risulta possibile - in un caso come quello in esame - dare interpretazioni analogiche dell'art. 673 c.p.p. (cfr. Corte cost., sentenza n. 96/1996, p.to 6 considerato in diritto: «gli interventi in executivis sulla pronuncia del giudice della cognizione costituiscono l'espressione di un potere eccezionalmente conferito dalla legge e, come tale, non suscettibile di applicazione analogica»); per inciso, si segnala che il caso risulta differente dall'ipotesi - recentemente considerata dalla Corte di cassazione - di estensione analogica dell'ambito di applicazione dell'art. 673 c.p.p. in conseguenza di accertato contrasto tra norme incriminatrici di diritto interno e norme comunitarie dotate di effetto diretto (Cfr. Cass. Pen., sez. 1, sentenza del 20 gennaio 2011 n. 16521, est. Siotto, ric. Titas Luca che, pero', fonda la decisione sul carattere autoritativo - paragonabile allo jus superveniens, cfr. Corte cost. ord. n. 241/2005 - che assume nel nostro ordinamento una sentenza della Corte di giustizia). Se cio' e' vero - e se non sono possibili interpretazioni analogiche - si determinerebbe inevitabilmente il rigetto della richiesta formulata dal Pubblico Ministero. E' infatti noto l'orientamento giurisprudenziale - che non risulta smentito da decisioni di segno contrario - secondo il quale «in tema di esecuzione, l'art. 673 cod. proc. pen. opera soltanto nel caso in cui, a seguito di innovazione legislativa o di declaratoria di incostituzionalita', si verifichi un'ipotesi di abrogazione esplicita o implicita di una norma. La predetta disposizione non puo', invece, trovare applicazione, quando l'eventuale abrogazione implicita derivi da un mutamento di indirizzo giurisprudenziale che non puo' costituire "ius superveniens" anche a seguito di pronuncia delle sezioni unite della Corte di cassazione» (cosi' Cass. Pen., Sez. 1, Sentenza n. 27121 dell'11 luglio 2006, ric. Aliseo, Ced Rv. 235265). Principi del tutto analoghi sono stati affermati - anche in epoca recente - dalla Corte di legittimita' quanto alle preclusioni processuali (elaborate per via giurisprudenziale) in materia di: (1) preclusioni discendenti da giudicato cautelare (per tutte, si veda Cass. Pen. Sez. Un., Sentenza n. 14535 del 19 dicembre 2006, ric. Librato, Ced Rv. 235908), per cui - sino a poco tempo fa - si riteneva che la preclusione persistesse anche in caso di mutamento giurisprudenziale (Cass. Pen., Sez. 2, Sentenza n. 1180 del 26 novembre 2008, ric. Elia ed altro, Ced Rv. 242779, secondo cui «la formazione del "giudicato cautelare" impedisce la riproposizione delle questioni gia' decise, a meno che non siano intervenuti nuovi elementi che giustifichino una rinnovata valutazione, tra i quali non puo' ricomprendersi una decisione della Corte di cassazione che esprima un indirizzo giurisprudenziale diverso da quello seguito dall'ordinanza che ha deciso la questione controversa»). (2) preclusioni discendenti da cd. giudicato esecutivo (di recente, si veda Cass. Pen. Sez. 1, Sentenza n. 3736 del 15 gennaio 2009, ric. p.m. in proc. Anello, Ced Rv. 242533, secondo cui «il principio della preclusione processuale derivante dal divieto di «bis in idem», opera anche in sede esecutiva, iscrivendosi in esso la regola che impone al giudice dell'esecuzione di dichiarare inammissibile la richiesta che costituisca mera riproposizione di altra gia' rigettata, basata sui medesimi elementi), per cui - sino a poco tempo fa - si riteneva che la preclusione persistesse anche in caso di mutamento giurisprudenziale (Cass. Pen., Sez. 1, Sentenza n. 23817 dell'11 marzo 2009, ric. Cat Berro, Ced Rv. 243810: «E' inammissibile l'incidente di esecuzione proposto con riferimento a richiesta gia' respinta con provvedimento definitivo, ove fondato sui medesimi presupposti di fatto e di diritto del precedente». Nella specie, la Corte ha escluso che costituisca fatto nuovo idoneo a rimuovere la preclusione del giudicato esecutivo la formazione di orientamento giurisprudenziale che abbia condotto a statuire diversamente sull'eseguibilita' del giudicato allorche' la Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo abbia riconosciuto il carattere «non equo» del processo). Laddove, dunque, si dovesse aderire all'orientamento che esclude qualsiasi rilievo in sede esecutiva ai mutamenti giurisprudenziali, questo Giudice non potrebbe accogliere la richiesta formulata con l'incidente di esecuzione promosso dal pubblico ministero. Sennonche' della legittimita' costituzionale di tale approdo e' lecito dubitare - alla luce del dettato degli artt. 3, 13, 25, 27, comma 3, Cost. 117 Cost., in relazione all'art. 7 CEDU (come interpretato dalla giurisprudenza di Strasburgo) - per i motivi di seguito indicati. 