IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale 255 del 2011, proposto da: Agostino  Chiappiniello,
rappresentato  e  difeso  dagli  avv.  Sandro  Campilongo  e  Stefano
Tarullo, con domicilio eletto presso la Segreteria  del  Tar  Umbria,
via Baglioni n. 3 (Perugia); 
    Contro Presidenza del Consiglio  dei  ministri,  in  persona  del
Presidente   pro-tempore,   rappresentato   e   difeso   ope    legis
dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, presso i cui uffici e' pure
legalmente domiciliata in Perugia, via degli Offici,  14;  Corte  dei
conti, in persona  del  Presidente  pro-tempore,  non  costituita  in
giudizio; 
    Per  l'accertamento  del  diritto  di   parte   ricorrente   alla
percezione del trattamento retributivo nella  sua  interezza,  e  con
esclusione dell'applicazione delle norme del d.l. 31 maggio 2010,  n.
78, convertito, con modificazioni, nella legge  30  luglio  2010,  n.
122, con conseguente  condanna  delle  amministrazioni  intimate,  in
solido, o secondo le rispettive responsabilita'  e  competenze,  alla
corresponsione delle somme dovute, oltre agli accessori di legge; 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Visto l'atto di costituzione in  giudizio  della  Presidenza  del
Consiglio dei ministri; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Relatore nell'udienza pubblica del giorno  21  dicembre  2011  il
Cons.  Stefano  Fantini  e  uditi  per  le  parti  i  difensori  come
specificato nel verbale; 
 
                              F a t t o 
 
    Il ricorrente, magistrato contabile in servizio dal 4 marzo 1985,
assegnato alla sede di Perugia con  la  qualifica  di  consigliere  e
stipendio di presidente di sezione, chiede l'accertamento del proprio
diritto  al  trattamento  retributivo  nella   sua   interezza,   con
esclusione dunque delle decurtazioni  prodotte  dalle  norme  di  cui
all'art. 9 del d.l. 31 marzo 2010, n. 78, convertito nella  legge  30
luglio 2010, n. 122, con conseguente condanna dell'aministrazione  di
appartenenza e della Presidenza del Consiglio  dei  ministri,  previa
rimessione degli atti alla Corte costituzionale. 
    Espone che, a fare tempo dall'anno 2011, gli e'  stata  applicata
la decurtazione  stipendiale  di  euro  8.671,64  per  effetto  della
riduzione di spesa coattivamente operata dall'art. 9,  comma  2,  del
predetto d.l. n. 78  del  2010;  nel  corso  del  triennio  2011/2013
subira' il blocco dei meccanismi di adeguamento retributivo  previsto
dall'art. 9, comma 21 dello testo  legislativo;  inoltre  subisce  la
trattenuta della percentuale della indennita' giudiziaria di cui alla
legge n. 27 del 1981, che e' pari ad euro 2.013,07 per  l'anno  2011,
di euro 3.355,11 per l'anno 2012, e di euro 4.294,55 per l'anno 2013,
in applicazione dell'art. 9,  comma  22;  infine,  al  momento  della
cessazione del rapporto, subira' l'applicazione dell'art.  12,  comma
7, del d.l. n. 78  del  2010,  che  prevede  la  rateizzazione  della
corrispondente indennita', mentre fin da subito subisce  gli  effetti
dannosi dell'applicazione del comma 10, che dispone  la  sostituzione
dell'indennita' di buonuscita con il meno favorevole  trattamento  di
fine rapporto, pur perdurando sui dipendenti pubblici  la  trattenuta
aggiuntiva  del  2,50%  sull'80%  della  retribuzione,  in   aggiunta
all'aliquota, a tutti i lavoratori dipendenti applicabile, del  6,91%
prevista dall'art. 2120 del c.c. 
    Nel  censurare  le  suddette  disposizioni  di  legge,  deduce  a
sostegno delle pretese azionate la violazione degli artt. 2,  3,  24,
36, 41, 42, 53, 97, 100, 101, 108,  111  e  113  della  Costituzione,
nonche' l'eccesso di potere in tutte le sue  figure  sintomatiche,  e
segnatamente l'assoluta illogicita' ed irrazionalita',  l'ingiustizia
manifesta,  l'errata  valutazione  dei  presupposti,  la  carenza  di
istruttoria, il difetto  di  motivazione,  l'omessa  ponderazione  di
interessi rilevanti, lo sviamento, la  contraddittorieta'  intrinseca
ed estrinseca dell'atto, la  violazione  del  principio  del  «giusto
procedimento». 
    1. - Con riferimento al  comma  2  dell'art.  9,  si  solleva  la
questione di legittimita' costituzionale  della  disposizione,  nella
parte  in  cui  prevede  specifiche   misure   di   riduzione   delle
remunerazioni piu' elevate, ed in particolare la decurtazione,  nella
percentuale del 5% e del 10%, delle quote  di  trattamento  economico
superiori, rispettivamente, ad euro  90.000  ed  euro  150.000  annui
lordi. 
    Anzitutto viene dedotto il contrasto della norma  con  l'art.  53
della Costituzione e la lesione dei principi  di  proporzionalita'  e
progressivita' dell'imposizione, anche con riferimento agli artt. 3 e
97 della Costituzione. 
    L'art. 9, comma  2,  oggetto  di  censura,  presenta  un'indubbia
natura tributaria, atteggiandosi alla  stregua  di  prelievo  fiscale
coattivo  ed  occulto  realizzato  nelle  forme  di  una   dichiarata
decurtazione  stipendiale;  anziche'  prevedere,   in   un   contesto
economico-finanziario  eccezionale,   interventi   straordinari   e/o
temporanei  di  prelievo  forzoso,   sono   state   adottate   misure
continuative e stabili, per di piu' limitate ad  una  ben  delimitata
«classe di persone», senza assumere a parametro dell'esazione  uno  o
piu' indici di capacita'  contributiva  potenzialmente  posseduti  da
«tutti», secondo la previsione dell'art. 53  della  Costituzione.  Il
risultato dell'operazione e' che una singola categoria di  lavoratori
(quelli pubblici) viene  isolata  dalla  platea  dei  contribuenti  e
colpita da una previsione ad hoc, la quale prescinde palesemente  dal
fatto che, a parita' o superiorita' di  reddito,  altri  contribuenti
godano di eguale o  maggiore  capacita'  contributiva.  La  norma  ha
deciso di «tassare» una certa categoria di soggetti per  la  maggiore
facilita' del prelievo, mentre ceti  ben  piu'  abbienti  sono  stati
lasciati  incredibilmente   al   di   fuori   delle   previsioni   di
stabilizzazione finanziaria qui contestate. 
    Ove si intendesse escludere la natura  tributaria  del  prelievo,
emergerebbe ancora piu'  nettamente  il  carattere  arbitrario  della
disposizione, che non rende  intelligibile  la  ragione  per  cui  il
risparmio di spesa dovrebbe operare solo  su  redditi  eccedenti  gli
scaglioni dei 90.000 e dei 150.000 euro. 
    In secondo luogo, l'art. 9, comma 2, del  d.l.  n.  78  del  2010
viola gli artt. 2  e  3  della  Costituzione,  ed  in  particolare  i
principi di uguaglianza e di ragionevolezza legislativa, oltre che il
principio di solidarieta' sociale, politica ed economica. 
    La violazione del principio di eguaglianza  appare  palese  nella
discriminazione tra i soggetti che risultano  ricompresi  nell'ambito
di applicazione dell'art. 9, comma 2,  e  quelli  che,  senza  alcuna
ragionevole  giustificazione,  ne  risultano  esclusi;  cio'   rileva
indipendentemente dal fatto che al prelievo in questione si voglia  o
meno riconoscere natura tributaria. 
