IL TRIBUNALE 
 
    Letti gli atti, a scioglimento della riserva, ha  pronunziato  la
seguente ordinanza. 
    Con  ricorso  depositato  in  cancelleria  in  data   29/11/2010,
Amorelli Giampiero, avvocato, gia' difensore del cittadino  straniero
Mike  George,  ammesso  al  patrocinio  a  spese  dello  Stato,   nel
procedimento civile  iscritto  al  n.  66797/06,  avente  ad  oggetto
riconoscimento dello status di rifugiato, ha proposto opposizione, ex
art. 170 D.P.R. n. 115/02, avverso il decreto in  data  16-27/7/2010,
comunicato il 9/11/2010, con il quale, su  sua  istanza,  il  giudice
istruttore aveva liquidato in € 832,00 le sue competenze. 
    Il  ricorso,  unitamente  al  pedissequo  decreto  di  fissazione
dell'udienza di comparizione, e' stato  ritualmente  notificato  alle
controparti del giudizio a quo, nonche' al Ministero della  giustizia
ed all'amministrazione finanziaria. 
    Tra i molteplici motivi di doglianza, il ricorrente ha  lamentato
l'applicazione dell'art.  130  del  citato  D.P.R.  n.  115/02  e  la
conseguente riduzione al 50% delle proprie  competenze,  operata  dal
giudice istruttore con l'impugnato decreto. In tale contesto, egli ha
- sia pur in via  subordinata  rispetto  ad  altra  argomentazione  -
sollevato  dubbi  di  legittimita'  costituzionale   della   predetta
disposizione. 
    Ritiene questo giudice che la questione sia  rilevante  e  -  sia
pure per motivi in parte diversi da quelli esposti dal  ricorrente  -
non manifestamente infondata, per le ragioni che seguono. 
A. Sul contenuto precettivo dell'art. 130 D.P.R. n.  115/02  e  sulla
possibilita' di una sua interpretazione costituzionalmente orientata. 
    Preliminarmente,  in  ossequio  ai  piu'  recenti  -   ed   ormai
consolidati - orientamenti della  giurisprudenza  costituzionale,  e'
opportuno  esaminare  la  possibilita'  di  dare  della  disposizione
denunciata un'interpretazione costituzionalmente conforme. 
    L'esame puo' essere breve. Se mai vi fu, in diritto, quel clar in
cui, secondo la tradizione, non fit interpretatio, ebbene l'art.  130
ne costituisce un eccellente esempio. 
    La disposizione recita: «Gli importi spettanti al difensore [...]
sono ridotti  alla  meta'».  A  meno,  invero,  di  voler  totalmente
prescindere dal tenore testuale dell'enunciato normativo, non si vede
in qual modo si potrebbe darne un'interpretazione diversa  da  quella
che ne scaturisce a prima  lettura:  secondo  la  quale  il  giudice,
nell'atto di quantificare gli onorari  del  difensore  di  una  parte
ammessa  al  patrocinio  a  spese  dello  Stato  nell'ambito  di   un
procedimento civile, deve, una volta operata la liquidazione entro il
limite degli importi medi previsti per  lo  scaglione  di  valore  di
riferimento,  dividere  il  risultato  per  due  ed   attribuire   al
professionista soltanto la meta' del compenso liquidato. 
    Piuttosto - ma e' cosa del tutto diversa - si potrebbe  azzardare
un'interpretazione del piu' ampio contesto normativo,  nel  quale  si
inserisce l'art. 130, tale da far ritenere irrilevante  la  questione
di legittimita'  costituzionale  per  intervenuta  abrogazione  della
disposizione indubbiata: e' cio' che propone, in tesi principale,  il
ricorrente, sostenendo che il  comma  2  dell'art.  2  («Disposizioni
urgenti per la tutela  della  concorrenza  nel  settore  dei  servizi
professionali») del d.l. 4/7/2006 n. 223, convertito  in  legge,  con
modificazioni, dalla legge 4/8/2006 n. 248 («Disposizioni urgenti per
il  rilancio  economico  e  sociale,  per  il   contenimento   e   la
razionalizzazione della spesa pubblica, nonche' interventi in materia
di entrate e di contrasto all'evasione fiscale»),  nel  disporre  che
«il giudice provvede alla liquidazione delle spese di giudizio e  dei
compensi professionali, in  caso  di  liquidazione  giudiziale  e  di
gratuito patrocinio, sulla base della tariffa professionale», avrebbe
tacitamente abrogato l'art. 130 D.P.R. n. 115/02. 
