IL TRIBUNALE Riunito in camera di consiglio, sciogliendo la riserva assunta il 21 giugno 2011, ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento di prevenzione nei confronti di Ginex Maria Giovanna, Messina Francesco, Messina Maria, Gucciardo Alfonso, Messina Giuseppina, Burgio Calogero, Messina Giuseppe, Fuca' Rosalia, Messina Tiziana, successori a titolo universale di Messina Arturo, nato a Agrigento 1'8 dicembre 1945, deceduto il 13 aprile 2008, su proposta della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo - Sezione Misure di Prevenzione dell'8 aprile 2009 (pervenuta il 15 aprile 2010) di applicazione della misura di prevenzione della confisca dei beni gia' appartenuti al defunto e pervenuti per successione ereditaria; Visto il decreto di sequestro n. 19/2010 del 5 luglio 2010, adottato da questo Tribunale a norma degli artt. 2-bis c. 6-bis e 2-ter c. 11 legge 31 maggio 1965, n. 575; Esaminati gli atti; Preso atto delle conclusioni formulate in udienza dalle parti in ordine alla misura di prevenzione richiesta: il P.M., riportandosi alla proposta, ha insistito per la confisca dei beni; la difesa ha chiesto il rigetto della proposta ed il dissequestro dei beni; Dato atto che la difesa ha eccepito costituzionale dell'art. 2-bis c. 6-bis legge n. 575/1965; Ritenuto necessario sospendere la deliberazione al fine di sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2-bis c. 6-bis legge n. 575/1965 e dell'art. 2-ter c. 11 legge n. 575/1965; Osserva Il procedimento La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo - Sezione Misure di Prevenzione, in data 8 aprile 2009, ha proposto a questo Tribunale l'adozione della misura di prevenzione patrimoniale (sequestro e successiva confisca) dei beni ritenuti gia' nella disponibilita' di Messina Arturo, nato ad Agrigento 1'8 dicembre 1945, deceduto il 13 aprile 2008. L'Autorita' proponente ha evidenziato la sussistenza della pericolosita' sociale di Messina, gia' positivamente riscontrata da questo Tribunale, che con decreto del 23 maggio 2000 (def. 10 luglio 2002) gli aveva applicato la misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno per la durata di anni quattro, ritenendolo soggetto appartenente all'organizzazione criminale di stampo mafioso denominata «Cosa Nostra». Sono stati, poi, evidenziati gli esiti di alcuni processi penali che si sono conclusi con altrettante condanne definitive di Messina e che hanno acclarato la sua affiliazione alla predetta organizzazione criminale ed, in particolare, alla sua articolazione territoriale («famiglia») operante nel territorio di Agrigento-Villaseta, sino a raggiungervi il ruolo di vertice. Si tratta, in particolare: 1. della sentenza adottata dalla Corte d'Appello di Palermo il 20 giugno 1990, irrevocabile il 28 giugno 1991 (in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Agrigento del 23 luglio 1987), nella quale Messina Arturo e' stato condannato alla pena di anni 4 e mesi 6 di reclusione per il reato di cui all'art. 416-bis c.p., commesso nel 1985; 2. della sentenza adottata dalla Corte d'Appello di Palermo 1'8 febbraio 2001, irrevocabile il 12 aprile 2002 (in parziale riforma della sentenza del GIP del Tribunale di Palermo del 18 gennaio 2000), nella quale Messina Arturo e' stato condannato alla pena di anni 7 e mesi 4 di reclusione e £ 18.000.000 di multa, tra gli altri, per i reato di estorsione continuata e danneggiamento, commessi dal 3 febbraio 1994 al 9 marzo 1998; 3. soprattutto, della sentenza adottata dalla Corte d'Assise d'Appello di Palermo il 22 marzo 2003, irrevocabile l'11 ottobre 2004 (in parziale riforma della sentenza della Corte d'Assise di Agrigento del 18 luglio 2001 cd. «Akragas»), con la quale Messina e' stato condannato all'ergastolo con isolamento diurno per 18 mesi, per associazione di stampo mafioso omicidio, porto e detenzione di armi; commessi tra il 1993 ed il 1999, sentenza nella quale e' stata esaminata la posizione di oltre 50 imputati ed e' stato ricostruito l'organigramma delle due associazioni di stampo mafioso (Cosa Nostra e Stidda) che, tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90, si sono fronteggiate in una sanguinosa guerra per il controllo delle attivita' criminali nella provincia di Agrigento. In tale sentenza, e' stata non solo accertato il ruolo di capo del mandamento mafioso di Agrigento e di vice capo della provincia mafiosa di Agrigento del proposto in quegli anni, ma anche il suo ruolo di mandante ed organizzatore di alcuni omicidi commessi nell'ambito della predetta guerra di mafia. 4. Infine, la sentenza della Corte d'Appello di Palermo del 25 marzo 2005, irrevocabile il 10 novembre 2006, con la quale Messina Arturo e' stato condannato alla pena della reclusione per anni 11 e alla multa di € 2.000,00, per il delitto di estorsione continuata, aggravata dal metodo mafioso, commesso tra il 1997 ed il 1999. A fronte di tali emergenze, il Tribunale ha senz'altro ritenuto integrato il presupposto soggettivo della pericolosita' «qualificata», richiesto per l'applicazione delle misure di prevenzione sia personali che patrimoniali. La Procura ha richiesto la misura patrimoniale sulla base del disposto dell'art. 2-ter c. 11 della legge n. 575/1965, introdotto dal d.l. 92/2008, che prevede che «la confisca puo' essere proposta, in caso di morte del soggetto nei confronti del quale potrebbe essere disposta, nei riguardi dei successori a titolo universale o particolare, entro il termine di cinque anni dal decesso». Conformemente a tale dettato normativo, sono stati individuati come eredi la moglie di Messina Arturo (Ginex Maria Giovanna) ed i figli (Messina Francesco, Messina Maria, Messina Giuseppina, Messina Giuseppe e Messina Tiziana) ed e' stato richiesto il sequestro anticipato di numerosi beni (immobili, mobili registrati, rapporti bancari ed assicurativi, nonche' un'azienda di panificazione) intestati ai predetti, pervenuti sia iure successionis, sia per donazione dal de cuius, sia, infine, acquistati in base ad altro titolo da terzi estranei. In tale modo, la proposta e' stata estesa anche a beni non rientranti nella successione ereditaria e acquistati dai figli di Messina autonomamente, alcuni dei quali cointestati ai rispettivi coniugi (Gucciardo Alfonso, marito di Messina Maria; Burgio Calogero, marito di Messina Giuseppina; Fuca' Rosalia, moglie di Messina Giuseppe). Il Tribunale ha parzialmente accolto la proposta di sequestro anticipato, escludendo i beni risultanti nella titolarita' esclusiva dei coniugi dei figli di Messina Arturo. Nel corso del procedimento camerale, piu' volte rinviato su richiesta della difesa, e' stata acquisita su supporto informatico la sentenza della Corte d'Assise di Agrigento del 18 luglio 2001 (cd. «Akragas»). Inoltre, sono stati prodotti documenti solo con riferimento ad un immobile sequestrato a Messina Giuseppina ed a Burgio Calogero (cfr. istanza di dissequestro depositata il 27 luglio 2010), ancorche' piu' volte il difensore abbia rappresentato di avere in corso una ricerca documentale ed anticipato di voler produrre un elaborato tecnico. Nel corso dell'udienza di conclusione, i difensori degli eredi hanno sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'intero comma 6-bis dell'art. 2-ter della legge n. 575/1965, per contrasto con gli artt. 24, 27, 42 e 111 della Costituzione, depositando memoria illustrativa delle ragioni della ritenuta illegittimita'. L'eccezione