IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la presente ordinanza sul ricorso numero di registro generale 255 del 2011, proposto da: Agostino Chiappiniello, rappresentato e difeso dagli avv. Sandro Campilongo e Stefano Tarullo, con domicilio eletto presso la Segreteria del Tar Umbria, via Baglioni n. 3 (Perugia); Contro Presidenza del Consiglio dei ministri, in persona del Presidente pro-tempore, rappresentato e difeso ope legis dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, presso i cui uffici e' pure legalmente domiciliata in Perugia, via degli Offici, 14; Corte dei conti, in persona del Presidente pro-tempore, non costituita in giudizio; Per l'accertamento del diritto di parte ricorrente alla percezione del trattamento retributivo nella sua interezza, e con esclusione dell'applicazione delle norme del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, con conseguente condanna delle amministrazioni intimate, in solido, o secondo le rispettive responsabilita' e competenze, alla corresponsione delle somme dovute, oltre agli accessori di legge; Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Presidenza del Consiglio dei ministri; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 dicembre 2011 il Cons. Stefano Fantini e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; F a t t o Il ricorrente, magistrato contabile in servizio dal 4 marzo 1985, assegnato alla sede di Perugia con la qualifica di consigliere e stipendio di presidente di sezione, chiede l'accertamento del proprio diritto al trattamento retributivo nella sua interezza, con esclusione dunque delle decurtazioni prodotte dalle norme di cui all'art. 9 del d.l. 31 marzo 2010, n. 78, convertito nella legge 30 luglio 2010, n. 122, con conseguente condanna dell'aministrazione di appartenenza e della Presidenza del Consiglio dei ministri, previa rimessione degli atti alla Corte costituzionale. Espone che, a fare tempo dall'anno 2011, gli e' stata applicata la decurtazione stipendiale di euro 8.671,64 per effetto della riduzione di spesa coattivamente operata dall'art. 9, comma 2, del predetto d.l. n. 78 del 2010; nel corso del triennio 2011/2013 subira' il blocco dei meccanismi di adeguamento retributivo previsto dall'art. 9, comma 21 dello testo legislativo; inoltre subisce la trattenuta della percentuale della indennita' giudiziaria di cui alla legge n. 27 del 1981, che e' pari ad euro 2.013,07 per l'anno 2011, di euro 3.355,11 per l'anno 2012, e di euro 4.294,55 per l'anno 2013, in applicazione dell'art. 9, comma 22; infine, al momento della cessazione del rapporto, subira' l'applicazione dell'art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, che prevede la rateizzazione della corrispondente indennita', mentre fin da subito subisce gli effetti dannosi dell'applicazione del comma 10, che dispone la sostituzione dell'indennita' di buonuscita con il meno favorevole trattamento di fine rapporto, pur perdurando sui dipendenti pubblici la trattenuta aggiuntiva del 2,50% sull'80% della retribuzione, in aggiunta all'aliquota, a tutti i lavoratori dipendenti applicabile, del 6,91% prevista dall'art. 2120 del c.c. Nel censurare le suddette disposizioni di legge, deduce a sostegno delle pretese azionate la violazione degli artt. 2, 3, 24, 36, 41, 42, 53, 97, 100, 101, 108, 111 e 113 della Costituzione, nonche' l'eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche, e segnatamente l'assoluta illogicita' ed irrazionalita', l'ingiustizia manifesta, l'errata valutazione dei presupposti, la carenza di istruttoria, il difetto di motivazione, l'omessa ponderazione di interessi rilevanti, lo sviamento, la contraddittorieta' intrinseca ed estrinseca dell'atto, la violazione del principio del «giusto procedimento». 1. - Con riferimento al comma 2 dell'art. 9, si solleva la questione di legittimita' costituzionale della disposizione, nella parte in cui prevede specifiche misure di riduzione delle remunerazioni piu' elevate, ed in particolare la decurtazione, nella percentuale del 5% e del 10%, delle quote di trattamento economico superiori, rispettivamente, ad euro 90.000 ed euro 150.000 annui lordi. Anzitutto viene dedotto il contrasto della norma con l'art. 53 della Costituzione e la lesione dei principi di proporzionalita' e progressivita' dell'imposizione, anche con riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione. L'art. 9, comma 2, oggetto di censura, presenta un'indubbia natura tributaria, atteggiandosi alla stregua di prelievo fiscale coattivo ed occulto realizzato nelle forme di una dichiarata decurtazione stipendiale; anziche' prevedere, in un contesto economico-finanziario eccezionale, interventi straordinari e/o temporanei di prelievo forzoso, sono state adottate misure continuative e stabili, per di piu' limitate ad una ben delimitata «classe di persone», senza assumere a parametro dell'esazione uno o piu' indici di capacita' contributiva potenzialmente posseduti da «tutti», secondo la previsione dell'art. 53 della Costituzione. Il risultato dell'operazione e' che una singola categoria di lavoratori (quelli pubblici) viene isolata dalla platea dei contribuenti e colpita da una previsione ad hoc, la quale prescinde palesemente dal fatto che, a parita' o superiorita' di reddito, altri contribuenti godano di eguale o maggiore capacita' contributiva. La norma ha deciso di «tassare» una certa categoria di soggetti per la maggiore facilita' del prelievo, mentre ceti ben piu' abbienti sono stati lasciati incredibilmente al di fuori delle previsioni di stabilizzazione finanziaria qui contestate. Ove si intendesse escludere la natura tributaria del prelievo, emergerebbe ancora piu' nettamente il carattere arbitrario della disposizione, che non rende intelligibile la ragione per cui il risparmio di spesa dovrebbe operare solo su redditi eccedenti gli scaglioni dei 90.000 e dei 150.000 euro. In secondo luogo, l'art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010 viola gli artt. 2 e 3 della Costituzione, ed in particolare i principi di uguaglianza e di ragionevolezza legislativa, oltre che il principio di solidarieta' sociale, politica ed economica. La violazione del principio di eguaglianza appare palese nella discriminazione tra i soggetti che risultano ricompresi nell'ambito di applicazione dell'art. 9, comma 2, e quelli che, senza alcuna ragionevole giustificazione, ne risultano esclusi; cio' rileva indipendentemente dal fatto che al prelievo in questione si voglia o meno riconoscere natura tributaria. La disposizione discrimina tra