Il Tribunale in composizione monocratica  V  sezione  penale,  a
scioglimento delle riserve assunte all'udienza  dell'11  maggio  2011
con  riferimento  alla  questione  di   legittimita'   costituzionale
sollevata dalla difesa e all'istanza del p.m. di sollevare  conflitto
di  attribuzione  con  il  Senato   della   Repubblica   alla   Corte
costituzionale osserva quanto segue. 
La questione di legittimita' costituzionale. 
    All'udienza  dell'11  maggio  2011,  i   difensori   di   Storace
Francesco,  in  fase  preliminare  all'apertura   del   dibattimento,
chiedevano al tribunale monocratico  di  sollevare  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 313 c.p.  nella  parte  in  cui
attribuisce al  Ministro  della  Giustizia  il  potere  di  concedere
l'autorizzazione a procedere  per  i  reali  di  vilipendio  commessi
contro  il  Presidente  della  Repubblica,  anzi  che   al   medesimo
Presidente. 
    A sostegno di tali  argomentazioni,  la  difesa  in  primo  luogo
sottolineava la natura politica dell'atto autorizzativo. Tale  natura
era stata contestata in verita' dinanzi  al  primo  giudice  che,  in
accoglimento della eccezione difensiva, ritenendo l'autorizzazione  a
procedere un atto di alta amministrazione, l'aveva  disapplicato  per
violazione della legge. 
    Posto che alla luce della sentenza del 28  settembre  2010  della
Corte di cassazione, alla quale  aveva  fatto  ricorso  il  p.m.,  la
natura politica dell'atto non e' ulteriore oggetto di discussione, la
difesa ha osservato che l'autorizzazione a procedere ha  il  fine  di
preservare il valore di rango costituzionale della  figura  del  Capo
dello Stato sia per il  prestigio  connesso  alla  piu'  alta  carica
rappresentativa dell'unita' nazionale  che  tenuto  conto  del  ruolo
costituzionale rivestito e  del  sereno  svolgimento  delle  funzioni
connesse a quella carica. 
    A dispetto di cio', si  legge  nella  memoria  difensiva,  spetta
nell'attuale assetto costituzionale al  Ministro,  quale  organo  del
Governo meglio qualificato, la valutazione  in  ordine  al  possibile
sbilanciamento tra gli interessi al promovimento  dell'azione  penale
per l'accertamento del reato e altre istanze altrettanto  valide  per
l'assetto istituzionale dello Stato. 
    Il concetto e' chiarito attraverso il richiamo e il commento alla
sentenza della Corte costituzionale n. 15 del 17 febbraio  1969,  con
cui era stata dichiarata la illegittimita'  costituzionale  dell'art.
313 c.p. nella parte in cui attribuiva il potere autorizzativo ad  un
organo del potere esecutivo piuttosto che a se stessa, in  quanto  ne
minava l'indipendenza. 
    La  successiva   sentenza   n.   142   del   1973   della   Corte
costituzionale,  nel   rigettare   la   questione   di   legittimita'
costituzionale   dell'art.   313   comma   3   c.p.   in    relazione
all'autorizzazione a procedere per reati di cui all'art. 290 c.p.  di
vilipendio commesso ai danni dell'ordine giudiziario, aveva affermato
che la posizione dell'ordine giudiziario e' completamente diversa  da
quella della Corte costituzionale come precisata  dalla  sentenza  n.
15/69, perche' a differenza della Corte  (e  delle  Camere)  l'ordine
giudiziario «non e' un collegio e non e' un organo singolo  anche  se
complesso idoneo a porsi  come  titolare  di  un  interesse  pubblico
differenziato e specializzato ad  un  tempo  leso  dal  vilipendio  e
suscettibile di ricevere un danno maggiore della stessa offesa  dallo
svolgimento di un processo a  carico  dei  responsabili  del  reato».
Diversamente, nel caso delle «assemblee  legislative  e  della  Corte
costituzionale vi e' perfetta e piena  coincidenza  tra  l'organo  al
quale l'offesa e' rivolta e l'organo al quale spetta a maggior tutela
della propria  indipendenza  anche  colta  nelle  sua  manifestazione
esteriore, la valutazione dell'opportunita' politica di consentire  o
meno il proseguimento dell'azione penale» (pagg. 6-7 memoria). 
    Pertanto, osservava  la  difesa,  contrasta  con  le  prerogative
costituzionali del Capo dello Stato  e  in  particolare  con  la  sua
indipendenza di potere politico (pag. 7), l'art. 313 c.p. nella parte
in cui riservava al Ministro della giustizia la decisione su un  atto
politico destinato a preservare il sereno svolgimento delle  funzioni
connesse alla carica di Presidenza della Repubblica; tanto piu' in un
contesto giuridico in cui la Corte costituzionale nelle sentenze  nn.
22/1959,  15/1969,  91/1973  ha  affermato  che  l'autorizzazione   a
procedere trova fondamento «nello stesso interesse pubblico  tutelato
dalla norme penali in ordine al quale il procedimento penale potrebbe
qualche volta risolversi in un danno piu' grave dell'offesa stessa». 
    Ne conseguiva che il Capo dello Stato potendo subire, in caso  di
rilievo mediatico del processo. quello che  la  difesa  definisce  un
autentico  processo  popolare,  potrebbe  patire  per  l'effetto   un
pregiudizio concreto maggiore rispetto all'entita'  dell'offesa,  con
grave danno dell'immagine. 
    A conforto della propria tesi, sottolineava che l'art.  87  comma
11 Cost. attribuisce al Presidente  della  Repubblica  il  potere  di
commutare le pene, che e' esclusiva competenza del Capo  dello  Stato
(v.  sul  punto  sentenza  Corte  Costituzionale  n.  200/2006  sulla
titolarita' del potere di grazia); pertanto, sarebbe illogico che  la
Costituzione da un lato riservasse al Capo dello Stato il  potere  di
decidere se lo Stato possa o meno esercitare una pretesa punitiva sui
cittadini e dall'altro invece lo privasse della facolta' di  decidere
se rimuovere o meno una condizione di procedibilita' per un reato  di
opinione relativo a un presunta lesione del  suo  prestigio  (pag.  9
memoria). 