di illegittimita' costituzionale sollevata dalla difesa con riferimento all'art. 2-bis c. 6-bis legge n. 575/1965. La difesa degli eredi di Messina Arturo ha sollevato l'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'intero comma 6-bis dell'art. 2-bis della legge n. 575/1965, per contrasto con gli artt. 24, 27, 42 e 111 della Costituzione. Ad avviso della difesa il sistema delle misure di prevenzione delineato a seguito delle riforme legislative dell'art. 2-bis legge n. 575/1965 (operate dalla legge 24 luglio 2008, n. 125 e dalla legge 15 luglio 2009, n. 94) si porrebbe, anzitutto, in netto contrasto con l'art. 111 Cost. Secondo il difensore, infatti, la separazione della misura patrimoniale da quella personale avrebbe modificato la natura della confisca di prevenzione: da misura di carattere preventivo o amministrativo, essa sarebbe divenuta una vera e propria sanzione penale, con conseguente necessita' di applicare i principi costituzionali del giusto processo e della parita' tra accusa e difesa. La difesa, dopo aver richiamato brevemente i recenti interventi della Corte di cassazione SS.UU. n. 13426 del 25 marzo 2010 (che ha sancito il principio della inutilizzabilita' anche nel procedimento di prevenzione delle intercettazioni disposte in violazione di legge) e della Corte costituzionale n. 93/2010 (che ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4 legge n. 1423/1956 e dell'art. 2-ter legge n. 575/1965, nella parte in cui non consentono al proposto di richiedere che il procedimento di prevenzione si svolga con le forme della pubblica udienza), argomenta la violazione dell'art. 111 Cost. in base alla considerazione che il procedimento di prevenzione si basi «su presunzioni atte ad intervenire su fatti sostanzialmente delittuosi dei quali non e' richiesta alcuna prova» ed, in particolare, con riferimento alla posizione degli eredi, sulla presunzione della illecita provenienza dei beni pervenuti iure successionis. L'esistenza di siffatta presunzione, che sino all'esistenza in vita del proposto determinerebbe solo una inversione dell'onere della prova (secondo la difesa, gia' di per se' violativa del principio di presunzione di non colpevolezza e del diritto di tacere del reo e, pertanto, in contrasto con l'art. 27 Cost.), si trasformerebbe, in caso di procedimento nei confronti degli eredi, in una vera e propria presunzione iuris et de iure, stante la difficolta' di dimostrare la legittima provenienza dei beni del de cuius dovute al decorso del tempo ed all'impossibilita' oggettiva di avvalersi delle conoscenze dello stesso circa la formazione del patrimonio. Sotto questo profilo, la disposizione contrasterebbe, oltre che «con l'art. 111 Cost. e con l'art. 27 Cost., anche con l'art. 24 Cost., posto che - secondo la difesa - l'autonomia delle misure patrimoniali rispetto a quelle personali consentirebbe di operare il sequestro in assenza di qualunque prognosi di pericolosita' sociale e senza alcun accertamento di responsabilita' penale. Infine, le misure di prevenzione patrimoniali in caso di morte del reo contrasterebbero con l'art. 42 Cost. sia con riferimento alla tutela della proprieta', sia con riferimento alla liberta' di iniziativa economica privata (potendo colpire anche imprese, come e' nel caso di specie), perche' determinerebbero una ingiustificata aggressione di un patrimonio solo sulla base di una presunta, ma non pienamente dimostrata (giacche' basata solo su indizi) origine illecita, a prescindere dalla lecita destinazione finale del bene. La rilevanza della questione e la sua estensione all'art. 2-ter c. 11 legge n. 575/1965 Va doverosamente premesso che molte delle argomentazioni utilizzate dalla difesa nel prospettare l'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 2-bis c. 6-bis legge n. 575/1965 sono da tempo state sottoposte all'attenzione della Corte costituzionale e risolte con la dichiarazione di infondatezza delle relative questioni di legittimita' (v. infra, nella parte relativa alla valutazione della non manifesta infondatezza). Purtuttavia, l'eccezione ha offerto lo spunto al Collegio per una riflessione sulla portata della innovazione legislativa e sulla compatibilita' con il dettato costituzionale delle disposizioni che consentono l'applicazione delle misure patrimoniali nei confronti degli eredi. Ritiene, dunque, il Collegio che (sia pure per ragioni differenti, come si vedra') l'eccezione possa essere, in parte, considerata rilevante e che, conseguentemente, debba essere sollevata questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2-bis c. 6-bis legge n. 575/1965, nella parte in cui consente di attivare la procedura di prevenzione patrimoniale nei confronti di un soggetto deceduto prima della formulazione della richiesta, per contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost. Va osservato, in primo luogo, che la disposizione ritenuta illegittima dalla difesa e' solo in parte riferibile al caso di specie, posto che essa contiene l'enunciazione generale della possibile applicazione disgiunta delle misure di prevenzione personale e patrimoniale, della quale la proposta d'applicazione della misura di prevenzione patrimoniale agli eredi costituisce una delle ipotesi conseguenti. Puo', infatti, farsi luogo all'applicazione della sola misura patrimoniale anche in altre ipotesi: nei casi specificamente disciplinati di assenza, residenza o dimora all'estero (art. 2-ter c. 7 legge n. 575/1965) e di applicazione di misure di sicurezza (art. 2-ter c. 8 legge n. 575/1965) - nei quali, stante il mancato mutamento della lettera delle disposizioni, dovra' valutarsi se sia ancora necessaria l'attivazione del procedimento di prevenzione personale -, in caso di precedente applicazione della misura personale o di sua completa esecuzione, ovvero di impossibilita' di applicazione della misura personale per cessazione della pericolosita' sociale (tipico e' il caso dei collaboratori di giustizia) o per morte del proposto intervenuta nel corso del procedimento o, infine, per morte del soggetto socialmente pericoloso intervenuta ancor prima della proposta. Quest'ultima ipotesi e' quella che viene in rilievo nel caso di specie ed e', pertanto, limitatamente ad essa che si ritiene di restringere la portata della eccezione sollevata dalla difesa e di considerarne la rilevanza. Occorre tenere presente, inoltre, che la specifica fattispecie di applicazione disgiunta della misura patrimoniale che viene qui in rilievo e' specificamente contemplata e disciplinata da altra disposizione che la difesa non considera, l'art. 2-ter c. 11 legge n. 575/1965. Difatti, tale disposizione (anch'essa introdotta dall'art. 10 c. 1, lett. d, n. 4 d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv. con modif. in legge 24 luglio 2008, n. 125, cd. «pacchetto sicurezza 2008») prevede testualmente: «la confisca puo' essere proposta, in caso di morte del soggetto nei confronti del quale potrebbe essere disposta, nei riguardi dei successori a titolo universale o particolare, entro il termine di cinque anni dal decesso». Anche con riferimento a tale disposizione viene sollevata questione di legittimita' costituzionale, per contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost. Si da' atto che la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2-ter c. 111 legge n. 575/1965 e' gia' stata sollevata dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con