soggetti che hanno identica capacita' economica; il cd. «risparmio di spesa» avrebbe dovuto interessare tutti i redditi prodotti in Italia e/o da cittadini italiani riconosciuti di eguale capacita' contributiva, e non gia' soltanto i fruitori di un trattamento retributivo pubblico, qualitas che di per se' nulla dice circa la maggiore o minore idoneita' del soggetto colpito a contribuire alle esigenze della finanza pubblica. E', del resto, ingiusto che lo Stato intenda accollare le misure di riduzione della spesa, che andranno a vantaggio di tutti, solo ad una parte dei cittadini, che peraltro non rappresenta la categoria piu' facoltosa. Per tale ragione, la norma collide anche con l'art. 2 della Costituzione e con i principi di solidarieta' sociale, politica ed economica, cui corrispondono ben precisi «doveri inderogabili», cioe' da ripartire tra tutti. Significativo e', al contrario, che a parita' di reddito, e dunque al raggiungimento delle soglie dei 90.000 e dei 150.000 euro, i dipendenti privati od i lavoratori autonomi non subiscono alcuna incisione patrimoniale. Peraltro, anche nell'ambito del pubblico impiego, non puo' tacersi che l'art. 9, comma 2, opera una netta distinzione tra i dipendenti, a seconda che abbiano un reddito maggiore o minore dei 90.000 euro; al contrario, il prelievo, se davvero necessario, avrebbe dovuto gravare in minima parte su ciascun dipendente. In altri termini: o la logica e' quella della riduzione della spesa, ed allora, per non infrangere il principio di eguaglianza, il taglio deve operare allo stesso modo su tutte le spese (redditi da lavoro dipendente), o la logica e' quella della progressivita' del prelievo (art. 53 della Costituzione) ed allora l'incisione deve operare su tutti i redditi (da lavoro pubblico o privato ed anche da altre fonti) che denotino eguale capacita' contributiva. Si aggiunga ancora che la Raccomandazione CM/Rec(2010)12 sui giudici adottata in data 17 novembre 2010 dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, al punto 54, non solo richiede che la retribuzione dei giudici sia commisurata al loro ruolo professionale ed alle loro responsabilita', ma esplicitamente esige che essa sia tale da «renderli immuni da qualsiasi pressione volta ad influenzare le loro decisioni»; in particolare, si chiede agli Stati membri che siano «adottate specifiche disposizioni di legge per garantire che non possa essere disposta una riduzione delle retribuzioni rivolta specificamente ai giudici». Ove poi non si volesse individuare nell'art. 9 una disposizione tributaria, non puo' negarsi la natura espropriativa della norma, atteso il suo fine ed effetto di ablazione di redditi formanti oggetto di diritti gia' quesiti dal pubblico dipendente. Si tratta, in tale prospettiva, di una norma-provvedimento che, in quanto tale, viola il principio di imparzialita' di cui all'art. 97 della Costituzione; in particolare, e' una legge non imparziale anzitutto perche' sottrae all'amministrazione la fase istruttoria e quella decisoria; inoltre manca ogni indennizzo dovuto a fronte della misura espropriativa (l'indennizzo si sarebbe potuto tradurre in misure di vantaggio per i soggetti colpiti dall'ablazione patrimoniale, quali una ridefinizione in melius dell'orario o delle condizioni di lavoro, specie con riguardo all'aumento dei carichi di lavoro a fronte dell'inadeguatezza degli organici della magistratura contabile). In ogni caso lo scrutinio sulla ragionevolezza delle leggi provvedimento deve essere effettuato allo stesso modo del sindacato sui provvedimenti amministrativi, in particolare assumendo specifico rilievo il difetto di istruttoria. La palese irrazionalita' della scelta legislativa comportera' che nei prossimi anni sara' preferito il lavoro privato a quello pubblico derivante dalla disparita' di trattamento retributivo imposta dalla legge; cio' comportera' una distorsione della concorrenza in favore del settore privato, con depauperamento di efficienza dell'amministrazione pubblica, in violazione dell'art. 97 della Costituzione. L'art. 9, comma 2, in esame ridetermina in senso ablativo il trattamento economico gia' acquisito dal dipendente pubblico, sullo status economico dello stesso, anche magistrato, alterando quel sinallagma che e' il proprium dei rapporti di durata. Seppure cio' e' concesso al legislatore, si tratta di una facolta' subordinata alla condizione essenziale che non si dia luogo ad una disposizione irrazionale, tale da frustrare l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica. La scelta di ridurre gli stipendi costituisce una modalita' brutale per «fare cassa», violativa dell'aspettativa legittima alla conservazione della retribuzione per tutto il tempo di durata del rapporto. La novazione oggettiva ed unilaterale del rapporto di lavoro viola le prerogative del dipendente pubblico, evidenziandone il trattamento disparitario rispetto a quello privato, cui il datore di lavoro non puo' unilateralmente ridurre la retribuzione (divieto di reformatio in peius). In tale modo viene scardinata la proporzionalita' tra prestazione e retribuzione di cui all'art. 36 della Costituzione, ma anche sacrificata la dignita' sociale della persona-lavoratore pubblico, pur tutelata dall'art. 2 della Costituzione, che subisce l'aggressione dello Stato, il quale e' al contempo datore di lavoro e legislatore. Il valore dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura da ogni altro potere dello Stato e' sancito dagli artt. 101, comma 2, e 104, comma 1, della Costituzione; l'art. 100, comma 3, demanda poi alla legge il compito di assicurare l'indipenenza dei giudici amministrativi. L'art. 9, comma 2, lede tali disposizioni anche perche' alla Corte dei conti e' attribuito il compito di giudicare il potere pubblico; si realizza, in particolare, un condizionamento nell'esercizio della funzione giurisdizionale, che puo' anche tradursi in conflitto di interessi allorche' il magistrato contabile giudica o controlla organi del Governo. 