    La  Corte  costituzionale,  d'altronde,   ha   cassato   numerose
disposizioni normative che attribuivano al Ministro  della  giustizia
competenze dell'esecutivo (sentenze nn. 274/90, 192/76, 114/79; 204 1
e 110/74); cio' che dimostrerebbe che tali poteri sono un residuo del
vecchio ordinamento che prevedeva la  supremazia  dell'esecutivo  sui
poteri dello Stato. 
    Cio' e' viepiu' dimostrato dalla natura di quegli altri reati per
i quali il Ministro e' chiamato  a  decidere  se  rilasciare  o  meno
l'autorizzazione, tutti delitti contro la personalita' dello Stato di
natura politica ormai desueti e  figli  della  legislazione  fascista
(244, 245, 265, 269, 273, 274, 277, 279, 287, 288 c.p.). 
    In definitiva, l'autorizzazione a procedere (pag. 16 memoria) non
era stata concepita per conferire  al  Ministro  della  giustizia  il
potere  di  decidere   arbitrariamente   se   dare   o   meno   corso
«all'attivita' repressiva di reati di opinione (tanto meno  verso  un
senatore dell'opposizione), ma per consentire al medesimo di valutare
se l'interesse superiore  del  Paese  fosse  quello  o  meno  di  non
aggravare conflitti politici». 
    La questione e' posta in maniera suggestiva, ma  non  ritiene  il
decidente  che  sussista  un  contrasto  tra  il  potere   attribuito
dall'art.  313  c.p.  al  ministro  della  Giustizia  e   una   norma
costituzionale che attenga il ruolo svolto e i poteri  connessi  alla
carica di Presidente della Repubblica. 
    Prendendo  le  mosse   proprio   dalla   sentenza   della   Corte
costituzionale n. 15/69, la peculiarita' dei poteri e della posizione
della  Corte  nell'assetto   costituzionale   non   consente   invero
applicazioni analogiche delle conclusioni adottate in quella sede. 
    L'art. 134 Cost. e l'art. 2 della legge costituzionale  11  marzo
1953, n. 1  disegnano  le  funzioni  della  Corte  dal  sindacato  di
costituzionalita' sulle leggi al  parere  obbligatorio  e  vincolante
sulle richieste  di  referendum  abrogativo,  dalla  risoluzione  dei
conflitti di attribuzione tra  poteri  dello  Stato  e  tra  Stato  e
Regioni ai giudizi penali in materia di accuse contro  il  Presidente
della Repubblica e i Ministri, poteri supremi che si  riconducono  al
medesimo principio:  quello  di  «garantire  e  rendere  operante  il
principio  di  legalita'  ...sottoponendo  al  rispetto  delle  norme
costituzionali anche gli atti dei supremi  organi  politici  statali,
nonche' i rapporti intercorrenti tra questi ultimi e  quelli  tra  lo
Stato e le Regioni» (sent. 15 cit.). 
    In questa ottica  la  Corte  e'  «altissimo  organo  di  garanzia
dell'ordinamento repubblicano ad essa spettando in  via  esclusiva  e
con effetti  definitivi  far  concretamente  valere  l'imperio  della
Costituzione nei confronti di  tutti  gli  operatori  costituzionali»
(sent. 15). 
    Di qui nasce  la  piena  e  assoluta  indipendenza  della  Corte,
espressamente sancita dalla Costituzione  all'art.  137,  rispetto  a
qualsiasi altro organo  al  fine  di  assicurarne  la  piu'  rigorosa
imparzialita'.  Di  qui  nasce  cioe'  il  sistema   di   guarentigie
caratterizzato da una serie di incompatibilita' del  collegio  e  dei
suoi singoli componenti durante la carica e dunque dell'organo «nella
sua astratta impersonalita' e continuita'»; in questo si sostanzia il
principio affermato dall'art. 137, comma 1 Cost.,  secondo  il  quale
sono riservate alla legge costituzionale le garanzie di  indipendenza
dei giudici. Non a caso la disciplina delle guarentigie e'  modellata
su quella della Camere, che fa espresso rinvio per mezzo dell'art. 68
Cost. in tema di immunita' proprio all'art. 3 della gia' citata legge
costituzionale n. 1 del 1948. confermando la identita' di  ratio  che
sta alla base della indipendenza dei due organi assembleari. Tanto e'
vero che questo e' il senso dell'indipendenza della Corte che analoga
questione di legittimita' sollevata in relazione all'autorizzazione a
procedere per  il  reato  di  vilipendio  nei  confronti  dell'ordine
giudiziario, della cui autonomia e indipendenza  non  si  dubita,  e'
stata invece ritenuta manifestamente infondata. 
    La  sentenza  n.  142/1973  ulteriormente   chiarificatrice   del
contenuto della sentenza n. 15/1969, pur riconoscendo la  sussistenza
del principio di autonomia della magistratura, non ha ravvisato alcun
contrasto tra l'art. 313 c.p. e l'art. 102 Cost., anzi ritenendo  che
in quel caso l'autorizzazione a procedere spettasse correttamente  al
Ministro  quale  «organo  tecnicamente  qualificato  e  politicamente
idoneo a presiedere alla relazioni tra il Governo e l'Amministrazione
della giustizia». 
    Osservava infatti la Corte che  nessuna  analogia  era  possibile
rinvenire tra le guarentigie garantite alla Corte  costituzionale  (e
alle Camere) e ii concetto di autonomia della  magistratura.  Invero,
per la Corte «nessuna ingerenza, diretta o indiretta, e' riconosciuta
(ne' sarebbe ammissibile) ad alcun altro  organo  sia  per  quel  che
concerne il funzionamento sia per quel che attiene  allo  status  dei
suoi componenti». 
    Le deliberazioni della Corte  sono  sottratte  a  ogni  forma  di
impugnativa e controllo, ben diversamente da qualsiasi  provvedimento
emesso da un qualsiasi organo  dell'ordine  giudiziario.  Ancora,  la
Corte  gode  di  ampia  autonomia  regolamentare  e  finanziaria   ed
esclusivamente di fronte ad essa puo' verificarsi la  responsabilita'
dei giudici nell'ipotesi del gia' citato art. 3 legge  costituzionale
n. 1/1948; spetta inoltre alla Corte di  deliberare  sulla  rimozione
dei giudici per sopravvenuta incapacita' fisica o civile. 