ordinanza del 3 marzo 2011, con argomentazioni ed osservazioni che questo Tribunale condivide integralmente. Al fine di chiarire la rilevanza della questione di legittimita' delle due disposizioni predette e di inquadrare le eccezioni difensive nell'ambito della evoluzione normativa e giurisprudenziale del sistema delle misure di prevenzione, si ritiene doveroso procedere alla ricostruzione dei rapporti tra misure di prevenzione personali e patrimoniali. Sino alle modifiche operate dai «pacchetto sicurezza 2008» (d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv. con modif. in legge 24 luglio 2008, n. 125) e dal «pacchetto sicurezza 2009» (legge 15 luglio 2009, n. 92), l'art. 2-ter legge n. 575/1965 prevedeva un rapporto di pregiudizialita' necessaria tra misure di prevenzione personali e patrimoniali, posto che permetteva il sequestro dei beni dei soggetti indiziati di appartenere ad associazioni criminali di stampo mafioso, solo nell'ambito di un procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione personali. La legittimita' costituzionale delle misure patrimoniali e' stata ripetutamente sottoposta al vaglio della Corte costituzionale, che si e' espressa piu' volte per la conformita' alla Costituzione del sistema delineato dal legislatore. Con particolare riferimento alla ipotesi di morte del proposto ed al rapporto di pregiudizialita' tra misure personali e patrimoniali, la Corte costituzionale nell'ordinanza del 23 giugno 1988, n. 721, ha rilevato che la scelta di stabilire la necessita' o meno di tale nesso e' riservata al legislatore, che ha il compito di delineare gli strumenti normativi di aggressione dei patrimoni illeciti. La Corte, sulla base di tale principio, ha in quella sede dichiarato l'inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2-ter legge n. 575/1965, nella parte in cui non consentiva l'applicazione della misura patrimoniale dopo la irrogazione della misura personale o in caso di morte dei proposto nelle more del procedimento di confisca. Si tratta, invero, di due delle ipotesi oggi legislativamente espressamente consentite dall'art. 2-bis c. 6-bis legge n. 575/1965. Va, comunque, osservato che gia' prima dei due recenti interventi legislativi si era giunti, per via interpretativa, ad una attenuazione del vincolo di pregiudizialita' tra le due misure, ferma restando la necessita' di accertamento della pericolosita' sociale del proposto. In particolare va ricordata la sentenza Cass. SS.UU. n. 18 del 3 luglio 1996 (Simonelli), nella quale la Suprema Corte ha affermato che in caso di morte del proposto intervenuta dopo la definitivita' del decreto di applicazione della misura personale, ma prima della definitivita' della confisca di prevenzione (che deve essere pero' gia' stata disposta, non valendo la stessa regola in caso di sequestro: nel caso valutato dalla Cassazione la morte del proposto era intervenuta nelle more della impugnazione in Cassazione della sola confisca), la misura patrimoniale conserva la sua efficacia e puo' giungere alla sua definitiva efficacia. Secondo la Corte di cassazione, infatti, la confisca di prevenzione - che non ha natura sanzionatoria ne' stricto sensu preventiva - risponde alla esigenza di colpire i beni e i proventi di attivita' illecite, per estrometterli dal circuito economico collegato ad attivita' e soggetti criminosi, esigenza che permane nella medesima intensita', una volta accertati i presupposti di legge - ossia la pericolosita' qualificata del soggetto e la illegittima provenienza dei suoi beni - indipendentemente dalla permanenza in vita del soggetto o dalla contemporanea applicazione della misura personale. Le SS.UU. hanno chiarito che lo scopo delle misure patrimoniali e' quello di eliminare l'utile economico derivante dalla attivita' criminale, scopo che sarebbe frustrato se fosse consentito ai familiari del soggetto o a terzi prestanome di riacquistare la disponibilita' di tali utilita' economiche dopo la morte del soggetto. Sulla scorta di tali principi la successiva giurisprudenza di legittimita' ha ritenuto che il procedimento di prevenzione potesse essere iniziato anche dopo la cessazione degli effetti della misura di prevenzione personale per sopravvenuta incompatibilita' con lo stato di detenzione o di sottoposizione a liberta' vigilata, oppure per revoca della misura di prevenzione personale per il sopravvenuto venir meno della pericolosita' sociale (Cass. n. 12541 del 14 febbraio 1997, Nobile). Del resto, tale elaborazione giurisprudenziale e' stata supportata anche da due disposizioni contenute nell'art. 2-ter legge n. 575/1965 che consentivano, gia' prima della riforma del 2008; l'applicazione della misura patrimoniale in ipotesi di impossibilita' di applicazione della misura personale: si tratta delle ipotesi contemplate agli attuali commi 7 e 8, che prevedono espressamente la sequestrabilita' e confiscabilita' dei beni di ritenuta origine illecita appartenenti a persona socialmente pericolosa assente, residente all'estero, dimorante all'estero (comma 7) o sottoposta a misura di sicurezza detentiva o alla liberta' vigilata (comma 8). Le due disposizioni (non toccate dalle riforme del 2008 e del 2009) non giungono, pero', a contemplare l'applicazione formalmente disgiunta delle due misure (anche se, di fatto, arrivano a tale risultato), poiche' prevedono che il procedimento per l'applicazione della misura di prevenzione personale possa essere iniziato o proseguito, nelle predette ipotesi, «ai soli fini dell'applicazione» delle misure patrimoniali. Tale separazione e' stata formalizzata dagli interventi legislativi del 2008 e del 2009, che hanno disposto in maniera esplicita (art. 2-bis c. 6-bis legge n. 575/1965) che le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere richieste ed applicate disgiuntamente, che le misure patrimoniali possano essere applicate anche in caso di cessazione della pericolosita' sociale del proposto al momento della loro richiesta, che possano disporsi anche in caso di morte del soggetto proposto e che, in caso di morte intervenuta nelle more della procedura, il procedimento prosegua nei confronti di eredi ed aventi causa. Come si e' detto, in ulteriore esplicitazione ditale principio e' stato introdotto anche il c. 11 dell'art. 2-ter legge n. 575/1965, che prevede la possibilita' di proporre la confisca entro i cinque anni dalla morte del soggetto e che il procedimento riguardi i successori a titolo universale e particolare. Se, dunque, oggi il legislatore ha esplicitamente optato per la applicabilita' disgiunta delle misure di prevenzione personali e patrimoniali, resta tuttavia dato indefettibile la sussistenza, in epoca anteriore o contemporanea alla applicazione della misura patrimoniale, della pericolosita' sociale del soggetto proposto, ossia la sua appartenenza (nel senso elaborato dalla giurisprudenza) ad organizzazioni criminali di stampo mafioso, ovvero la commissione da parte sua di delitti particolarmente indicativi di pericolosita' sociale, ovvero ancora (stanti i piu' recenti arresti in materia) anche la sua appartenenza ad una della categoria di pericolosita' cd. non qualificata di cui ai n. 1 e n. 2 dell'art. 1 legge n. 1423/1956. In altre parole, la ricorrenza del presupposto soggettivo, sia pure non piu' attuale, e' imprescindibile per l'applicazione delle misure patrimoniali e deve esser verificato in tutte le ipotesi contemplate dalle