2. - Con riferimento ai commi 21 e 22 dell'art. 9 del d.l. n. 78 del 2010 si solleva questione di legittimita' costituzionale del blocco dei «meccanismi di adeguamento retributivo», e cioe' degli acconti e conguagli, nonche' del taglio crescente nel tempo (15% per l'anno 2011, 25% per l'anno 2012, 32% per l'anno 2013) dell'indennita' speciale di cui all'art. 3 della legge n. 27 del 1981 (indennita' giudiziaria) anzitutto per violazione degli artt. 24, 100, 101, 108 e 113 della Costituzione. Si tratta di norme che introducono misure di notevole gravita', benche' siano fatte salve le progressioni stipendiali, adottate senza alcun tipo di istruttoria, ne' di una stima precisa del risparmio di spesa ottenibile dal relativo taglio, e quindi in modo irragionevole ed improvvisato. Cio' dicasi in particolare per il taglio dell'indennita' giudiziaria, che nel suo andamento crescente negli anni difficilmente si spiega con la «eccezionalita' della situazione economica internazionale». Oltre a quanto gia' esposto nel punto sub 1), va precisato che con le disposizioni in questione viene leso il principio di affidamento del magistrato nell'ordinario sviluppo economico della carriera e nella corresponsione di acconti e conguagli; vengono discriminati in peius i magistrati rispetto agli altri cittadini e lavoratori, con palese trasgressione dell'art. 3 della Costituzione, per il semplice motivo che i loro redditi sono «visibili» e facilmente aggredibili. Viene operato un prelievo che, pur rivestendo una chiara i connotazione tributaria, colpisce una limitata fascia di cittadini e lavoratori, e non «tutti» come prescritto dall'art. 53 della Costituzione; si tratta di disposizioni che comportano blocchi stipendiali con esito espropriativo, in assenza di compensazioni indennitarie per i soggetti che ne risultano colpiti. I blocchi stipendiali incidono anche sulla flessibilita' organizzativa, generando inefficienza, ed al contempo rafforzano l'idea di un indebito condizionamento sull'esercizio della funzione giurisdizionale. Viene altresi' vulnerato il principio di proporzionalita' della retribuzione alla quantita' e qualita' del lavoro prestato, sancito dall'art. 36 della Costituzione; si intende bene la peculiarita' del lavoro pubblico non contrattualizzato, in cui e' la legge a determinare lo stipendio. I tagli lineari ed uguali per tutti violano la logica meritocratica dell'art. 36 della Costituzione; indurranno inoltre effetti disincentivanti, tali per cui risulteranno sempre meno incoraggiati atti di quotidiano sacrificio volti a sopperire alle croniche carenze degli organici. 3. - Con riferimento al comma 7 dell'art. 12 del d.l. n. 78 del 2010, che prevede lo scaglionamento, in favore del solo datore di lavoro pubblico, dell'onere di corresponsione delle indennita' di fine rapporto, appare chiaro che tale norma comporta una diminuzione patrimoniale certa che consiste nella mancata corresponsione di interessi per la dilazione del pagamento, ed anche una lesione del rapporto sinallagmatico, atteso che le somme in questione hanno natura retributiva, sia pure differita. Il differimento dell'indennita' di buonuscita non risponde ad una logica di riduzione della spesa, ma di mero rinvio della stessa; lede il principio di affidamento del magistrato nell'ordinario sviluppo economico della carriera, comprensivo del trattamento collegato alla cessazione del rapporto di impiego. Va altresi' considerato che il pensionamento dei magistrati e' legato al raggiungimento del 75° anno di eta', ragione per cui il differimento nei pagamenti comporta anche una potenziale vanificazione del beneficio. Vengono discriminati in peius i pubblici dipendenti, tra cui i magistrati, rispetto a tutti gli altri cittadini e lavoratori, con evidente violazione dell'art. 3 della Costituzione, oltre che del principio solidaristico, proclamato dal precedente art. 2. Ma appare chiara anche la violazione dell'art. 36 della Costituzione, consistendo il trattamento di fine rapporto in una retribuzione differita. 4. - Accertamento dell'intervenuta abrogazione della disciplina sulla indennita' di buonuscita operata, dal 1° gennaio 2011, dal comma 10 dell'art. 12 del d.l. n. 70 del 2010, convertito in legge n. 122 del 2010 e conseguente domanda di declaratoria dell'illegittimita' del perdurare del prelievo del 2,50% sull'80% della retribuzione del ricorrente (sin qui operata a titolo di rivalsa sull'accantonamento per la indennita' di buonuscita), con ulteriore domanda di restituzione degli accantonamenti gia' eseguiti e che verranno eseguiti in corso di giudizio; in subordine istanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale per accertare l'illegittimita' del perdurare del prelievo. La norma in questione impone che a decorrere dal 1° gennaio 2011 il computo dei trattamenti di fine servizio comunque denominati avvenga secondo la disciplina di cui all'art. 2120 del c.c., stabilendo un accantonamento del 6,91% sull'intera retribuzione. Sino al 31 dicembre 2010 la normativa imponeva al datore di lavoro pubblico un accantonamento complessivo del 9,60% sull'80% della retribuzione lorda, con una trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% sempre sull'80% della retribuzione (art. 37 del d.P.R. n. 1032 del 1973). Deve ritenersi che l'intero complesso normativo da ultimo indicato sia implicitamente abrogato dal predetto art. 12, comma 10, tanto e' che dal 1º gennaio 2011 la ritenuta a carico dello Stato datore di lavoro non sara' piu' del 9,60 sull'80% della retribuzione, bensi' del 6,91% sull'intera retribuzione; se cosi' e', deve cessare dalli gennaio 2011 anche la ritenuta del 2,50% sull'80% della retribuzione a carico dei dipendenti pubblici. Cio' nonostante, il prelievo del 2,50% continua ad essere illegittimamente praticato; e dunque lo Stato datore di lavoro dovra' essere condannato a cessare tale prelievo per il futuro, e quelli gia' praticati dovranno essere restituiti. In ogni caso, l'applicazione della nuova disciplina sul trattamento di fine rapporto con il perdurare della ritenuta a carico del dipendente costituisce una consistente lesione dell'aspettativa ad un trattamento di fine rapporto il piu' possibile simile all'indennita' di buonuscita. Si prospetta dunque una violazione dell'art. 3 della Costituzione, nel senso che la disciplina sul trattamento di fine rapporto di cui all'art. 2120 del c.c. viene ad incidere, a parita' di retribuzione, in misura deteriore sui dipendenti pubblici rispetto a quelli privati, nei cui confronti non e' prevista rivalsa del datore di lavoro, ed al contempo la violazione dell'art. 36 della Costituzione. Si e' costituita in giudizio la Presidenza del Consiglio dei ministri resistendo alle censure, anche di illegittimita' costituzionale, svolte da parte ricorrente, e chiedendone la reiezione. All'udienza del 21 dicembre 2011 la causa e' stata trattenuta in decisione. D i r i t t o 1. - Modificando l'ordine di trattazione delle questioni rispetto a quello prospettato da parte ricorrente, appare utile, al fine di comprendere la portata dell'art. 9, comma 22, del d.l. n. 78 del 2010, che