IL TRIBUNALE DI LECCE Ha pronunziato la seguente ordinanza nei confronti di P. A.C., n. Lecce il 3 febbraio 1979, sull'appello presentato il 23 dicembre 2011 avverso l'ordinanza emessa dal g.u.p. presso il Tribunale di Lecce in data 6 dicembre 2011 con la quale si disponeva la sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari. Con la gravata ordinanza il g.i.p., pur premettendo che il P. era stato condannato in primo grado con rito abbreviato per un episodio di estorsione aggravato dall'art. 7 d.l. n. 152/1991, disponeva la menzionata sostituzione per la necessita' di perequare la posizione dell'istante con quella del coimputato R.G. (per il quale la sezione feriale di questo Tribunale aveva operato analoga sostituzione pur in presenza della contestazione di piu' episodi estorsivi aggravati dall'art. 7 d.l. n. 152/1991), «anche alla luce del fatto che il P. e' soggetto che e' stato riconosciuto colpevole di un solo episodio di estorsione aggravata (dal quale si evince che egli ha rivestito un ruolo, si' importante, ma limitato nel tempo». Avverso il suddetto provvedimento ha interposto appello il pubblico ministero lamentando la violazione del disposto del terzo comma dell'art. 275 c.p.p. per il quale quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all'art. 51, comma 3-bis e 3-quater c.p.p. e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari. A fronte del chiaro dettato normativo, sostiene il pubblico ministero, deve recedere l'esigenza perequativa affermata dal g.u.p. «dal momento che cio' determinerebbe di fatto una reiterata e sistematica violazione di una norma del codice di rito». Anche il difensore ha impugnato l'ordinanza evidenziando in primo luogo l'ammissione dell'usura subita ad opera di altri coimputati ed in secondo luogo il ruolo assolutamente marginale e per un unico episodio risalente neI tempo. Afferma inoltre l'appellante che la sperequazione di trattamento cautelare va ravvisata soprattutto in rapporto alla posizione processuale di S. A ., da tempo in liberta' piena; sperequazione non giustificata dalla collaborazione da questi offerta atteso che in sede di trattamento sanzionatorio lo stesso g.i.p. ha valutato insussistente l'attenuante di cui all'art. 8 legge n. 203/1991. Ha inoltre sollevato, per il caso che questo Tribunale dovesse ritenere sussistenti esigenze cautelari e fondato l'appello del pubblico ministero, questione di costituzionalita' della presunzione di adeguatezza posta dall'art. 275, comma 3, c.p.p. sulla base delle considerazioni che seguono: "Si ipotizza che la previsione contenuta nel codice di rito costituisca irragionevole esercizio della discrezionalita' del Legislatore, violando, in maniera patente, gli artt. 3, 13 comma 1 e 27 comma 2 Cost.; muovendo dalle concrete evenienze della vicenda oggetto del procedimento a quo, che pur essendo tali - ad avviso del primo giudice - da far emergere la sussistenza dei presupposti applicativi di una misura cautelare (sia quanto ai gravi indizi di colpevolezza sia quanto alle esigenze cautelari, anche se non meglio specificate), si ritiene che l'impossibilita' per il Giudice di salvaguardare adeguatamente i restanti pericoli connessi alla liberta' dell'imputato attraverso l'applicazione di una misura meno gravosa della custodia in carcere rappresenti motivo di irragionevolezza della disciplina censurata. Ed invero, la riferita disciplina, in quanto derogatoria del principio di adeguatezza espresso nella prima parte della disposizione sospettata di illegittimita' costituzionale, imponendo una misura piu' afflittiva in tutti i casi previsti dalla medesima disposizione, si pone in contrasto con l'esigenza di disporre la custodia carceraria solo come extrema ratio. In relazione al profilo di asserita irragionevolezza, la norma di cui all'art. 275 comma 3 c.p.p. e' passibile di censura in quanto sottrae al Giudice il potere di adeguare la misura al caso concreto, pur affidando, incoerentemente, al medesimo Organo il compito di apprezzare appieno l'esistenza stessa delle esigenze cautelari, in cio' dimostrando di non operare correttamente il bilanciamento tra liberta' personale e misure cautelari. Non puo' non ricollegarsi, altresi', all'anzidetto profilo, in rapporto al medesimo parametro dell'art. 3 Cost., il sospetto di violazione del principio di uguaglianza, giacche' la norma si risolve con l'appiattire situazione