disposizioni normative. Anche in caso di applicazione della misura di prevenzione entro i cinque anni dalla morte del soggetto va verificato che egli fosse effettivamente socialmente pericoloso. Cio' che e' venuto meno con la riforma legislativa non e' il requisito della pericolosita' sociale, che e' pur sempre elemento costitutivo dell'applicazione di tutte le misure di prevenzione, anche di quelle patrimoniali, ma quello della attualita' della pericolosita' sociale. E' venuta anche meno la necessita' di attivare (sempre) il procedimento per l'applicazione della misura personale, anche quando esso ha il solo scopo di consentire la applicazione di quella patrimoniale, come nei casi, gia' visti, contemplati dai commi 7 e 8 dell'art. 2-ter legge n. 575/1965. Tale aspetto determina, ad avviso di chi scrive, una lesione del diritto di difesa, posto che il giudice della prevenzione e' chiamato a formulare un giudizio di pericolosita' sociale nei confronti di una persona che non e' piu' in vita e, dunque, non puo' intervenire nel procedimento ed instaurare il contraddittorio sulla propria qualificazione soggettiva o sulla provenienza dei propri beni. La non manifesta infondatezza della questione La Corte costituzionale e' stata ripetutamente chiamata a pronunciarsi in ordine alla compatibilita' al dettato costituzionale del sistema delle misure di prevenzione. Il tema della legittimita' costituzionale del sistema delle misure di prevenzione e' stato affrontato e positivamente risolto dalla Corte costituzionale in numerose pronunce, sin dai primi anni del suo funzionamento; in particolare, esso e' stato oggetto di valutazione nelle sentenze n. 27 del 1959; n. 45 del 1960; n. 126 del 1962; n. 23 e n. 68 del 1964; n. 32 del 1969 e n. 76 del 1970. Gia' nella sentenza n. 2 del 1956, la Consulta ebbe ad enunciare la portata generale del principio dell'obbligo della garanzia giurisdizionale per ogni provvedimento limitativo della liberta' personale (tra i quali, certamente, rientrano anche quelli applicativi delle misure di prevenzione) e la regola del loro basarsi non su semplici sospetti, bensi' su fatti specifici. Nella sentenza n. 23 del 1964 la Corte ha affermato la piena compatibilita' col sistema costituzionale della scelta legislativa di individuare i presupposti della misura di prevenzione su criteri differenti rispetto a quelli che definiscono le fattispecie criminose, stante la diversita' di natura e di scopo delle misure di prevenzione e delle sanzioni penali. Ad avviso della Corte, e' pienamente legittimo che «nella descrizione delle fatti specie (di prevenzione) il legislatore debba normalmente procedere con criteri diversi da quelli con cui procede nella determinazione degli elementi costitutivi di una figura criminosa, e possa far riferimento anche a elementi presuntivi, corrispondenti, pero', sempre, a comportamenti obiettivamente identificabili. Il che non vuoi dire minor rigore, ma diverso rigore nella previsione e nella adozione delle misure di prevenzione rispetto alla previsione dei reati e dalla irrogazione delle pene». La Consulta, comunque, chiarisce che le misure di prevenzione non si fondano su semplici sospetti, bensi' su elementi di fatto oggettivi e su una obiettiva valutazione dei fatti da cui risultino la condotta abituale ed il tenore di vita del soggetto, accertati in maniera rigorosa e tale da escludere valutazioni puramente soggettive ed incontrollabili da parte del giudice. Ha, inoltre, ribadito la necessita' del rispetto della garanzia giurisdizionale e del principio di legalita', ossia che l'accertamento giurisdizionale della pericolosita' deve essere fondato su fattispecie e su presupposti di fatto descritti dalla legge; tale accertamento deve essere operato nel contraddittorio tra le parti. Questi concetti sono stati ribaditi e sviluppati nel corso degli anni. Basti rammentare la sentenza n. 177 del 1980, con la quale e' stata dichiarata la illegittimita' costituzionale dell'art. 1, n. 3 legge n. 1423/1956, «nella parte in cui elenca tra i soggetti passibili delle misure di prevenzione previste dalla legge medesima coloro che, per le manifestazioni cui abbiano dato luogo, diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere». In quella pronuncia, la Consulta ha ribadito la legittimita' costituzionale delle misure di prevenzione, in quanto esse non si basano su meri sospetti, bensi' su un giudizio fondato su fatti specifici. Ha, inoltre, osservato che, per tale ragione, e' di importanza fondamentale che la fattispecie legale permetta di individuare le condotte dal cui accertamento, nel caso concreto, possa fondatamente dedursi il giudizio prognostico sui futuri comportamenti del soggetto. Secondo la Corte «le condotte presupposte per l'applicazione delle misure di prevenzione, poiche' si tratta di prevenire reati, non possono non involgere il riferimento, esplicito o implicito, al o ai reati o alle categorie di reati della cui prevenzione si tratta, talche' la descrizione della o delle condotte considerate acquista tanto maggiore determinatezza in quanto consenta di dedurre dal loro verificarsi nel caso concreto la ragionevole previsione (del pericolo) che quei reali potrebbero venire consumati ad opera di quei soggetti.» Quel che emerge da tali pronunce e' la necessita' che il sistema della prevenzione, pienamente legittimo, si basi sull'accertamento di fatti specifici, individuati con sufficiente grado di determinatezza dal legislatore, tali da consentire al giudice di formulare su basi obiettive il giudizio prognostico sui comportamenti del soggetto e di valutarne in tal modo la pericolosita' sociale, sempre nel rispetto delle garanzie giurisdizionali e del principio del contraddittorio. La questione dei rapporti tra le misure di prevenzione personali e patrimoniali e' stata affrontata in diverse pronunce della Consulta, soprattutto dopo le riforme dei primi anni '90 (legge 19 marzo 1990, n. 55 e d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. in legge 7 agosto 1992, n. 306). In particolare, nella sentenza n. 465 del 1993 la Corte ha ritenuto non irragionevole la scelta legislativa di ancorare l'applicazione delle misure patrimoniali a quelle di natura personale ed ha osservato, incidentalmente, che tale principio non ha carattere di assolutezza, stante l'esistenza delle eccezioni, «rappresentate dal disposto del settimo comma dell'art. 2-ter, introdotto dall'art. 2 della legge 19 marzo 1990, n. 55 (eccezione significativamente delimitata quanto all'oggetto della misura), e dall'ipotesi del successivo ottavo comma, in cui peraltro non vi e' tanto una deroga al principio detto quanto una disciplina che muove dal dato dell'applicazione di misure di sicurezza, di contenuto analogo a quello della misura preventiva personale, e dunque da una valutazione di sostanziale inutilita' di una duplicazione del presupposto in argomento.». Il tema e' stato ripreso dalla sentenza n. 335 dei 1996, in cui la Corte ha affrontato proprio la questione della legittimita' costituzionale del c. 7 dell'art. 2-ter della legge n. 575/1965, censurato dal giudice remittente nella parte in cui non consentiva l'attivazione del procedimento anche in caso di morte del soggetto socialmente pericoloso, sia prima che dopo la proposta. La Corte ha dichiarato inammissibile la questione, ritenendo che - pur essendovi una tendenza ad allargare il «campo di applicazione dello strumento