4. - Non manifesta infondatezza delle questioni di legittimita' costituzionale. Di recente, la S.C. ha mutato avviso circa l'irrilevanza - ai fini del superamento di preclusioni processuali - dei sopravvenuti mutamenti giurisprudenziali: (1) in materia di cd. giudicato esecutivo (preclusione di cui all'art. 666, comma 2, c.p.p.), si veda la recente: Cass. Pen., Sez. Un., Sentenza n. 18288 del 21 gennaio 2010, ric. p.m. in proc. Beschi, Ced Rv. 246651, secondo cui «il mutamento di giurisprudenza, intervenuto con decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, integrando un nuovo elemento di diritto, rende ammissibile la riproposizione, in sede esecutiva, della richiesta di applicazione dell'indulto in precedenza rigettata. La Corte ha precisato che tale soluzione e' imposta dalla necessita' di garantire il rispetto dei diritti fondamentali della persona in linea con i principi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, il cui art. 7, come interpretato dalle Corti europee, include nel concetto di legalita' sia il diritto di produzione legislativa che quello di derivazione giurisprudenziale). (2) in materia di cd. giudicato cautelare, si veda la recente Cass. Pen. Sez. 2, Sentenza n. 19716 del 6 maggio 2010, ric. Merlo, Ced Rv. 247113, secondo cui «il mutamento di giurisprudenza, intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, integra un nuovo elemento idoneo a legittimare la riproposizione della richiesta di revoca di sequestro preventivo gia' rigettata con provvedimento non piu' suscettibile di gravame». Ad avviso del giudice rimettente, gli argomenti spesi nelle predette decisioni dalla Corte di legittimita' non possono che valere anche nella materia degli incidenti di esecuzione promossi ex art. 673 c.p.p. per ottenere la revoca di sentenze passate in giudicato, a seguito di mutamento giurisprudenziale che sancisca che un determinato fatto storico non e' previsto dalla legge come reato. E' ben vero che il fenomeno della preclusione processuale e' fenomeno profondamente diverso da quello giustifica la irrefragabilita' dei giudicati; e' altrettanto vero, pero', che anche la tendenziale stabilita' del giudicato e', essa stessa, una convenzione che - rispondendo ad un'esigenza sociale (in funzione della necessita' di garantire la certezza del diritto) - ha poi trovato uno sbocco normativo nelle norme che impongono severi filtri alle possibilita' di porre nel dubbio i giudicati. E' altrettanto vero, poi, che le recenti decisioni del S.C. (che si e' espresso anche a Sezioni Unite) ancorano il principio di diritto al quale sono pervenute - da un lato - a ragioni di necessario rispetto del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e di necessita' di garantire ai consociati la retroattivita' dei trattamenti punitivi piu' favorevoli, anche in un'ottica europea (art. 7 CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo) e - dall'altro lato - alla peculiare funzione nomofilattica esercitata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. E analoghe ragioni si ripropongono con la stessa pregnanza anche nel caso oggi in esame. 4.1 Sul contrasto con l'art. 117 Cost. in relazione agli artt. 7, 5 e 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Circa il fatto che le norme della CEDU integrino, quali «norme interposte» [nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione)], il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali», ci si limita a richiamare le numerose pronunce della Corte costituzionale che hanno affermato tale principio (Corte cost., sentenze n. 113 del 2011, n. 1 del 2011; n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010; n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008; n. 348 e n. 349 del 2007). Detto questo - ai fini della esposizione dei termini del presente incidente di legittimita' costituzionale - e' necessario ricalcare gli schemi argomentativi utilizzati dalle Sezioni Unite nella gia' citata sentenza n. 18288/2010, proc. Beschi, in ragione dell'identica ratio sottesa alle - pur diverse - situazioni processuali (ratio tesa a garantire che l'ordinamento penale - e processuale- si informi ad autentiche ragioni politico-garantiste); nella sentenza Beschi, le Sezioni Unite evidenziano che: l'art. 7 CEDU «pur enunciando formalmente il solo principio di irretroattivita', e' stato interpretato dalla giurisprudenza e dalla dottrina nel senso che esso delinea, nell'ambito del sistema europeo di tutela dei diritti dell'uomo, i due fondamentali principi penalistici nullum crimen sine lege e nulla poena sine lege» essendo il principio di legalita' «un fondamento di ogni societa' democratica e patrimonio comune degli Stati membri del Consiglio d'Europa»; sicche' - nell'interpretazione dei giudici europei - l'art. 7 CEDU ha esteso la propria portata sino a vedervi ricompresi: (1) il principio di determinatezza delle norme penali, il divieto di analogia in malam partem (cfr. sentenza n. 32492/96, caso Coeme e altri contro Belgio); (2) il principio implicito della retroattivita' della legge meno severa (per tutte: Corte Edu, Grande Camera, sentenza 17 settembre 2009, caso Scoppola contro Italia); quanto al principio di retroattivita' della legge meno severa, e' altresi' doveroso ricordare che esso assume massimo rilievo non solo nel sistema convenzionale EDU, ma anche nell'ordinamento comunitario («il principio dell'applicazione retroattiva della pena piu' mite fa parte delle tradizioni comuni agli Stati membri»; cosi' Corte di Giustizia, sentenza 28 aprile 2011, caso El Dridi, causa