    La  disposizione  discrimina  tra  soggetti  che  hanno  identica
capacita' economica; il  cd.  «risparmio  di  spesa»  avrebbe  dovuto
interessare tutti i redditi  prodotti  in  Italia  e/o  da  cittadini
italiani riconosciuti di eguale capacita' contributiva,  e  non  gia'
soltanto i fruitori di un trattamento retributivo pubblico,  qualitas
che di per se' nulla dice circa la maggiore o  minore  idoneita'  del
soggetto colpito a contribuire alle esigenze della finanza  pubblica.
E', del resto, ingiusto che lo Stato intenda accollare le  misure  di
riduzione della spesa, che andranno a vantaggio di tutti, solo ad una
parte dei cittadini, che peraltro non rappresenta la  categoria  piu'
facoltosa. 
    Per tale ragione, la norma  collide  anche  con  l'art.  2  della
Costituzione e con i principi di solidarieta'  sociale,  politica  ed
economica, cui corrispondono ben precisi «doveri inderogabili», cioe'
da ripartire tra tutti. 
    Significativo e', al contrario,  che  a  parita'  di  reddito,  e
dunque al raggiungimento delle soglie dei 90.000 e dei 150.000  euro,
i dipendenti privati od i lavoratori autonomi  non  subiscono  alcuna
incisione patrimoniale. 
    Peraltro,  anche  nell'ambito  del  pubblico  impiego,  non  puo'
tacersi che l'art. 9, comma 2, opera  una  netta  distinzione  tra  i
dipendenti, a seconda che abbiano un reddito maggiore  o  minore  dei
90.000 euro;  al  contrario,  il  prelievo,  se  davvero  necessario,
avrebbe dovuto gravare in minima parte su ciascun dipendente. 
    In altri termini: o la logica e'  quella  della  riduzione  della
spesa, ed allora, per non infrangere il principio di eguaglianza,  il
taglio deve operare allo stesso modo su tutte le  spese  (redditi  da
lavoro dipendente), o la logica e' quella  della  progressivita'  del
prelievo (art. 53 della  Costituzione)  ed  allora  l'incisione  deve
operare su tutti i redditi (da lavoro pubblico o privato ed anche  da
altre fonti) che denotino eguale capacita' contributiva. 
    Si aggiunga ancora  che  la  Raccomandazione  CM/Rec(2010)12  sui
giudici adottata in data 17 novembre 2010 dal Comitato  dei  ministri
del Consiglio d'Europa,  al  punto  54,  non  solo  richiede  che  la
retribuzione dei giudici sia commisurata al loro ruolo  professionale
ed alle loro responsabilita', ma esplicitamente esige  che  essa  sia
tale da «renderli immuni da qualsiasi pressione volta ad  influenzare
le loro decisioni»; in particolare, si chiede agli Stati  membri  che
siano «adottate specifiche disposizioni di legge  per  garantire  che
non possa essere disposta una riduzione  delle  retribuzioni  rivolta
specificamente ai giudici». 
    Ove poi non si volesse individuare nell'art. 9  una  disposizione
tributaria, non puo' negarsi la  natura  espropriativa  della  norma,
atteso il suo fine  ed  effetto  di  ablazione  di  redditi  formanti
oggetto di diritti gia' quesiti dal pubblico dipendente. 
    Si tratta, in tale prospettiva, di una  norma-provvedimento  che,
in quanto tale, viola il principio di imparzialita' di  cui  all'art.
97 della Costituzione; in particolare, e' una  legge  non  imparziale
anzitutto perche' sottrae all'amministrazione la fase  istruttoria  e
quella decisoria; inoltre manca ogni indennizzo dovuto a fronte della
misura espropriativa (l'indennizzo  si  sarebbe  potuto  tradurre  in
misure  di  vantaggio   per   i   soggetti   colpiti   dall'ablazione
patrimoniale, quali una ridefinizione in melius dell'orario  o  delle
condizioni di lavoro, specie con riguardo all'aumento dei carichi  di
lavoro a fronte dell'inadeguatezza degli organici della  magistratura
contabile). 
    In ogni  caso  lo  scrutinio  sulla  ragionevolezza  delle  leggi
provvedimento deve essere effettuato allo stesso modo  del  sindacato
sui provvedimenti amministrativi, in particolare assumendo  specifico
rilievo il difetto di istruttoria. 
    La palese irrazionalita' della scelta legislativa comportera' che
nei prossimi anni sara' preferito il lavoro privato a quello pubblico
derivante dalla disparita' di trattamento retributivo  imposta  dalla
legge; cio' comportera' una distorsione della concorrenza  in  favore
del   settore   privato,    con    depauperamento    di    efficienza
dell'amministrazione  pubblica,  in  violazione  dell'art.  97  della
Costituzione. 
    L'art. 9, comma 2, in esame  ridetermina  in  senso  ablativo  il
trattamento economico gia' acquisito dal dipendente  pubblico,  sullo
status economico  dello  stesso,  anche  magistrato,  alterando  quel
sinallagma che e' il proprium dei rapporti di durata. 
    Seppure cio'  e'  concesso  al  legislatore,  si  tratta  di  una
facolta' subordinata alla condizione essenziale che non si dia  luogo
ad una disposizione irrazionale, tale da frustrare l'affidamento  del
cittadino nella sicurezza giuridica. 
    La scelta di  ridurre  gli  stipendi  costituisce  una  modalita'
brutale per «fare cassa», violativa dell'aspettativa  legittima  alla
conservazione della retribuzione per tutto il  tempo  di  durata  del
rapporto. 
    La novazione oggettiva ed  unilaterale  del  rapporto  di  lavoro
viola le  prerogative  del  dipendente  pubblico,  evidenziandone  il
trattamento disparitario rispetto a quello privato, cui il datore  di
lavoro non puo' unilateralmente ridurre la retribuzione  (divieto  di
reformatio in peius). 
    In tale modo viene scardinata la proporzionalita' tra prestazione
e retribuzione di  cui  all'art.  36  della  Costituzione,  ma  anche
sacrificata la dignita' sociale  della  persona-lavoratore  pubblico,
pur  tutelata   dall'art.   2   della   Costituzione,   che   subisce
l'aggressione dello Stato, il quale e' al contempo datore di lavoro e
legislatore. 
    Il valore dell'autonomia e dell'indipendenza  della  magistratura
da ogni altro potere dello Stato e' sancito dagli artt. 101, comma 2,
e 104, comma 1, della Costituzione; l'art. 100, comma 3, demanda  poi
alla  legge  il  compito  di  assicurare  l'indipenenza  dei  giudici
amministrativi. 
    L'art. 9, comma 2, lede  tali  disposizioni  anche  perche'  alla
Corte dei conti e' attribuito  il  compito  di  giudicare  il  potere
pubblico;   si   realizza,   in   particolare,   un   condizionamento
nell'esercizio  della  funzione  giurisdizionale,  che   puo'   anche
tradursi in conflitto di interessi allorche' il magistrato  contabile
giudica o controlla organi del Governo. 
    2. - Con riferimento ai commi 21 e 22 dell'art. 9 del d.l. n.  78
del 2010 si solleva  questione  di  legittimita'  costituzionale  del
blocco dei «meccanismi di adeguamento  retributivo»,  e  cioe'  degli
acconti e conguagli, nonche' del taglio crescente nel tempo (15%  per
l'anno  2011,  25%  per   l'anno   2012,   32%   per   l'anno   2013)
dell'indennita' speciale di cui all'art. 3 della legge n. 27 del 1981
(indennita' giudiziaria) anzitutto per  violazione  degli  artt.  24,
100, 101, 108 e 113 della Costituzione. 
