IL TRIBUNALE Ha pronunziato la seguente ordinanza. Con ricorso depositato in cancelleria in data 23 novembre 2010, Amorelli Giampiero, avvocato, gia' difensore del cittadino straniero Solomun Abebe, ammesso al patrocinio a spese dello Stato, nel procedimento civile iscritto al n. 11398/06, avente ad oggetto riconoscimento dello status di rifugiato, ha proposto opposizione, ex art. 170 d.P.R. n. 115/02, avverso il decreto in data 11 ottobre 2010, comunicato il 9 novembre 2010, con il quale, su sua istanza, il giudice istruttore aveva liquidato in 1.050,00 le sue competenze. Il ricorso, unitamente al pedissequo decreto di fissazione dell'udienza di comparizione, e' stato ritualmente notificato alle controparti del giudizio a quo, nonche' al Ministero della giustizia ed all'amministrazione finanziaria. Tra i molteplici motivi di doglianza, il ricorrente ha lamentato l'applicazione dell'art. 130 del citato d.P.R. n. 115/02 e la conseguente riduzione al 50% delle proprie competenze, operata dal giudice istruttore con l'impugnato decreto. In tale contesto, egli ha - sia pur in via subordinata rispetto ad altra argomentazione - sollevato dubbi di legittimita' costituzionale della predetta disposizione. Ritiene questo giudice che la questione sia rilevante e - sia pure per motivi in parte diversi da quelli esposti dal ricorrente - non manifestamente infondata, per le ragioni che seguono. A. Sul contenuto precettivo dell'art. 130 d.P.R. n. 115/02 e sulla possibilita' di una sua interpretazione costituzionalmente orientata. Preliminarmente, in ossequio ai piu' recenti - ed ormai consolidati - orientamenti della giurisprudenza costituzionale, e' opportuno esaminare la possibilita' di dare della disposizione denunciata un'interpretazione costituzionalmente conforme. L'esame puo' essere breve. Se mai vi fu, in diritto, quel clar in cui, secondo la tradizione, non fit interpretatio, ebbene l'art. 130 ne costituisce un eccellente esempio. La disposizione recita: «Gli importi spettanti al difensore [...] sono ridotti alla meta'». A meno, invero, di voler totalmente prescindere dal tenore testuale dell'enunciato normativo, non si vede in qual modo si potrebbe darne un'interpretazione diversa da quella che ne scaturisce a prima lettura: secondo la quale il giudice, nell'atto di quantificare gli onorari del difensore di una parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato nell'ambito di un procedimento civile, deve, una volta operata la liquidazione entro il limite degli importi medi previsti per lo scaglione di valore di riferimento, dividere il risultato per due ed attribuire al professionista soltanto la meta' del compenso liquidato. Piuttosto - ma e' cosa del tutto diversa - si potrebbe azzardare un'interpretazione del piu' ampio contesto normativo, nel quale si inserisce l'art. 130, tale da far ritenere irrilevante la questione di legittimita' costituzionale per intervenuta abrogazione della disposizione indubbiata: e' cio' che propone, in tesi principale, il ricorrente, sostenendo che il comma 2 dell'art. 2 («Disposizioni urgenti per la tutela della concorrenza nel settore dei servizi professionali») del D.L. 4 luglio 2006 n. 223, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006 n. 248 («Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonche' interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale»), nel disporre che «il giudice provvede alla liquidazione delle spese di giudizio e dei compensi professionali, in caso di liquidazione giudiziale e di gratuito patrocinio, sulla base della tariffa professionale», avrebbe tacitamente abrogato l'art. 130 d.P.R. n. 115/02. Senonche', la tesi non e' condivisibile. Il primo comma del citato art. 2 (modificato in sede di conversione), alla lettera a), ha abolito l'obbligatorieta' delle tariffe professionali fisse o minime, consentendo cosi' alle parti del contratto di prestazione d'opera intellettuale di pattuire compensi