C-61/11 PPU, punto 61, con richiami a precedenti arresti della Corte del Lussemburgo: sentenze 3 maggio 2005, cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e a., Racc. pag. I-3565, punti 67-69, nonche' 11 marzo 2008, causa C-420/06, Jager, Racc. pag. 1-1315, punto 59); la giurisprudenza della Corte EDU ha cosi' «enucleato dal sistema della Convenzione un concetto di "legalita' materiale2, in forza del quale possono raggiungersi livelli garantistici, per certi aspetti, piu' elevati di quelli offerti dall'art. 25 della Costituzione»; infatti, «in considerazione delle differenze che intercorrono, sul piano del sistema delle fonti del diritto, tra gli ordinamenti di common law e quelli di civil law, il principio convenzionale di legalita' e' stato inteso, per cosi' dire, in senso "allargato"». in tale contesto interpretativo - dovendo contemperare gli ordinamenti di civil law con quelli di common law - la Corte EDU ha valorizzato l'esplicito riferimento al «diritto» (law), distinguendolo dalla semplice legge, ed ha cosi' «inglobato nel concetto di legalita' sia il diritto di produzione legislativa che quello di derivazione giurisprudenziale, riconoscendo al giudice un ruolo fondamentale nella individuazione dell'esatta portata della norma penale, il cui significato e' reso esplicito dalla combinazione di due dati; quello legislativo e quello interpretativo (cfr. sentenze della Corte di Strasburgo 24 aprile 1990, caso Kruslin contro Francia; 12 febbraio 2008, caso Kafkaris contro Cipro; 15 novembre 1996, caso Cantoni contro Francia; 25 maggio 1993, caso Kokkinakis contro Grecia)»; la sentenza delle Sezioni Unite n. 18218/2010, cit. richiama poi alcuni arresti della giurisprudenza di Strasburgo e, in particolare, due di essi, che riguardano proprio l'ordinamento italiano: «con le recenti sentenze 17 settembre 2009 (caso Scoppola contro Italia) e 8 dicembre 2009 (caso Previti contro Italia), la Corte europea, dopo avere ribadito i principi consolidati in merito alla nozione di' diritto, ha affermato che "a causa del carattere generale delle leggi, il testo di queste... non puo' presentare una precisione assoluta", posto che si serve di "formule piu' o meno vaghe la cui interpretazione e applicazione dipendono dalla pratica; pertanto, in qualsiasi ordinamento giuridico, per quanto chiaro possa essere il testo di una disposizione di legge, ivi compresa una disposizione di diritto penale, esiste inevitabilmente un elemento di interpretazione giudiziaria...; del resto, e' solidamente stabilito nella tradizione giuridica degli Stati parte della Convenzione che la giurisprudenza... contribuisce necessariamente alla evoluzione progressiva del diritto penale"» (1) ; la Corte di Cassazione osserva poi opportunamente - anche al fine di porre nella dovuta evidenza il rilievo implicitamente allegato, anche in tali casi concreti, al cd. «diritto giurisprudenziale» - che deve essere considerato che «la Corte di Strasburgo, in relazione agli obblighi imposti agli Stati dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, ha ravvisato: a) la violazione del diritto alla liberta' e alla sicurezza, tutelato dall'art. 5 della stessa Convenzione, per la ritardata liberazione di un detenuto, al quale solo con notevole ritardo era stato concesso l'indulto, a causa di dubbi interpretativi circa la sua applicabilita' (cfr. sentenza 10 luglio 2003, caso Grava contro Italia); b) la violazione del diritto al processo equo, tutelato dall'art. 6 della Convenzione, in caso di divergenze profonde e persistenti nella giurisprudenza della Corte di cassazione sulla interpretazione di una determinata disposizione legislativa, senza la previsione di meccanismi idonei a rimediare a tale situazione (cfr. sentenza 2 luglio 2009, caso Iordan Iordanov contro Bulgaria»; sempre al fine di valorizzare adeguatamente il rilievo da attribuire al cd. «diritto giurisprudenziale», la S.C. richiama anche la sentenza 8 febbraio 2007 della Corte di giustizia (caso Groupe Danone contro Commissione delle Comunita' europee), che - secondo la ricostruzione del S.C. - «ha delineato una dimensione innovativa del principio di irretroattivita', ritenendolo applicabile anche alla nuova interpretazione in senso sfavorevole di una norma, interpretazione non ragionevolmente prevedibile nel momento della commissione dell'infrazione» (2) Al riguardo, merita ancora di osservarsi che - nel noto caso di punta Perotti (3) , pur non direttamente evocato dalle Sezioni Unite nella sentenza Beschi - il Governo Italiano aveva tentato di sottrarre alla cognizione della Corte Edu la «materia» del mutamento giurisprudenziale (questo l'argomento speso dal Governo: «se e' vero che l'interpretazione giudiziaria in materia penale deve essere ragionevolmente prevedibile, i cambiamenti radicali di giurisprudenza costituiscono una materia sottratta alla giurisdizione della Corte, che non puo' ne' confrontare le decisioni rese dai tribunali nazionali ne' vietare la possibilita' di uno stravolgimento giurisprudenziale») (4) . La Corte Edu, pero', ha respinto tale impostazione, ed ha osservato (5) : 105. La garanzia che sancisce l'articolo 7, elemento essenziale della preminenza del diritto, occupa un posto fondamentale nel sistema di protezione della Convenzione, come dimostra il fatto che l'articolo 15 non autorizza alcuna deroga allo stesso in tempo di guerra o in caso di altro pericolo pubblico. Come deriva dal suo oggetto e dal suo scopo, esso deve essere interpretato e applicato in modo da assicurare una protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie (sentenze S.W. e C.R. c. Regno Unito del 22 novembre 1995, serie A nn. 335-13 e 335-C, p. 41, § 34, e p. 68, § 32, rispettivamente). 