detta le disposizioni di «contenimento delle spese in materia di pubblico impiego» con specifico riguardo ai magistrati (personale di cui alla legge n. 27 del 1981), considerare che il trattamento economico dei medesimi e' disciplinato dalla legge 2 aprile 1979, n. 97, ed e' costituito dallo stipendio tabellare (cioe' determinato in conformita' delle tabelle allegate alla legge stessa), cui vanno aggiunte l'indennita' integrativa speciale e l'indennita' giudiziaria. In particolare, gli artt. 11-12 della legge n. 97 del 1979 stabiliscono che «gli stipendi del personale di cui alla presente legge sono adeguati di diritto, ogni triennio, nella misura percentuale pari alla media degli incrementi realizzati nel triennio precedente dalle altre categorie dei pubblici dipendenti per le voci retributive calcolate dall'Istituto centrale di statistica ai fini della elaborazione degli indici delle retribuzioni contrattuali, con esclusione della indennita' integrativa speciale» (comma 1); «la variazione percentuale e' calcolata rapportando il complesso del trattamento economico medio per unita' corrisposto nell'ultimo anno del triennio di riferimento a quello dell'ultimo anno del triennio precedente ed ha effetto dal 1° gennaio successivo a quello di riferimento» (comma 3); «gli stipendi al 1° gennaio del secondo e del terzo anno di ogni triennio sono aumentati, a titolo di acconto sull'adeguamento triennale, per ciascun anno e con riferimento sempre allo stipendio in vigore al 1° gennaio del primo anno, per una percentuale pari al 30 per cento della variazione percentuale verificatasi fra le retribuzioni dei dipendenti pubblici nel triennio precedente, salvo conguaglio a decorrere dal 1° gennaio del triennio successivo» (comma 4). Si inferisce dall'esposto quadro concernente il trattamento economico che, per effetto della legge n. 27 del 1981, la determinazione degli stipendi dei magistrati e' sottratta a qualsiasi genere di contrattazione, caratterizzandosi come un «sistema automatico» regolato dalla legge; cio' in attuazione del precetto costituzionale dell'indipendenza dei magistrati (inferibile dagli artt. 101, 104, 108, e segnatamente, con riguardo ai magistrati della Corte dei conti, dall'art. 100 della Costituzione), che va salvaguardata, secondo l'insegnamento della giurisprudenza costituzionale, anche sotto il profilo economico, evitando che essi siano soggetti a periodiche rivendicazioni nei confronti di altri poteri, costituendo tale automatismo una guarentigia idonea allo scopo (Corte cost., 16 gennaio 1978, n. 1; 8 maggio 1990, n. 238; 10 febbraio 1993, n. 42; 27 luglio 1995, n. 409). 2. - A questo punto e' opportuno evidenziare i contenuti della disciplina introdotta dal d.l. n. 78 del 2010 incidenti sul trattamento retributivo, che non si limitano alla disposizione del comma 22, specificamente rivolta al personale di magistratura, dovendosi tenere conto anche di quanto previsto in via generale dal comma 2 del medesimo corpus legislativo. Schematicamente, si rileva che: a) per tutti i dipendenti pubblici (appartenenti alle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, e dunque anche per i magistrati) a decorrere dal 1º gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi superiori a 90.000 euro lordi annui sono ridotti del 5 per cento per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonche' del 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro (comma 2); b) per i soli magistrati e' stato previsto il blocco degli acconti per gli anni 2011/2013 e dei conguagli per il triennio 2010/2012 (comma 22, prima periodo); c) per i soli magistrati e' previsto un «tetto» per l'acconto per l'anno 2014 che non puo' superare quello dell'anno 2010 ed un «tetto» per il conguaglio dell'anno 2015, che sara' determinato con riferimento agli anni 2009, 2010 e 2014, escludendo dunque il triennio 2011/2013 (comma 22, primo periodo); d) per i soli magistrati e' stabilita la riduzione annualmente progressiva (15, 25 e 32 per cento), per il trienno 2011/2013, dell'indennita' giudiziaria di cui alla legge n. 27 del 1981 (comma 22, secondo periodo); e) allo stesso tempo, per i soli, magistrati (diversamente, dunque, dalle altre categorie del pubblico impiego non contrattualizzato), sono stati salvaguardati i meccanismi di «progressione automatica dello stipendio» per gli anni 2011/2013, vale a dire le classi e gli scatti di carriera (comma 22, ultimo periodo). Appare al Collegio incontestabile fin da ora che le misure di contenimento delle spese del pubblico impiego previste dalle norme in esame incidono significativamente sul trattamento economico dei magistrati, alterando altresi' l'euritmia di un sistema che prevede un meccanismo automatico di determinazione dello stesso, regolato dalla legge ordinaria, al fine, come gia' evidenziato, di assicurare l'autonomia e l'indipendenza dei giudici. Ne consegue che le questioni di legittimita' costituzionale prospettate dal ricorrente o comunque rilevabili, anche d'ufficio, dalle norme del d.l. n. 78 del 2010 sono rilevanti e non manifestamente infondate, come gia' ritenuto da altre ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale (cfr. T.A.R. Trento, 14 dicembre 2011, n. 3107; T.A.R. Campania, Salerno, 23 giugno 2011, n. 1162; T.A.R. Piemonte, Sez. II, 28 luglio 2011, n. 846; T.A.R. Veneto, Sez. I, 15 novembre 2011, n. 1685). La rilevanza della questione e' di intuitiva evidenza e discende dal fatto che le norme di cui ai commi 2 e 22 dell'art. 9 del d.l. n. 78 del 2010 trovano applicazione dal primo gennaio del 2011, cosi' che il ricorrente ha subito il mancato incremento del 3,04% della voce stipendio (corrispondente al secondo acconto spettante ai sensi del d.P.C.M. 23 giugno 2009), la riduzione dell'indennita' giudiziaria, nel corso del 2011 nella misura del 15 per cento, e dal corrente anno 2012 nella misura del 25 per cento, oltre che la riduzione del trattamento economico complessivo, del 5 per cento una volta superati i 90.000 euro annui lordi, e del 10 per cento una volta superati i 150.000 euro. Molteplici sono poi i dubbi di legittimita' costituzionale della manovra finanziaria. In primo luogo, riprendendo argomenti gia' anticipati, deve sottolinearsi la non ragionevolezza della decurtazione, disposta dalla prima parte del comma 22, del trattamento retributivo dei magistrati, caratterizzato da un automatismo legale, che si pone, esso stesso, come guarentigia idonea a garantire il precetto costituzionale dell'autonomia ed indipendenza dei giudici, valore che deve essere salvaguardato