inferiori ai minimi, ed il successivo comma 2-bis, pure introdotto dalla legge di conversione, ha imposto la forma scritta per la validita' dei patti in deroga alle tariffe forensi. In questo contesto, risulta evidente che la ratio della disposizione, poc'anzi riferita, che impone al giudice di liquidare le spese di giudizio ed i compensi professionali degli avvocati in base alla tariffa approvata, ha il solo scopo di chiarire che la liberalizzazione risultante dagli altri due commi e' circoscritta ai rapporti di natura contrattuale tra professionista e cliente e non si estende alle ipotesi di liquidazione per provvedimento dell'autorita'. Tale conclusione appare confermata dalla circostanza che la norma in questione non si riferisce soltanto al gratuito patrocinio, ma ad ogni ipotesi di liquidazione giudiziale delle spese di lite (tipicamente, quella compiuta a carico del soccombente nella sentenza che conclude il giudizio di merito), indipendentemente dall'applicabilita' o meno dell'art. 130 d.P.R. n. 115/02: il che conferma l'esclusione di quel nesso logico tra le due disposizioni che giustificherebbe la conclusione dell'abrogazione tacita dell'una ad opera dell'altra. D'altro canto, la locuzione «sulla base della tariffa» non vale ad escludere l'operativita' di ulteriori criteri di calcolo, prescritti da altre disposizioni di legge, che modifichino il risultato ottenuto dalla sommatoria degli importi relativi alle voci tabellari, individuati secondo lo scaglione di valore applicabile. In altri termini, e' compiuta «sulla base della tariffa» anche quella liquidazione il cui risultato risenta anche dell'applicazione di' una diversa disposizione di legge destinata, appunto, a modificarlo. Viene cosi' a mancare quell'antinomia, tra l'art. 130 d.P.R. n. 115/02 e l'art. 2 D.L. 223/06 (come modificato in sede di conversione), che costituisce il presupposto dell'abrogazione tacita del primo ad opera del secondo. B. Sulla rilevanza e la legittimazione del giudice a quo. Cosi' confermata la perdurante vigenza dell'art. 130 d.P.R. n. 115/02, la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale risulta palese. Il giudice dell'opposizione e' chiamato a sindacare un provvedimento (il decreto di liquidazione) con il quale e' stata gia' fatta applicazione della disposizione denunciata e ad emettere, a conclusione del procedimento, ordinanza non appellabile, ma impugnabile per cassazione ex art. 111 Cost., avente efficacia di titolo esecutivo per il pagamento delle somme liquidate (art. 29 L. n. 794 del 1942). In caso di conferma del decreto, egli dovra' quindi avallare tale applicazione; mentre in caso di accoglimento del ricorso, nel procedere ad una nuova liquidazione, dovra' a sua volta dividere a meta' il risultato ed attribuire al professionista il 50% della somma liquidata. L'eventuale declaratoria d'incostituzionalita' dell'art. 130, invece, comporterebbe l'automatico annullamento del decreto che ne abbia fatto applicazione e l'attribuzione per intero della somma ulteriormente (ri)liquidata al professionista, ed inciderebbe cosi', in maniera evidente, sull'esito del giudizio. C. Sulla non manifesta infondatezza. L'art. 130 d.P.R. n. 115/02 solleva dubbi non manifestamente infondati di legittimita' costituzionale in relazione a quattro parametri: Part. 3 Cost., sotto piu' profili; gli artt. 24, in particolare commi 2 e 3, e 111, comma 1, Cost.; l'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 6, comma l, CEDU; l'art. 53, comma 1, Cost. C.1. Sul sospetto di violazione dell'art. 3 Cost. La disposizione denunciata appare in contrasto con Part. 3 sia sotto il profilo dell'ingiustificata disparita' di trattamento (tra avvocati e tra parti), sia sotto il profilo della violazione del canone di ragionevolezza. C.1.A. Disparita' di trattamento tra avvocati. C.1.A.i. Tra processo civile e processo penale. Con ordinanza n. 350 del 2005, la Corte costituzionale ebbe a dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 130 per contrasto, inter alia, con l'art. 3 cost. La decisione fu poi ribadita con ordinanza n. 201 dei 2006. Il tertium comparationis allora invocato dai giudici a quibus era il processo penale, sostenendosi da parte dei rimettenti che sarebbe stata ingiustificata la disparita' di trattamento, quanto alla misura dei compensi, tra difensori che prestano la loro attivita' a favore di soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato nel processo penale ed in quello civile. La Corte ha rigettato le questioni richiamando la propria giurisprudenza in tenia di incommensurabilita' tra i due modelli processuali, penale e civile (vengono citate, ex pluribus, le ordinanze n. 317/04, n. 500/02 e n. 429/98). Inoltre, la Corte ha ritenuto giustificata la differenza di trattamento «nella diversita' delle situazioni comparate (da una parte gli interessi civili, dall'altra le situazioni tutelate che sorgono per effetto dell'esercizio dell'azione penale»), citando, al riguardo, la sentenza n. 165 del 1993. La decisione merita, ad avviso di questo giudice, di essere rimeditata; e percio' la questione viene qui riproposta, in primo luogo, negli identici termini. Senza tediare la Corte con argomentazioni inevitabilmente ripetitive, ci si puo' limitare ad osservare brevemente che: nel ragionamento della Corte i due elementi teste richiamati (l'incomparabilita' dei modelli processuali e la diversita' di situazioni tutelate) sembrano avvinti da un nesso logico-argomentativo, nel senso che il secondo si presenta come uno specifico aspetto, o una specifica manifestazione, del primo: i due modelli processuali non sarebbero comparabili (anche) perche' le situazioni tutelate che entrano in giuoco nell'uno e nell'altro sono a loro volta diverse (ed incomparabili); oggetto del processo civile, tuttavia, possono essere - e spesso sono, come nel caso di specie - diritti fondamentali della persona, anche costituzionalmente tutelati, di non minore importanza e dignita' degli interessi che entrano in giuoco nel processo penale (e dello stesso diritto garantito dall'art. 13 Cost.); mentre, per converso, il processo penale non necessariamente ha ad oggetto fatti che possano comportare, per l'imputato, una privazione, o anche soltanto una limitazione, della liberta' personale, o comunque, per l'imputato stesso o per il soggetto passivo, conseguenze di gravita' superiore a quelle di una causa civile in materia (ad esempio) di diritti della personalita', di diritto di famiglia, di diritto d'asilo, ecc.; la distanza tra i due modelli processuali - almeno per quanto attiene all'importanza ed al rilievo costituzionale dei rispettivi oggetti - e' quindi, forse, meno ampia di quanto la Corte non abbia ritenuto con le citate ordinanze, e non tale da giustificare una differenza - peraltro consistente - tra gli emolumenti spettanti all'avvocato in penale ed in civile; d'altro canto, anche a voler ammettere che le situazioni soggettive tutelate, rispettivamente, nel processo penale ed in quello civile siano - sempre e sistematicamente - incommensurabili, cio' riguarderebbe soltanto le parti e i loro contrapposti diritti ed interessi, non certo i loro difensori ed il (distinto e diverso) diritto che essi maturano a veder adeguatamente remunerate le loro prestazioni; diritto che, a sua volta, e' funzione della quantita' e qualita' delle stesse, piu' che delle situazioni soggettive degli assistiti. Permane quindi, pur dopo ie citate ordinanze di codesta eccellentissima Corte, un non manifestamente infondato dubbio di legittimita' costituzionale in relazione all'art. 3 Cost., sotto questo primo aspetto. C.1.A.i.i. Nel processo civile. Vi e' poi un secondo aspetto di irragionevolezza e/o di violazione del principio di eguaglianza, che si svolge interamente all'interno del processo civile. I compensi (onorari e diritti) dovuti agli avvocati sono funzione delle prestazioni lavorative