106. L'articolo 7 § 1 sancisce in particolare il principio di legalita' dei reati e delle pene (nullum crimen, nulla poena sine lege). Se vieta principalmente di estendere il campo di applicazione dei reati esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano dei reati, esso impone altresi' di non applicare la legge penale in maniera estensiva a pregiudizio dell'imputato, ad esempio per analogia (v., tra le altre, Coeme e altri c. Belgio, nn. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, § 145, CEDU 2000 VII). 107. Ne consegue che la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Questa condizione e' soddisfatta quando la persona sottoposta a giudizio puo' sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente, e se necessario con l'aiuto dell'interpretazione che ne viene data dai tribunali, quali atti e omissioni implicano la sua responsabilita' penale (6) . 108. La nozione di «diritto» («law») utilizzata nell'articolo 7 corrisponde a quella di «legge» che compare in altri articoli della Convenzione; essa comprende il diritto di origine sia legislativa che giurisprudenziale e implica delle condizioni qualitative, tra le quali quelle dell'accessibilita' e della prevedibilita' (Cantoni c. Francia, 15 novembre 1996, § 29, Raccolta 1996 V; S. W. c. Regno Unito, § 35, 22 novembre 1995; Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio 1993, §§ 40-41, serie A no 260 A). Per quanto chiaro possa essere il testo di una disposizione legale, in qualsiasi sistema giuridico, ivi compreso il diritto penale, esiste immancabilmente un elemento di interpretazione giudiziaria. Bisognera' sempre chiarire i punti oscuri ed adattarsi ai cambiamenti di situazione. Del resto, e' solidamente stabilito nella tradizione giuridica degli Stati parte alla Convenzione che la giurisprudenza, in quanto fonte di diritto, contribuisce necessariamente all'evoluzione progressiva del diritto penale (Kruslin c. Francia, 24 aprile 1990, § 29, serie A no 176 A). Non si puo' interpretare l'articolo 7 della Convenzione nel senso che esso vieta di chiarire gradualmente le norme in materia di responsabilita' penale mediante l'interpretazione giudiziaria da una causa all'altra, a condizione che il risultato sia coerente con la sostanza del reato e ragionevolmente prevedibile (Streletz, Kessler e Krenz c. Germania [GC], nn. 34044/96, 35532/97 e 44801/98, § 50, CEDU 2001 II). 109. La portata della nozione di prevedibilita' dipende in gran parte dal contenuto del testo in questione, dall'ambito che esso ricopre nonche' dal numero e dalla qualita' dei suoi destinatari. La prevedibilita' di una legge non si oppone a che la persona interessata sia portata a ricorrere a consigli illuminati per valutare, a un livello ragionevole nelle circostanze della causa, le conseguenze che possono derivare da un determinato atto. Questo vale in particolare per i professionisti, abituati a dover dimostrare una grande prudenza nell'esercizio del loro mestiere. Da essi ci si puo' pertanto aspettare che valutino con particolare attenzione i rischi che quest'ultimo comporta (Pessino c. Francia, n. 40403/02, § 33, 10 ottobre 2006). 110. La Corte ha dunque il compito di assicurarsi che, nei momento in cui un imputato ha commesso l'atto che ha dato luogo al procedimento e alla condanna, esistesse una disposizione legale che rendeva l'atto punibile, e che la pena imposta non abbia ecceduto i limiti fissati da tale disposizione (Murphy c. Regno Unito, ricorso n. 4681/70, decisione della Commissione del 3 e 4 ottobre 1972, Raccolta delle decisioni 43; Coeme e altri, sentenza gia' cit., § 145). Per meglio comprendere la grande considerazione che la Corte di Strasburgo attribuisce all'interazione tra testo normativo ed interpretazione giurisprudenziale di quel testo, e' utile menzionare una recente sentenza della Corte Edu (sentenza Corte Edu, 7 giugno 2011, caso Agrati ed altri contro Italia). In essa, la Corte ha quasi operato - per usare un'efficace immagine utilizzata in dottrina - «una sorta di ribaltamento della gerarchia positiva (che vuole il giudice soggetto alla legge) a fronte di una gerarchia culturale, che vede il diritto vivente prelegislativo assurgere ad elemento costitutivo del parametro...». Il caso e' relativo al ricorso presentato da alcuni cittadini, risultati soccombenti in una causa civile: nel corso di una causa civile contro una amministrazione pubblica, i ricorrenti fondavano le proprie pretese su una interpretazione giurisprudenziale consolidata; sennonche', il legislatore italiano era intervenuto cori una