    Si tratta di norme che introducono misure di  notevole  gravita',
benche' siano fatte salve le progressioni stipendiali, adottate senza
alcun tipo di istruttoria, ne' di una stima precisa del risparmio  di
spesa ottenibile dal relativo taglio, e quindi in modo  irragionevole
ed improvvisato. 
    Cio'  dicasi  in  particolare  per  il   taglio   dell'indennita'
giudiziaria, che nel suo andamento crescente negli anni difficilmente
si  spiega  con  la  «eccezionalita'   della   situazione   economica
internazionale». 
    Oltre a quanto gia' esposto nel punto sub 1),  va  precisato  che
con  le  disposizioni  in  questione  viene  leso  il  principio   di
affidamento del magistrato nell'ordinario  sviluppo  economico  della
carriera e nella  corresponsione  di  acconti  e  conguagli;  vengono
discriminati in peius i magistrati rispetto agli  altri  cittadini  e
lavoratori, con palese trasgressione dell'art. 3 della  Costituzione,
per  il  semplice  motivo  che  i  loro  redditi  sono  «visibili»  e
facilmente aggredibili. 
    Viene operato un  prelievo  che,  pur  rivestendo  una  chiara  i
connotazione tributaria, colpisce una limitata fascia di cittadini  e
lavoratori,  e  non  «tutti»  come  prescritto  dall'art.  53   della
Costituzione;  si  tratta  di  disposizioni  che  comportano  blocchi
stipendiali con esito  espropriativo,  in  assenza  di  compensazioni
indennitarie per i soggetti che ne risultano colpiti. 
    I  blocchi  stipendiali  incidono   anche   sulla   flessibilita'
organizzativa, generando  inefficienza,  ed  al  contempo  rafforzano
l'idea di un indebito condizionamento sull'esercizio  della  funzione
giurisdizionale.   Viene   altresi'   vulnerato   il   principio   di
proporzionalita' della retribuzione alla  quantita'  e  qualita'  del
lavoro prestato, sancito dall'art. 36 della Costituzione; si  intende
bene la peculiarita' del lavoro pubblico  non  contrattualizzato,  in
cui e' la legge a determinare lo stipendio. 
    I  tagli  lineari  ed  uguali  per  tutti   violano   la   logica
meritocratica dell'art. 36  della  Costituzione;  indurranno  inoltre
effetti  disincentivanti,  tali  per  cui  risulteranno  sempre  meno
incoraggiati atti di quotidiano sacrificio  volti  a  sopperire  alle
croniche carenze degli organici. 
    3. - Con riferimento al comma 7 dell'art. 12 del d.l. n.  78  del
2010, che prevede lo scaglionamento, in favore  del  solo  datore  di
lavoro pubblico, dell'onere di  corresponsione  delle  indennita'  di
fine rapporto, appare chiaro che tale norma comporta una  diminuzione
patrimoniale certa  che  consiste  nella  mancata  corresponsione  di
interessi per la dilazione del pagamento, ed anche  una  lesione  del
rapporto sinallagmatico, atteso  che  le  somme  in  questione  hanno
natura retributiva, sia pure differita. 
    Il differimento dell'indennita' di buonuscita non risponde ad una
logica di riduzione della spesa, ma di mero rinvio della stessa; lede
il principio di affidamento del  magistrato  nell'ordinario  sviluppo
economico della carriera, comprensivo del trattamento collegato  alla
cessazione del rapporto di impiego. Va altresi'  considerato  che  il
pensionamento dei magistrati e' legato al raggiungimento del 75° anno
di eta', ragione per cui il differimento nei pagamenti comporta anche
una potenziale vanificazione del beneficio. 
    Vengono discriminati in peius i pubblici dipendenti,  tra  cui  i
magistrati, rispetto a tutti gli altri cittadini  e  lavoratori,  con
evidente violazione dell'art. 3 della  Costituzione,  oltre  che  del
principio solidaristico, proclamato dal precedente art. 2. Ma  appare
chiara  anche  la  violazione  dell'art.   36   della   Costituzione,
consistendo il trattamento  di  fine  rapporto  in  una  retribuzione
differita. 
    4. - Accertamento dell'intervenuta abrogazione  della  disciplina
sulla indennita' di buonuscita operata,  dal  1°  gennaio  2011,  dal
comma 10 dell'art. 12 del d.l. n. 70 del 2010, convertito in legge n.
122   del   2010    e    conseguente    domanda    di    declaratoria
dell'illegittimita' del perdurare del  prelievo  del  2,50%  sull'80%
della retribuzione del  ricorrente  (sin  qui  operata  a  titolo  di
rivalsa sull'accantonamento per la  indennita'  di  buonuscita),  con
ulteriore domanda di restituzione degli accantonamenti gia'  eseguiti
e che verranno eseguiti in corso di giudizio; in subordine istanza di
rimessione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale  per   accertare
l'illegittimita' del perdurare del prelievo. 
    La norma in questione impone che a decorrere dal 1° gennaio  2011
il computo dei  trattamenti  di  fine  servizio  comunque  denominati
avvenga  secondo  la  disciplina  di  cui  all'art.  2120  del  c.c.,
stabilendo un accantonamento del 6,91% sull'intera retribuzione. 
    Sino al 31 dicembre 2010  la  normativa  imponeva  al  datore  di
lavoro pubblico un  accantonamento  complessivo  del  9,60%  sull'80%
della retribuzione lorda, con una trattenuta a carico del  dipendente
pari al 2,50% sempre sull'80% della retribuzione (art. 37 del  d.P.R.
n. 1032 del 1973). 
    Deve  ritenersi  che  l'intero  complesso  normativo  da   ultimo
indicato sia implicitamente abrogato dal predetto art. 12, comma  10,
tanto e' che dal 1º gennaio 2011 la ritenuta  a  carico  dello  Stato
datore di lavoro non sara' piu' del 9,60 sull'80% della retribuzione,
bensi' del 6,91% sull'intera retribuzione; se cosi' e', deve  cessare
dalli gennaio  2011  anche  la  ritenuta  del  2,50%  sull'80%  della
retribuzione a carico dei dipendenti pubblici. 
    Cio'  nonostante,  il  prelievo  del  2,50%  continua  ad  essere
illegittimamente praticato; e dunque lo Stato datore di lavoro dovra'
essere condannato a cessare tale prelievo per  il  futuro,  e  quelli
gia' praticati dovranno essere restituiti. 
    In  ogni  caso,  l'applicazione  della   nuova   disciplina   sul
trattamento di fine rapporto con il perdurare della ritenuta a carico
del dipendente costituisce una consistente  lesione  dell'aspettativa
ad  un  trattamento  di  fine  rapporto  il  piu'  possibile   simile
all'indennita' di buonuscita. 
    Si  prospetta   dunque   una   violazione   dell'art.   3   della
Costituzione, nel senso che la disciplina  sul  trattamento  di  fine
rapporto di cui all'art. 2120 del c.c. viene ad incidere,  a  parita'
di retribuzione, in misura deteriore sui dipendenti pubblici rispetto
a quelli privati, nei cui  confronti  non  e'  prevista  rivalsa  del
datore di lavoro, ed al contempo la  violazione  dell'art.  36  della
Costituzione. 
    Si e' costituita in giudizio  la  Presidenza  del  Consiglio  dei
ministri   resistendo   alle   censure,   anche   di   illegittimita'
costituzionale,  svolte  da  parte  ricorrente,  e   chiedendone   la
reiezione. 
    All'udienza del 21 dicembre 2011 la causa e' stata trattenuta  in
decisione. 