autonome dagli stessi rese. La loro quantificazione (operata, per le voci a tariffa fissa, gia' in sede normativa, e, per quelle a tariffa variabile, in sede giudiziale), per disposto normativo e, prima ancora, per ragioni logiche, dipende (lo si e' gia' accennato poc'anzi) da fattori inerenti, oltre che all'oggetto (valore della controversia e sua importanza per la parte), alla natura ed al contenuto di tali prestazioni: complessita' delle questioni trattate (e conseguente difficolta' dell'opera), quantita' dell'attivita' prestata (e, quindi, del correlativo dispendio di tempo e di energie), utilita' delle singole prestazioni e loro qualita' intrinseca, risultati ottenuti. Nessuno di questi fattori di valutazione puo' in alcun modo risentire della circostanza che a pagare il compenso sia, direttamente e di tasca propria, il diretto interessato, o, in sua vece, un terzo (l'erario) che si accolla (peraltro, nella specie, non per spirito di liberalita', ma in adempimento di un dovere di solidarieta' sociale che costituisce uno dei compiti essenziali dello stato democratico costituzionale) l'onere economico della difesa in giudizio. Non sembra che vi sia, quindi, alcuna ragionevole giustificazione, ne' per l'oggettivo svilimento (in termini assoluti) del valore delle prestazioni dell'avvocato, quando il cliente sia ammesso al patrocinio a spese dello Stato (violazione del canone di ragionevolezza), ne' per la devalorizzazione (in termini relativi) di identiche prestazioni rispetto a quelle rese dal collega difensore di una parte (in ipotesi, anche l'avversario nello stesso processo) non ammessa a tale beneficio (violazione del principio di eguaglianza). Di qui, un non manifestamente infondato sospetto di violazione dell'art. 3 Cost., anche sotto il diverso profilo dell'irragionevole disparita' di trattamento tra avvocati all'interno del processo civile (e addirittura, come meglio si dira' oltre, dello stesso processo). C.1.B. Disparita' di trattamento tra parti. L'irragionevole ed ingiustificata svalutazione, quantitativamente assai rilevante (tanto piu' se si tiene conto del notevole ritardo con cui, in pratica, vengono corrisposti agli avvocati gli onorari del patrocinio a spese dello Stato), delle prestazioni professionali del difensore, risultante dall'applicazione dell'art. 130 d.P.R. n. 115/02, inevitabilmente costituisce un disincentivo, per i professionisti, all'assunzione dell'ufficio di difensore dei non abbienti. Con cio', non si vuoi minimamente ascrivere alla categoria forense una particolare propensione alla venalita', ne' sottovalutare l'impegno di elevato valore morale e sociale che, in tanti casi, gli avvocati profondono nell'esercizio della professione. Anzi, preme sottolineare come, spesso, proprio i professionisti che assistono i non abbienti, in particolare nelle controversie civili di piu' alto profilo umano (in materia, ad esempio, di status di rifugiato) siano presumibilmente mossi da motivazioni di natura etica, solidaristica, ideologica, e comunque non meramente lucrativa. Non di meno, l'attivita' di avvocato e' pur sempre un lavoro, con il quale il professionista si procura le risorse per far fronte alle esigenze vitali sue e, almeno in parte, della sua famiglia. E' quindi del tutto logico, e per nulla riduttivo della dignita' della categoria, che la prospettiva di remunerativita' di un incarico entri nel novero dei fattori che determineranno il professionista ad accettarlo oppure no. Ne consegue che, secondo una proiezione statistica agevole, basta sulla comune esperienza dell'id quod plerumque accidit, il parterre degli avvocati tra i quali, in concreto, il non abbiente potra' scegliere il suo difensore, sara' numericamente piu' ristretto di quello che si offre alla scelta di chi, invece, puo' permettersi di retribuire direttamente l'avvocato (basti pensare, a titolo meramente esemplificativo, che gli iscritti nello speciale elenco degli avvocati