legge di interpretazione autentica indirizzando - in senso sfavorevole ai ricorrenti - l'esito della controversia; senza entrare nel merito della questione, la Corte EDU ha - da un lato - ritenuto che, con la legge di interpretazione autentica, l'Italia avesse operato un'interpretazione che era «contraria all'interpretazione costante della Corte di cassazione» (punto 63) ed ha poi osservato - dall'altro lato - che detto intervento legislativo, con chiari effetti sul merito di una controversia pendente davanti ad un giudice, «non era giustificato da ragioni imperative di interesse generale» (punto 65). Sulla base di tali considerazioni, la Corte di Strasburgo ha ritenuto non equo il processo conclusosi in senso sfavorevole ai ricorrenti. Detto in altri termini: laddove non si considerasse la questione del mutamento giurisprudenziale alla luce dell'art. 7 CEDU, si rischierebbe, da un lato, di depotenziare la portata di quella norma (e la sua funzione garantista) e, dall'altro lato, di porre il nostro ordinamento in frizione anche con i principi ricavabili dagli artt. 5 e 6 della Conv. EDU. E un simile principio vale non solo con riguardo ai mutamenti giurisprudenziali (potenzialmente) sfavorevoli agli imputati (in relazione ai quali viene in gioco il valore della prevedibilita' del contesto normativo). Ma una simile considerazione del valore dei mutamenti giurisprudenziali non puo' che valere anche con riferimento ai mutamenti giurisprudenziali favorevoli (in relazione ai quali viene in gioco il principio della retroattivita' del trattamento di maggior favore per le persone imputate e condannate). Del resto, la necessita' che un ordinamento ha di garantire la stabilita' delle decisioni e, in definitiva, la certezza del diritto risponde non gia' ad un'esigenza di vuoto ossequio all'autorita' delle decisioni statuali, bensi' ad una profonda esigenza di garanzia per i diritti dell'individuo (che - giova ribadirlo - ha la necessita' di poter orientare i propri comportamenti in un contesto normativo e giurisprudenziale concretamente prevedibile ed affidabile). Ne discende una conseguenza: escludere qualsiasi rilievo al mutamento giurisprudenziale sopravvenuto pone il nostro ordinamento processuale (e segnatamente l'art. 673 c.p.p.) in contrasto con l'art. 7 CEDU (cosi' come interpretato dalla Corte di Strasburgo); infatti, secondo l'attuale codice di rito e' consentito che una persona sia privata della liberta' personale (o che si protragga detta privazione) in relazione ad un fatto storico che - in origine considerato reato - successivamente alla condanna, tale non e' piu' ritenuto dalla giurisprudenza successiva che si consolida nel diritto vivente. L'art. 673 c.p.p. non consente interpretazioni correttive/estensive capaci di scongiurare tale risultato, ad avviso di chi scrive contrastante con l'art. 7 CEDU (e, quindi, lesivo dell'art. 117, comma 1, della Carta costituzionale), sia sotto il profilo del rilievo da attribuire ai mutamenti giurisprudenziali in chiave di definizione della portata dei precetti, sia sotto il profilo della retroattivita' del trattamento penale piu' favorevole alla persona giudicata. Ne' risulta percorribile la via dell'interpretazione analogica (Corte cost., sentenza n. 96/1996, cit.). Risulta quindi costituzionalmente necessitata una interpretazione additiva che consenta di pervenire - in sede esecutiva - ad un risultato che renda l'art. 673 c.p.p. compatibile con l'art. 7 CEDU. Del resto, una sentenza interpretativa nel senso di seguito auspicato si porrebbe in linea di assoluta coerenza con diversi principi costituzionali che l'attuale formulazione dell'art. 673 c.p.p. rischia di ledere. 4.2. Sul contrasto con gli artt. 3, 13 e 25 della Costituzione, in relazione agli artt. 610, comma 2, 618 c.p.p., 172 disp. att. c.p.p. ed all'art. 65 regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (ordinamento giudiziario). L'art. 65 dell'Ordinamento giudiziario indica nella Corte di Cassazione «l'organo supremo della giustizia», incaricato di «assicura[re] l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unita' del diritto oggettivo nazionale». Il dettato dell'art. 65 Ord. Giud. trova poi chiaro riscontro anche in varie norme processuali che mettono bene in luce quale sia il rilievo che - per volonta' del legislatore - e' attribuito alla Corte di cassazione ed alla funzione nomofilattica che essa e' incaricata di assicurare. Qui, in particolare, meritano di essere menzionate diverse disposizioni del codice di procedura penale che attribuiscono una posizione di particolare preminenza alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione: art. 610, comma 2, c.p.p.: «Il presidente [della Corte], su richiesta del procuratore generale, dei difensori delle parti o anche di ufficio, assegna il ricorso alle sezioni unite quando le questioni proposte sono di speciale importanza o quando occorre dirimere contrasti insorti tra le decisioni delle singole sezioni»; art. 618, comma 1, c.p.p.: «Se una sezione della Corte rileva che la questione di diritto sottoposta al suo esame ha dato luogo, o puo' dar luogo, a un contrasto giurisprudenziale, su richiesta delle parti o di ufficio, puo' con ordinanza rimettere il ricorso alle sezioni unite»; art. 172 disp. att. c.p.p.: «1. Nel caso previsto dall'articolo 618 del codice, il presidente della corte di cassazione puo' restituire alla sezione il ricorso qualora siano stati assegnati alle sezioni unite altri ricorsi sulla medesima questione o il contrasto giurisprudenziale risulti superato. 