    Agli stessi giudici  costituzionali  si  estendono  le  immunita'
proprie dei  membri  del  Parlamento.  Sottolineando  proprio  questo
aspetto, la Corte ha quindi chiarito come alla base  della  decisione
di accoglimento della questione  di  legittimita'  costituzionale  in
quella occasione fu «la  sostanziale  affinita'  tra  le  valutazioni
politiche cui tale autorizzazione e' per sua natura  subordinata  con
quella che la Corte e' chiamata ad operare  allorche'  si  tratti  di
dare o negare l'autorizzazione a procedere  nei  confronti  dei  suoi
membri  a  carico  dei  quali  sia  aperto  o  stia  per  aprirsi  un
procedimento penale». 
    Alla luce di tali considerazioni, per cui un simile complesso  di
guarentigie non trova alcun  riscontro  nell'ordine  giudiziario,  la
Corte rigettava la questione ed al contrario  rinveniva  nel  sistema
costituzionale la predisposizione di accorgimenti idonei ad attuare e
mantenere  una  saldatura  tra  l'ordine  giudiziario  e   l'apparato
unitario dello Stato. 
    Pur osservando che il Consiglio Superiore della Magistratura (cui
secondo i remittenti l'autorizzazione avrebbe dovuto essere  rimessa)
non rappresenta l'ordine giudiziario nel suo complesso  e  rigettando
la questione anche sotto questo profilo, rinveniva  tra  Consiglio  e
Ministro della Giustizia una serie di raccordi quali la  facolta'  di
promuovere l'azione disciplinare nei  confronti  dei  magistrati,  la
facolta' di richiedere al Consiglio  di  deliberare  in  ordine  alle
assunzioni, trasferimenti e promozioni dei magistrati, il  potere  di
dare esecuzione alle deliberazioni consiliari. 
    Una simile saldatura, per usare ancora il termine  fatto  proprio
dalla Corte, garantiva che la magistratura non  si  ponesse  come  un
corpo separato senza tuttavia intaccarne le  proclamate  e  garantite
autonomia e indipendenza. 
    Il potere del Ministro in ordine all'autorizzazione  a  procedere
per il reato di vilipendio non intaccava, pertanto, l'imparzialita' e
l'indipendenza della funzione giudiziaria e proveniva  da  un  organo
che  anzi  appariva  idoneo,  in  quanto  politicamente  responsabile
davanti al  Parlamento  per  quanto  attiene  l'organizzazione  della
giustizia e il suo funzionamento (sent. 168/1963). 
    L'analisi di queste due decisioni ritiene il decidente che  offra
argomenti rilevanti in ordine  alla  questione  di  costituzionalita'
presentata in questa sede. 
    Posto che nel caso di specie il Ministro ha dato l'autorizzazione
e che l'imputato ha interesse a proporre  la  questione,  non  vi  e'
dubbio che il Presidente della Repubblica in quanto piu' alta  carica
istituzionale goda necessariamente di  una  indipendenza  dai  poteri
dello Stato desumibile dal complesso delle norme costituzionali e  in
specie dall'art. 87. 
    Il Capo dello Stato e' organo super partes e rappresenta l'unita'
nazionale; in quanto tale e' estraneo  al  «circuito»  dell'indirizzo
politico governativo (v. sent. n. 200/2006 in materia di grazia)., e'
cioe' un potere neutro, caratterizzato da funzioni che non  implicano
una partecipazione diretta all'attivita' di indirizzo politico. 
    La posizione del Presidente della  Repubblica  non  e'  per  cio'
stesso assimilabile tuttavia a quella della Corte costituzionale e la
sua indipendenza al pari di quella  dell'ordine  giudiziario  non  e'
affatto  intaccata  dal  potere  del  Ministro  della  giustizia   di
concedere o negare l'autorizzazione a procedere. La  circostanza  che
in determinate contingenze politiche il Capo dello Stato, cosi'  come
l'ordine giudiziario, possa trovarsi in una posizione di  dissenso  e
talora di conflitto rispetto alle scelte governative e' cosa  diversa
dal ritenere esistente una lesione della indipendenza della piu' alta
carica dello Stato per effetto dell'esercizio da parte  del  Ministro
della Giustizia del potere di  concedere  o  negare  l'autorizzazione
procedere in ordine ai reati di vilipendio. 
    Se in definitiva l'assetto delle guarentigie  dei  giudici  della
Corte costituzionale sancito dall'art.  137  Cost.  e  in  precedenza
descritto non consentiva alcun  vulnus  alla  supremazia  dei  poteri
dell'assemblea costituzionale,  cosi'  come  quella  legislativa,  al
contrario esistono piani di interferenza tra l'esercizio  dei  poteri
del Capo dello Stato  e  l'esercizio  dei  poteri  dei  ministri  che
giustificano l'attribuzione al Ministro della giustizia del potere di
decidere dell'autorizzazione a procedere nella  qualita'  di  «organo
tecnicamente qualificato e politicamente idoneo»  a  presiedere  alle
relazioni  con  il  Governo  «in  quanto  politicamente  responsabile
davanti al  Parlamento  per  quanto  attiene  l'organizzazione  della
giustizia e il suo funzionamento» (sent. 168/1963). 
    Il Presidente della Repubblica e' politicamente irresponsabile. 
    Il soggetto che acquisisce la responsabilita' politica degli atti
presidenziale  e'  il  ministro  proponente  o  competente   che   li
controfirma, laddove gli atti che  hanno  valore  legislativo  e  gli
altri indicati dalla legge  sono  controfirmati  dal  Presidente  del
Consiglio dei ministri (art. 89 Cost.). I ministri invero assumono la
responsabilita' degli atti del Presidente dinanzi alle Camere,  tanto
che l'art. 279 c.p., oggi abrogato, non permetteva di far risalire al
Capo dello Stato il biasimo e la  responsabilita'  per  gli  atti  di
governo cui partecipava. 