patrocinatori a spese dello Stato dell'Ordine di Roma, e con studio nella citta' di Roma, risultano essere 5.193: un numero ragguardevole, ma pur sempre meno di un quarto del totale degli iscritti del distretto, con studio in Roma, che sono 22.669). Ora, questo potra', in parte, dipendere da fattori che non dipendono dall'applicazione dell'art. 130 del d.P.R. n. 115/02; resta vero, pero', che questa disposizione, peggiorando notevolmente, sul piano quantitativo, le prospettive retributive dell'avvocato che esercita in materia civile, aggrava in misura significativa la gia' scarsa appetibilita' degli incarichi di' patrocinio a spese dello Stato. Ne discende che il non abbiente si trova a dover scegliere il proprio difensore in condizioni deteriori rispetto alla generalita' dei "justiciables" e tale differenza non sembra trovare alcuna plausibile ragione giustificatrice: anzi, concreta precisamente uno dei casi (le condizioni economiche), espressamente elencati dalla Costituzione, in cui la discriminazione e' specificamente ipotizzata e vietata e, pertanto, "sospetta" a priori d'illiceita'. Ne' si dica che le differenze di disponibilita' economiche sono una realta' deplorevole ma ineliminabile che produce, inevitabilmente, talune conseguenze negative o limitative anche sul concreto esercizio dei diritti: cio' e' perfettamente vero, ma, nel caso di specie, il diverso grado di godimento di un diritto fondamentale (quello garantito dall'art. 24 cost. e dall'art. 6 CEDU, sul quale si tornera' tra breve) non e' conseguenza diretta e, per dir cosi', "naturale" della differenza di condizioni economiche tra gli individui (come sarebbe se l'avvocato della parte ammessa al beneficio fosse pagato secondo tariffa, allorche' un altro, nella libera contrattazione con un cliente danaroso, potrebbe spuntare onorari assai piu' elevati), bensi' frutto di una scelta discrezionale (anzi, arbitraria, perche' priva di razionale giustificazione e contraria al canone di ragionevolezza) dei legislatore. Insomma, in questo caso, la Repubblica non soltanto non ha assolto al compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico [...]» che limitano «di fatto [...] l'eguaglianza dei cittadini», ma anzi si e' adoperata, per mezzo dei propri organi legislativi, per drizzare un siffatto ostacolo, cola' dove non esisteva e dove non aveva ragione di esistere, al pieno esercizio, da parte di tutti, in condizioni di parita', del diritto costituzionalmente garantito di agire e di difendersi in giudizio (e fors'anche, di riflesso, all'esercizio di quei diritti, anch'essi, a volte, fondamentali, che il giudizio stesso avrebbe dovuto assicurare). C.2. Sul sospetto di violazione dell'eguaglianza nel processo (parita' delle armi), in contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., nonche' con l'art. 117 cost. in relazione all'art. 6 CEDU. La rilevata disparita' di trattamento, sotto il profilo delle possibilita' di scelta del difensore, tra soggetti che, rispettivamente, possono o non possono permettersi di retribuirlo personalmente, assume un piu' concreto e pregnante risalto ove si consideri che essa si manifesta non soltanto in astratto, tra un qualsiasi "non abbiente" ed un qualsiasi altro individuo, ma anche in concreto, tra la parte A e la parte B, tra l'attore ed il convenuto, nel medesimo processo. Cosi' riguardata, la (generica) disparita' di trattamento descritta poc'anzi in relazione all'art. 3 cost. acquista i contorni (assai piu' specifici e concreti) di una differenza di posizioni di forza all'interno del procedimento che si va svolgendo davanti al giudice. Siffatta differenza, frutto - giova ribadire - non gia' di un'inevitabile situazione di fatto, bensi' di una scelta del legislatore, non giustificata da ragioni apprezzabili sul piano della ragionevolezza, solleva un dubbio non manifestamente infondato di compatibilita' con l'esigenza di assicurare la parita' delle armi tra le parti del