2. In nessun caso puo' essere restituito il ricorso che, dopo una decisione delle sezioni unite, e' stato rimesso da una sezione della corte di cassazione con l'enunciazione delle ragioni che possono dar luogo a un nuovo contrasto giurisprudenziale». D'altra parte, anche la giurisprudenza costituzionale attribuisce un decisivo rilievo al diritto vivente (tanto da dichiarare inammissibili le ordinanze di rimessione che lo trascurino), tanto piu' se esso si sia cristallizzato a seguito di interventi delle Sezioni Unite della Cassazione. I riferimenti sono tali e tanti da rendere superflua qualsivoglia citazione (peraltro, ben nota alla Corte). Anche le sezioni civili della Corte di Cassazione - seppure con una varieta' di distinguo resa necessaria dalla pluralita' di situazioni - attribuiscono un deciso rilievo ai mutamenti giurisprudenziali sopravvenuti. Si veda, a mero titolo di esempio: Cass. Civ. Sez. 2, Ordinanza interlocutoria n. 14627 del 17 giugno 2010 (Rv. 613684). Alla luce del principio costituzionale del giusto processo, la parte che abbia proposto ricorso per cassazione facendo affidamento su una consolidata giurisprudenza di legittimita' in ordine alle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, incorre in errore scusabile ed ha diritto ad essere rimessa in termini ai sensi dell'art. 184-bis cod. proc. civ., «ratione temporis» applicabile, anche in assenza di un'istanza di parte, se, esclusivamente a causa del predetto mutamento, si sia determinato un vizio d'inammissibilita' od improcedibilita' dell'impugnazione dovuto alla diversita' delle forme e dei termini da osservare sulla base dell'orientamento sopravvenuto alla proposizione del ricorso. In tale contesto normativo e giurisprudenziale, e' quindi del tutto evidente la funzione attribuita - proprio dal legislatore - alla Corte di legittimita'. Non e' questa, evidentemente, la sede per addentrarsi nella questione - pur cruciale - dei benefici che possono derivare all'ordinamento dal cd. pluralismo interpretativo (il cui valore e' riconosciuto dalla stessa Corte Edu, laddove riconosce che la giurisprudenza... contribuisce necessariamente alla evoluzione progressiva del diritto penale); ne' e' questa la sede per enfatizzare i rischi connessi ad una visione del ruolo nomofilattico della Suprema Corte come vertice burocratico della giurisdizione. Qui basti dire che la funzione nomofilattica attribuita dall'ordinamento alla Corte di cassazione - e alle Sezioni Unite in particolare - riposa su elementari esigenze di razionalita' del sistema e, in definitiva, su ragioni che sicuramente possono essere riconnesse ad esigenze di rilievo costituzionale (art. 3 Cost.: uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; artt. 25 e 27 Cost.: necessita' per i consociati di prevedere le conseguenze legali dei propri comportamenti ed orientare conseguentemente le proprie condotte). D'altra parte, secondo la Carta costituzionale, da un punto di vista funzionale «il principio di legalita' dei reati e delle pene (art. 25, comma secondo, Cost.) e quello di previa pubblicazione della legge (art. 73, comma terzo, Cost.), implic[a]no l'adempimento, da parte dello Stato, di ulteriori doveri costituzionali, concernenti anzitutto la formulazione, la struttura e i contenuti delle norme penali, in guisa che queste ultime siano riconoscibili dai cittadini» (cosi' Corte costituzionale sentenza n. 364/1988). Cio' che conferma che la ratio del principio di legalita' (della cui realizzazione e' onerato il legislatore, ma anche la giurisprudenza) e' - tra l'altro - anche quella di orientare i comportamenti dei consociati. Ed allora, si deve prendere atto del fatto che e' lo stesso legislatore ad assegnare un ruolo di preminenza della giurisprudenza di legittimita' in funzione dell'orientamento della successiva giurisprudenza, oltre che di orientamento dei comportamenti dei consociati. Cio' posto -assumendo che (tendenzialmente) le decisioni successive si conformino (come di norma avviene) al diritto vivente - ad avviso di chi scrive, la scelta del legislatore di continuare a punire (non revocando la sentenza di condanna ex art. 673 c.p.p.) colui che abbia tenuto un comportamento che - secondo il diritto vivente sopravvenuto (ricostruito con decisione resa dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite) - non e' piu' previsto dalla legge come reato e' scelta del legislatore manifestamente irragionevole, perche' tale scelta: a) e' in contrasto con il principio di (tendenziale) retroattivita' della normativa penale piu' favorevole (artt. 3 e 25, comma 2, Cost.); b) comporta il rischio di trattare in modo diseguale imputati (che, viceversa, avrebbero dovuto essere trattati in modo eguale, avendo