    Senonche', la tesi non  e'  condivisibile.  Il  primo  comma  del
citato art. 2 (modificato in sede di conversione), alla  lettera  a),
ha abolito l'obbligatorieta'  delle  tariffe  professionali  fisse  o
minime, consentendo cosi' alle parti  del  contratto  di  prestazione
d'opera intellettuale di pattuire compensi inferiori ai minimi, ed il
successivo comma 2 bis, pure introdotto dalla legge  di  conversione,
ha imposto la forma scritta per la validita' dei patti in deroga alle
tariffe forensi. In questo contesto, risulta evidente  che  la  ratio
della disposizione, poc'anzi  riferita,  che  impone  al  giudice  di
liquidare le spese di giudizio  ed  i  compensi  professionali  degli
avvocati in base alla tariffa approvata, ha il solo scopo di chiarire
che  la  liberalizzazione  risultante  dagli  altri  due   commi   e'
circoscritta ai rapporti di natura contrattuale tra professionista  e
cliente  e  non  si  estende  alle  ipotesi   di   liquidazione   per
provvedimento  dell'autorita'.  Tale  conclusione  appare  confermata
dalla circostanza che la norma in questione non si riferisce soltanto
al gratuito patrocinio, ma ad ogni ipotesi di liquidazione giudiziale
delle spese di  lite  (tipicamente,  quella  compiuta  a  carico  del
soccombente nella sentenza  che  conclude  il  giudizio  di  merito),
indipendentemente dall'applicabilita' o meno dell'art. 130 D.P.R.  n.
115/02: il che conferma l'esclusione di quel nesso logico tra le  due
disposizioni che  giustificherebbe  la  conclusione  dell'abrogazione
tacita dell'una ad opera  dell'altra.  D'altro  canto,  la  locuzione
«sulla base della tariffa» non vale ad  escludere  l'operativita'  di
ulteriori criteri di calcolo, prescritti  da  altre  disposizioni  di
legge, che modifichino il risultato ottenuto dalla  sommatoria  degli
importi  relativi  alle  voci  tabellari,  individuati   secondo   lo
scaglione di valore applicabile. In altri termini, e' compiuta «sulla
base della  tariffa»  anche  quella  liquidazione  il  cui  risultato
risenta anche dell'applicazione di una diversa disposizione di  legge
destinata, appunto, a modificarlo. 
    Viene cosi' a mancare quell'antinomia, tra l'art. 130  D.P.R.  n.
115/02  e  l'art.  2  d.l.  223/06  (come  modificato  in   sede   di
conversione), che costituisce il presupposto dell'abrogazione  tacita
del primo ad opera del secondo. 
B. Sulla rilevanza ala legittimazione del giudice a qua. 
    Cosi' confermata la perdurante vigenza dell'art.  130  D.P.R.  n.
115/02, la rilevanza della questione di  legittimita'  costituzionale
risulta palese. 
    Il  giudice  dell'opposizione  e'   chiamato   a   sindacare   un
provvedimento (il decreto di liquidazione) con il quale e' stata gia'
fatta applicazione della disposizione denunciata  e  ad  emettere,  a
conclusione  del  procedimento,   ordinanza   non   appellabile,   ma
impugnabile per cassazione ex art. 111  Cost.,  avente  efficacia  di
titolo esecutivo per il pagamento delle  somrne  liquidate  (art.  29
legge n. 794 del 1942). In caso di conferma del decreto, egli  dovra'
quindi avallare tale applicazione; mentre in caso di accoglimento del
ricorso, nel procedere ad una nuova liquidazione, dovra' a sua  volta
dividere a meta' risultato ed attribuire  al  professionista  il  50%
della somma liquidata. 
    L'eventuale  declaratoria  d'incostituzionalita'  dell'art.  130,
invece, comporterebbe l'automatico annullamento del  decreto  che  ne
abbia fatto applicazione e  l'attribuzione  per  intero  della  somma
ulteriormente (ri)liquidata al professionista, ed inciderebbe  cosi',
in maniera evidente, sull'esito del giudizio. 
C. Sulla non manifesta infondatezza. 
    L'art. 130 D.P.R. n.  115/02  solleva  dubbi  non  manifestamente
infondati di  legittimita'  costituzionale  in  relazione  a  quattro
parametri: l'art. 3 Cost., sotto  piu'  profili;  gli  artt.  24,  in
particolare commi 2 e 3, e 111, comma 1, Cost.; l'art. 117, comma  1,
Cost., in relazione all'art. 6, comma 1, CEDU; l'art.  53,  comma  l,
Cost. 
  C.1. Sul sospetto di violazione dell'art. 3 Cost. 
    La disposizione denunciata appare in contrasto con l'art.  3  sia
sotto il profilo dell'ingiustificata disparita' di  trattamento  (tra
avvocati e tra parti), sia sotto  il  profilo  della  violazione  del
canone di ragionevolezza. 