    La controfirma ministeriale non e'  poi  un  mero  strumento  per
l'assunzione di  responsabilita'  politica  da  parte  del  ministro,
bensi' e' requisito di validita' degli atti stessi («nessun atto  del
Presidente della Repubblica e' valido se  non  e'  controfirmato  dai
ministri proponenti»). 
    E'  noto  che  gli  atti  presidenziali  sono  distinti  in  atti
formalmente  presidenziali  e   sostanzialmente   governativi,   atti
formalmente e  sostanzialmente  presidenziali,  atti  sostanzialmente
complessi; la partecipazione dei ministri alla formazione di ciascuna
di queste categoria di atti e' pertanto necessaria, sebbene diversa a
seconda della tipologia dei provvedimenti promananti dal  Capo  dello
Stato. 
    E cio' in totale difformita' da quanto la Corte costituzionale ha
osservato  con  riferimento  al  proprio  status  per  cui   «nessuna
ingerenza, diretta o indiretta» e' consentita o  sarebbe  ammissibile
da parte di  «alcun  altro  organo  sia  per  quel  che  concerne  il
funzionamento  sia  per  quel  che  attiene  allo  status  dei   suoi
componenti». 
    Al  contrario  nel  caso  di  specie,  il  potere  dell'esecutivo
interloquisce con quello neutro  presidenziale  ponendosi  talora  in
posizione paritaria e talora di supremazia. 
    Sotto questo ultimo profilo, sono emblematici del ruolo rilevante
del ministro e  dell'esecutivo  i  decreti  presidenziali  contenenti
norme giuridiche sia con efficacia di legge formale (decreto legge  e
decreti legislativi) sia aventi efficacia subordinata a quella  della
legge formale (regolamenti) e gli  atti  espressione  della  funzione
amministrativa (come la nomina di alti funzionari) e di attivita'  di
indirizzo politico (come la nomina dei ministri e l'autorizzazione  a
presentare  alle  Camere  dei  disegni   di   legge   di   iniziativa
governativa). 
    Ebbene, rispetto a tali atti il Presidente della Repubblica  puo'
esercitare un controllo di legittimita' e chiedere  il  riesame  alle
Camere senza pero' poter incidere sulle determinazioni del Governo  e
del  ministro  proponente.  In  definitiva,   il   Presidente   della
Repubblica non puo' rifiutare di sottoscrivere gli atti che gli siano
riproposti nonostante la sua richiesta di riesame. 
    Ancora, palesano la sussistenza di un ruolo paritario tra  i  due
poteri gli atti  complessi,  ovvero  la  nomina  del  Presidente  del
Consiglio dei  Ministri  e  lo  scioglimento  della  Camere,  il  cui
contenuto e' determinato con parita' di efficacia  del  Presidente  e
dai ministri che vi partecipano. 
    Vi sono poi  degli  atti  (come  la  nomina  dei  cinque  giudici
costituzionali, la  nomina  degli  esperti  del  Consiglio  nazionale
dell'economia e del lavoro, il rinvio al Parlamento di una legge,  la
promulgazione delle leggi, i messaggi, la  grazia  come  riconosciuto
dalla sent. n. 200/2006) che promanano sostanzialmente dal solo  Capo
dello Stato. In questi casi, la controfirma ministeriale  assume  una
mera funzione di controllo diretto ad accertare la  costituzionalita'
formale dell'atto e il Ministro atteggia il proprio potere  di  firma
similmente  a   quello   del   Presidente   nel   caso   degli   atti
sostanzialmente governativi: i due poteri, esecutivo e  neutro  super
partes,  agiscono  in   simbiosi   e   talora   rappresentano   l'uno
l'interfaccia dell'altro. 
    Cio' posto, la indipendenza del Capo  dello  Stato  si  sostanzia
nella sua neutralita' e non gia' in quel sistema di  guarentigie  che
tutela la  autonomia  della  Corte  costituzionale  quale  «altissimo
organo di garanzia dell'ordinamento repubblicano» cui spetta «in  via
esclusiva e  con  effetti  definitivi  di  far  concretamente  valere
l'imperio della Costituzione nei confronti  di  tutti  gli  operatori
costituzionali» (sent. 15), come sancita  non  a  caso  espressamente
dall'art. 137 Cost. 
    E la indipendenza della massima carica istituzionale, come quella
dell'ordine giudiziario, non subisce alcuna interferenza per  effetto
dell'esercizio da parte del Ministro della giustizia  del  potere  di
concedere o negare  l'autorizzazione  a  procedere  per  i  reati  di
vilipendio. 
    Anzi il Ministro della giustizia  che  e'  l'organo  preposto  ai
rapporti tra Governo e ordine giudiziario e controfirma gli  atti  di
grazia del Presidente della Repubblica, appare essere politicamente e
tecnicamente idoneo a pronunciarsi sull'autorizzazione a procedere; i
ministri pur essendo  espressione  del  potere  esecutivo  d'altronde
giurano fedelta' alla repubblica e con essa al suo capo. Il  Ministro
della giustizia e' poi l'organo politicamente responsabile davanti al
Parlamento per quanto attiene l'organizzazione della giustizia  e  il
suo funzionamento (sent. 168/1963). 
    Non vi sono dunque motivi di illegittimita' costituzionale a  che
sia  il  Ministro  della  giustizia  a  valutare,  secondo  la  ratio
dell'autorizzazione   a    procedere    evidenziata    dalla    Corte
costituzionale  nelle   pronunce   citate,   se   l'eventuale   danno
all'immagine del soggetto leso destato dal clamore di  certe  vicende
possa  essere  in  ipotesi  minore  di  quello  patito  per   effetto
dell'offesa. Tale ratio infatti non significa  che  debba  essere  lo
stesso soggetto passivo a decidere della  procedibilita'  dell'azione
penale nei propri confronti. 
    Anzi proprio la natura politica dell'atto autorizzativo induce ad
escludere che una simile valutazione  di  opportunita'  debba  essere
assunta dal Capo dello Stato, estraneo come si e' detto  al  circuito
politico e alle sue logiche, mentre appare coerente  con  il  sistema
costituzionale che una simile scelta spetti al Ministro. 