obiettivamente e soggettivamente diverse, sia in astratto che in concreto, determinando, cosi', un'eguale risposta cautelare per casi sensibilmente diversi tra loro. Ed infine, la lettura combinata degli artt. 13 e 27 Cost. consegna l'esigenza di circoscrivere allo strettamente necessario le misure limitative della liberta' personale, per cui la custodia in carcere ne risulta connotata come rimedio estremo, come modo di "autotutela" dell'ordinamento al quale ricorrere soltanto quando nessun'altra misura risulti idonea a tutelare le esigenze sottese alla cautela personale. La disciplina denunciata, invece, collide con siffatto principio, stabilendo un automatismo applicativo che rende inoperanti i criteri di proporzionalita' e adeguatezza (pur enunciati in generale dallo stesso art. 275 c.p.p.), dai quali deriverebbe la necessita' che siano sempre affidati al giudice "il governo dei valori in gioco" e la determinazione in concreto del minimo sacrificio possibile per la liberta' personale. Per le argomentazioni teste' enunciate, la difesa reputa la questione sia rilevante per la risoluzione del giudizio in corso, considerato il legame di strumentalita' (rectius "di pregiudizialita'") tra la sollevata questione di legittimita' costituzionale e il giudizio a quo; l'instaurazione incidentale e' necessitata dall'inevitabile applicazione della disposizione sospettata di incostituzionalita' nel giudizio pendente dinanzi al Tribunale del Riesame. Il profilo della concretezza della questione emerge, altresi', se si mette conto che .il giudizio costituzionale si rivela in grado di incidere positivamente sul procedimento de quo laddove la declaratoria di incostituzionalita' della norma nei termini prospettati dalla difesa permetterebbe all'odierno prevenuto di fruire del regime piu' attenuato degli arresti domiciliari ove, all'esito del vaglio giudiziale in sede di appello cautelare, si ravvisassero permanenti i pericula libertatis. Non solo. Dalle considerazioni precedentemente svolte non v'e' chi non veda come sussista anche l'ulteriore condizione di proponibilita' dell'incidente di legittimita' costituzionale: la questione certamente possiede prima facie fondamento giuridico, mentre il "ragionevole dubbio" sulla costituzionalita' dell'art. 275 comma 3 c.p.p. impedisce la prosecuzione del procedimento principale. In questa prospettiva, appare doveroso lo svolgimento di alcune riflessioni in tema di delitto aggravato dal "metodo mafioso". L'art. 7 d.l. 152/91, recante provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalita' organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attivita' amministrativa, prevede una circostanza aggravante pressoche' comune e ad effetto speciale connessa con i profili di tipicita' del delitto ex art. 416 bis c.p. o comunque con le attivita' delle associazioni di tipo mafioso. La fattispecie si snoda in due varianti: la prima consiste nel fatto che il delitto base sia commesso "avvalendosi delle condizioni previste dall'416-bis del codice penale"; la seconda attribuisce portata aggravante "al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo". Sopravvenute a quasi dieci anni di distanza dall'introduzione nell'ordinamento penale della corrispondente fattispecie associativa, le due articolazioni dell'aggravante, cosiddette rispettivamente "del metodo mafioso" e "dell'agevolazione mafiosa", lasciano trasparire un preciso disegno politico-criminale: assicurare una copertura repressiva totale del fenomeno criminoso contemplato, senza eccessiva preoccupazione da parte del legislatore per i profili di possibile interferenza tra le distinte previsioni, normative e quindi per i margini di effettiva reciproca autonomia delle stesse (crf. De Vero, La circostanza aggravante del metodo e del fine di agevolazione mafiosi: profili sostanziali e processuali, in Riv. It. Dir. e Proc. pen., 1997, 01, 0042). Da una prima lettura dell'art. 7 d.1. 