    C.1.a. Disparita' di trattamento tra avvocati. 
    C.1.a.i. Tra processo civile e processo penale. 
    Con ordinanz.a n. 350 del 2005, la Corte  costituzionale  ebbe  a
dichiarare manifestamente  infondata  la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 130 per contrasto, inter alia, con l'art.  3
Cost. La decisione fu poi ribadita con ordinanza n. 201 del 2006.  Il
tertium comparationis allora invocato dai giudici  a  quibus  era  il
processo penale, sostenendosi da parte  dei  rimettenti  che  sarebbe
stata ingiustificata la disparita' di trattamento, quanto alla misura
dei compensi, tra difensori che prestano la loro attivita'  a  favore
di soggetti ammessi al patrocinio a spese dello  Stato  nel  processo
penale ed in quello civile. 
    La  Corte  ha  rigettato  le  questioni  richiamando  la  propria
giurisprudenza in tema  di  incommensurabilita'  tra  i  due  modelli
processuali,  penale  e  civile  (vengono  citate,  ex  pluribus,  le
ordinanze n. 317/04, n. 500/02 e n. 429/98).  Inoltre,  la  Corte  ha
ritenuto giustificata la differenza di trattamento «nella  diversita'
delle situazioni  comparate  (da  una  parte  gli  interessi  civili,
dall'altra  le  situazioni   tutelate   che   sorgono   per   effetto
dell'esercizio  dell'azione  penale»),  citando,  al   riguardo,   la
sentenza n. 165 del 1993. 
    La decisione merita, ad  avviso  di  questo  giudice,  di  essere
rimeditata; e percio' la questione viene  qui  riproposta,  in  primo
luogo,  negli  identici  termini.  Senza   tediare   la   Corte   con
argomentazioni inevitabilmente ripetitive, ci  si  puo'  limitare  ad
osservare brevemente che: 
        nel ragionamento della Corte i due elementi teste  richiamati
(l'incomparabilita'  dei  modelli  processuali  e  la  diversita'  di
situazioni    tutelate)    sembrano    avvinti    da     un     nesso
logico-argomentativo, nel senso che il secondo si presenta  come  uno
specifico aspetto, o una specifica manifestazione, del primo: i'  due
modelli processuali non  sarebbero  comparabili  (anche)  perche'  le
situazioni tutelate che entrano in giuoco nell'uno e nell'altro  sono
a loro volta diverse (ed incomparabili); 
        oggetto del processo civile, tuttavia,  possono  essere  -  e
spesso sono, come nel caso di specie  -  diritti  fondamentali  della
persona, anche costituzionalmente tutelati, di non minore  importanza
e dignita' degli interessi che entrano in giuoco nel processo  penale
(e dello stesso diritto garantito dall'art. 13  Cost.);  mentre,  per
converso, il processo penale non necessariamente ha ad oggetto  fatti
che possano comportare,  per  l'imputato,  una  privazione,  o  anche
soltanto una limitazione, della liberta' personale, o  comunque,  per
l'imputato stesso o per il soggetto passivo, conseguenze di  gravita'
superiore a quelle di una causa civile in  materia  (ad  esempio)  di
diritti della  personalita',  di  diritto  di  famiglia,  di  diritto
d'asilo, ecc.; la distanza tra i due modelli processuali - almeno per
quanto  attiene  all'importanza  ed  al  rilievo  costituzionale  dei
rispettivi oggetti - e' quindi, forse, meno ampia di quanto la  Corte
non  abbia  ritenuto  con  le  citate  ordinanze,  e  non   tale   da
giustificare  una  differenza  -  peraltro  consistente  -  tra   gli
emolumenti spettanti all'avvocato in penale ed in civile; 
        d'altro canto, anche a  voler  ammettere  che  le  situazioni
soggettive tutelate,  rispettivamente,  nel  processo  penale  ed  in
quello civile siano - sempre e sistematicamente  -  incommensurabili,
cio' riguarderebbe soltanto le parti e i loro contrapposti diritti ed
interessi, non certo i loro difensori  ed  il  (distinto  e  diverso)
diritto che essi maturano a veder adeguatamente  remunerate  le  loro
prestazioni; diritto che, a sua volta, e' funzione della quantita'  e
qualita' delle stesse, piu' che  delle  situazioni  soggettive  degli
assistiti. 
    Permane  quindi,  pur  dopo  le  citate  ordinanze   di   codesta
eccellentissima Corte, un  non  manifestamente  infondato  dubbio  di
legittimita' costituzionale in  relazione  all'art.  3  Cost.,  sotto
questo primo aspetto. 
    C.1.a.ii. Nel processo civile. 