    Sotto questo profilo invero la suprema Corte di cassazione  (sez.
I  n.  2868  del  24  settembre  1976  Mancini)  ha   gia'   ritenuto
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
degli artt. 278 e 313 c.p. in relazione agli artt.  87  e  89  Cost.,
osservando che il Capo dello Stato non puo' compiere  la  valutazione
di opportunita' politica che  e'  alla  base  della  decisione  sulla
procedibilita',  in  quanto  «non  e'  protagonista  della   tensione
ideologica in cui si articola, si sviluppa e si realizza  il  dialogo
politico, anche se ne costituisce il moderatore e ne controlla  quale
spettatore essenziale, la legalita' costituzionale». 
    Ne' e' in alcun  modo  assimilabile  a  tale  valutazione  quella
personale del soggetto leso da  reati  di  ingiuria  o  diffamazione,
titolare del diritto di querela, che ben puo' decidere in ordine alla
procedibilita'  dei  reati  commessi   contro   di   se',   ritenendo
preferibile non affrontare un processo  penale,  sulla  base  di  una
valutazione di opportunita' fondata sul proprio sentire personale. 
    Al contrario nel caso in esame la valutazione non e'  dettata  da
motivazioni di ordine soggettivo  (in  ipotesi  anche  favorevoli  al
soggetto che ha pronunciato l'offesa), ma e' correttamente rimessa ad
un organo politico, in quanto non e' la persona fisica, ma la  carica
rivestita, che ha una esistenza autonoma e  sovraordinata,  ad  avere
subito un ipotetico pregiudizio. 
    Da ultimo, non si ritiene che sussista  alcun  contrasto  tra  la
rimessione  al  Ministro  della  giustizia  del  potere  di  decidere
dell'autorizzazione e la attribuzione al Presidente della  Repubblica
del potere di concedere la grazia. diversamente da quanto argomentato
dalla difesa, anzi ravvisandosi in  questa  divisione  dei  poteri  e
proprio in considerazione  di  quanto  finora  affermato  una  logica
stringente. 
    La concessione della grazia invero, come affermato  dalla  stessa
Corte costituzionale, si fonda su un «apprezzamento  dei  presupposti
umanitari che giustificano l'adozione del provvedimento di  clemenza»
(v.  sent.  n.  200/2006);   una   simile   valutazione   e'   dunque
correttamente rimessa  al  Presidente  della  Repubblica  proprio  in
quanto  rappresentante  dell'unita'  nazionale,  estraneo   al   c.d.
circuito politico e super partes. 
    Ritenuto  quindi  di  non  dovere  sollevare  la   questione   di
legittimita'  costituzionale  prospettata  dalla  difesa,  sussistono
invece i presupposti per accogliere l'istanza del p.m.  di  sollevare
conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale. 
Il Conflitto di attribuzione tra poteri. 
    Il p.m.  chiedeva  sollevarsi  il  conflitto  in  relazione  alla
delibera  del  Senato  della  Repubblica  19  febbraio  2009  che  in
accoglimento della proposta di cui alla relazione della Giunta  delle
elezioni e delle immunita' parlamentari comunicata alla Presidenza il
10 febbraio 2009 affermava la insindacabilita' ai sensi dell'art.  68
Cost. delle opinioni espresse  dal  senatore  Francesco  Storace  sul
Presidente della Repubblica,  Giorgio  Napolitano,  di  cui  al  capo
d'imputazione. 
    Diversamente gli avv.ti Reboa e  Naso,  difensori  dell'imputato,
insistevano per una pronuncia di non doversi  procedere  per  difetto
della  condizione  di  procedibilita',  avendo   l'assemblea   negato
l'autorizzazione. 
    Si deve premettere che analoghe istanze erano state rappresentate
dalle  parti  alla  VII  sezione  del   Tribunale   in   composizione
monocratica. 
    Quel giudizio si era instaurato sul  presupposto  dalla  concessa
autorizzazione a procedere da parte del Ministro della  Giustizia  il
17 ottobre 2007; tuttavia, il sen. Storace in corso  di  procedimento
chiedeva alla Giunta per le autorizzazioni  a  procedere  del  Senato
della Repubblica che  deliberasse  in  ordine  alla  insindacabilita'
delle opinioni espresse nei confronti del Capo dello Stato nel libero
esercizio delle prerogative parlamentari. 
    Pertanto  il  Tribunale,  a  seguito  della  richiesta   avanzata
dall'imputato di deliberare sull'immunita' ex art. 68,  primo  comma,
Cost., disponeva la sospensione del procedimento ai  sensi  dell'art.
3, commi 4 e 5, legge n. 140/2003 in  attesa  della  pronuncia  della
Camera di appartenenza, che negava l'autorizzazione. 
    Gia' in quella sede il p.m., come  si  accennava,  aveva  chiesto
sollevarsi il conflitto di attribuzione tra poteri, ma il  Tribunale,
accogliendo le conclusioni della difesa, aveva  pronunciato  sentenza
di non doversi procedere in favore dell'imputato  per  difetto  della
condizione  di  procedibilita'  (disapplicando   l'autorizzazione   a
procedere concessa dal Ministro della Giustizia). Quella sentenza era
annullata senza rinvio dalla Corte di cassazione il 28 settembre 2010
adita dal p.m. 
    Cio' posto, il p.m. ha reiterato l'istanza in questa sede. 
    Come si evince dalla lettura del decreto di  giudizio  immediato,
Storace e' imputato del delitto p. e p. dall'art. 278  c.p.,  perche'
commentando  sul  sito  internet  www.Storace.it   l'intervento   del
Presidente della Repubblica, nel quale esprimeva indignazione per gli
attacchi rivolti  alla  Senatrice  Rita  Levi  Montalcini,  offendeva
l'onore  e  il  prestigio  del  Capo  dello   Stato,   attribuendogli
testualmente «disdicevole  storia  personale,  palese  e  nepotistica
condizione familiare, evidente faziosita' istituzionale,  e'  indegno
di una carica usurpata a maggioranza», in Roma il  13  ottobre  2007,
autorizzazione a procedere del Ministro della giustizia  in  data  17
ottobre 2007 (cfr. sentenza n. 330/2008 della  Corte  costituzionale,
in tema di identificazione delle dichiarazioni rese extra moenia  dal
parlamentare. nel rispetto del principio di autosufficienza dell'atto
introduttivo del giudizio per conflitto di  attribuzione  tra  poteri
dello Stato, mediante la riproduzione dell'imputazione formulata  dal
pubblico  ministero  nella  quale  sono  riportate  le   affermazioni
offensive della reputazione  delle  persone  offese  coinvolte  nella
vicenda). 