152/91 risulta come le due varianti dell'aggravante sembrino concernere, la prima, una sorta di postfatto della fattispecie di associazione mafiosa finalizzata alla commissione di delitti, in quanto l'avvalersi del metodo mafioso viene presentato come modalita' effettiva di commissione di un certo delitto: la seconda, un'ipotesi di concorso eventuale nel reato associativo per cosi' dire a consumazione anticipata, poiche' assume rilievo criminoso la semplice finalita' di agevolazione, senza il riscontro dell'effettivo vantaggio che l'attuazione del delitto base abbia rappresentato per il sodalizio mafioso. Con particolare riferimento al metodo mafioso, va evidenziato il carattere di preponderante autonomia della variante in parola rispetto al reato associativo mafioso; il ricorso al metodo mafioso, infatti, puo' essere addebitato tanto come generale connotato di struttura del reato associativo e/o dei suoi delitti-scopo quanto come concreta modalita' di attuazione di taluno dei delitti previsti dalla legge penale che nulla hanno di condivisibile con il fenomeno associativo di tipo mafioso. (Ed invero, al dubbio ermeneutico circa l'applicabilita' dell'aggravante del metodo mafioso soltanto' o in prevalenza agli autori. delle condotte gia' riferibili all'art. 416-bis c.p., ovvero se, al contrario, la, cerchia elettiva dei destinatari della circostanza aggravante sia data dai soggetti estranei al reato associativo gli interpreti hanno fornito una risposta pressoche' unanime. Respinte le tesi estreme, e riconosciuto che soggetti attivi dei delitti aggravati dal metodo mafioso possono essere tanto gli intranei quanto gli estranei al sodalizio mafioso, conviene piuttosto interrogarsi sul grado di complementarieta' rispettivamente assunto dalle due sottoipotesi' nell'economia della fattispecie circostanziata. In dottrina si e' affermata l'idea di una netta prevalenza dei casi in cui gli autori dei delitti cosi' aggravati risultano appartenere all'associazione: l'opposta ipotesi di estraneita' al gruppo criminale viene sostanzialmente ricondotta al limitato ambito del delitto compiuto dal soggetto che rivendichi falsamente l'appartenenza al sodalizio mafioso, in modo da sfruttare "abusivamente" un patrimonio di carica intimidativa che non gli compete (De Liguori, Concorso e contiguita' nell'associazione maflosa, 1996, p. 113 ss. e 121, mentre ribadisce la dimensione marginale del caso di simulazione di appartenenza mafiosa, ravvisa l'ambito di applicazione pressoche' esclusivo dell'aggravante in relazione agli estranei all'associazione, che operino comunque con modalita' e metodi propri dei contesti mafiosi; ma finisce poi per ammettere che questo spazio applicativo e' piu' teorico che reale, di modo che l'unico e minimo riscontro empirico-criminoso dell'aggravante resta l'ipotesi di simulazione di appartenenza al sodalizio mafioso). La giurisprudenza inclina, di contro, a sottolineare che l'aggravante in esame prescinde di per se' ed in via di principio dall'appartenenza all'associazione criminale, la cui compresenza resta comunque compatibile con la disposizione dell'art. 7 d.l. 152/91 (tra le altre, Cass. 18 marzo 1994, in Giust. pen., 1994, II, e. 657; Id., 31 gennaio 1994, ivi, 1994, III, e. 586; Id., Sez. II, 17 giugno 1993, Medita). Questo secondo orientamento e' stato abbracciato come quello piu' adatto ad assicurare uno spazio di applicabilita' dell'aggravante distinto dall'area di operativita' dell'art. 416-bis c.p. A riguardo sono state avanzate perplessita' da parte di chi, considerando "non molto realistica l'ipotesi di una condotta improntata alla millanteria circa l'appartenenza alla mafia", teme che l'applicazione della circostanza del metodo mafioso sfumi in una sorta di "contestualita' geografica e ambientale" (cosi', Insolera, Diritto penale e criminalita' organizzata, 1996, p. 127): con cio' si ipotizza l'eventualita' di un'applicazione indiscriminata ai delitti commessi in regioni ad alto tasso di criminalita' organizzata, sul presupposto che specialmente talune manifestazioni criminose, per solito connesse all'attivita' delle associazioni mafiose, possano sprigionare l'effetto intimidativo in questione indipendentemente da concrete modalita' esecutive utilizzate in tale direzione dal soggetto attivo del reato. Se allora l'esigenza di una ricostruzione dell'aggravante in termini non (necessariamente) coincidenti con il nucleo del reato associativo viene collegata ad una generale istanza, per cosi' dire, di "conservazione" (dei margini di autonomia) della piu' recente disposizione di legge, e' necessario anche fornire indicazioni piu' stringenti, frutto di una meditata presa di posizione sul ruolo che il c.d. metodo mafioso e' chiamato a svolgere nei due distinti contesti normativi. A questo proposito va chiaramente detto che, al di la' della coincidenza letterale, l'elemento