    Vi  e'  poi  un  secondo  aspetto  di  irragionevolezza  e/o   di
violazione del principio di eguaglianza, che  si  svolge  interamente
all'interno del processo civile. 
    I compensi (onorari e diritti) dovuti agli avvocati sono funzione
delle prestazioni lavorative autonome  dagli  stessi  rese.  La  loro
quantificazione (operata, per le voci a tariffa fissa, gia'  in  sede
normativa, e, per quelle a tariffa variabile,  in  sede  giudiziale),
per disposto normativo e, prima ancora, per ragioni logiche,  dipende
(lo si e' gia' accennato poc'anzi) da  fattori  inerenti,  oltre  che
all'oggetto (valore  della  controversia  e  sua  importanza  per  la
parte), alla natura ed al contenuto di tali prestazioni: complessita'
delle questioni  trattate  (e  conseguente  difficolta'  dell'opera),
quantita'  dell'attivita'  prestata  (e,  quindi,   del   correlativo
dispendio di tempo e di energie), utilita' delle singole  prestazioni
e loro qualita' intrinseca, risultati  ottenuti.  Nessuno  di  questi
fattori di valutazione puo' in alcun modo risentire della circostanza
che a pagare il compenso sia, direttamente e  di  tasca  propria,  il
diretto interessato, o, in sua  vece,  un  terzo  (l'erario)  che  si
accolla (peraltro, nella specie, non per spirito di  liberalita',  ma
in adempimento di un dovere di solidarieta' sociale  che  costituisce
uno dei compiti essenziali dello  stato  democratico  costituzionale)
l'onere economico della difesa in giudizio. 
    Non   sembra   che   vi   sia,   quindi,    alcuna    ragionevole
giustificazione, ne' per l'oggettivo svilimento (in termini assoluti)
del valore delle prestazioni dell'avvocato,  quando  il  cliente  sia
ammesso al patrocinio a spese dello Stato (violazione del  canone  di
ragionevolezza), ne' per la devalorizzazione (in termini relativi) di
identiche prestazioni rispetto a quelle rese dal collega difensore di
una parte (in ipotesi, anche l'avversario nello stesso processo)  non
ammessa a tale beneficio (violazione del principio di eguaglianza). 
    Di qui, un non manifestamente infondato  sospetto  di  violazione
dell'art. 3 Cost., anche sotto il diverso profilo  dell'irragionevole
disparita' di  trattamento  tra  avvocati  all'interno  del  processo
civile (e addirittura, come  meglio  si  dira'  oltre,  dello  stesso
processo). 
    C.1.b. Disparita' di trattamento tra parti. 
    L'irragionevole ed ingiustificata svalutazione, quantitativamente
assai rilevante (tanto piu' se si tiene conto  del  notevole  ritardo
con cui, in pratica, vengono corrisposti agli  avvocati  gli  onorari
del patrocinio a spese dello Stato), delle prestazioni  professionali
del difensore, risultante dall'applicazione dell'art. 130  D.P.R.  n.
115/02,  inevitabilmente   costituisce   un   disincentivo,   per   i
professionisti, all'assunzione  dell'ufficio  di  difensore  dei  non
abbienti. 
    Con cio',  non  si  vuoi  minimamente  ascrivere  alla  categoria
forense una particolare propensione alla venalita', ne' sottovalutare
l'impegno di elevato valore morale e sociale che, in tanti casi,  gli
avvocati profondono nell'esercizio  della  professione.  Anzi,  preme
sottolineare come, spesso, proprio i professionisti che  assistono  i
non abbienti, in particolare nelle controversie civili di  piu'  alto
profilo umano (in materia, ad esempio, di status di rifugiato)  siano
presumibilmente mossi da motivazioni di natura etica,  solidaristica,
ideologica, e comunque non meramente lucrativa. 
    Non di meno, l'attivita' di avvocato e' pur sempre un lavoro, con
il quale il professionista si procura le risorse per far fronte  alle
esigenze vitali sue e, almeno in parte, della sua famiglia. E' quindi
del  tutto  logico,  e  per  nulla  riduttivo  della  dignita'  della
categoria, che la prospettiva di remunerativita' di un incarico entri
nel novero  dei  fattori  che  determineranno  il  professionista  ad
accettarlo  oppure  no.  Ne  consegue  che,  secondo  una  proiezione
statistica  agevole,  basta  sulla  comune  esperienza  dell'id  quod
plerumque accidit,  il  parterre  degli  avvocati  tra  i  quali,  in
concreto, il non abbiente potra' scegliere il  suo  difensore,  sara'
numericamente piu' ristretto di quello che si offre  alla  scelta  di
chi, invece, puo' permettersi di retribuire  direttamente  l'avvocato
(basti pensare, a titolo meramente esemplificativo, che gli  iscritti
nello speciale elenco degli  avvocati  patrocinatoti  a  spese  dello
Stato dell'Ordine di  Roma,  e  con  studio  nella  citta'  di  Roma,
risultano essere 5.193: un numero ragguardevole, ma pur  sempre  meno
di un quarto del totale degli iscritti del distretto, con  studio  in
Roma, che sono 22.669). Ora, questo potra', in  parte,  dipendere  da
fattori che non dipendono dall'applicazione dell'art. 130 del  D.P.R.