    Osservava il p.m. che in applicazione  dei  principi  espressi  a
piu' riprese dalla Corte costituzionale, infatti, nelle sentenze 10 e
11 del 2000 e piu' di recente 14 maggio  2008,  deve  sussistere  «un
innesto  funzionale  tra  le  dichiarazioni  emesse  extramoenia  dal
parlamentare e  l'espletamento  delle  sue  funzioni  di  membro  del
Parlamento» (v. pag. 4 trascrizioni dell'udienza  23  novembre  2009)
cosi  che  quelle  dichiarazioni  possano  essere  identificate  come
espressione dell'esercizio  dell'attivita'  parlamentare  e  pertanto
siano coperte dalla insindacabilita' prevista dall'art. 68 Cost. 
    Ai fini della decisione sono presenti  in  atti,  prodotti  dalla
difesa e dal p.m. con il reciproco accordo alle precedenti udienze  e
utilizzabili nulla avendo opposto le parti per  l'odierna  decisione,
lo scritto del senatore Storace al Presidente del Senato in  data  26
febbraio 2008 con cui richiedeva che la Giunta per le  autorizzazione
a procedere del Senato stabilisse  se  le  espressioni  dal  medesimo
utilizzate nei riguardi del Capo dello Stato fossero riconducibili al
proprio libero esercizio delle prerogative parlamentari, la  risposta
della Presidenza del 28 febbraio 2008, il  resoconto  sommario  della
Giunta delle elezioni e delle immunita' parlamentari del 25 settembre
2008, n. 13, la relazione della Giunta comunicata alla Presidenza del
Senato il 10 febbraio  2009  (Doc.  IV-quater  n.  1),  il  resoconto
stenografico della seduta assembleare del Senato della Repubblica del
19 febbraio 2009.  la  missiva  della  Presidenza  del  Senato  della
Repubblica del 20 gennaio 2009 alla Procura della Repubblica. 
    Ebbene, come si accennava, il procedimento penale  a  carico  del
senatore Storace  ha  ad  oggetto  un  intervento  sul  proprio  sito
internet in cui  commentava  la  presa  di  posizione  da  parte  del
Presidente  della  Repubblica  in   favore   della   senatrice   Levi
Montalcini, la quale  unitamente  ad  altri  senatori  a  vita  aveva
sostenuto il Governo di centro sinistra in varie occasioni. 
    In data 25 settembre 2008 la Giunta per elezioni e  le  immunita'
parlamentari del Senato proponeva di dichiarare  la  insindacabilita'
delle  frasi  in  esame,  ritenendo  che  «la   prima   parte   delle
dichiarazioni  dell'ex  senatore   Storace   relativa   alle   parole
disdicevole  storia  personale,  palese  e   nepotistica   conduzione
familiare...concerne(sse)  opinioni  espresse  da   un   membro   del
Parlamento  nell'esercizio  delle  sue  funzioni  e  ricade  pertanto
nell'ipotesi di cui' all'art. 68 primo comma della Costituzione». 
    Nel medesimo documento si  legge  che  «la  seconda  parte  delle
dichiarazioni dell'ex senatore Storace relativa alle parole  evidente
faziosita'  istituzionale,  e'  indegno  di  una  carica  usurpata  a
maggioranza....concerne opinioni espresse da un membro del Parlamento
nell'esercizio delle sue funzioni e ricade pertanto  nell'ipotesi  di
cui all'articolo 68 primo comma della Costituzione». 
    Nella relazione della Giunta comunicata il 10  febbraio  2009  si
specifica il contesto in cui la discussione politica si era  animata.
Il  Presidente  della  Repubblica  in  difesa  della  senatrice  Levi
Montalcini  aveva  invero  dichiarato  che  «mancare   di   rispetto,
infastidire, tentare di intimidire la senatrice Rita Levi Montalcini,
una donna dall'altro sentire democratico. che ha  fatto  e  fa  onore
all'Italia, e' semplicemente indegno». 
    Commentava pertanto il sen. Storace il giorno dopo sul  suo  sito
Internet «non so se devo temere l'arrivo dei corazzieri a  difesa  di
villa Arzilla, ma una cosa e' certa; Giorgio Napolitano non ha  alcun
titolo  per  distribuire  patenti  etiche.  Per  disdicevole   storia
personale,  per  palese  e  nepotistica  condizione  familiare,   per
evidente faziosita' istituzionale, e' indegno di una carica  usurpata
a maggioranza. E la smetta  di  soccorrere  un  Governo  moribondo  a
difesa di una signore talmente importante  che  quest'anno,  come  ha
ricordato ieri il Presidente Calderoli, costera' tre milioni di  curo
agli italiani. Nobel o no i ricatti si chiamano ricatti e i voti  dei
senatori a vita restano politicamente immorali». 
    La  Giunta,  quindi,  proponeva  di  negare  per   queste   frasi
l'autorizzazione a procedere  segnalando,  comunque,  come  la  Corte
costituzionale nelle sentenze n. 10 e n. 11 del 2000 fosse  orientata
nel ritenere che la prerogativa di cui all'art. 68 trovi applicazione
alle opinioni espresse «dal parlamentare nel corso dei  lavori  della
Camera di appartenenza e dei suoi  vari  organi  in  occasione  dello
svolgimento di una qualsiasi tra  le  funzioni  svolte  dalla  Camera
medesime o ancora in atti anche individuali». 