 
                            D i r i t t o 
 
    1. - Modificando l'ordine di trattazione delle questioni rispetto
a quello prospettato da parte ricorrente, appare utile,  al  fine  di
comprendere la portata dell'art. 9, comma 22,  del  d.l.  n.  78  del
2010, che detta le  disposizioni  di  «contenimento  delle  spese  in
materia di pubblico impiego» con  specifico  riguardo  ai  magistrati
(personale di cui alla legge n. 27  del  1981),  considerare  che  il
trattamento economico dei medesimi  e'  disciplinato  dalla  legge  2
aprile 1979, n. 97, ed e' costituito dallo stipendio tabellare (cioe'
determinato in conformita' delle tabelle allegate alla legge stessa),
cui vanno aggiunte l'indennita' integrativa speciale  e  l'indennita'
giudiziaria. 
    In particolare, gli artt.  11-12  della  legge  n.  97  del  1979
stabiliscono che «gli stipendi del personale  di  cui  alla  presente
legge  sono  adeguati  di  diritto,  ogni  triennio,   nella   misura
percentuale pari alla media degli incrementi realizzati nel  triennio
precedente dalle altre categorie dei pubblici dipendenti per le  voci
retributive calcolate dall'Istituto centrale di  statistica  ai  fini
della elaborazione degli indici delle retribuzioni contrattuali,  con
esclusione della indennita'  integrativa  speciale»  (comma  1);  «la
variazione percentuale e'  calcolata  rapportando  il  complesso  del
trattamento economico medio per unita' corrisposto  nell'ultimo  anno
del triennio di riferimento a quello dell'ultimo  anno  del  triennio
precedente ed ha effetto  dal  1°  gennaio  successivo  a  quello  di
riferimento» (comma 3); «gli stipendi al 1° gennaio del secondo e del
terzo anno di ogni triennio  sono  aumentati,  a  titolo  di  acconto
sull'adeguamento triennale, per ciascun anno e con riferimento sempre
allo stipendio in vigore al  1°  gennaio  del  primo  anno,  per  una
percentuale  pari  al  30  per  cento  della  variazione  percentuale
verificatasi fra le retribuzioni dei dipendenti pubblici nel triennio
precedente, salvo conguaglio a decorrere dal 1° gennaio del  triennio
successivo» (comma 4). 
    Si  inferisce  dall'esposto  quadro  concernente  il  trattamento
economico  che,  per  effetto  della  legge  n.  27  del   1981,   la
determinazione degli stipendi dei magistrati e' sottratta a qualsiasi
genere  di  contrattazione,  caratterizzandosi   come   un   «sistema
automatico» regolato dalla legge; cio'  in  attuazione  del  precetto
costituzionale dell'indipendenza  dei  magistrati  (inferibile  dagli
artt. 101, 104, 108, e segnatamente, con riguardo ai magistrati della
Corte  dei  conti,  dall'art.  100  della   Costituzione),   che   va
salvaguardata,   secondo    l'insegnamento    della    giurisprudenza
costituzionale, anche sotto il profilo economico, evitando  che  essi
siano soggetti a periodiche rivendicazioni  nei  confronti  di  altri
poteri, costituendo tale  automatismo  una  guarentigia  idonea  allo
scopo (Corte cost., 16 gennaio 1978, n. 1; 8 maggio 1990, n. 238;  10
febbraio 1993, n. 42; 27 luglio 1995, n. 409). 
    2. - A questo punto e' opportuno evidenziare  i  contenuti  della
disciplina  introdotta  dal  d.l.  n.  78  del  2010  incidenti   sul
trattamento retributivo, che non si limitano  alla  disposizione  del
comma  22,  specificamente  rivolta  al  personale  di  magistratura,
dovendosi tenere conto anche di quanto previsto in via  generale  dal
comma 2 del medesimo corpus legislativo. 
    Schematicamente,  si  rileva  che:  a)  per  tutti  i  dipendenti
pubblici (appartenenti alle amministrazioni  pubbliche  inserite  nel
conto economico consolidato della pubblica amministrazione, e  dunque
anche per i magistrati) a decorrere dal 1º gennaio 2011 e sino al  31
dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi superiori a  90.000
euro lordi annui sono ridotti del 5 per cento per la parte  eccedente
il predetto importo fino a 150.000 euro, nonche' del 10 per cento per
la parte eccedente 150.000 euro (comma 2); b) per i  soli  magistrati
e' stato previsto il blocco degli acconti per gli  anni  2011/2013  e
dei conguagli per il triennio 2010/2012 (comma 22, prima periodo); c)
per i soli magistrati e' previsto un «tetto» per l'acconto per l'anno
2014 che non puo' superare quello dell'anno 2010 ed un «tetto» per il
conguaglio dell'anno 2015, che sara' determinato con riferimento agli
anni 2009, 2010 e  2014,  escludendo  dunque  il  triennio  2011/2013
(comma 22, primo periodo); d) per i soli magistrati e'  stabilita  la
riduzione annualmente progressiva (15, 25 e 32  per  cento),  per  il
trienno 2011/2013, dell'indennita' giudiziaria di cui alla  legge  n.
27 del 1981 (comma 22, secondo periodo); e) allo stesso tempo, per  i
soli, magistrati (diversamente, dunque,  dalle  altre  categorie  del
pubblico impiego non contrattualizzato), sono stati  salvaguardati  i
meccanismi di «progressione automatica dello stipendio» per gli  anni
2011/2013, vale a dire le classi e gli scatti di carriera (comma  22,
ultimo periodo). 
    Appare al Collegio incontestabile fin da ora  che  le  misure  di
contenimento delle spese del pubblico impiego previste dalle norme in
esame  incidono  significativamente  sul  trattamento  economico  dei
magistrati, alterando altresi' l'euritmia di un sistema  che  prevede
un meccanismo automatico di  determinazione  dello  stesso,  regolato
dalla legge ordinaria, al fine, come gia' evidenziato, di  assicurare
l'autonomia e l'indipendenza dei giudici. 
    Ne consegue  che  le  questioni  di  legittimita'  costituzionale
prospettate dal ricorrente o comunque  rilevabili,  anche  d'ufficio,
dalle  norme  del  d.l.  n.  78  del  2010  sono  rilevanti   e   non
manifestamente infondate, come gia' ritenuto da  altre  ordinanze  di
rimessione alla Corte costituzionale (cfr. T.A.R. Trento, 14 dicembre
2011, n. 3107; T.A.R. Campania, Salerno, 23  giugno  2011,  n.  1162;
T.A.R. Piemonte, Sez. II, 28 luglio 2011, n. 846; T.A.R. Veneto, Sez.
I, 15 novembre 2011, n. 1685). 
    La rilevanza della questione e' di intuitiva evidenza e  discende
dal fatto che le norme di cui ai commi 2 e 22 dell'art. 9 del d.l. n.
78 del 2010 trovano applicazione dal primo gennaio  del  2011,  cosi'
che il ricorrente ha subito il mancato  incremento  del  3,04%  della
voce stipendio (corrispondente al secondo acconto spettante ai  sensi
del  d.P.C.M.  23  giugno   2009),   la   riduzione   dell'indennita'
giudiziaria, nel corso del 2011 nella misura del 15 per cento, e  dal
corrente anno 2012 nella misura  del  25  per  cento,  oltre  che  la
riduzione del trattamento economico complessivo, del 5 per cento  una
volta superati i 90.000 euro annui lordi, e  del  10  per  cento  una
volta superati i 150.000 euro. 
    Molteplici sono poi i dubbi di legittimita' costituzionale  della
manovra finanziaria. 