n. 115/02; resta vero, pero', che  questa  disposizione,  peggiorando
notevolmente, sul  piano  quantitativo,  le  prospettive  retributive
dell'avvocato che esercita  in  materia  civile,  aggrava  in  misura
significativa  la  gia'  scarsa  appetibilita'  degli  incarichi   di
patrocinio a spese dello Stato. 
    Ne discende che il non abbiente si trova  a  dover  scegliere  il
proprio difensore in condizioni deteriori rispetto  alla  generalita'
dei «justiciables»  e  tale  differenza  non  sembra  trovare  alcuna
plausibile ragione giustificatrice: anzi, concreta  precisamente  uno
dei casi (le condizioni  economiche),  espressamente  elencati  dalla
Costituzione, in cui la discriminazione e' specificamente  ipotizzata
e vietata e, pertanto, «sospetta» a priori d'illiceita'. 
    Ne' si dica che le differenze di disponibilita'  economiche  sono
una   realta'   deplorevole    ma    ineliminabile    che    produce,
inevitabilmente, talune conseguenze negative o limitative  anche  sul
concreto esercizio dei diritti: cio' e' perfettamente vero,  ma,  nel
caso  di  specie,  il  diverso  grado  di  godimento  di  un  diritto
fondamentale (quello garantito dall'art. 24 Cost. e dall'art. 6 CEDU,
sul quale si tornera' tra breve) non e' conseguenza  diretta  e,  per
dir cosi', «naturale» della differenza di' condizioni economiche  tra
gli individui (come sarebbe se  l'avvocato  della  parte  ammessa  al
beneficio fosse pagato secondo tariffa,  allorche'  un  altro,  nella
libera contrattazione con  un  cliente  danaroso,  potrebbe  spuntare
onorari  assai  piu'  elevati),   bensi'   frutto   di   una   scelta
discrezionale  (anzi,  arbitraria,   perche'   priva   di   razionale
giustificazione  e  contraria  al  canone  di   ragionevolezza)   del
legislatore. Insomma, in questo caso, la Repubblica non soltanto  non
ha assolto al compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine  economico
[...]» che limitano «di fatto [...] l'eguaglianza dei cittadini»,  ma
anzi si e' adoperata, per mezzo dei propri  organi  legislativi,  per
drizzare un siffatto ostacolo, cola' dove non  esisteva  e  dove  non
aveva ragione di esistere, al pieno esercizio, da parte di tutti,  in
condizioni di parita', del diritto  costituzionalmente  garantito  di
agire e  di  difendersi  in  giudizio  (e  fors'anche,  di  riflesso,
all'esercizio di quei diritti, anch'essi, a volte, fondamentali,  che
il giudizio stesso avrebbe dovuto assicurare). 
  C.2. Sul  sospetto  di  violazione  dell'eguaglianza  nei  processo
(parita' delle armi), in contrasto con gli  artt.  24  e  111  Cost.,
nonche' con l'art. 117 Cost. in relazione all'art. 6 CEDU. 
    La rilevata disparita' di trattamento,  sotto  il  profilo  delle
possibilita'   di   scelta   del   difensore,   tra   soggetti   che,
rispettivamente, possono o non  possono  permettersi  di  retribuirlo
personalmente, assume un piu' concreto e  pregnante  risalto  ove  si
consideri che essa si manifesta non  soltanto  in  astratto,  tra  un
qualsiasi «non abbiente» ed un qualsiasi altro individuo, ma anche in
concreto, tra la parte A e la parte B, tra l'attore ed il  convenuto,
nel medesimo processo. Cosi' riguardata, la (generica) disparita'  di
trattamento descritta poc'anzi in relazione all'art. 3 Cost. acquista
i contorni (assai piu' specifici e concreti)  di  una  differenza  di
posizioni di forza all'interno del procedimento che si  va  svolgendo
davanti al giudice. 