    Queste  opinioni  costituiscono  estrinsecazione  delle  facolta'
proprie del parlamentare in quanto  membro  dell'Assemblea  anche  se
espresse extra  moenia  solo  se  «possono  essere  qualificate  come
divulgative all'esterno di attivita' parlamentari  ove  sussista  una
sostanziale corrispondenza di significato con opinioni gia'  espresse
nell'esercizio di funzioni parlamentari tipiche». 
    Quindi, dato atto del pacifico orientamento giurisprudenziale, la
Giunta sottolineava l'importanza di  rifuggire  da  «una  definizione
stringente del concetto di nesso funzionale,  preferendo  verificarne
la ricorrenza caso per caso». 
    La difesa del Senato, pertanto, auspicava un salto interpretativo
della giurisprudenza costituzionale volto a ritenere «sussistente  il
nesso funzionale  in  tutte  le  occasioni  in  cui  il  parlamentare
raggiunga il cittadino illustrando la propria posizione». 
    Sottolineava ancora la Giunta la opportunita' di  distinguere  le
frasi del tipo «evidente faziosita' istituzionale e  indegno  di  una
carica usurpata a maggioranza» che costituiscono espressione  di  una
forte critica politica, discutibile sul  piano  dello  stile,  ma  di
certo prive di rilevanza giuridica in relazione all'art. 278  c.p.  e
non offensive dell'onore e del prestigio del  Capo  dello  Stato.  Si
metteva cioe'  in  evidenza  che  le  frasi  in  esame  muovevano  al
Presidente rilievi  in  ordine  ad  una  presunta  partigianeria  che
avrebbe connotato il suo intervento in favore  della  senatrice  Levi
Montalcini, nonche' «una marcata caratterizzazione politica della sua
elezione avvenuta secondo la valutazione del sen. Storace, unicamente
con i voti di un preciso schieramento presente in Parlamento». 
    Sotto diverso profilo, le  frasi  del  tipo  «disdicevole  storia
personale  e  palese   e   nepotistica   conduzione   familiare»   se
rappresentavano  un  accentuazione  della  vis   polemica,   tuttavia
dovevano essere contestualizzate nell'acceso  dibattito  verificatosi
in quei giorni e vanno lette nel complesso del discorso. Si trattava,
in definitiva, di «figure  retoriche  sia  pure  esacerbate»  che  si
tradurrebbero in «apprezzamenti sfavorevoli  inidonei  a  determinare
una percepibile menomazione dell'onore e del prestigio della  persona
tutelata e .... manifestazione del diritto proprio  del  parlamentare
di manifestare liberamente le proprie valutazioni di ordine  politico
su fatti e vicende specifiche». Quanto alla espressione  «disdicevole
storia  personale»,  la  stessa  si  doveva  collocare  nel  contesto
polemico ed era riferibile al percorso politico di scelte e  adesioni
personali a dottrine in relazione alle quali il  sen.  Storace  aveva
una  posizione  di  dissenso;  quanto  alla  espressione  «palese   e
nepotistica conduzione familiare» riecheggerebbe episodi  oggetto  di
sindacato  parlamentare  ispettivo  la  cui  evocazione  rientrerebbe
nell'esercizio della critica politica  costituente  elemento  proprio
della funzione parlamentare. 
    Cio' posto, appare evidente che le  argomentazioni  della  Giunta
fatte proprie dall'assemblea entrano  nel  merito  della  valutazione
della  natura  della  condotta  ascritta  all'imputato  e  della  sua
concreta offensivita', che compete unicamente al giudice. 
    Se le frasi utilizzate dal senatore  Storace  nell'occasione  che
gli viene contestata siano espressioni pur aspre e polemiche, secondo
la definizione della Giunta, di critica politica inidonee a ledere il
bene interesse tutelato dalla  fattispecie  dovra'  essere  accertato
all'esito del giudizio, alla cui  celebrazione  attualmente  osta  la
negazione dell'autorizzazione a procedere. 
    Diversamente    spetta     all'Assemblea     esprimersi     sulla
insindacabilita' di queste frasi ai sensi dell'art. 68, primo  comma,
della Costituzione, che richiede l'esistenza di un  nesso  funzionale
tra  le  dichiarazioni  rese  extra  moenia  da  un  parlamentare   e
l'espletamento delle sue funzioni di membro del Parlamento. 
    Invero, la legge n. 140 del 20 giugno 2003 ha  precisato  che  la
disposizione del  primo  comma  «si  applica  in  ogni  caso  per  la
presentazione di disegni o proposte di legge, emendamenti, ordine del
giorno,  mozioni  e  risoluzioni,   per   le   interpellanze   e   le
interrogazioni, per gli interventi  nelle  Assemblee  e  negli  altri
organi della Camere,  per  qualsiasi  espressione  di  voto  comunque
formulata, per ogni altra attivita' di ispezione, di divulgazione, di
critica  e  di  denuncia  politica,   connessa   alla   funzione   di
parlamentare, espletata anche fuori del  Parlamento»  (cfr.  art.  3,
comma 1). 
    Secondo la costante  giurisprudenza  della  Corte  costituzionale
(cfr. sentenze n. 10 e n. 11 del 2000, n. 28 del  2005,  n.  134  del
2008, n. 301/2010, n. 82/2011), tale nesso funzionale sussiste se  da
un lato  vi  sia  una  corrispondenza  di  significato  tra  opinioni
espresse  nell'esercizio  delle  funzioni  parlamentari  e  gli  atti
esterni e non una mera comunanza di argomenti o il riferimento  a  un
mero generico contesto politico, dall'altro se vi sia una sostanziale
contestualita' tra il momento dell'attivita'  parlamentare  e  quello
dell'attivita' esterna, di modo che quest'ultima riveli una finalita'
divulgativa della prima (cfr. sentenza n. 420 del 2008). 