costitutivo previsto dall'art. 416-bis c.p. e la circostanza aggravante ex art. 7 d.l. n. 152/1991 si collocano in due ordini di grandezze incommensurabili, che ne impongono una ricostruzione in termini di reciproca autonomia. La necessita' di ravvisare nella condotta del soggetto attivo concreti elementi di intimidazione evocatori del fenomeno mafioso consente di evitare il rischio, sopra accennato, di risoluzione dell'aggravante nella mera "contestualita' geografico-ambientale" del delitto commesso rispetto agli ambiti territoriali di piu' acuta evidenza della criminalita' organizzata; e cio' senza dover essere per altro verso costretti a postulare quella effettiva affiliazione del reo ad una associazione mafiosa che ridurrebbe arbitrariamente lo spazio di operativita' della circostanza. Se tali premesse esegetiche sono condivisibili, allora non puo' non cogliersi l'irrazionalita' della scelta legislativa che non permetta al giudice di apprezzare l'ascrivibilita' del caso concreto all'una od all'altra delle due sub-fattispecie racchiuse nell'aggravante del metodo mafioso. Ed invero, mentre la previsione legale di una presunzione iuris et de iure di adeguatezza della custodia carceraria per i delitti aggravati dalla finalita' di agevolare l'associazione prevista dall'art. 416 bis c.p. e per quelli aggravati dal metodo mafioso commessi dagli intranei al sodalizio puo' apparire ragionevole perche' giustificata dalla effettiva esigenza di stroncare il vincolo particolarmente qualificato che sussiste tra l'associazione mafiosa radicata in un certo ambito territoriale e il proprio affiliato, altrettanto non puo' dirsi nel caso dei reati commessi col metodo mafioso da coloro per i quali si accerta la mancanza di qualsivoglia legame con una cosca mafiosa. L'esame giudiziale condotto in sede di accertamento della responsabilita' del P. ha evidenziato proprio che il fatto posto in essere dall'odierno appellante, lungi dal costituire spia di un'appartenenza, anche non stabile, ad un sodalizio di tipo mafioso, ha rappresentato il frutto di un'iniziativa meramente occasionale ed episodica dell'agente, tutt'al piu' contaminata da quella "contestualita' geografico-ambientale" di cui si e' detto inprecedenza. Con siffatto aspetto, dunque, non va confuso quello connesso ad una eventuale pericolosita' piu' marcata del soggetto che, nel commettere uno dei delitti previsti dal codice, sfrutta le condizioni previste dall'art. 416-bis c.p. in chiave di maggiore incisivita' dell'azione posta in essere. Al riguardo, infatti, va ribadito quanto gia' affermato dalla Corte costituzionale: la gravita' astratta del reato, considerata in rapporto alla misura della pena o alla natura dell'interesse protetto, e' significativa ai' fini della determinazione della sanzione, ma inidonea a fungere da elemento preclusivo alla verifica del grado delle esigenze cautelari e all'individuazione della misura concretamente idonea a farvi fronte. Il rimedio all'allarme sociale causato dal reato non puo' essere annoverato tra le finalita' della custodia cautelare, costituendo una funzione istituzionale della pena, perche' presuppone la certezza circa il responsabile del delitto che ha provocato l'allarme (sentenze corte cost. n.331, n. 231 e n. 164 del 2011,n. 265 del 2010). Solo la ferrea delimitazione della norma di cui all'art. 275 comma 3 c.p.p. all'area degli effettivi delitti di criminalita' organizzata di stampo mafioso rende manifesta la non irragionevolezza dell'esercizio della discrezionalita' legislativa, atteso il tasso di pericolosita' (non solo astratto ma anche empirico) per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere e' connaturato. Ma se l'aggravante del metodo mafioso puo' venire a ricomprendere fattispecie concrete marcatamente differenziate tra loro in punto di coefficiente di pericolosita' tanto da atteggiarsi come variante ad ampia latitudine applicativa, non puo' revocarsi in dubbio il carattere accentuatamente discriminatorio della previsione della presunzione assoluta in tema di misure cautelari. Cio' che vulnera i valori costituzionali non e' la presunzione in se', ma appunto il suo carattere assoluto, che implica una totale e illogica negazione di rilievo al principio del "minore sacrificio necessario". Di contro, la previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria - atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario - non eccede i limiti di compatibilita' costituzionale. E' pur vero che nel passato la Corte costituzionale ebbe a pronunciarsi su analoga questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275 comma 3 c.p.p. proprio in relazione a reato aggravato ex art. 7 lg. n. 203/91 (ordinanza n°. 