di prevenzione nei confronti della criminalita' economica di matrice mafiosa o equiparata, che, in alcune limitate ipotesi, ha fatto venir meno la necessaria concorrenza tra il procedimento o il provvedimento di prevenzione personale e il provvedimento patrimoniale - il legislatore e' rimasto comunque fermo nel richiedere, per l'emanazione dei provvedimenti di sequestro e di confisca, un collegamento tra la cautela patrimoniale e l'esistenza di soggetti individuati, da ritenere pericolosi alla stregua della legislazione dettata per contrastare la criminalita' mafiosa e quella a questa equiparata. Di conseguenza, una pronuncia che consentisse di applicare le misure di prevenzione patrimoniali a soggetti non piu' in vita comporterebbe l'affermazione del diverso ed innovativo principio della separazione tra misure patrimoniali e misure personali e tale opzione e' riservata al legislatore. I medesimi concetti sono stati ribaditi nella piu' recente ordinanza n. 368 del 2004, nella quale la Corte e' stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimita' costituzionale dell'art. 2-ter c. 3, 4 e 6 della legge n. 575/1965, ritenuti in contrasto con gli artt. 3, 41 c. 2 e 42 c. 2 Cost., sempre nella parte in cui non consente che il procedimento di prevenzione possa essere iniziato o proseguito dopo la morte del soggetto proposto. La Corte, nel ritenere manifestamente infondata la questione, ha ribadito che nel sistema legislativo della prevenzione antimafia le misure patrimoniali normalmente accedono a quelle personali, essendo rivolte a beni che, oltre ad essere di provenienza sospetta, sono nella disponibilita' di persone socialmente pericolose, in quanto indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso. Secondo la Consulta, anche dopo le modifiche introdotte dalla legge n. 55/1990 e dal d.l. n. 306/92, e' rimasto fermo il principio per cui «le misure patrimoniali presuppongono necessariamente un rapporto tra beni di cui non sia provata la legittima provenienza e soggetti portatori di pericolosita' sociale che ne dispongano, o che siano avvantaggiati dal loro reimpiego, nell'ambito di attivita' delittuose, essendo la pericolosita' del bene considerata dalla legge derivare dalla pericolosita' della persona che ne puo' disporre.» In particolare, la confisca, a differenza del sequestro, comporta conseguenze ablatorie definitive e mira a sottrarre definitivamente il bene al circuito economico d'origine, sempre che i presupposti di indimostrata legittima provenienza dei beni oggetto di confisca e di pericolosita' del soggetto siano gia' stati definitivamente accertati; il bene confiscato verra', una volta «bonificato», re-inserito nel mercato, per entrare a far parte di un nuovo contesto economico, esente dai condizionamenti che derivavano dalla sua provenienza illecita e dalla disponibilita' che ne aveva il soggetto pericoloso. La tematica dei rapporti tra misure di prevenzione personali e patrimoniali in caso di decesso del proposto e' stata anche affrontata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione. Ci si riferisce, in particolare, alla sentenza della SS.UU. n. 18 del 3 luglio 1996 (Simonelli), con la quale e' stato affermato il principio per il quale in caso di morte del proposto intervenuta dopo la definitivita' del decreto di applicazione della misura personale, ma prima della definitivita' della confisca di prevenzione, la misura patrimoniale conserva la sua efficacia e puo' giungere alla sua definitiva efficacia. Sul punto si era sviluppato un contrasto interpretativo, posto che, secondo un primo orientamento, il decesso del proposto prima della definitivita' della confisca di prevenzione avrebbe comportato il venir meno sia della misura personale che di quella patrimoniale. A questo indirizzo si contrapponeva quello per quale la misura patrimoniale non sarebbe stata caducata dalla morte del proposto, in quanto la disciplina contenuta nell'art. 2-ter legge n. 575/1965 sarebbe collegata ad una obiettiva illiceita' dei beni sequestrati, qualificabili come in se' pericolosi e, dunque, indifferenti al decesso del proposta. Per risolvere il contrasto, le Sezioni Unite hanno ricostruito la ratio del procedimento di prevenzione, affermando, in primo luogo, la differente natura tra le misure di prevenzione previste dalla legge n. 1423/1956 e quelle previste dalla legge n. 575/1965. Le prime sono specificamente finalizzate a prevenire la futura commissione di illeciti da parte di soggetti ritenuti socialmente pericolosi per la sicurezza e la pubblica moralita'. Le seconde, invece, rispondono alla esigenza di predisporre adeguate misure di contrasto nei confronti di soggetti indiziati di appartenere ad associazioni di stampo mafioso (mafia, camorra ed altre associazioni, comunque denominate, che agiscono con finalita' e metodi propri delle associazioni di tipo mafioso) e contemplano anche la possibilita' di ablazione reale. Le Sezioni Unite hanno rinvenuto nella confisca di prevenzione la finalita' non gia' di prevenire la futura commissione di illeciti, quanto quella di eliminare dal circuito economico beni provenienti da attivita' illecite del soggetto ritenuto appartenente all'organizzazione criminale di stampo mafioso. Da qui, l'affermazione della confisca di prevenzione come di un tenium genus rispetto alle sanzioni penali in senso proprio (per esser la misura adottata non dopo l'accertamento di un fatto di reato ed in correlazione con esso, ma in una procedura di prevenzione) ed alle misure di prevenzione in senso stretto (non essendo richiesta per essa alcuna prognosi su futuri comportamenti illeciti con riferimento a quegli specifici beni) e la sua qualificazione come sanzione amministrativa, analoga alla confisca penale di cui all'art. 240 c.p. La natura autonoma della confisca di prevenzione e' stata anche riscontrata nella previsione dell'art. 2-ter c. 7 legge n. 575/1965, che consente di applicare la misura patrimoniale anche nei confronti del soggetto residente o dimorante all'estero o assente, ossia di un soggetto nei cui riguardi sicuramente la misura personale non potra' avere applicazione, salvo che faccia rientro in Italia. Secondo la Corte, tale previsione normativa dimostra che, pur permanendo il collegamento necessario tra la misura patrimoniale e la pericolosita' sociale del soggetto, il legislatore ha spostato la sua attenzione dal soggetto ai beni nella sua disponibilita', ritenuti essi stessi pericolosi, perche' derivanti da attivita' illecita o in grado di incrementarne la portata. La Corte ha, quindi, concluso che una volta accertati i presupposti della pericolosita' sociale del proposto e della illecita provenienza (o, meglio, della indimostrata lecita provenienza dei beni), il venir meno del proposto prima della definitivita' della confisca non comporti la caducazione della misura patrimoniale, posto che le finalita' perseguite dal legislatore prescindono dalla persistenza in vita del soggetto pericoloso. Ha, comunque, ribadito la necessita' della verifica della pericolosita' sociale del soggetto ed il suo carattere di presupposto necessario rispetto alla ablazione patrimoniale: la confisca richiede sempre l'accertamento della pericolosita' sociale del soggetto, destinatario di una misura di prevenzione personale, anche se in concreto essa non gli puo' essere applicata ed e' diretta a sottrarre i beni dalla sua disponibilita'. Anche in questo