    In primo  luogo,  riprendendo  argomenti  gia'  anticipati,  deve
sottolinearsi la  non  ragionevolezza  della  decurtazione,  disposta
dalla prima parte del  comma  22,  del  trattamento  retributivo  dei
magistrati, caratterizzato da un automatismo  legale,  che  si  pone,
esso  stesso,  come  guarentigia  idonea  a  garantire  il   precetto
costituzionale dell'autonomia ed indipendenza dei giudici, valore che
deve essere salvaguardato  anche  sul  piano  economico;  di  qui  il
ravvisato contrasto non solo con l'art. 3, ma  anche  con  gli  artt.
100, 101, 104 e 108 della Carta costituzionale. 
    E' pur vero che la Carta costituzionale non  contiene  previsioni
specifiche  sulle  retribuzioni   dei   magistrati,   finalizzate   a
garantirne l'indipendenza economica, benche' la questione  sia  stata
ampiamente   discussa   nei   lavori    dell'Assemblea    costituente
(significativo e' il resoconto della seduta del 28 novembre 1947), ma
e'  indubbio  che  il  problema  si  pone  in  modo   particolarmente
significativo, in ragione del  «prestigio  istituzionale»  (collegato
alla  delicatezza  ed  importanza  della  funzione)  e  della  stessa
indipendenza della funzione. 
    Giova, a questo proposito, sottolineare come anche la c.d. «Magna
Carta dei Giudici (principi fondamentali)» approvata a Strasburgo  il
17 novembre 2010 dal Consiglio Consultivo dei giudici europei  (CCJE)
presso il  Consiglio  d'Europa,  agli  artt.  2  e  4,  sancisce  che
l'indipendenza dell'ordine giudiziario rispetto ai poteri legislativo
ed esecutivo va garantita anche  sotto  il  profilo  finanziario;  il
successivo art.  7  prevede  apertis  verbis  che  «il  giudice  deve
beneficiare di  una  remunerazione  e  di  un  sistema  previdenziale
adeguati e garantiti dalla legge, che lo mettano al  riparo  da  ogni
indebita influenza»; la coeva Raccomandazione CM/Rec  (2010)  12  del
Comitato dei ministri agli Stati membri  (con  valore  di  soft  lavv
internazionale), da parte sua, al punto 54, chiede espressamente agli
Stati che  siano  «adottate  specifiche  disposizioni  di  legge  per
garantire  che  non  possa  essere  disposta  una   riduzione   delle
retribuzioni rivolta specificamente ai giudici». 
    In altri termini, il trattamento economico  del  magistrato  deve
essere garantito dai requisiti della certezza e  continuita',  e  non
soggetto a  decurtazioni  che,  specie  allorche'  siano  ricorrenti,
possono tradursi in una surrettizia menomazione delle garanzie  della
sua indipendenza ed autonomia. 
    La scarsa ragionevolezza ed aderenza alla raccomandazione europea
(senza  ipotizzare  una  forma  di  sfiducia,  incompatibile  con  il
principio  di  leale  collaborazione  istituzionale)   delle   misure
adottate nei  confronti  del  personale  di  magistratura  appare  in
qualche misura corroborata dalla disposizione dell'art. 16, comma  7,
del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito nella legge 15 luglio 2011,
n. 111, alla cui stregua «qualora,  per  qualsiasi  ragione,  inclusa
l'emanazione di provvedimenti giurisdizionali diversi dalle decisioni
della  Corte  costituzionale,  non  siano  conseguiti   gli   effetti
finanziari  utili  conseguenti,  per  ciascuno  degli   stessi   anni
2011-2013, alle disposizioni di cui ai commi 2 e 22 dell'art.  9  del
decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 30 luglio 2010, n. 122,  i  medesimi  effetti  finanziari
sono  recuperati,  con  misure  di  carattere   generale,   nell'anno
immediatamente successivo nei  riguardi  delle  stesse  categorie  di
personale cui si applicano le predette disposizioni». 
    3. - Non ignora il Collegio che il «giudice delle leggi»  ha  nel
passato (cfr. Corte cost., 14 luglio 1999, n. 299; 18 luglio 1997, n.
245) ritenuto infondata la questione di  costituzionalita'  di  norme
che disponevano il blocco  degli  incrementi  retributivi  dovuti  ad
automatismi stipendiali o progressioni economiche  legato  a  manovre
finanziarie  eccezionali  connesse  alla  necessita'  di   recuperare
l'equilibrio di bilancio, ma l'imposizione di sacrifici  eccezionali,
transitori,  e'   stata   consentita   a   condizione   che   fossero
ragionevolmente ripartiti tra diverse categorie di  cittadini,  oltre
che  idonei  allo  scopo  prefisso;  in  particolare  la   Corte   ha
sottolineato che l'art. 7 del  d.l.  n.  384  del  1992  imponeva  ai
pubblici dipendenti il  sacrificio  di  un  anno,  e  costituiva  una
manovra di contenimento della spesa pubblica incidente non  solo  sui
pubblici dipendenti, ma anche su altre categorie di lavoratori. 
    Ma di tale  dimensione  solidaristica  appare  priva  la  manovra
finanziaria  contenuta  nel  d.l.  n.  78  del  2010,  che   colpisce
pesantemente,  ancora  una  volta,  solamente   l'impiego   pubblico,
facilmente «aggredibile», senza tenere conto, tra l'altro, del  fatto
che  ne  rimangono  immuni  (anche  a  seguito   del   c.d.   decreto
«salva-Italia» 6 dicembre 2011, n. 201,  convertito  nella  legge  22
dicembre  2011,  n.  214)  i  soggetti  che  con  le  amministrazioni
pubbliche intrattengono solamente un rapporto di  servizio  onorario,
ovviamente tutt'altro che gratuito. 
    Si evidenzia in questa prospettiva la violazione del principio di
eguaglianza e del principio solidaristico di cui agli  artt.  3  e  2
della Costituzione,  venendo  discriminati  in  peius  i  magistrati,
frustrando  la  loro  legittima  aspettativa  all'ordinario  sviluppo
economico della carriera. 
    Allo stesso tempo, i «blocchi stipendiali» violano  il  principio
di proporzionalita' della retribuzione alla quantita' e qualita'  del
lavoro  prestato,  sancito  dall'art.  36  della  Costituzione,  come
effetto conseguente alla circostanza che e' la legge a determinare lo
stipendio  nell'impiego   pubblico   non   contrattualizzato.   Detta
proporzionalita', se non altro dal punto di vista «quantitativo»,  e'
evidentemente vulnerata, atteso  che  si  e'  determinato  un  taglio
lineare delle retribuzioni a fronte di un carico di lavoro che,  come
noto, risulta progressivamente  crescente,  anche  in  considerazione
della mancata copertura dei posti in organico. 
    4. -  Con  riguardo,  poi,  all'indennita'  giudiziaria  (di  cui
all'art. 3 della legge n. 27 del 1981), la significativa riduzione in
incremento progressivo nel  triennio  2011/2013  (15%,  25%  e  32%),
prevista dal secondo periodo del comma 22 dell'art. 9 del d.l. n.  78
del 2010, ne tradisce anzitutto la sua funzione di «rimborso  spese»;
la stessa, come posto in evidenza  dalla  Corte  costituzionale,  per
giustificarne  la  corresponsione  solamente  in  caso  di   servizio
effettivamente prestato, e' «espressamente correlata  ai  particolari
oneri che  i  magistrati  incontrano  nello  svolgimento  della  loro
attivita', la quale, tra l'altro, comporta un impegno  senza  precisi
limiti temporali» (sentenza 8 maggio 1990, n. 238;  ord.  23  ottobre
2008, n. 346). 
    Inoltre, trattandosi di una componente essenziale del trattamento
retributivo   del   magistrato,   la   decurtazione   dell'indennita'
giudiziaria e' disposta in ulteriore violazione  dell'art.  36  della
Costituzione. 