    Siffatta differenza, frutto  -  giova  ribadire  -  non  gia'  di
un'inevitabile  situazione  di  fatto,  bensi'  di  una  scelta   del
legislatore, non giustificata da ragioni apprezzabili sul piano della
ragionevolezza, solleva un dubbio  non  manifestamente  infondato  di
compatibilita' con l'esigenza di assicurare la parita' delle armi tra
le parti  del  giudizio  (oggi  espressamente  consacrata  dal  testo
dell'art. 111, comma 2, Cost.,  come  modificato  dall'art.  1  legge
cost. n. 1 del 23/11/1999, e che  sarebbe  forse  possibile,  invero,
considerare quale  specificazione  del  piu'  generale  principio  di
eguaglianza - che e' concetto essenzialmente relazionale - calato  in
quella  particolare  relazione  tra  individui  che  e'  il  rapporto
processuale). Esigenza che, a sua volta, e' funzionale all'attuazione
del «giusto ["equo"] processo», espressamente menzionato,  oggi,  dal
testo vigente dell'art. 111 Cost., ma gia' in passato  implicitamente
sottinteso nell'art. 24. 
    Sotto altro profilo, poi, ma per ragioni del tutto  analoghe,  le
paventate conseguenze discriminatorie dell'applicazione dell'art. 130
D.P.R. n. 115/02  confliggono  con  l'effettivita'  del  «diritto  di
accesso al tribunale» e della «parita' delle armi»,  pure  garantiti,
secondo la consolidata  giurisprudenza  della  Corte  di  Strasburgo,
dall'art. 6, comma 1, CEDU. E, per tale via, si pongono  in  sospetto
contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost. (cf. Corte cost., sentt.
nn. 348 e 349 del 2007). 
    Secondo i principi affermati dalla  Corte  europea,  e'  facolta'
degli Stati contraenti regolamentare - e, quindi,  anche  limitare  -
l'esercizio dei diritti  garantiti  dalla  Convenzione,  mediante  le
disposizioni  dei  rispettivi  ordinamenti  interni.  Cio'  vale,  in
particolare, per quei diritti (come quelli di cui all'art. 6) che per
loro natura richiedono di essere disciplinati dalla legge.  Tuttavia,
il margine di apprezzamento nazionale - di  per  se',  comunque,  non
illimitato, e soggetto, nel  suo  concreto  esercizio,  al  controllo
ultimo del giudice europeo - deve esercitarsi nel  rispetto  dei  tre
canoni fondamentali della «base legale», dello  «scopo  legittimo»  e
della «necessita' in una societa' democratica». 
    Se non puo' esservi dubbio alcuno, nella  specie,  sull'esistenza
della «base legale»  (costituita,  appunto,  dalla  disposizione  qui
indubbiata), piu' problematico appare il  rispetto  delle  altre  due
condizioni. 
    Per  quanto  riguarda,  infatti,   lo   «scopo   legittimo»,   le
considerazioni gia' svolte inducono a dubitare della  sua  esistenza.
Quale dovrebbe essere,  invero,  il  fine  legittimo  perseguito  dal
legislatore nazionale, nel dimezzare i compensi (e, quindi, il valore
intrinseco, in  quanto  rappresentato,  anche  simbolicamente,  dalla
contropartita  monetaria)  di  prestazioni  professionali  rese   dal
difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello  Stato,  in
tutto e per tutto identiche (almeno in linea teorica) a quelle svolte
dal professionista retribuito dal cliente? In realta', l'unico  scopo
perseguito dal legislatore sembra  essere  quello  di  realizzare  un
risparmio (ed anzi, come si vedra', persino un guadagno) a  beneficio
dell'erario. Ma la Corte di Strasburgo ha piu' volte chiarito che  le
preoccupazioni di carattere  economico-finanziario  dello  Stato  non
bastano, da sole, a giustificare il sacrificio di  diritti  garantiti
dalla Convenzione e non integrano quindi, di per  se',  il  requisito
dello scopo legittimo. 
    Peraltro, le modalita' di  realizzazione  di  questo  scopo  sono
comunque tali da escludere la sussistenza di un  «giusto  equilibrio»
tra il peso imposto ai privati (parte e suo difensore) e le  esigenze
di  carattere  generale  al  cui  soddisfacimento  la  norma  sarebbe
preordinata. E cio',  non  soltanto  per  la  rilevante  sproporzione
quantitativa esistente tra prestazioni (identiche a quelle  richieste
e fornite dall'avvocato retribuito dal cliente) e compensi, ma  anche
perche', alquanto paradossalmente, la  riduzione  del  cinquanta  per
cento delle competenze liquidate al difensore opera - come meglio  si
dira' nel prossimo capitolo - anche nell'ipotesi  di  condanna  della
controparte soccombente al rimborso delle spese di lite: e quindi  in
una situazione in cui non vi sarebbe alcun depauperamento delle casse
dello Stato, creditore (ex art. 133 D.P.R. n. 115/02) del soccombente
per il  rimborso  di  quanto  liquidato  dal  giudice  e  corrisposto
all'avvocato della parte ammessa, risultata vincitrice. Appare quindi
insostenibile l'esistenza. di  quella  «necessita'  in  una  societa'
democratica» che, nel linguaggio della Convenzione, traduce il canone
della  proporzionalita'   e   della   ragionevolezza,   come   limiti
all'esercizio del potere discrezionale (o margine  di  apprezzamento)
dello Stato. 