anche sul piano economico; di qui il ravvisato contrasto non solo con l'art. 3, ma anche con gli artt. 100, 101, 104 e 108 della Carta costituzionale. E' pur vero che la Carta costituzionale non contiene previsioni specifiche sulle retribuzioni dei magistrati, finalizzate a garantirne l'indipendenza economica, benche' la questione sia stata ampiamente discussa nei lavori dell'Assemblea costituente (significativo e' il resoconto della seduta del 28 novembre 1947), ma e' indubbio che il problema si pone in modo particolarmente significativo, in ragione del «prestigio istituzionale» (collegato alla delicatezza ed importanza della funzione) e della stessa indipendenza della funzione. Giova, a questo proposito, sottolineare come anche la c.d. «Magna Carta dei Giudici (principi fondamentali)» approvata a Strasburgo il 17 novembre 2010 dal Consiglio Consultivo dei giudici europei (CCJE) presso il Consiglio d'Europa, agli artt. 2 e 4, sancisce che l'indipendenza dell'ordine giudiziario rispetto ai poteri legislativo ed esecutivo va garantita anche sotto il profilo finanziario; il successivo art. 7 prevede apertis verbis che «il giudice deve beneficiare di una remunerazione e di un sistema previdenziale adeguati e garantiti dalla legge, che lo mettano al riparo da ogni indebita influenza»; la coeva Raccomandazione CM/Rec (2010) 12 del Comitato dei ministri agli Stati membri (con valore di soft lavv internazionale), da parte sua, al punto 54, chiede espressamente agli Stati che siano «adottate specifiche disposizioni di legge per garantire che non possa essere disposta una riduzione delle retribuzioni rivolta specificamente ai giudici». In altri termini, il trattamento economico del magistrato deve essere garantito dai requisiti della certezza e continuita', e non soggetto a decurtazioni che, specie allorche' siano ricorrenti, possono tradursi in una surrettizia menomazione delle garanzie della sua indipendenza ed autonomia. La scarsa ragionevolezza ed aderenza alla raccomandazione europea (senza ipotizzare una forma di sfiducia, incompatibile con il principio di leale collaborazione istituzionale) delle misure adottate nei confronti del personale di magistratura appare in qualche misura corroborata dalla disposizione dell'art. 16, comma 7, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito nella legge 15 luglio 2011, n. 111, alla cui stregua «qualora, per qualsiasi ragione, inclusa l'emanazione di provvedimenti giurisdizionali diversi dalle decisioni della Corte costituzionale, non siano conseguiti gli effetti finanziari utili conseguenti, per ciascuno degli stessi anni 2011-2013, alle disposizioni di cui ai commi 2 e 22 dell'art. 9 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, i medesimi effetti finanziari sono recuperati, con misure di carattere generale, nell'anno immediatamente successivo nei riguardi delle stesse categorie di personale cui si applicano le predette disposizioni». 3. - Non ignora il Collegio che il «giudice delle leggi» ha nel passato (cfr. Corte cost., 14 luglio 1999, n. 299; 18 luglio 1997, n. 245) ritenuto infondata la questione di costituzionalita' di norme che disponevano il blocco degli incrementi retributivi dovuti ad automatismi stipendiali o progressioni economiche legato a manovre finanziarie eccezionali connesse alla necessita' di recuperare l'equilibrio di bilancio, ma l'imposizione di sacrifici eccezionali, transitori, e' stata consentita a condizione che fossero ragionevolmente ripartiti tra diverse categorie di cittadini, oltre che idonei allo scopo prefisso; in particolare la Corte ha sottolineato che l'art. 7 del d.l. n. 384 del 1992 imponeva ai pubblici dipendenti il sacrificio di un anno, e costituiva una manovra di contenimento della spesa pubblica incidente non solo sui pubblici dipendenti, ma anche su altre categorie di lavoratori. Ma di tale dimensione solidaristica appare priva la manovra finanziaria contenuta nel d.l. n. 78 del 2010, che colpisce pesantemente, ancora una volta, solamente l'impiego pubblico, facilmente «aggredibile», senza tenere conto, tra l'altro, del fatto che ne rimangono immuni (anche a seguito del c.d. decreto «salva-Italia» 6 dicembre 2011, n. 201, convertito nella legge 22 dicembre 2011, n. 214) i soggetti che con le amministrazioni pubbliche intrattengono solamente un rapporto di servizio onorario, ovviamente tutt'altro che gratuito. Si evidenzia in questa prospettiva la violazione del principio di eguaglianza e del principio solidaristico di cui agli artt. 3 e 2 della Costituzione, venendo discriminati in peius i magistrati, frustrando la loro legittima aspettativa all'ordinario sviluppo economico della carriera. Allo stesso tempo, i «blocchi stipendiali» violano il principio di proporzionalita' della retribuzione alla quantita' e qualita' del lavoro prestato, sancito dall'art. 36 della Costituzione, come effetto conseguente alla circostanza che e' la legge a determinare lo stipendio nell'impiego pubblico non contrattualizzato. Detta proporzionalita', se non altro dal punto di vista «quantitativo», e' evidentemente vulnerata, atteso che si e' determinato un taglio lineare delle retribuzioni a fronte di un carico di lavoro che, come noto, risulta progressivamente crescente, anche in considerazione della mancata copertura dei posti in organico. 4. - Con riguardo, poi, all'indennita' giudiziaria (di cui all'art. 3 della legge n. 27 del 1981), la significativa riduzione in incremento progressivo nel triennio 2011/2013 (15%, 25% e 32%), prevista dal secondo periodo del comma 22 dell'art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, ne tradisce anzitutto la sua funzione di «rimborso spese»; la stessa, come posto in evidenza dalla Corte costituzionale, per giustificarne la corresponsione solamente in caso di servizio effettivamente prestato, e' «espressamente correlata ai particolari oneri che i magistrati incontrano nello svolgimento della loro attivita', la quale, tra l'altro, comporta un impegno senza precisi limiti temporali» (sentenza 8 maggio 1990, n. 238; ord. 23 ottobre 2008, n. 346). Inoltre, trattandosi di una componente essenziale del trattamento retributivo del magistrato, la decurtazione dell'indennita' giudiziaria e' disposta in ulteriore violazione dell'art. 36 della Costituzione. Ove poi, introducendo una prospettiva che sara' nel prosieguo maggiormente sviluppata, si ritenga che la norma di legge oggetto di scrutinio, piu' che imporre una decurtazione stipendiale, consista in una prestazione patrimoniale imposta, di natura tributaria (nella