giudizio (oggi espressamente consacrata dal testo dell'art. 111, comma 2, Cosi, come modificato dall'art. 1 L. cost. n. 1 del 23 novembre 1999, e che sarebbe forse possibile, invero, considerare quale specificazione del piu' generale principio di eguaglianza - che e' concetto essenzialmente relazionale - calato in quella particolare relazione tra individui che e' il rapporto processuale). Esigenza che, a sua volta, e' funzionale all'attuazione del «giusto ["equo") processo», espressamente menzionato, oggi, dal testo vigente dell'art. 111 Cost., ma gia' in passato implicitamente sottinteso nell'art. 24. Sotto altro profilo, poi, ma per ragioni del tutto analoghe, le paventate conseguenze discriminatorie dell'applicazione dell'art. 130 d.P.R. n. 115/02 confliggono con l'effettivita' del "diritto di accesso al tribunale" e della "parita' delle armi", pure garantiti, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, dall'art. 6, comma 1, CEDU. E, per tale via, si pongono in sospetto contrasto con l'art. 117, primo comma, cost. (cf. Corte cost., sentt. nn. 348 e 349 del 2007). Secondo i principi affermati dalla Corte europea, e' facolta' degli Stati contraenti regolamentare - e, quindi, anche limitare -- l'esercizio dei diritti garantiti dalla Convenzione, mediante le disposizioni dei rispettivi ordinamenti interni. Cio' vale, in particolare, per quei diritti (come quelli di cui all'art. 6) che per loro natura richiedono di essere disciplinati dalla legge. Tuttavia, il margine di apprezzamento nazionale - di per se', comunque, non illimitato, e soggetto, nel suo concreto esercizio, al controllo ultimo del giudice europeo - deve esercitarsi nel rispetto dei tre canoni fondamentali della «base legale», dello «scopo legittimo» e della «necessita' in una societa' democratica». Se non puo' esservi dubbio alcuno, nella specie, sull'esistenza della «base legale» (costituita, appunto, dalla disposizione qui indubbiata), piu' problematico appare il rispetto delle altre due condizioni. Per quanto riguarda, infatti, lo «scopo legittimo», le considerazioni gia' svolte inducono a dubitare della sua esistenza. Quale dovrebbe essere, invero, il fine legittimo perseguito dal legislatore nazionale, nel dimezzare i compensi (e, quindi, il valore intrinseco, in quanto rappresentato, anche simbolicamente, dalla contropartita monetaria) di prestazioni professionali rese dal difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, in tutto e per tutto identiche (almeno in linea teorica) a quelle svolte dal professionista retribuito dal cliente? In realta', l'unico scopo perseguito dal legislatore sembra essere quello di realizzare un risparmio (ed anzi, come si vedra', persino un guadagno) a beneficio dell'erario. Ma la Corte di Strasburgo ha piu' volte chiarito che le preoccupazioni di carattere economico-finanziario dello Stato non bastano, da sole, a giustificare il sacrificio di diritti garantiti dalla Convenzione e non integrano quindi, di per se', il requisito dello scopo legittimo. Peraltro, le modalita' di' realizzazione di questo scopo sono comunque tali da escludere la sussistenza di un «giusto equilibrio» tra il peso imposto ai privati (parte e suo difensore) e le esigenze di carattere generale al cui soddisfacimento la norma sarebbe preordinata. E cio', non soltanto per la rilevante sproporzione quantitativa esistente tra prestazioni (identiche a quelle richieste e fornite dall'avvocato retribuito dal cliente) e compensi, ma anche perche', alquanto paradossalmente, la riduzione del cinquanta per cento delle competenze liquidate al difensore opera - come meglio si dira' nel prossimo capitolo - anche nell'ipotesi di condanna della controparte soccombente al rimborso delle spese di lite: e quindi in una situazione in cui non vi sarebbe alcun depauperamento delle casse dello Stato, creditore (ex art. 133 d.P.R. n. 115/02) del soccombente per il rimborso di quanto liquidato dal giudice e