450 del 1995), sia pure nella differente forma dell'agevolazione mafiosa, ritenendone la manifesta infondatezza; ebbe ad affermare in tal caso che "la previsione di adeguatezza della sola misura in argomento, per certi reati di spiccata gravita indicati nella norma impugnata, non puo' in primo luogo dirsi incoerente sul piano del raffronto con il potere affidato al giudice di valutare l'esistenza delle esigenze cautelari: un raffronto, istituito dal giudice a quo, fra elementi del tutto disomogenei, giacche' la sussistenza in concreto di una o piu' delle esigenze cautelari prefigurate dalla legge (l'un della cautela) non puo', per definizione, prescindere dall'accertamento della loro effettiva ricorrenza di volta in volta; mentre la scelta del 'tipo di misura (il quomodo di una cautela, in concreto rilevata come necessaria) non impone, ex se, l'attribuzione al giudice di analogo potere di apprezzamento, ben potendo essere effettuata in termini generali dal legislatore, nel rispetto della ragionevolezza della scelta e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti". Si rilevo' ancora come "la delimitazione della norma all'area dei delitti di criminalita' organizzata di tipo mafioso (delimitazione mantenuta nella recente novella) rende manifesta la non irragionevolezza dell'esercizio della discrezionalita' legislativa, atteso il coefficiente di pericolosita' per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere e' connaturato (sentt. n. 103 del 1993; n. 407 del 1992)" e che non vi fosse possibilita' di denunciare eventuali disparita' di trattamento cautelare "a fronte di ipotesi delittuose tra loro diverse ... urta volta che si consideri il comune denominatore di quei reati, cio' che costituisce la ragione fondante della scelta del legislatore, vale a dire l'individuazione di un'area di reati che, per comune sentire, pone a rischio, come si e' gia' osservato, beni primari individuali e collettivi (secondo una linea gia' scrutinata da questa Corte: sent. n.1 del 1980 citata)". Non v'e' chi non veda come la evoluzione giurisprudenziale della Corte Costituzionale (interessante ai fini che in questa sede interessano anche l'ordinanza n. 133/2009), alla luce delle quattro decisioni intervenute nel corso degli ultimi due anni di parziale declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 275 comma 3 c.p.p., ponga oggi nuovi profili di problematica interpretazione della norma processuale in esame, tanto piu' nel peculiare caso del reato aggravato dal metodo mafioso. Ne' tanto piu' appare dirimente l'intervento della Corte Europea dei diritti dell'Uomo, pure citata in alcune delle decisioni della Consulta (6 novembre 2003, Pantano e/ Italia, n. 60851), limitatosi al caso specifico del reato p. e p. dall'art. 416-bis c.p. per cui «la lutte contre le fleau que constitue la criminalite' de type mafieux peut, dans certains cas, appeler a' l'adoption de mesures justifiant une derogation a la regie fixee par l'article 5 de la Convention. Dans ce contexte, la presomption legale de dangerosite' peut se justifier lorsqu'elle n'est pas absolue. La mise en detention provisoire de persone accusees de delits lles a la criminalite' de type mafieux, tend a couper les liens existants entre elles et leur milieu criminel d'origine. Eu egard a la nature de ce type de criminalite' et aux conditions critiques des enquetes sur la mafia menees par les autorites, comme celle menee contre le requerant, le legislateur italien pouvait raisonnablement estimer que les mesures de precaution s'imposaient pour une veritable exigence d'interet public. Par consequent, la Cour considere que les prorogations de la detention provisoire du requerant n'etaient pas deraisonnables, et elle estime qu'aucune apparence d'arbitraire ne saurait etre decelee en l'espece ». P.A. e' stato condannato per una estorsione posta in essere con metodo mafioso, laddove la modalita' esecutiva del reato non consente di poter dire che l'imputato sia contiguo all'associazione mafiosa o abbia contatti con tale contesto; da qui l'irragionevolezza di una presunzione assoluta che