misura in cui si traduce nell'ablazione di somme con attribuzione delle stesse ad un ente pubblico e nella loro destinazione allo scopo di apprestare mezzi per il fabbisogno finanziario dell'ente stesso: cosi' Corte cost., 12 gennaio 1995, n. 11; 10 febbraio 1982, n. 26), allora appare particolarmente evidente la sua connotazione selettiva a danno dei magistrati, in violazione dell'art. 53, primo comma, della Carta, che sancisce il principio della generalita' delle imposte, cui tutti sono chiamati a concorrere in ragione esclusivamente della propria capacita' contributiva. In questa direzione, a ben vedere, non e' difficile neppure individuare una violazione del secondo comma del'art. 53, trattandosi di un tributo sostanzialmente regressivo, in quanto, essendo l'indennita' giudiziaria corrisposta in misura eguale a ciascun magistrato, la sua applicazione uniforme finisce per colpire maggiormente i magistrati con retribuzione complessiva inferiore, e dunque con minore anzianita' di servizio. 5. - L'introdotto argomento del prelievo di valore tributario impone poi di completare la disamina con riferimento al comma 2 dell'art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, a norma del quale «in considerazione della eccezionalita' della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3, dell'art. 1, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, superiori a 90.000 euro lordi annui sono ridotti del 5 per cento per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonche' del 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro». Proprio alla luce dei parametri ermeneutici enucleati dalla giurisprudenza costituzionale, appare difficilmente contestabile che tale disposizione, piuttosto che caratterizzarsi come una riduzione stipendiale (melius, come una riduzione dei trattamenti economici complessivi), abbia natura tributaria; ed infatti ricorrono i due elementi dell'imposizione di un sacrificio economico individuale realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, e della destinazione del gettito scaturente da tale ablazione al fine di integrare la finanza pubblica; non occorre, del resto, una formale definizione in termini tributari del prelievo (Corte cost., 8 maggio 2009, n. 141). In particolare, si e' al cospetto di un atto normativo, e dunque autoritativo, incidente su di un trattamento economico predeterminato, in quanto tale costituente diritto quesito, adottato al dichiarato scopo del raggiungimento di obiettivi di finanza pubblica. Anche con riguardo alle modalita' applicative, il prelievo non viene attuato mensilmente (come accadrebbe per una riduzione stipendiale in senso proprio), ma opera al momento del raggiungimento dello scaglione reddituale preso a parametro; si aggiunga ancora che indice assai significativo della natura tributaria del prelievo e' proprio il fatto che lo stesso opera al progressivo raggiungimento di due differenti scaglioni (90.000 e 150.000 euro), cui si applicano aliquote crescenti (5 e 10 per cento). Se cosi' e', torna in rilievo la violazione degli artt. 53 e 3 della Costituzione, in quanto il prelievo colpisce solamente la categoria dei dipendenti pubblici (nel cui novero rientrano i magistrati), in contrasto con il principio della «universalita' della imposizione, desumibile dalla espressione testuale «tutti» (cittadini o non cittadini, in qualche modo con rapporti di collegamento con la Repubblica italiana) [che] deve essere intesa nel senso di obbligo generale, improntato al principio di eguaglianza ..., di concorrere alle «spese pubbliche in ragione della loro capacita' contributiva» (con riferimento al singolo tributo ed al complesso della imposizione fiscale), come dovere inserito nei rapporti politici in relazione all'appartenenza del soggetto alla collettivita' organizzata» (Corte cost., ord. 24 luglio 2000, n. 341). Il corollario del comma 2 e' che la categoria dei dipendenti pubblici viene selezionata dalla platea dei contribuenti, senza valutare se esistano altri contribuenti con reddito pari o superiore, con buona pace anche del criterio della perequazione tributaria. Appare chiaro che la violazione dell'art. 3 della Costituzione e' comunque sempre ravvisabile, a prescindere dalla natura tributaria del prelievo, sia prendendo a parametro l'amplissima categoria dei «cittadini», rispetto alla quale i dipendenti pubblici risultano discriminati ratione status a parita' di capacita' economica, sia la categoria piu' ristretta dei «lavoratori», risultando i dipendenti pubblici discriminati rispetto ai dipendenti privati, come pure ai lavoratori autonomi, i quali, a parita' di reddito, non subiscono alcuna incisione patrimoniale. Particolarmente significativo ad evidenziare una situazione disparitaria appare, al riguardo, l'art. 2 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella legge 14 settembre 2011, n. 148, rubricato «disposizioni in materia di entrate», prescrivente, al comma 2, che «in considerazione della eccezionalita' della situazione giuridica economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, a decorrere dal 1° gennaio 2011 e fino al 31 dicembre 2013 sul reddito complessivo di cui all'art. 8 del testo unico sulle imposte sui redditi di cui al d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, di importo superiore a 300.000 euro lordi annui, e' dovuto un contributo di solidarieta' del 3 per cento sulla parte eccedente il predetto importo». Detta norma, il cui incipit (melius, se consentito, la cui giustificazione) e' esattamente sovrapponibile a quello dell'art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, impone un contributo di solidarieta', secondo quanto desumibile anche dalle modalita' tecniche di attuazione, contenute nel recente d.m. 21 novembre 2011, per i redditi complessivi superiori a 300.000 euro lordi, pari al 3 per cento sulla parte eccedente detto importo. Si evidenzia che, pur in presenza di un analogo fondamento di razionalita', diversamente che per i redditi dei dipendenti pubblici, il contributo di solidarieta' scatta, e per giunta nella inferiore misura del 3 per cento, solamente per i redditi complessivi di importo superiore a 300.000 euro lordi annui, costituente un parametro imponibile piu' che triplo rispetto al primo scaglione dei 90.000, e doppio rispetto al secondo scaglione dei 150.000 euro; e' inoltre deducibile dal reddito complessivo. Giova aggiungere che l'art. 2, comma 2, del d.l. n. 138 del 2011 dispone espressamente che «ai fini della verifica del superamento del limite di 300.000 euro