essi commesso lo stesso fatto di reato), in funzione - per esempio - del semplice dato dell'ordine di trattazione dei processi; dato talvolta casuale e comunque non riconducibile a condotte dell'imputato (violazione dell'art. 3, comma 1, Costituzione); c) antepone ragioni di tutela dell'ordinamento (la certezza del diritto e la tendenziale stabilita' delle decisioni) a precise esigenze di liberta' della persona, costituzionalmente tutelata dall'art. 13 della Costituzione (per usare un'efficace immagine adoperata in dottrina, si rischia di privilegiare la certezza del diritto a detrimento della certezza dei diritti); d) priva una persona della sua liberta' in assenza della reale necessita' di salvaguardare un contrapposto principio costituzionale da bilanciare con il bene della liberta' personale; se si ragiona sulla funzione della sanzione penale (senza diffondersi in questa sede oltre il dovuto) si puo' comprendere che la scelta del legislatore di non revocare - in casi simili a quello in esame - una sentenza di condanna non ha alcuna funzione nemmeno in termini di general-prevenzione (posto che la general-prevenzione «guarda al futuro», ed e' assicurata dall'esercizio - da parte della Corte di cassazione - della funzione nomofilattica; e la funzione general-preventiva non trae alcun beneficio dalla stabilita' del giudicato in un caso simile a quello del sig. D.). 4.3. Sul contrasto con l'art. 27, comma 3, della Costituzione. Si ritiene che la pena in tanto sia giustificata in quanto essa costituisca la giusta retribuzione per il male commesso, anche al fine di dissuadere il responsabile dal commettere nuovamente un certo reato (quia peccatur et ne peccetur); se cosi' e', non si puo' non ritenere contrastante con tale funzione special-preventiva della pena un assetto processuale che tollera l'esecuzione di pene a fronte di un comportamento che, secondo il diritto vivente sopravvenuto non costituisce reato; pene che - si badi - verrebbero poste in esecuzione anche per assicurare la rieducazione del condannato in relazione ad un fatto che - secondo il sopravvenuto assetto giurisprudenziale - non e' piu' penalmente rilevante (e, come tale, non richiede piu' alcuna attivita' di rieducazione). 4.4 Superamento di possibili obiezioni. Si potrebbe obiettare che - attribuendo un ruolo para-normativo alla giurisprudenza della Corte di cassazione - si verrebbe ad ingessare la giurisprudenza, inibendo la funzione evolutiva che, storicamente, essa ha avuto nel nostro ordinamento, cosi' surrettiziamente imponendo una deviazione dalla nostra tradizione giuridica di civil law a quella propria degli ordinamenti di common law. L'obiezione non e' persuasiva, soprattutto se si considera quali valori (la liberta' personale) verrebbero sacrificati a tale esigenza. Da un lato, si osserva che il quesito che qui si intende sottoporre alla Corte costituzionale e' teso ad ottenere una pronunzia additiva che valorizzi non qualsivoglia mutamento giurisprudenziale, ma soltanto quei mutamenti giurisprudenziali che intervengono al massimo livello di esercizio della funzione nomofilattica (le Sezioni Unite, il cui ruolo peculiare e' esaltato dallo stesso legislatore; cio' che offre un parametro interpretativo adeguatamente solido e scongiura il rischio di dovere - in ogni incidente di esecuzione - dover estrapolare da un incerto panorama giurisprudenziale gli esatti termini del diritto vivente). In secondo luogo, il quesito intende valorizzare solo quegli interventi delle Sezioni Unite che statuiscano che un fatto non e' piu' previsto dalla legge come reato, con ri-perimetrazione - per via interpretativa - della fattispecie penale, senza quindi, rendere necessaria una rivisitazione del quadro probatorio. In terzo luogo, non si puo' trascurare che l'accoglimento della questione di legittimita' costituzionale avrebbe conseguenze esclusivamente improntate al favor rei ed ossequiose del principio di retroattivita' dei trattamenti favorevoli all'imputato. Ne', infine, si potrebbe determinare una cristallizzazione degli orientamenti giurisprudenziali, ben potendosi dare il caso di successivi mutamenti della giurisprudenza, anche in senso sfavorevole all'imputato (nel senso che - sovvertendo orientamenti prima consolidati in senso assolutorio - la giurisprudenza ben potrebbe rivedere le proprie interpretazioni, affermando che una certa disposizione «D», esprimendo la norma «N», ricomprende in essa il fatto «F»). Tuttavia, il mutamento giurisprudenziale sfavorevole varrebbe solo per il processo in cui la questione controversa e' stata discussa ed assumerebbe valore di orientamento delle successive decisioni solo a partire dalla sua pubblicazione. Senza trascurare che - per superare una giurisprudenza consolidata (soprattutto se cio' e' in senso sfavorevole all'imputato) - e' responsabilita' deontologica del magistrato quella di farsi carico di affrontare e superare gli argomenti contrari alla decisione assunta (7) . E senza potere, infine, ignorare che l'art. 172, comma 2, disp. att. c.p.p. dispone che «in nessun caso puo' essere restituito il ricorso che, dopo una decisione delle sezioni unite, e' stato rimesso da una sezione della corte di cassazione con l'enunciazione delle ragioni che possono dar luogo a un nuovo contrasto giurisprudenziale». In altri termini: l'accoglimento della questione qui proposta non determinerebbe alcuna cristallizzazione definitiva della giurisprudenza; al contrario, essa - da un lato - risponderebbe ad evidenti logiche di favor libertatis e - dall'altro lato - responsabilizzerebbe gli interpreti, in un'ottica di ricerca di maggior certezza del diritto. 