lo pone in una condizione di impossibilita' ad accedere a regimi cautelari attenuati». L'appello del pubblico ministero risulta fondato. Ed invero, come da questi lamentato, il g.i.p. sembra non aver tenuto in alcun conto la presunzione di adeguatezza posta dall'ari 275, comma 3, c.p.p. che impone per i reati di cui all'art. 51, comma 3-bis, c.p.p. l'applicazione della custodia in carcere "salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari". Che, invece, i suddetti elementi non fossero stati ritenuti acquisiti lo riconosce lo stesso g.i.p. nell'applicare comunque all'imputato una misura cautelare. Va anzitutto sottolineato come in ordine alla sussistenza dei gravi indizi a carico dell'indagato in relazione alla suddetta circostanza aggravante si sia ormai formato il c.d. giudicato cautelare ed anzi i medesimi si sono trasformati in prova essendo il P. stato condannato con il riconoscimento dell'aggravante in parola. Ne consegue che in applicazione della presunzione di adeguatezza posta dall'art. 275, comma 3, c.p.p. non puo' che essere ripristinata la misura cautelare della custodia in carcere. Diventa pertanto rilevante la questione di costituzionalita' proposta dal difensore. Essa e' rilevante in quanto in assenza della suddetta presunzione di adeguatezza il Tribunale avrebbe il potere di valutare liberamente il grado delle esigenze cautelari residue applicando la misura cautelare ritenuta piu' idonea a fronteggiarle. Va in proposito rilevato che il pericolo di reiterazione di reati della medesima specie di quello per cui si procede deriva, alla stregua dei criteri indicati dall'art. 274, lett. c), c.p.p. dalle specifiche modalita' e circostanze del fatto e dalla personalita' dell'indagato. Il P., infatti, e' attualmente imputato nell'ambito del procedimento in esame di plurimi e gravi fatti di reato (associazione per delinquere finalizzata all'usura, usura ed estorsione) la cui condotta si e' protratta, secondo gli addebiti cautelari, dal 2006 sino all'emissione della misura cautelare, dimostrando con cio' l'avvenuto inserimento in un contesto criminale di vaste proporzioni e, in considerazione dei soggetti che vi partecipavano, di particolare capacita' criminale. Deve poi aggiungersi che egli ha posto in essere una pluralita' di fatti di reati per un lasso di tempo consistente. Da cio' l'impossibilita' di pervenire ad un giudizio di assenza del pericolo di reiterazione di reati della medesima specie di quelli per cui si procede. E tuttavia il riconosciuto ruolo marginale del P. in uno con la non gravita' dei precedenti penali risultanti dal certificato del casellario giudiziale (un decreto penale per la violazione del T.U. delle leggi doganali commesso nel 1999 ed una contravvenzione per guida in stato di ebbrezza risalente al 2005) fanno chiaramente ritenere che dette esigenze non siano di tale rilevanza ed entita' da poter essere fronteggiate esclusivamente con la piu' afflittiva delle misure cautelari previste, tanto piu' che non risultano in alcun modo circostanze dalle quali prevedere il mancato rispetto delle prescrizioni inerenti una misura cautelare meno afflittiva - come quella in esecuzione, che non risulta allo stato essere mai stata violata - ove il medesimo vi fosse sottoposto. Da qui la rilevanza della proposta questione, dovendo ritenersi, per le ragioni appena esposte, altrettanto adeguata a fronteggiare le pur persistenti esigenze cautelari una misura meno afflittiva di quella della custodia in carcere. La questione posta appare, poi, non manifestamente infondata. Sulla norma in questione piu' volte la Corte costituzionale e' stata chiamata a pronunciarsi. Con ordinanza n. 450 del 1995 la Corte, cui il procedimento era stato rimesso dal Tribunale di Firenze che aveva ravvisato una questione di costituzionalita' della norma in esame proprio in riferimento all'aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152/1991, aveva affermato che: la sussistenza in concreto di una o piu' delle esigenze cautelari prefigurate dalla legge (l'an della cautela) non puo', per definizione, prescindere dall'accertamento della loro effettiva ricorrenza di volta in volta; mentre la scelta del tipo di misura (il quomodo di una cautela, in concreto rilevata come necessaria) non impone, ex se, l'attribuzione al giudice di analogo potere di apprezzamento, ben potendo essere effettuata in termini generali dal