rileva[no] anche il reddito di lavoro dipendente di cui all'art. 9, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, al lordo della riduzione ivi prevista»; vale a dire che il contributo di solidarieta' si applica anche ai redditi complessivi che hanno gia' subito la decurtazione di cui all'art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, seppure allorche' raggiungano il superiore importo, senza dunque che si verifichi una doppia imposizione. E' intuitivo come il dubbio di illegittimita' lambisce anche il parametro costituito dall'art. 2 della Carta e dai principi di solidarieta' sociale, politica ed economica ivi fissati, cui corrispondono «doveri inderogabili». In linea assoluta, appare intrinsecamente irragionevole anche la prestazione patrimoniale imposta ai soli dipendenti pubblici con redditi piu' elevati, giustificati dalla qualita' del servizio prestato, dalla difficolta' delle selezioni per l'accesso al medesimo, nonche' dal corrispondente regime di responsabilita'. 6. - Un'ulteriore considerazione, almeno in parte gia' svolta, accomuna il comma 2 ed il comma 22 dell'art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, e cioe' il fatto che le disposizioni negli stessi contenute violano il principio di affidamento del cittadino, nella misura in cui rideterminano con effetto ablatorio il trattamento economico gia' acquisito alla sfera del pubblico dipendente come diritto soggettivo. Si tratta di norme che incidono sullo status economico del ricorrente; non ignora il Collegio che la giurisprudenza costituzionale, pur contrastando cio' con il principio (invero non costituzionalizzato, seppure di estesa applicazione) del divieto di reformatio in peius, e' orientata nel senso che per i diritti di natura economica connessi al rapporto di impiego pubblico, anche nei confronti di norme retroattive, non esiste altro limite che quella della ragionevolezza (tra le varie, Corte cost., 12 novembre 2002, n. 446); peraltro non puo' non dubitarsi proprio della ragionevolezza delle norme oggetto di scrutinio, che producono come effetto quello della riduzione, prolungata nel tempo, e comunque oltre l'arco annuale, dei trattamenti retributivi dei dipendenti pubblici, in un contesto in cui verosimilmente piu' efficaci a fare fronte agli obiettivi di finanza pubblica sarebbero stati altri strumenti di contenimento della spesa, di tipo strutturale, ancora oggi (inevitabilmente) all'ordine del giorno nell'agenda politica, in quanto i soli a produrre un risparmio continuativo, e non episodico. A fronte di un saldo di finanza pubblica non particolarmente significativo per l'Amministrazione, appare di intuitiva evidenza, e non richiede dunque particolari sottolineature, il fatto che il prestatore di lavoro pubblico (e quindi anche il magistrato) abbia maturato un legittimo affidamento sul proprio trattamento retributivo, parametrando a questo il proprio tenore di vita ed anche eventuali esborsi programmati (come, ad esempio, la contrazione di un mutuo). 7. - Per quanto concerne, poi, i prospettati dubbi di legittimita' costituzionale delle modifiche apportate alla disciplina dell'indennita' di' buonuscita dall'art. 12 del d.1. n. 78 del 2010, il Collegio ritiene anzitutto, in qualita' di giudice a quo, di avere giurisdizione in tale materia, in quanto, pur essendo l'art. 6 della legge 20 marzo 1980, n. 75 stato abrogato dall'art. 4, comma 1, n. 12, dell'allegato 4 al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (cod. proc. amm.), la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo risulta confermata dall'art. 133, comma 1, lett. i), dello stesso codice sulle «controversie relative ai rapporti di lavoro del personale in regime di diritto pubblico». Ed e' indubbia, anche secondo la Corte regolatrice della giurisdizione (in termini Cass., sez. Un., 24 dicembre 2009, n. 27304; 2 luglio 2008, n. 18038), l'inerenza della controversia sull'indennita' di buonuscita ad un diritto attinente al rapporto di pubblico impiego (oggetto di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo). Cio' premesso, occorre precisare che, in forza di quanto previsto dall'art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, «con effetto sulle anzianita' contributive maturate a decorrere dal 1° gennaio 2011, per i lavoratori alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, ... per i quali il computo dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, in riferimento alle predette anzianita' contributive non e' gia' regolato in base a quanto previsto dall'art. 2120 del codice civile in materia di trattamento di fine rapporto, il computo dei predetti trattamenti di fine servizio si effettua secondo le regole di cui al citato articolo 2120 del codice civile, con applicazione dell'aliquota del 6,91 per cento». Dal primo gennaio 2011 la disciplina della buonuscita dei magistrati viene dunque ad essere assoggetta al differente regime di cui all'art. 2120 del codice civile, concernente il trattamento di fine rapporto. Tale innovazione, a carattere strutturale (non essendo prevista per un limitato arco temporale, seppure giustificata, anch'essa, «a titolo di concorso al consolidamento dei conti pubblici», in funzione del contenimento della dinamica della spesa corrente), modifica sensibilmente in peggio il trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici, ed in particolare dei magistrati, e rende dubbia la legittimita' costituzionale del comma 7 dello stesso art. 12 del d.l. n. 78 del 2010, che consente lo scaglionamento delle corresponsione dell'indennita' (fino a tre importi annuali, a seconda dell'ammontare complessivo della prestazione), in quanto determina una perdita patrimoniale certa, se non altro in ragione della mancata previsione di interessi per la dilazione del pagamento, in deroga alla disciplina delle obbligazione pecuniarie. Si intende osservare che se lo scaglionamento della buonuscita poteva giustificarsi nella logica della specificita' di tale istituto, peraltro espressione del quid propium del rapporto di pubblico impiego, una volta intervenuta la scelta del legislatore di prevedere un regime comune del trattamento di fine servizio applicabile a tutti i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, non appare ragionevole imporre ai soli dipendenti pubblici lo scaglionamento dell'indennita' di buonuscita. Cio' si riflette anche in termini di violazione del principio di eguaglianza, di cui all'art. 3 della Costituzione, e di violazione dell'art. 36 della Costituzione, caratterizzandosi la buonuscita come «retribuzione differita» (pur se legata ad una concorrente funzione previdenziale). Tale differimento presenta un aggiuntivo carattere di irragionevolezza per il personale di magistratura, il cui pensionamento e' legato al compimento del settantacinquesimo anno di eta', epoca che, naturalmente oltre che statisticamente, abbrevia le prospettive di vita, e dunque anche di effettiva fruibilita' di tale retribuzione differita. 