corrisposto all'avvocato della parte ammessa, risultata vincitrice. Appare quindi insostenibile l'esistenza di quella «necessita' in una societa' democratica» che, nel linguaggio della Convenzione, traduce il canone della proporzionalita' e della ragionevolezza, come limiti all'esercizio del potere discrezionale (o margine di' apprezzamento) dello Stato. Prima di concludere su questo punto, e' opportuno rammentare che la citata ordinanza n. 350/05, pronunciando anche sulla censura allora fondata sull'art. 24 Cost., ha precisato «che la giurisprudenza di questa Corte e' costante nel ritenere che la garanzia costituzionale del diritto di difesa non esclude, quanto alle sue modalita', la competenza del legislatore a darvi attuazione sulla base di scelte discrezionali non irragionevoli». Il principio, affermato - anche nei precedenti citati dall'ordinanza - in relazione all'art. 24 Cost., potrebbe essere ugualmente invocato in relazione all'art. 6 CEDU, ai fini dell'applicazione dell'art. 117 cost. Senonche', per l'appunto, e' proprio il rispetto del canone della ragionevolezza, a sua volta sostanzialmente coincidente con quello della proporzionalita' utilizzato dalla Corte europea, che appare, nella fattispecie, carente: l'effetto (ed anzi: lo scopo stesso) dell'art. 130 del d.P.R. n. 115/02 non ha nulla a che vedere con le scelte discrezionali del legislatore nell'attuazione del diritto di difesa, ma incide, per cosi' dire ab externo, su di esso in funzione di considerazioni e finalita' di natura economico-finanziaria del tutto estranee alla disciplina del processo ed alle modalita' concrete di esercizio del diritto di difesa. Peraltro, l'estensione della discrezionalita' legislativa nell'attuazione dell'art. 24 cost. andrebbe rimodulata tenendo conto del completamento e della specificazione dei diritti ivi sinteticamente inclusi e sottintesi, a seguito della modifica dell'art. 111. Il quale - se, come ormai la giurisprudenza e la migliore dottrina ammettono, non e' un'inutile ripetizione di cio' che era gia' implicito nell'art. 24 - definisce confini piu' precisi all'attivita' del legislatore ordinario individuando quei settori del piu' ampio e generico diritto di difesa (o diritto al processo) che non possono essere oggetto di interventi limitativi. E uno di questi e', appunto, il diritto alla "parita' delle armi". C.3. Sul sospetto di violazione dell'art. 53 Cost. Infine, l'art. 130 d.P.R. n. 115/02 solleva interrogativi non manifestamente infondati in relazione all'art. 53 Cost. L'attivita' professionale prestata in giudizio dall'avvocato va a vantaggio, bensi', dell'assistito, in modo diretto, ma pure della collettivita' e per essa dello Stato, in quanto realizza il duplice fine della legittima celebrazione del giudizio in contraddittorio e dell'assolvimento del dovere solidaristico di garanzia dei diritti fondamentali ai non abbienti. L'utilita' economica di tale attivita' e' rappresentata, in termini monetari, dalla somma liquidata dal giudice, e corrisponde necessariamente all'intero ammontare di tale somma, posto che il giudice l'ha determinata sulla base di tariffe legalmente approvate che, per definizione, traducono la valutazione economica (fissa o variabile tra un minimo ed un massimo) di ogni singola prestazione, effettuata in via preventiva e generale dal legislatore. Ne consegue che, in linea di principio, l'avvocato, avendo fornito la propria prestazione, e' creditore della controprestazione nella misura (integrale) liquidata dal giudice. Di tale somma egli non riceve, pero', che il 50%, per effetto dell'applicazione dell'art. 130 d.P.R. n. 115/02. E tale quota rappresenta la base imponibile sulla quale viene (se del caso) immediatamente applicata la ritenuta d'acconto, e che va ad aggiungersi alle altre entrate del professionista per concorrere a costituire, con esse, il reddito imponibile complessivo sul quale verra' poi calcolata l'imposta sul reddito delle persone