    Ove poi, introducendo una prospettiva  che  sara'  nel  prosieguo
maggiormente sviluppata, si ritenga che la norma di legge oggetto  di
scrutinio, piu' che imporre una decurtazione stipendiale, consista in
una prestazione patrimoniale imposta,  di  natura  tributaria  (nella
misura in cui si traduce nell'ablazione  di  somme  con  attribuzione
delle stesse ad un ente pubblico e nella loro destinazione allo scopo
di apprestare mezzi per il fabbisogno finanziario  dell'ente  stesso:
cosi' Corte cost., 12 gennaio 1995, n. 11; 10 febbraio 1982, n.  26),
allora appare particolarmente evidente la sua connotazione  selettiva
a danno dei magistrati, in  violazione  dell'art.  53,  primo  comma,
della Carta,  che  sancisce  il  principio  della  generalita'  delle
imposte,  cui  tutti  sono   chiamati   a   concorrere   in   ragione
esclusivamente della propria capacita' contributiva. 
    In questa direzione, a  ben  vedere,  non  e'  difficile  neppure
individuare una violazione del secondo comma del'art. 53, trattandosi
di  un  tributo  sostanzialmente  regressivo,  in   quanto,   essendo
l'indennita' giudiziaria  corrisposta  in  misura  eguale  a  ciascun
magistrato,  la  sua  applicazione  uniforme  finisce   per   colpire
maggiormente i magistrati con retribuzione complessiva  inferiore,  e
dunque con minore anzianita' di servizio. 
    5. - L'introdotto argomento del  prelievo  di  valore  tributario
impone poi di completare la  disamina  con  riferimento  al  comma  2
dell'art. 9  del  d.l.  n.  78  del  2010,  a  norma  del  quale  «in
considerazione  della  eccezionalita'  della   situazione   economica
internazionale  e  tenuto  conto  delle   esigenze   prioritarie   di
raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede
europea, a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i
trattamenti economici complessivi dei singoli  dipendenti,  anche  di
qualifica dirigenziale, previsti dai  rispettivi  ordinamenti,  delle
amministrazioni pubbliche inserite nel  conto  economico  consolidato
della  pubblica  amministrazione,  come   individuate   dall'Istituto
nazionale di statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3,  dell'art.  1,
della legge 31 dicembre 2009, n. 196, superiori a 90.000  euro  lordi
annui sono ridotti del 5 per cento per la parte eccedente il predetto
importo fino a 150.000 euro, nonche' del 10 per cento  per  la  parte
eccedente 150.000 euro». 
    Proprio alla  luce  dei  parametri  ermeneutici  enucleati  dalla
giurisprudenza costituzionale, appare difficilmente contestabile  che
tale disposizione, piuttosto che caratterizzarsi come  una  riduzione
stipendiale (melius, come una  riduzione  dei  trattamenti  economici
complessivi), abbia natura tributaria; ed  infatti  ricorrono  i  due
elementi dell'imposizione  di  un  sacrificio  economico  individuale
realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio,  e
della destinazione del gettito scaturente da tale ablazione  al  fine
di integrare la finanza pubblica; non occorre, del resto, una formale
definizione in termini tributari del prelievo (Corte cost., 8  maggio
2009, n. 141). 
    In particolare, si e' al cospetto di un atto normativo, e  dunque
autoritativo,   incidente   su   di    un    trattamento    economico
predeterminato, in quanto tale costituente diritto quesito,  adottato
al dichiarato  scopo  del  raggiungimento  di  obiettivi  di  finanza
pubblica. Anche con riguardo alle modalita' applicative, il  prelievo
non viene attuato mensilmente  (come  accadrebbe  per  una  riduzione
stipendiale in senso proprio), ma opera al momento del raggiungimento
dello scaglione reddituale preso a parametro; si aggiunga ancora  che
indice assai significativo della natura tributaria  del  prelievo  e'
proprio il fatto che lo stesso opera al progressivo raggiungimento di
due differenti scaglioni (90.000 e 150.000 euro),  cui  si  applicano
aliquote crescenti (5 e 10 per cento). 
    Se cosi' e', torna in rilievo la violazione degli artt.  53  e  3
della Costituzione, in  quanto  il  prelievo  colpisce  solamente  la
categoria  dei  dipendenti  pubblici  (nel  cui  novero  rientrano  i
magistrati), in contrasto con il principio della «universalita' della
imposizione, desumibile dalla espressione testuale «tutti» (cittadini
o non cittadini, in qualche modo con rapporti di collegamento con  la
Repubblica italiana) [che] deve essere intesa nel  senso  di  obbligo
generale, improntato al principio di eguaglianza ...,  di  concorrere
alle «spese pubbliche in ragione della loro  capacita'  contributiva»
(con riferimento al singolo tributo ed al complesso della imposizione
fiscale), come dovere inserito nei  rapporti  politici  in  relazione
all'appartenenza del soggetto alla collettivita' organizzata»  (Corte
cost., ord. 24 luglio 2000, n. 341). 
    Il corollario del comma 2 e'  che  la  categoria  dei  dipendenti
pubblici viene  selezionata  dalla  platea  dei  contribuenti,  senza
valutare se esistano altri contribuenti con reddito pari o superiore,
con buona pace anche del criterio della perequazione tributaria. 
    Appare chiaro che la violazione dell'art. 3 della Costituzione e'
comunque sempre ravvisabile, a prescindere  dalla  natura  tributaria
del prelievo, sia prendendo a parametro  l'amplissima  categoria  dei
«cittadini», rispetto alla  quale  i  dipendenti  pubblici  risultano
discriminati ratione status a parita' di capacita' economica, sia  la
categoria piu' ristretta dei «lavoratori»,  risultando  i  dipendenti
pubblici discriminati rispetto ai dipendenti privati,  come  pure  ai
lavoratori autonomi, i quali, a parita'  di  reddito,  non  subiscono
alcuna incisione patrimoniale. 
    Particolarmente  significativo  ad  evidenziare  una   situazione
disparitaria appare, al riguardo, l'art. 2 del d.l. 13  agosto  2011,
n. 138, convertito nella legge 14 settembre 2011, n.  148,  rubricato
«disposizioni in materia di entrate», prescrivente, al comma  2,  che
«in considerazione della eccezionalita'  della  situazione  giuridica
economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di
raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede
europea, a decorrere dal 1° gennaio 2011 e fino al 31  dicembre  2013
sul reddito complessivo di cui  all'art.  8  del  testo  unico  sulle
imposte sui redditi di cui al d.P.R. 22  dicembre  1986,  n.  917,  e
successive modificazioni, di importo superiore a 300.000  euro  lordi
annui, e' dovuto un contributo di solidarieta' del 3 per cento  sulla
parte eccedente il predetto importo». Detta  norma,  il  cui  incipit
(melius,  se  consentito,  la  cui  giustificazione)  e'  esattamente
sovrapponibile a quello dell'art. 9, comma 2,  del  d.l.  n.  78  del
2010, impone un contributo di solidarieta', secondo quanto desumibile
anche dalle modalita' tecniche di attuazione, contenute  nel  recente
d.m. 21 novembre 2011, per i redditi complessivi superiori a  300.000
euro lordi, pari al 3 per cento sulla parte eccedente detto importo. 