8. - Il ricorrente, con riferimento alla gia' richiamata norma del comma 10 dell'art. 12 del d.l. n. 78 del 2010, lamenta ancora come l'estensione del regime di cui all'art. 2120 del c.c. (ai fini del computo dei trattamenti di fine servizio) sulle anzianita' contributive maturate a fare tempo dal 1º gennaio 2011, con applicazione dell'aliquota del 6,91 per cento, avrebbe dovuto comportare il venire meno della trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50 per cento della base contributiva della buonuscita, costituita dall'80 per cento dello stipendio. Tale trattenuta, operata a titolo di rivalsa sull'accantonamento per l'indennita' di buonuscita, e' prevista dall'art. 37 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032; ad avviso di parte ricorrente, tale norma, come pure, piu' ampiamente, lo stesso criterio di calcolo della base contributiva, di cui al successivo art. 38, devono ritenersi abrogate per incompatibilita' con la norma sopravvenuta (per l'appunto, l'art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010), si che dal 1º gennaio 2011 la ritenuta a carico dello Stato datore di lavoro non sara' piu' del 9,60 sull'80 per cento dello stipendio, bensi' del 6,91 per cento dell'intera retribuzione. Il ricorrente allega come peraltro tale prelievo del 2,50 per cento (per il ricorrente ammontante ad euro 274,44) continui ad essere illegittimamente praticato, come risulta dai cedolini dello stipendio versati in atti, e chiede conseguentemente la condanna dello Stato datore di lavoro a cessare tale trattenuta, restituendo quelle indebitamente effettuate, od in subordine che sia sollevata la questione di legittimita' costituzionale per violazione dell'art. 3 della Costituzione (nella prospettiva che la disciplina dell'art. 2120 del c.c. verrebbe ad incidere, a parita' di retribuzione, in misura deteriore sui dipendenti pubblici rispetto a quelli privati, nei cui confronti non e' prevista rivalsa del datore di lavoro) e dell'art. 36 (quanto meno nella prospettiva che il protrarsi del prelievo sulla retribuzione del dipendente determinerebbe un'illegittima ed irragionevole riduzione dell'accantonamento finalizzato al trattamento di fine rapporto). Osserva il Collegio come, effettivamente, la disciplina introdotta dall'art. 12, comma 10, innovi profondamente quella contenuta nel t.u. delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti pubblici, e probabilmente, pur non contenendo un'abrogazione esplicita della normativa precedente, potrebbe sostenersi, facendo applicazione dell'art. 15 delle «preleggi», che produca un'abrogazione implicita per incompatibilita' della normativa precedente con quella successiva. Sennonche', secondo i consueti criteri ermeneutici, l'abrogazione tacita di una norma va dedotta dalla diretta incompatibilita' logica, ossia dalla impossibilita' di coesistenza della norma nuova con l'antica sullo stesso oggetto, per l'assoluta contraddittorieta' delle due disposizioni, ovvero dal fatto che la nuova legge regola l'intera materia, anche se in modo non del tutto incompatibile con la singola norma precedente, e cio' perche' la disciplina complessiva importa il coordinarsi delle varie disposizioni di cui essa consta in un insieme unitario, che non tollera contaminazioni con norme logicamente ispirate a principi diversi (in termini Cons. Stato, Sez. IV, 5 luglio 1995, n. 538; Sez. V, 21 giugno 2007, n. 3330). Ora, nel caso di specie, non ricorre la seconda evenienza, atteso che l'art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010 non contiene una disciplina organica sulle prestazioni previdenziali in favore dei dipendenti dello Stato, che si sostituisca organicamente al d.P.R. n. 1032 del 1973; allo stesso tempo, non puo' essere affermato, senza margine alcuno di incertezza, che tra le norme considerate sussista una contraddizione tale da renderne impossibile la contemporanea applicazione, o, per meglio dire, (tale che) dall'applicazione ed osservanza della nuova legge derivi necessariamente la disapplicazione o l'inosservanza dell'altra (Cass., Sez. I, 21 febbraio 2001, n. 2502; Sez. lav., 1° ottobre 2002, n. 14129). Tra le norme in esame non sembra dunque ravvisabile un'antinomia logica cosi' netta da escludere che l'applicazione dell'art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010 consenta anche una parallela applicazione della rivalsa nei confronti del dipendente, ai sensi dell'art. 37 del d.P.R. n. 1032 del 1979 (in tale senso sembra orientarsi anche l'I.N.P.D.A.P. con la circolare n. 17 dell'8 ottobre 2010). Ad avviso del Collegio, peraltro, se puo' sussistere qualche residuale perplessita' in ordine all'intervenuta abrogazione tacita dell'art. 37 da ultimo citato, appare invece molto accentuato il dubbio di incostituzionalita' connesso all'applicazione in combinato disposto dell'art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010 con la rivalsa a carico del dipendente iscritto in misura pari al 2,50 per cento della base contributiva. Secondo la condivisibile tesi di parte ricorrente, il protrarsi del prelievo del 2,50 per cento nella nuova disciplina concernente il trattamento di fine servizio contrasta con il principio di eguaglianza e con l'art. 36 della Costituzione, consentendo allo Stato datore di lavoro una riduzione dell'accantonamento, illogica anche perche' in nessuna misura collegata con la qualita' e quantita' del lavoro prestato. 9. - Alla stregua di quanto esposto, la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 9, commi 2, 21 (ove necessario), 22, e 12, commi 7 e 10, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito nella legge 30 luglio 2010, n. 122, nei vari profili evidenziati, appare rilevante e non manifestamente infondata per contrasto con gli artt. 2, 3, 23, 36, 53, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione. Ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 si deve dunque rimettere alla Corte costituzionale la soluzione dell'incidente di costituzionalita', con sospensione del presente giudizio e trasmissione degli atti alla stessa Corte costituzionale, riservata all'esito ogni altra decisione.