caso, dunque, la Corte di cassazione non si discosta dal principio ribadito piu' volte dalla Corte costituzionale della necessita' che l'applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali conseguano all'accertamento della pericolosita' sociale del soggetto. Del resto, sia l'ipotesi del decesso intervenuto prima della definitivita' della confisca (gia' disposta, pero', e comunque dopo l'accertamento nel contraddittorio delle parti della pericolosita' sociale del soggetto), sia le ipotesi dell'assenza, dimora o residenza all'estero del proposto non prescindono dalla verifica della pericolosita' sociale, quanto dalla possibilita' della sua concreta applicazione. Ed analogo discorso puo' farsi per le altre consimili ipotesi in cui la misura patrimoniale non e' applicata contemporaneamente a quella personale, ossia i casi di sottoposizione del soggetto a misura di sicurezza, di soggetto latitante, di collaboratore di giustizia, di revoca o modifica della misura personale ed anche di sospensione temporanea dall'amministrazione dei beni di cui all'art. 3-quater legge n. 575/1965. In tutti questi casi e', comunque, richiesto l'accertamento nel contraddittorio delle parti dei presupposti per l'applicazione delle misure sia personali che patrimoniali; in tutti questi casi il proposto e' messo in condizione di conoscere l'esistenza del procedimento di prevenzione a suo carico, e' comunque assistito da un difensore (di sua fiducia o d'ufficio), puo' scegliere se e con quali mezzi intervenire e, da ultimo, anche optare per un rito (udienza pubblica) invece che un altro (camera di consiglio). Il carattere di presupposto dell'accertamento della pericolosita' sociale e', peraltro, stato ribadito dalla Corte costituzionale anche dopo la pronuncia delle Sezioni Unite 18/1996, con la gia' ricordata ordinanza n. 368 del 2004, che ha comunque affermato che un intervento volto a rendere possibile l'applicazione della confisca in caso di contestuale rigetto della richiesta di misura di prevenzione personale per mancanza del requisito della pericolosita' sociale, si tradurrebbe in una innovazione conseguente ad una scelta di politica criminale di esclusiva spettanza del legislatore. In tale quadro, si inseriscono le modifiche apportate con i due «pacchetti sicurezza» del 2008 e del 2009 ed in particolare, per quanto qui interessa, con il c. 6-bis dell'art. 2-bis e con il c. 11 dell'art. 2-ter legge n. 575/1965. I lavori preparatori della riforma del 2008 chiariscono che la novella legislativa vuole porre rimedio alle «difficolta' operative nell'aggressione dei beni mafiosi dovute all'obsolescenza della normativa di prevenzione», effettuando una completa rivisitazione delle misure di prevenzione patrimoniale, in modo da avvicinarla sempre piu' ad una actio in rem, ispirata al concetto di pericolosita' in se' del bene. Di qui, la possibilita' di procedere alla confisca anche nei confronti degli credi del soggetto pericoloso. Con la novella del 2009, ci si e' mossi nella stessa direzione, tanto che le misure patrimoniali possono ora essere richieste «indipendentemente dalla pericolosita' sociale del soggetto proposto al momento della loro applicazione» (art. 2-bis c. 6-bis legge n. 575/1965). Sembra, dunque, essere ribadito il concetto di pericolosita' intrinseca del bene, che perdura anche oltre la pericolosita' del soggetto e resta viziato dalla sua illecita provenienza fino a che resta nella disponibilita' di una persona indiziata di appartenenza ad organizzazione criminale di stampo mafioso. In realta', una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata dall'art. 2-bis c. 6-bis legge n. 575/1965, nell'inciso predetto, induce a ritenere non che si debba prescindere dalla verifica della pericolosita' sociale del proposto, ma che si possano applicare le misure patrimoniali anche in caso di pericolosita' sociale non piu' attuale, ovvero in caso di completa esecuzione della misura personale. Resta, pero', ferma la necessita' di verificare se il soggetto sia o sia stato socialmente pericoloso ai sensi della legge n. 575/1965. Tale verifica non puo' che intervenire nei contraddittorio delle parti, in applicazione dei principi sanciti dall'art. 111 Cost. cd. «giusto processo». Assai rilevante, sotto questo profilo, e' la recente pronuncia della Corte di cassazione n. 6684 .del 18 febbraio 2010, che ha ribadito, anche alla luce dell'art. 111 Cost., come il procedimento di prevenzione patrimoniale non preveda un'illegittima inversione dell'onere della prova (di modo che l'ablazione dei beni conseguirebbe alla mera inerzia del proposto), ma la dimostrazione della sussistenza dei suoi presupposti e l'onere di dimostrare l'illecita origine dei beni o la sproporzione grava sul Pubblico Ministero, mentre spetta alla difesa contraddire gli elementi prospettati dall'accusa, fornendo dimostrazione della legittima provenienza dei beni. La Corte ha, dunque, ribadito ancora una volta la natura giurisdizionale del procedimento di prevenzione ed il valore centrale che in esso assumono la ripartizione dell'onere della prova ed il principio del contraddittorio, che solo puo' consentire il pieno dispiegamento delle ragioni della difesa. Peraltro, tali principi, gia' enunciati sin dalla prima pronuncia della Corte costituzionale sulle misure di prevenzione (la sentenza n. 2 del 1956), assumono un valore ancor piu' pregnante alla luce dei pronunciamenti della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ha affermato la conformita' alla carta dei diritti della confisca di prevenzione italiana, purche' in essa siano rispettati i fondamentali criteri della previsione in base alla legge, del perseguimento di uno scopo legittimo (come e' il contrasto alla criminalita' organizzata), della sua proporzione rispetto a tale scopo e della sua imposizione attraverso un procedimento pienamente giurisdizionale. E' proprio sotto il profilo del rispetto del diritto al contraddittorio che si ravvisa il contrasto tra la disciplina contenuta negli artt. 2-bis c. 6-bis (nella parte relativa alla possibilita' di instaurare il procedimento di prevenzione nei confronti degli eredi) e 2-ter c. 11 legge n. 575/1965 rispetto all'art. 111 Cost. L'instaurazione del procedimento di applicazione della misura patrimoniale nei confronti degli eredi, infatti, implica necessariamente una valutazione dei profili di pericolosita' sociale ed illecita origine dei beni che non si riferiscono ai soggetti chiamati ad intervenire nel procedimento, bensi' ad un soggetto che e' deceduto e, dunque, che non puo' piu' intervenirvi. Si ritiene che la possibilita' di assicurare la partecipazione personale al procedimento di prevenzione abbia un valore fondamentale in questo come qualunque giudizio o procedimento che abbia i caratteri propri della giurisdizionalita' e che tale aspetto incida, prima ancora che sulla esplicazione dei diritti dell'individuo (tra i quali rientra in primo luogo il diritto di difesa) sulla stessa legittimita' della procedura. E' nella stessa definizione di giurisdizione, contenuta nell'art. 111 Cost. viene cristallizzata la necessita' del contraddittorio, posto che essa si attua attraverso il «giusto processo» che deve necessariamente svolgersi nel contraddittorio tra le parti, in posizione di parita' e dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale. Dunque, la stessa lettera dell'art. 111 Cost. impone che in ogni procedimento debba essere assicurata la possibilita' di partecipazione dello stesso soggetto destinatario del giudizio. Nel caso di procedimento nei confronti degli eredi, invece, il giudizio viene formulato con riferimento ad una persona che non puo' parteciparvi ed i suoi effetti vengono a prodursi su soggetti che, a loro volta, sono si chiamati a partecipare al procedimento, ma sono totalmente estranei a qualunque valutazione che li riguardi. Del resto, la necessita' che in ogni processo sia assicurata la possibilita' di partecipazione dell'interessato e' stata affermata anche dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, per la quale «il principio dell'eguaglianza delle armi postulo la possibilita' per ciascuna parte di presentare la sua causa in condizioni tali da non trovarsi in posizione di svantaggio in rapporto con l'altra parte». In particolare, viene in rilievo al riguardo l'art. 6 par. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, che definisce i diritti che competono a qualunque persona sia sottoposta a processo: essere informato del contenuto dell'accusa, disporre del tempo e della possibilita' di preparare una difesa, difendersi personalmente o con l'assistenza di un difensore (anche d'ufficio), interrogare e presentare testimoni, farsi assistere da un interprete. Tutti questi diritti presuppongono necessariamente l'esistenza in vita della persona e la possibilita' di operare scelte consapevoli in ordine alla propria linea difensiva. La Corte europea di Strasburgo, del resto, ha affermato che la partecipazione personale del soggetto al processo che lo riguarda e' un diritto che trova il suo fondamento nelle facolta' concesse dall'art. 6, par. 3 CEDU e risponde alla imprescindibile necessita' di verificare l'esattezza (anche) delle affermazioni dell'interessato e compararle con quelle degli altri (come accade anche nel procedimento di prevenzione patrimoniale, in cui il contraddittorio si svolge sulle contrapposte posizioni della pubblica accusa - che sostiene la pericolosita' sociale del soggetto e l'illecita origine del suo patrimonio, affermando in genere la sproporzione dei beni rispetto ai redditi leciti - e dell'interessato e dei terzi interessati - che offrono normalmente una diversa ricostruzione delle vicende patrimoniali che li riguardano). La Corte ha, altresi', ritenuto sussistere la violazione dell'art. 6 par. 1 e 3 CEDU nei casi in cui non sia stato riconosciuto il diritto all'imputato a comparire personalmente in udienza, ritenendo a tal fine insufficiente a garantire un processo equo la sola partecipazione del difensore; la Corte ha piu' volte evidenziato come sia imprescindibile per un processo equo la facolta' per l'interessato di parteciparvi personalmente (si veda, per tutte, Corte Eu., Grande Camera, 1° marzo 2006, Sejdovic c. Italia). Secondo la Corte, infatti, «tutti i processi penali devono rivestire un carattere contraddittorio e garantire la parita' di armi tra l'accusa e la difesa: questo e' uno degli aspetti fondamentali per del diritto ad un processo equo» (Corte Eu., 8 dicembre 2009, Previti c. Italia). Del resto, la stessa Corte di cassazione, nella sentenza a SS.UU. n. 13426 del 25 marzo 2010, che ha sancito il principio della inutilizzabilita' anche nel procedimento di prevenzione delle intercettazioni illegittime, ha affrontato il tema della «autonomia» del processo penale e del procedimento di prevenzione, ribadendo i connotati di sicura giurisdizionalita' che caratterizzano anche questo secondo giudizio. La Suprema Corte ha sottolineato come tale concetto denoti la reciproca «insensibilita'» delle acquisizioni dell'una sede rispetto a quelle dell'altra e, dunque, l'assenza di connotati di pregiudizialita' dei relativi criteri di giudizio, tanto che e' ormai costante e consolidato l'orientamento secondo il quale il giudice della prevenzione puo' legittimamente servirsi di elementi di prova o di tipo indiziario tratti da procedimenti penali, anche se non ancora definiti con sentenza irrevocabile, ed anche a prescindere dall'esito del giudizio circa la sussistenza della responsabilita'. Cio' che importa, secondo la Suprema Corte «e' che il giudizio di pericolosita' sia fondato su elementi certi, dai quali possa legittimamente farsi discendere l'affermazione dell'esistenza della pericolosita', sulla base di un ragionamento immune da vizi, fermo restando che gli indizi sulla cui base formulare il giudizio di pericolosita' non devono necessariamente avere i caratteri di gravita', precisione e concordanza richiesti dall'art. 192 c.p.p. (cfr., ex plurimis, Sez. 1ª, 6 novembre 2008, n 47764; Sez. 2ª, 28 maggio 2008, n. 25919; Sez. 1ª, 13 giugno 2007, n. 27655: Sez. 6ª, 30 settembre 2005, n. 39953).» La Corte richiama proprio la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che, da un lato, ha ritenuto non in contrasto con i principi della CEDU il fatto che le misure di prevenzione «siano applicate nei confronti di individui sospettati di appartenere alla mafia anche prima della loro condanna, poiche' tendono ad impedire il compimento di atti criminali»; e, dall'altro ha affermato che «il proscioglimento eventualmente sopravvenuto non le priva necessariamente di ogni ragion d'essere: infatti, elementi concreti raccolti durante un processo, anche se insufficienti per giungere ad una condanna, possono tuttavia giustificare dei ragionevoli dubbi che l'individuo in questione possa in futuro commettere dei reati penali» (Corte Eu., Grande Camera, 1° marzo 2000, Labita c. Italia). Discende da tutto cio', continua la Suprema Corte, che il vero tratto distintivo che qualifica l'autonomia del procedimento di prevenzione dal processo penale, va intravisto nella diversa «grammatica probatoria» che deve sostenere i rispettivi giudizi, che non puo' pero' essere utilizzata per consentire l'utilizzazione di prove assunte illegittimamente. Le Sezioni Unite colgono l'occasione per rammentare le pronunce della Corte europea di Strasburgo in tema di misure di prevenzione ed, in particolare, le sentenza con le quali l'Italia era stata condannata per la mancata previsione della celebrazione del procedimento nelle forme della pubblica udienza (cfr. Corte Eu., 15 novembre 2007, Bocellari e Rizzo e. Italia; 8 luglio 2008, Pierre c. Italia; 5 gennaio 2010, Bongiorno c. Italia). La Corte di Strasburgo, in tali pronunce, aveva censurato la previsione secondo la quale il procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione si celebra in camera di consiglio, reputandola in contrasto con l'art. 6, par. 1 CEDU, nella parte in cui stabilisce che «ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata ... pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente e imparziale...». La Corte europea ha stabilito, infatti, che e' essenziale per aversi un processo equo che «le persone coinvolte in un procedimento di applicazione delle misure di prevenzione si vedano almeno offrire la possibilita' di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti di appello», perche' la pubblicita' delle procedure giudiziarie tutela le persone soggette alla giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico e costituisce uno strumento per preservare la fiducia nei giudici. Proprio sulla scorta dei principi enunciati dalla Corte di Strasburgo, la Corte costituzionale ha poi dichiarato l'illegittimita' costituzionale degli artt. 4 legge n. 1423/1956 e 2-ter legge n. 