    Si evidenzia che, pur in presenza di  un  analogo  fondamento  di
razionalita', diversamente che per i redditi dei dipendenti pubblici,
il contributo di solidarieta' scatta, e per  giunta  nella  inferiore
misura del 3 per  cento,  solamente  per  i  redditi  complessivi  di
importo  superiore  a  300.000  euro  lordi  annui,  costituente   un
parametro imponibile piu' che triplo rispetto al primo scaglione  dei
90.000, e doppio rispetto al secondo scaglione dei 150.000  euro;  e'
inoltre deducibile dal  reddito  complessivo.  Giova  aggiungere  che
l'art. 2, comma 2, del d.l. n. 138 del 2011 dispone espressamente che
«ai fini della verifica del superamento del limite  di  300.000  euro
rileva[no] anche il reddito di lavoro dipendente di cui  all'art.  9,
comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2010,  n.  78,  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n.  122,  al  lordo  della
riduzione  ivi  prevista»;  vale  a  dire  che   il   contributo   di
solidarieta' si applica anche ai redditi complessivi che  hanno  gia'
subito la decurtazione di cui all'art. 9 del d.l.  n.  78  del  2010,
seppure allorche' raggiungano il superiore importo, senza dunque  che
si verifichi una doppia imposizione. 
    E' intuitivo come il dubbio di illegittimita' lambisce  anche  il
parametro costituito dall'art.  2  della  Carta  e  dai  principi  di
solidarieta'  sociale,  politica  ed  economica  ivi   fissati,   cui
corrispondono «doveri inderogabili». 
    In linea assoluta, appare intrinsecamente irragionevole anche  la
prestazione patrimoniale imposta  ai  soli  dipendenti  pubblici  con
redditi  piu'  elevati,  giustificati  dalla  qualita'  del  servizio
prestato,  dalla  difficolta'  delle  selezioni  per   l'accesso   al
medesimo, nonche' dal corrispondente regime di responsabilita'. 
    6. - Un'ulteriore considerazione, almeno in  parte  gia'  svolta,
accomuna il comma 2 ed il comma 22 dell'art. 9 del  d.l.  n.  78  del
2010, e cioe' il fatto che le  disposizioni  negli  stessi  contenute
violano il principio di affidamento del cittadino,  nella  misura  in
cui rideterminano con effetto ablatorio il trattamento economico gia'
acquisito alla sfera del pubblico dipendente come diritto soggettivo. 
    Si tratta di  norme  che  incidono  sullo  status  economico  del
ricorrente;  non   ignora   il   Collegio   che   la   giurisprudenza
costituzionale, pur contrastando cio' con il  principio  (invero  non
costituzionalizzato, seppure di estesa applicazione) del  divieto  di
reformatio in peius, e' orientata nel senso  che  per  i  diritti  di
natura economica connessi al rapporto di impiego pubblico, anche  nei
confronti di norme retroattive, non esiste altro  limite  che  quella
della ragionevolezza (tra le varie, Corte cost., 12 novembre 2002, n.
446); peraltro non puo' non dubitarsi  proprio  della  ragionevolezza
delle norme oggetto di scrutinio, che producono come  effetto  quello
della riduzione,  prolungata  nel  tempo,  e  comunque  oltre  l'arco
annuale, dei trattamenti retributivi dei dipendenti pubblici,  in  un
contesto in cui verosimilmente  piu'  efficaci  a  fare  fronte  agli
obiettivi di finanza pubblica  sarebbero  stati  altri  strumenti  di
contenimento  della  spesa,  di   tipo   strutturale,   ancora   oggi
(inevitabilmente) all'ordine  del  giorno  nell'agenda  politica,  in
quanto i soli a produrre un risparmio continuativo, e non episodico. 
    A fronte di un saldo  di  finanza  pubblica  non  particolarmente
significativo per l'Amministrazione, appare di intuitiva evidenza,  e
non richiede dunque  particolari  sottolineature,  il  fatto  che  il
prestatore di lavoro pubblico (e quindi anche  il  magistrato)  abbia
maturato   un   legittimo   affidamento   sul   proprio   trattamento
retributivo, parametrando a questo il proprio tenore di vita ed anche
eventuali esborsi programmati (come, ad esempio, la contrazione di un
mutuo). 
    7.  -  Per  quanto  concerne,  poi,  i   prospettati   dubbi   di
legittimita' costituzionale delle modifiche apportate alla disciplina
dell'indennita' di' buonuscita dall'art. 12 del d.1. n. 78 del  2010,
il Collegio ritiene anzitutto, in qualita' di giudice a quo, di avere
giurisdizione in tale materia, in quanto, pur essendo l'art. 6  della
legge 20 marzo 1980, n. 75 stato abrogato dall'art. 4,  comma  1,  n.
12, dell'allegato 4 al d.lgs. 2  luglio  2010,  n.  104  (cod.  proc.
amm.), la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo  risulta
confermata dall'art. 133, comma 1,  lett.  i),  dello  stesso  codice
sulle «controversie relative ai rapporti di lavoro del  personale  in
regime di diritto pubblico». Ed e' indubbia, anche secondo  la  Corte
regolatrice della giurisdizione  (in  termini  Cass.,  sez.  Un.,  24
dicembre 2009, n. 27304; 2 luglio 2008, n. 18038),  l'inerenza  della
controversia sull'indennita' di buonuscita ad un diritto attinente al
rapporto di pubblico impiego (oggetto di giurisdizione esclusiva  del
giudice amministrativo). 
    Cio' premesso, occorre precisare che, in forza di quanto previsto
dall'art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, «con  effetto  sulle
anzianita' contributive maturate a decorrere dal 1° gennaio 2011, per
i lavoratori alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche inserite
nel conto economico consolidato della pubblica  amministrazione,  ...
per i quali il computo dei trattamenti  di  fine  servizio,  comunque
denominati, in riferimento alle predette anzianita' contributive  non
e' gia' regolato in base a quanto previsto dall'art. 2120 del  codice
civile in materia di trattamento di fine  rapporto,  il  computo  dei
predetti trattamenti di fine servizio si effettua secondo  le  regole
di cui al citato articolo 2120 del codice  civile,  con  applicazione
dell'aliquota del 6,91 per cento». 
    Dal  primo  gennaio  2011  la  disciplina  della  buonuscita  dei
magistrati viene dunque ad essere assoggetta al differente regime  di
cui all'art. 2120 del codice civile, concernente  il  trattamento  di
fine rapporto. 
    Tale innovazione, a carattere strutturale (non  essendo  prevista
per un limitato arco temporale, seppure giustificata,  anch'essa,  «a
titolo di concorso al consolidamento dei conti pubblici», in funzione
del contenimento  della  dinamica  della  spesa  corrente),  modifica
sensibilmente  in  peggio  il  trattamento  di  fine   servizio   dei
dipendenti pubblici, ed in particolare dei magistrati, e rende dubbia
la legittimita' costituzionale del comma 7 dello stesso art.  12  del
d.l.  n.  78  del  2010,  che  consente   lo   scaglionamento   delle
corresponsione dell'indennita' (fino a tre importi annuali, a seconda
dell'ammontare complessivo della prestazione),  in  quanto  determina
una perdita patrimoniale certa, se non altro in ragione della mancata
previsione di interessi per la dilazione  del  pagamento,  in  deroga
alla disciplina delle obbligazione pecuniarie. 
    Si intende osservare che se lo  scaglionamento  della  buonuscita
poteva  giustificarsi  nella  logica  della  specificita'   di   tale
istituto, peraltro espressione  del  quid  propium  del  rapporto  di
pubblico impiego, una volta intervenuta la scelta del legislatore  di
prevedere  un  regime  comune  del  trattamento  di   fine   servizio
applicabile a tutti i lavoratori dipendenti, pubblici e privati,  non
appare  ragionevole  imporre   ai   soli   dipendenti   pubblici   lo
scaglionamento dell'indennita' di buonuscita. Cio' si riflette  anche
in termini  di  violazione  del  principio  di  eguaglianza,  di  cui
all'art. 3 della Costituzione, e di  violazione  dell'art.  36  della
Costituzione,  caratterizzandosi  la  buonuscita  come  «retribuzione
differita» (pur se legata ad una concorrente funzione previdenziale). 