5. - Il quesito. Alla luce dei motivi sopra esposti, si ritiene non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 673 c.p.p. che si ritiene illegittimo nella parte in cui non prevede l'ipotesi di revoca della sentenza di condanna [o di decreto penale di condanna o di applicazione della pena su concorde richiesta delle parti] in caso di mutamento giurisprudenziale - intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in base al quale il fatto giudicato non e' previsto dalla legge penale come reato. Cio' - per le ragioni sopra esposte - in relazione ai seguenti parametri costituzionali: art. 117 Costituzione, in relazione all'art. 7 CEDU (come interprato dalla Corte EDU) e agli artt. 5 e 6 CEDU; art. 3 della Costituzione, in relazione agli artt. 610, comma 2, 618 c.p.p., 172 disp. att. c.p.p. ed all'art. 65 regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (ordinamento giudiziario); art. 13 della Costituzione; art. 25 della Costituzione; art. 27, comma 3, della Costituzione. 6. - Sulla rilevanza. Dalla disamina che precede, emerge infine chiara la ragione della rilevanza nel giudizio a quo del quesito appena formulato: se la questione venisse accolta dalla Corte costituzionale, questo giudice potrebbe procedere all'esame della richiesta del p.m., eventualmente rideterminando la pena inflitta al sig. D. diversamente, la richiesta del pubblico ministero dovrebbe essere rigettata. Ne' - si badi - la questione potrebbe essere considerata irrilevante per il fatto che il pubblico ministero ha gia' - prudenzialmente - rideterminato la pena (computando gia' un fine pena che tenga conto dell'accoglimento della richiesta di revoca) o per il fatto che, al sig. D., potrebbe essere concessa - nelle more della celebrazione dell'incidente di legittimita' costituzionale - la liberazione anticipata. Da un lato, si deve osservare che il rigetto della richiesta del p.m. comporterebbe una nuova determinazione del cd. fine pena e che, ad oggi, la liberazione anticipata non e' stata concessa. Dall'altro lato si deve evidenziare che - anche laddove al momento della decisione della Corte costituzionale il sig. D. avesse gia' scontato la pena a lui inflitta- la questione sarebbe comunque meritevole di considerazione nel merito; cio' alla luce del condivisibile l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale «la richiesta dell'interessato di revoca della sentenza di condanna per abolitio criminis, seppure nel frattempo la pena detentiva irrogata sia stata interamente scontata, e' sostenuta da un concreto interesse in riferimento all'eliminazione conseguente di un effetto penale della condanna, dato dall'iscrizione nel certificato del casellario giudiziale non rilasciato a richiesta dei privati» (cosi' Cass. Pen., Sez. 3, Sentenza n. 21665 dell'11 maggio 2010, ric. Santoro, Ced Rv. 247629). Pur non essendo previste procedure acceleratorie in ipotesi simili a quella del presente giudizio a quo, ci si permette di segnalare che il sig. D.M. e' detenuto per questa causa. (1) Qui le Sezioni Unite citano la Corte Edu, Seconda Sezione, Sentenza dell'8 dicembre 2009, Caso Previti contro Italia, ric. 45291/06, punti 278 e sgg. (2) Corte di Giustizia, Seconda Sezione, sentenza 8 febbraio 2007, Groupe Danone c. Commissione, causa C-3/06 P, punti 87-90. (3) Corte Edu, Seconda Sezione, Sentenza del 20 gennaio 2009, Caso Sud Fondi Srl ed altre contro Italia, ric. n. 75909/01. (4) Ivi, punto 102. (5) Ivi punti 105 e sgg. (6) Principio poi affermato anche nella successiva Corte Edu, Sentenza Gurguchiani contro Spagna, ric. n. 16012/06, punto 29. (7) Cosi' C.S.M., Sezione disciplinare, sentenza n. 122 del 13 ottobre 2009, punto I della motivazione: «Cio' vuol dire, dal punto di vista della disamina deontologica, che, indiscussa la premessa circa lo stato della giurisprudenza in tema di valutazione dell'art. 11 come eccezionale, ben sono possibili i dissensi dalla medesima purche' essi non siano accompagnati o seguiti da comportamenti processuali del magistrato per l'appunto dissenziente diretti ad aggirare l'ostacolo costituito dalla interpretazione dominante. Qualunque interpretazione da chiunque provenga puo' essere disattesa, purche', e soprattutto quando si tratta della interpretazione della Corte Suprema, o del giudice delle leggi, in modo non puramente ripetitivo oppure ignaro della funzione nomofilattica o di quella di sistemazione costituzionale. Il magistrato che dissente pertanto ha l'obbligo, anzitutto deontologico, di esprimere consapevolezza della opinione che non condivide e dunque delle ragioni per le quali ritiene comunque di andare in avviso contrario.