    Prima di concludere su questo punto, e' opportuno rammentare  che
la citata ordinanza  n.  350/05,  pronunciando  anche  sulla  censura
allora  fondata  sull'art.   24   Cost.,   ha   precisato   «che   la
giurisprudenza di questa  Corte  e'  costante  nel  ritenere  che  la
garanzia costituzionale del diritto di  difesa  non  esclude,  quanto
alle sue modalita', la competenza del legislatore a darvi  attuazione
sulla base di scelte discrezionali non irragionevoli». Il  principio,
affermato - anche nei precedenti citati dall'ordinanza - in relazione
all'art. 24 Cost., potrebbe essere ugualmente invocato  in  relazione
all'art. 6  CEDU,  ai  fini  dell'applicazione  dell'art.  117  Cost.
Senonche', per l'appunto, e' proprio il  rispetto  del  canone  della
ragionevolezza, a sua volta sostanzialmente  coincidente  con  quello
della proporzionalita' utilizzato dalla Corte  europea,  che  appare,
nella fattispecie, carente: l'effetto  (ed  anzi:  lo  scopo  stesso)
dell'art. 130 del D.P.R. n. 115/02 non ha nulla a che vedere  con  le
scelte discrezionali del legislatore nell'attuazione del  diritto  di
difesa, ma incide, per cosi' dire ab externo, su di esso in  funzione
di considerazioni e finalita'  di  natura  economico-finanziaria  del
tutto  estranee  alla  disciplina  del  processo  ed  alle  modalita'
concrete di esercizio del diritto di difesa. 
    Peraltro,   l'estensione   della   discrezionalita'   legislativa
nell'attuazione dell'art. 24 Cost. andrebbe rimodulata tenendo  conto
del completamento e della specificazione dei  diritti  sinteticamente
inclusi e sottintesi, a seguito  della  modifica  dell'art.  111.  Il
quale - se, come ormai  la  giurisprudenza  e  la  migliore  dottrina
ammettono, non e'  un'inutile  ripetizione  di'  cio'  che  era  gia'
implicito nell'alt. 24 - definisce confini piu' precisi all'attivita'
del legislatore ordinario individuando quei settori del piu' ampio  e
generico diritto di difesa (o diritto al processo)  che  non  possono
essere oggetto di interventi limitativi. 
    E uno di questi e',  appunto,  il  diritto  alla  «parita'  delle
armi». 
  C.3. Sul sospetto di violazione dell'art. 53 Cost. 
    Infine, l'art. 130 D.P.R. n.  115/02  solleva  interrogativi  non
manifestamente infondati in relazione all'art. 53 Cost. 
    L'attivita' professionale prestata in giudizio dall'avvocato va a
vantaggio, bensi', dell'assistito, in modo  diretto,  ma  pure  della
collettivita' e per essa dello Stato, in quanto realizza  il  duplice
fine della legittima celebrazione del giudizio in  contraddittorio  e
dell'assolvimento del dovere solidaristico di  garanzia  dei  diritti
fondamentali ai non abbienti. L'utilita' economica di tale  attivita'
e' rappresentata, in termini  monetari,  dalla  somma  liquidata  dal
giudice, e corrisponde necessariamente all'intero ammontare  di  tale
somma, posto che il giudice l'ha determinata sulla  base  di  tariffe
legalmente approvate che, per definizione, traducono  la  valutazione
economica (fissa o variabile tra un minimo ed  un  massimo)  di  ogni
singola prestazione, effettuata in  via  preventiva  e  generale  dal
legislatore. 