    Tale   differimento   presenta   un   aggiuntivo   carattere   di
irragionevolezza  per  il   personale   di   magistratura,   il   cui
pensionamento e' legato al compimento del settantacinquesimo anno  di
eta', epoca che, naturalmente oltre che statisticamente, abbrevia  le
prospettive di vita, e dunque anche di effettiva fruibilita' di  tale
retribuzione differita. 
    8. - Il ricorrente, con riferimento alla  gia'  richiamata  norma
del comma 10 dell'art. 12 del d.l. n. 78  del  2010,  lamenta  ancora
come l'estensione del regime di cui all'art. 2120 del c.c.  (ai  fini
del computo  dei  trattamenti  di  fine  servizio)  sulle  anzianita'
contributive  maturate  a  fare  tempo  dal  1º  gennaio  2011,   con
applicazione  dell'aliquota  del  6,91  per  cento,  avrebbe   dovuto
comportare il venire meno della trattenuta a  carico  del  dipendente
pari al 2,50 per cento  della  base  contributiva  della  buonuscita,
costituita  dall'80  per  cento  dello  stipendio.  Tale  trattenuta,
operata a titolo di rivalsa sull'accantonamento per  l'indennita'  di
buonuscita, e' prevista dall'art. 37 del d.P.R. 29 dicembre 1973,  n.
1032; ad avviso di parte ricorrente,  tale  norma,  come  pure,  piu'
ampiamente, lo stesso criterio di calcolo della base contributiva, di
cui  al  successivo  art.   38,   devono   ritenersi   abrogate   per
incompatibilita' con la norma sopravvenuta (per l'appunto, l'art. 12,
comma 10, del d.l. n. 78 del 2010), si che dal  1º  gennaio  2011  la
ritenuta a carico dello Stato datore di lavoro  non  sara'  piu'  del
9,60 sull'80 per cento dello stipendio, bensi'  del  6,91  per  cento
dell'intera retribuzione. 
    Il ricorrente allega come peraltro tale  prelievo  del  2,50  per
cento (per il ricorrente  ammontante  ad  euro  274,44)  continui  ad
essere illegittimamente praticato, come risulta  dai  cedolini  dello
stipendio versati in atti,  e  chiede  conseguentemente  la  condanna
dello Stato datore di lavoro a cessare tale  trattenuta,  restituendo
quelle indebitamente effettuate, od in subordine che sia sollevata la
questione di legittimita' costituzionale per violazione  dell'art.  3
della Costituzione (nella prospettiva  che  la  disciplina  dell'art.
2120 del c.c. verrebbe ad incidere, a  parita'  di  retribuzione,  in
misura deteriore sui dipendenti pubblici rispetto a  quelli  privati,
nei cui confronti non e' prevista rivalsa del  datore  di  lavoro)  e
dell'art. 36 (quanto meno nella  prospettiva  che  il  protrarsi  del
prelievo   sulla   retribuzione   del    dipendente    determinerebbe
un'illegittima   ed   irragionevole   riduzione   dell'accantonamento
finalizzato al trattamento di fine rapporto). 
    Osserva  il  Collegio   come,   effettivamente,   la   disciplina
introdotta  dall'art.  12,  comma  10,  innovi  profondamente  quella
contenuta nel t.u. delle  norme  sulle  prestazioni  previdenziali  a
favore dei dipendenti pubblici, e probabilmente, pur  non  contenendo
un'abrogazione  esplicita  della   normativa   precedente,   potrebbe
sostenersi, facendo applicazione dell'art. 15 delle  «preleggi»,  che
produca un'abrogazione implicita per incompatibilita' della normativa
precedente con quella successiva. 
    Sennonche', secondo i consueti criteri ermeneutici, l'abrogazione
tacita di una norma va dedotta dalla diretta incompatibilita' logica,
ossia dalla impossibilita'  di  coesistenza  della  norma  nuova  con
l'antica sullo  stesso  oggetto,  per  l'assoluta  contraddittorieta'
delle due disposizioni, ovvero dal fatto che la  nuova  legge  regola
l'intera materia, anche se in modo non del tutto incompatibile con la
singola norma precedente, e cio' perche'  la  disciplina  complessiva
importa il coordinarsi delle varie disposizioni di cui essa consta in
un  insieme  unitario,  che  non  tollera  contaminazioni  con  norme
logicamente ispirate a principi diversi (in termini Cons. Stato, Sez.
IV, 5 luglio 1995, n. 538; Sez. V, 21 giugno 2007, n. 3330). 
    Ora, nel caso di specie, non ricorre la seconda evenienza, atteso
che l'art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del  2010  non  contiene  una
disciplina organica sulle prestazioni  previdenziali  in  favore  dei
dipendenti dello Stato, che si sostituisca organicamente al d.P.R. n.
1032 del 1973; allo stesso tempo, non puo'  essere  affermato,  senza
margine alcuno di incertezza, che tra le norme  considerate  sussista
una contraddizione tale  da  renderne  impossibile  la  contemporanea
applicazione, o, per meglio dire,  (tale  che)  dall'applicazione  ed
osservanza   della   nuova   legge    derivi    necessariamente    la
disapplicazione  o  l'inosservanza  dell'altra  (Cass.,  Sez.  I,  21
febbraio 2001, n. 2502; Sez. lav., 1° ottobre 2002, n. 14129). Tra le
norme in esame non  sembra  dunque  ravvisabile  un'antinomia  logica
cosi' netta da escludere che l'applicazione dell'art. 12,  comma  10,
del d.l. n. 78 del 2010 consenta  anche  una  parallela  applicazione
della rivalsa nei confronti del dipendente, ai sensi dell'art. 37 del
d.P.R. n. 1032 del  1979  (in  tale  senso  sembra  orientarsi  anche
l'I.N.P.D.A.P. con la circolare n. 17 dell'8 ottobre 2010). 
    Ad avviso del Collegio,  peraltro,  se  puo'  sussistere  qualche
residuale perplessita' in ordine all'intervenuta  abrogazione  tacita
dell'art. 37 da ultimo citato,  appare  invece  molto  accentuato  il
dubbio di incostituzionalita' connesso all'applicazione in  combinato
disposto dell'art. 12, comma 10, del d.l.  n.  78  del  2010  con  la
rivalsa a carico del dipendente iscritto in misura pari al  2,50  per
cento della base contributiva. 
    Secondo la condivisibile tesi di parte ricorrente,  il  protrarsi
del prelievo del 2,50 per cento nella nuova disciplina concernente il
trattamento  di  fine  servizio  contrasta  con   il   principio   di
eguaglianza e con l'art.  36  della  Costituzione,  consentendo  allo
Stato datore di lavoro una  riduzione  dell'accantonamento,  illogica
anche perche' in nessuna misura collegata con la qualita' e quantita'
del lavoro prestato. 
    9. - Alla stregua di quanto esposto, la questione di legittimita'
costituzionale degli artt. 9, commi 2, 21 (ove necessario), 22, e 12,
commi 7 e 10, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito nella  legge
30  luglio  2010,  n.  122,  nei  vari  profili  evidenziati,  appare
rilevante e non manifestamente infondata per contrasto con gli  artt.
2, 3, 23, 36, 53, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione. 
    Ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n.  87  si  deve
dunque   rimettere   alla   Corte   costituzionale    la    soluzione
dell'incidente di costituzionalita',  con  sospensione  del  presente
giudizio e trasmissione degli atti alla stessa Corte  costituzionale,
riservata all'esito ogni altra decisione.