fisiche. L'altra meta' della somma originariamente liquidata, pero', resta invece nella disponibilita' dell'erario e realizza, a favore di esso, un'utilita' economica, in termini di risparmio di spesa, equivalente a quella che si verificherebbe se l'avvocato, avendo ricevuto l'intera somma, fosse poi tenuto a riversarne il 50% (in aggiunta all'imposta normalmente calcolata sull'insieme dei suoi redditi) alle casse dello Stato. In altre parole, sugli emolumenti relativi alla difesa di un soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato in materia civile, il professionista versa - materialmente - l'imposta ordinaria sul reddito calcolata, secondo la percentuale applicabile, sulla quota (50%) di onorari che effettivamente percepisce, ed in piu' "versa" (virtualmente) all'erario l'intero ammontare della restante quota (l'altro 50% dell'onorario, liquidato ma non percepito) del controvalore monetario che rappresenta l'utilita' economica della propria prestazione professionale. Siffatta attribuzione patrimoniale a favore dell'erario, con depauperamento del cittadino, ancorche' realizzata mediante una mera operazione contabile e prevista da una legge speciale non "tributaria" in senso stretto, e' del tutto assimilabile - se non altro quoad effectum - ad un'entrata fiscale. Cio' risulta ancor piu' evidente nell'ipotesi in cui la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato sia risultata vittoriosa in giudizio. In tal caso, infatti, il giudice, nel liquidare, ex art. 91 C.P.C., le spese di lite a carico della controparte, e nel condannare il soccombente a corrispondere la somma liquidata alle casse dello Stato, non potrebbe che determinarne l'ammontare applicando integralmente, senza alcuna dimidiazione, gli importi previsti dalla tariffa forense per le attivita' compiute dal difensore (sarebbe invero quanto meno problematico, per non dire impossibile, applicare la norma speciale di cui all'art. 130 d.P.R. n. 115/02 alla liquidazione delle spese a carico del soccombente, e quindi al di fuori dell'ambito di operativita' suo proprio). Con la conseguenza che l'erario incassera' dal soccombente l'intera somma liquidata dal giudice, ex art. 91 C.P.C., ma paghera' all'avvocato, come corrispettivo per le prestazioni effettuate, soltanto la meta' di quanto il soccombente sara' stato condannato a versare, trattenendo il restante 50% delle somme ricevute, che costituiscono quindi una vera e propria entrata fiscale. L'attribuzione patrimoniale che in ogni caso cosi si realizza a favore dello Stato, la quale va ad aggiungersi all'imposta che dovra' essere calcolata, in base alle aliquote di legge, sulla somma effettivamente percepita dall'avvocato ed entrata a far parte del suo reddito imponibile, prescinde del tutto da qualsiasi considerazione, anche astratta o meramente presuntiva, della capacita' contributiva tanto del professionista quanto - eventualmente - della controparte soccombente condannata alle spese di lite, e si pone pertanto in (sospetto) contrasto con l'art. 53, comma l Cost. D) Conclusione. All'esito delle considerazioni svolte, ritiene questo giudice che sia rilevante e non manifestamente infondata, in relazione a tutti o ad alcuni dei diversi parametri invocati, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 130 del d.P.R. n. 115 del 30 maggio 2002, che va pertanto rimessa al giudizio della Corte costituzionale. Le argomentazioni che precedono valgono - se valgono - anche per i consulenti tecnici di parte e - parzialmente - per gli ausiliari del giudice, anch'essi assoggettati alla dimidiazione dei compensi ex art. 130. In relazione a tali figure, per vero, la questione non sarebbe qui rilevante. Valutera' l'eccellentissima Corte costituzionale, secondo il suo prudente apprezzamento, se - come crede il giudice a quo - costituzionale della norma debba essere non di meno dichiarata per l'intero, o soltanto nella parte in cui si riferisce ai difensori.