    Ne consegue  che,  in  linea  di  principio,  l'avvocato,  avendo
fornito la propria prestazione, e' creditore della  controprestazione
nella misura (integrale) liquidata dal giudice. Di  tale  somma  egli
non  riceve,  pero',  che  il  50%,  per  effetto   dell'applicazione
dell'art. 130 D.P.R. n. 115/02. E  tale  quota  rappresenta  la  base
imponibile sulla quale viene (se del caso)  immediatamente  applicata
la ritenuta d'acconto, e che va ad aggiungersi alle altre entrate del
professionista per concorrere a  costituire,  con  esse,  il  reddito
imponibile complessivo sul quale verra' poi calcolata  l'imposta  sul
reddito  delle   persone   fisiche.   L'altra   meta'   della   somma
originariamente liquidata, pero', resta invece  nella  disponibilita'
dell'erario e realizza, a favore di esso, un'utilita'  economica,  in
termini  di  risparmio  di  spesa,  equivalente  a  quella   che   si
verificherebbe se l'avvocato, avendo ricevuto l'intera  somma,  fosse
poi tenuto a riversarne il 50% (in aggiunta  all'imposta  normalmente
calcolata sull'insieme dei suoi redditi) alle casse dello  Stato.  In
altre parole, sugli emolumenti relativi alla difesa  di  un  soggetto
ammesso al patrocinio a spese  dello  Stato  in  materia  civile,  il
professionista  versa  -  materialmente  -  l'imposta  ordinaria  sul
reddito calcolata, secondo la percentuale  applicabile,  sulla  quota
(50%) di onorari che effettivamente percepisce, ed  in  piu'  «versa»
(virtualmente) all'erario l'intero  ammontare  della  restante  quota
(l'altro  50%  dell'onorario,  liquidato  ma   non   percepito)   del
controvalore monetario che  rappresenta  l'utilita'  economica  della
propria prestazione professionale. 
    Siffatta attribuzione  patrimoniale  a  favore  dell'erario,  con
depauperamento del cittadino, ancorche' realizzata mediante una etera
operazione  contabile  e  prevista  da   una   legge   speciale   non
«tributaria» in senso stretto, e' del tutto  assimilabile  -  se  non
altro quoad effectum - ad un'entrata fiscale. 
    Cio' risulta ancor piu' evidente nell'ipotesi  in  cui  la  parte
ammessa al patrocinio a spese dello Stato sia risultata vittoriosa in
giudizio. In tal caso, infatti, il giudice, nel liquidare, ex art. 91
c.p.c., le spese di lite a carico della controparte, e nel condannare
il soccombente a corrispondere la somma liquidata  alle  casse  dello
Stato,  non  potrebbe   che   determinarne   l'ammontare   applicando
integralmente, senza alcuna dimidiazione, gli importi previsti  dalla
tariffa forense per le  attivita'  compiute  dal  difensore  (sarebbe
invero quanto meno problematico, per non dire impossibile,  applicare
la  norma  speciale  di  cui  all'art.  130  D.P.R.  n.  115102  alla
liquidazione delle spese a carico del soccombente,  e  quindi  al  di
fuori dell'ambito di operativita' suo proprio).  Con  la  conseguenza
che l'erario incassera' dal soccombente l'intera somma liquidata  dal
giudice,  ex  art.  91  c.p.c.,  ma   paghera'   all'avvocato,   come
corrispettivo per le prestazioni effettuate,  soltanto  la  meta'  di
quanto il soccombente sara' stato condannato a  versare,  trattenendo
il restante 50% delle somme ricevute, che  costituiscono  quindi  una
vera e propria entrata fiscale. 
    L'attribuzione patrimoniale che in ogni caso cosi' si realizza  a
favore dello Stato, la quale va ad aggiungersi all'imposta che dovra'
essere calcolata,  in  base  alle  aliquote  di  legge,  sulla  somma
effettivamente percepita dall'avvocato ed entrata a far parte del suo
reddito imponibile, prescinde del tutto da qualsiasi  considerazione,
anche astratta o meramente presuntiva,  della  capacita  contributiva
tanto del professionista quanto - eventualmente -  della  controparte
soccombente condannata alle spese di lite,  e  si  pone  pertanto  in
(sospetto) contrasto con l'art. 53, comma 1, Cost. 
D) Conclusione. 
    All'esito delle considerazioni svolte, ritiene questo giudice che
sia rilevante e non manifestamente infondata, in relazione a tutti  o
ad  alcuni  dei  diversi  parametri   invocati,   la   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art.  130  del  D.P.R.  n.  115  del
30/5/2002,  che  va  pertanto  rimessa  al   giudizio   della   Corte
costituzionale. 
    Le argomentazioni che precedono valgono - se valgono - anche  per
i consulenti tecnici di parte e - parzialmente -  per  gli  ausiliari
del giudice, anch'essi assoggettati alla dimidiazione dei compensi ex
art. 130. In relazione a tali figure,  per  vero,  la  questione  non
sarebbe   qui   rilevante.    Valutera'    l'eccellentissima    Corte
costituzionale, secondo il suo  prudente  apprezzamento,  se  -  come
crede il giudice a quo - l'illegittimita' costituzionale della  norma
debba essere non di meno dichiarata per l'intero,  o  soltanto  nella
parte in cui si riferisce ai difensori.