    Dalla lettura di queste pronunce della  Corte  costituzionale  si
evince che il mero riferimento all'attivita' parlamentare o a temi di
rilievo generale (pur anche dibattuti in Parlamento),  entro  cui  le
dichiarazioni si possano collocare, non  vale  in  se'  a  connotarle
quali  espressive  della  funzione;  se  esse  non  costituiscono  la
sostanziale  riproduzione  di  specifiche  opinioni  manifestate  dal
parlamentare nell'esercizio delle proprie attribuzioni,  non  possono
considerarsi quale riflesso  del  peculiare  contributo  che  ciascun
deputato e ciascun senatore apporta alla vita  parlamentare  mediante
le proprie opinioni c i propri voti, opinioni queste  ultime  coperte
dalla  insindacabilita',  ma  rappresentano  un'ulteriore  e  diversa
articolazione di quel contributo,  che  viene  elaborato  ed  offerto
all'opinione pubblica nell'esercizio della libera manifestazione  del
pensiero assicurata a tutti dall'art.  21  della  Costituzione  (cfr.
sentenze n. 302, n. 166 e n. 152 del 2007, n. 330 del 2008). 
    Ebbene, nella fattispecie non risulta che  le  opinioni  espresse
dal senatore Storace avessero alcun collegamento,  nel  senso  teste'
chiarito, con lavori parlamentari cui lo  stesso  avesse  offerto  il
proprio  contributo;  anzi  quelle  opinioni  cosi'  dissociate   dal
contributo politico contestualmente fornito dal parlamentare non sono
affatto  divulgative  dell'attivita'  intra   moenia,   bensi'   sono
espressione di libero  pensiero  e  come  tali  devono  poter  essere
valutate. 
    Nessun  atto  tipico  che  possa  fungere   da   copertura   alla
insindacabilita' delle dichiarazioni extra moenia  consente  pertanto
di applicare la garanzia costituzionale dell'art. 68 Cost. 
    Ne' ritiene il decidente alla luce  delle  considerazioni  svolte
che tale possa ritenersi la presentazione di un disegno di legge,  di
cui ha riferito il sen. Storace in sede  di  dichiarazioni  spontanee
rese all'udienza del 23 novembre 2009. Come si legge dalla  relazione
della  Giunta  si  tratta  di  un  disegno  di  legge  costituzionale
presentato il 10 ottobre  2007  volto  all'abrogazione  dell'art.  59
Cost. (e dunque diretto all'abolizione  della  carica  di  sentore  a
vita). In quel momento storico, infatti, i senatori a vita  (tra  cui
la prof.ssa Rita Levi  Montalcini)  erano  stati  accusati  di  avere
tradito e alterato il voto popolare, offrendo  il  loro  appoggio  al
Governo di centro sinistra (e pertanto erano definiti le  «stampelle»
dell'esecutivo),  garantendo  la  maggioranza  al  Senato  in   varie
occasioni (v. relazione). 
    Tuttavia, le opinioni del sen.  Storace  oggetto  dell'attenzione
processuale espresse sia in merito alla  storia  personale  del  Capo
dello  Stato.  qualificata  disdicevole  e  connotata  da  palese   e
nepotistica  conduzione  familiare,  nonche'  alla   sua   faziosita'
istituzionale  e  indegnita'  a   rivestire   una   carica   usurpata
maggioranza, non possono ritenersi  in  alcun  modo  divulgative  del
contenuto  di  quel  disegno  o  degli  eventuali   relativi   lavori
parlamentari. 
    La stessa Giunta, come si e'  visto,  premetteva  che  l'art.  68
Cost. trova applicazione solo nelle ipotesi in cui le opinioni  siano
espresse «dal parlamentare nel  corso  dei  lavori  della  Camera  di
appartenenza e dei suoi vari organi in occasione dello svolgimento di
una qualsiasi tra le funzioni svolte dalla Camera medesime  o  ancora
in atti anche individuali» e che queste opinioni  possono  costituire
estrinsecazione delle facolta' proprie  del  parlamentare  in  quanto
membro  dell'Assemblea  anche  se  espresse  extra   moenia   purche'
divulgative all'esterno di attivita' parlamentari e ove sussista  una
sostanziale corrispondenza di significato con opinioni gia'  espresse
nell'esercizio di funzioni parlamentari tipiche». Proprio  in  virtu'
di  tali  argomenti   auspicava   un   salto   interpretativo   della
giurisprudenza costituzionale volto a ritenere «sussistente il  nesso
funzionale in tutte le occasioni in cui il parlamentare raggiunga  il
cittadino illustrando la propria posizione». 
    Cio' posto, pero', il salto interpretativo auspicato  non  poteva
porlo in essere l'Assemblea; la decisione in ordine a un simile  tema
non puo' che essere rimesso alla stessa Corte costituzionale cui  gli
atti del processo devono essere necessariamente trasmessi. 
    Pertanto  rilevato  che  nel   sistema   normativo   la   mancata
proposizione del ricorso ex  art.  37,  legge  n.  87/1953  priva  il
cittadino di un rimedio  per  contestare  una  decisione  lesiva  del
proprio diritto di accesso un tribunale (v.  sent.  CADU  30  gennaio
2003  Cordova  contro   Italia),   deve   sollevarsi   conflitto   di
attribuzione tra poteri dello  Stato  avendo  il  Senato  ecceduto  i
limiti delle proprie  attribuzioni  costituzionali,  con  conseguente
illegittima interferenza nel presente procedimento,  considerato  che
le opinioni espresse dal senatore Storace sul proprio  sito  internet
in data 13 ottobre 2007 non  sono  oggetto  di  precedente  dibattito
parlamentare dal medesimo sostanziale contenuto da parte  dell'allora
senatore ne' in forma scritta ne' orale, cosi' che le  stesse  devono
ritenersi  prive  del  carattere  divulgativo  di  opinioni  espresse
nell'esercizio del mandato parlamentare. 
    In mancanza dei presupposti di applicabilita' dell'art. 68, primo
comma  della  Costituzione,  l'accertamento  della  sussistenza   del
diritto di  critica  politica  nei  confronti  del  Presidente  della
Repubblica, attiene al merito del giudizio  relativo  all'ipotesi  di
reato di vilipendio al Capo dello Stato, costituzionalmente riservato
all'autorita' giudiziaria. 
    Solo all'esito della decisione della Corte costituzionale, potra'
essere valutata la richiesta della difesa di  una  pronuncia  di  non
doversi  procedere  in  favore  dell'imputato   per   difetto   della
condizione di procedibilita'.