575/1965 nella parte in cui non prevedono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al Tribunale e alla Corte di Appello, nelle forme dell'udienza pubblica (cfr. C. Cost. sent. n. 93 del 2010). In tale sentenza la Corte costituzionale ha ribadito che anche nel procedimento di prevenzione il giudice deve «esprimere un giudizio di merito, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su beni dell'individuo costituzionalmente tutelati, quali la liberta' personale (art. 13 Cost., comma 1) e il patrimonio (quest'ultimo, tra l'altro, aggredito in modo normalmente ''massiccio'' e in componenti di particolare rilievo...) nonche' la stessa liberta' di iniziativa economica, incisa dalle misure anche gravemente ''inabilitanti'' previste a carico del soggetto cui e' applicata la misura di prevenzione... Il che - ha concluso la Corte - conferisce specifico risalto alle esigenze alla cui soddisfazione il principio di pubblicita' delle udienze e' preordinato». La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, da un lato, e quella costituzionale, dall'altro, impongono, dunque, una lettura del procedimento di prevenzione che sia in linea con i principi del ''giusto processo'', tra i quali assume rilevanza fondamentale il diritto al contraddittorio. Nel caso di procedimento instaurato nei confronti degli eredi di un soggetto deceduto, come e' quello sottoposto all'attenzione di questo Tribunale, tale principio appare pretermesso, posto che non e' fisicamente possibile la partecipazione diretta del soggetto al procedimento, ne' puo' ritenersi tale principio rispettato dalla partecipazione ai giudizio di un eventuale difensore del de cuius, stanti gli arresti della Corte di Strasburgo in ordine ai processi contumaciali gia' ricordati. Peraltro, anche se nel caso di specie la difesa degli eredi e' stata assunta dagli avvocati che assistevano il de cuius quando era in vita, va osservato che tale eventualita' e' solo una coincidenza, posto che con la morte del soggetto il rapporto col difensore e' venuto a cessare ed il fatto che la scelta degli eredi sia caduta sulle medesime persone non significa che i difensori siano stati chiamati a esercitare le loro funzioni anche nei confronti del soggetto non piu' in vita, cosa che sarebbe impossibile nel vigente ordinamento. Occorre, da ultimo, considerare se sia praticabile la via alternativa di ritenere utilizzabile nel procedimento di prevenzione patrimoniale a carico degli, eredi, solo il materiale probatorio raccolto quando il de cuius era ancora in vita e sul quale vi sia stato un contraddittorio. Tale via, pero', non appare percorribile. Nel caso in esame, Messina Arturo e' stato sottoposto a misura di prevenzione e ritenuto soggetto socialmente pericoloso con decreto del Tribunale di Agrigento del 23 maggio 2000 (def. 10 luglio 2002). La proposta di applicazione della misura patrimoniale nei confronti degli eredi si basa non solo sugli elementi presi in considerazione allora dal Tribunale, ma anche su elementi ulteriori ed, in particolare, sulle ulteriori sentenze di condanna intervenute successivamente al 2000 (tra le altre, la sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Palermo il 22 marzo 2003, irrevocabile l'11 ottobre 2004, di parziale riforma della sentenza della Corte d'Assise di Agrigento del 18 luglio 2001 cd. «Akragas», con la quale Messina e' stato condannato all'ergastolo con isolamento diurno per 18 mesi) e sugli accertamenti patrimoniali operati dalla DIA e dalla P.G. in servizio presso la Procura della Repubblica di Palermo negli anni 2009 e 2010, ossia successivamente alla morte dell'interessato (deceduto il 13 aprile 2008). Dunque, nel caso in esame, un contraddittorio vi e' sicuramente stato con riferimento alle condanne penali, utilizzabili senz'altro per la formulazione del giudizio di pericolosita' sociale; tuttavia, tale contraddittorio si e' attuato davanti ad un altro giudice, in un diverso giudizio, quello di responsabilita' penale, ed appare difficilmente praticabile la via della affermazione del rispetto del principio del contraddittorio intervenuto in altro procedimento giurisdizionale: una simile soluzione, appare nettamente in contrasto con l'art. 111 c. l Cost., che richiede che il giusto processo si svolga con parita' tra accusa e difesa, davanti ad un giudice terzo ed imparziale, ossia che le differenti e (normalmente) anitetiche posizioni di accusa e difesa si manifestino e sviluppino dinnanzi al giudice di quel processo. Inoltre, nessun contraddittorio vi e' mai stato con riferimento agli accertamenti patrimoniali ed il giudizio in ordine alla sussistenza degli elementi alla base della confisca (disponibilita', sproporzione, provenienza dei beni) viene a svolgersi in base ad elementi raccolti dopo la morte del soggetto e senza che a costui sia mai stato possibile conoscere tali elementi e svolgere le proprie difese sui fatti dimostrati dall'accusa, con violazione dell'art. 24 Cost., oltre che dell'art. 111 c. 1 Cost. D'altronde, non si ritiene che tali principi siano adeguatamente rispettati con riguardo alla posizione degli eredi, posto che essi sono chiamati si' a partecipare al procedimento, ma in una posizione del tutto analoga a quella del de cuius. Cio' che si vuol dire e' che gli eredi non sono chiamati a esplicare le proprie difese in ordine agli elementi di giudizio che li riguardino, ma su fatti e circostanze che concernono un altro soggetto. Gli eredi (che durante la esistenza in vita del soggetto potrebbero assumere nel procedimento, al piu', la veste di terzi) si vengono, dunque, a trovare in una posizione processuale del tutto peculiare, poiche' essi si debbono difendere «come se» fossero il de cuius, non essendo sufficiente ad escludere il provvedimento ablatorio la dimostrazione degli elementi di fatto che costituiscono le normali difese dei terzi interessati, che possono dimostrare che il bene si trova nella loro piena disponibilita' e non in quella del proposto, o che lo hanno acquistato in buona fede. Gli eredi, in questo caso, non sono considerati terzi, ma i diretti destinatari del procedimento di prevenzione patrimoniale che, pero', va a colpire i beni da essi ricevuti in ragione della loro precedente appartenenza ad un soggetto non piu' in vita. Essi, dunque, non possono difendersi - come avviene normalmente per i terzi interessati e come avverrebbe se il procedimento intervenisse durante l'esistenza in vita del soggetto - dimostrando che il bene non e' nella disponibilita' indiretta del proposto (che e' uno dei presupposti imprescindibili dell'ablazione reale), ma nella loro, perche' tale elemento non e' in discussione: con la successione mortis causa e' chiaro che il bene e' passato a loro, per legge o per effetto della volonta' del de cuius. Per le medesime ragioni non possono neppure dimostrare la buone fede nell'acquisto. Possono solo dimostrare la non riconducibilita' del bene alle attivita' delittuose del de cuius, prova che - dunque - concerne fatti e circostanze che riguardano una persona diversa da loro stessi ed in relazione ai quali essi subiscono gli effetti. In definitiva, dunque, si ritiene che gli artt. 2-bis c. 6-bis legge 31 maggio 1965, n. 575 e 2-ter c. 11 legge n. 575/1965, siano in contrasto con gli artt. 24, c. 1 e 2, e 111 c. 1 della Costituzione, con la conseguenza che si rende necessario sottoporre la questione di legittimita' alla Corte costituzionale.