legislatore, nel rispetto della ragionevolezza della scelta e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti; compete al legislatore l'individuazione del punto di equilibrio tra le diverse esigenze, della minore restrizione possibile della liberta' personale e dell'effettiva garanzia degli interessi di rilievo costituzionale tutelati attraverso la previsione degli strumenti cautelari nel processo penale (sentt. n.1 del 19801 n. 64 del 1970) la delimitazione della norma all'area dei delitti di criminalita' organizzata di tipo mafioso (delimitazione mantenuta nella recente novella) rende manifesta la non-irragionevolezza dell'esercizio della discrezionalita' legislativa, atteso il coefficiente di pericolosita' per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere e' connaturato (sentt. n. 103 del 1993; n. 407 del 1992); la predeterminazione in via generale della necessita' della cautela piu' rigorosa (salvi, ovviamente, gli istituti specificamente disposti a salvaguardia di peculiari situazioni soggettive, quali l'eta', la salute e cosi' via) non risulta in contrasto con il parametro dell'art. 3 della Costituzione, non potendosi ritenere soluzione costituzionalmente obbligata quella di affidare sempre e comunque al giudice la determinazione dell'accennato punto di equilibrio e contemperamento tra il sacrificio della liberta' personale e gli antagonisti interessi collettivi, anch'essi di rilievo costituzionale la censura di disparita' di trattamento, per l'eguale "risposta cautelare" a fronte di ipotesi delittuose tra loro diverse non puo' trovare accoglimento una volta che si consideri il comune denominatore di quei reati, cio' che costituisce la ragione fondante della scelta del legislatore, vale a dire l'individuazione di un'area di reati che, per comune sentire, pone a rischio, come si e' gia' osservato, beni primari individuali e collettivi (secondo una linea gia' scrutinata da questa Corte: sent. n.1 del 1980 citata); che il rilievo che precede vale anche alla luce della ulteriore selezione qualitativa operata attraverso la recente legge n. 332 del 1995; Con la sentenza n. 265/2010 e' stata invece affermata l'incostituzionalita' della norma, limitatamente ai delitti di cui agli artt. 600 bis, primo comma, 609-bis e 609-quater c.p., nella parte in cui non consente l'applicazione di misure diverse da quelle della custodia in carcere per l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Cosi motivava la Corte: «Secondo la giurisprudenza di questa Corte, «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe' se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit». In particolare, l'irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia "agevole" formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sentenza n. 139 de12010). Per questo verso, alle figure criminose che interessano non puo' estendersi la ratio gia' ritenuta, sia da questa Corte che dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, idonea a giustificare la deroga alla disciplina ordinaria quanto ai procedimenti relativi a delitti di mafia in senso stretto: vale a dire che dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche - connesse alla circostanza che l'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un'adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice - deriva, nella generalita' dei casi concreti ad essa riferibili e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure "minori" sufficienti a troncare i rapporti tra l'indiziato e l'ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosita'). Con riguardo ai delitti sessuali in considerazione non e' consentito pervenire ad analoga conclusione. La regola di esperienza, in questo caso, e' ben diversa: ed e' che i fatti concreti, riferibili alle fattispecie in questione (pur a prescindere dalle ipotesi attenuate e considerando quelle ordinarie) non solo presentano disvalori nettamente differenziabili, ma anche e soprattutto possono proporre esigenze cautelari suscettibili di essere soddisfatte con diverse misure. La ragionevolezza della soluzione normativa scrutinata non potrebbe essere rinvenuta neppure, per altro verso, nella gravita' astratta del reato, considerata sia in rapporto alla misura della pena, sia - come mostra invece di ritenere l'Avvocatura generale dello Stato - in rapporto alla natura (e, in particolare, all'elevato rango) dell'interesse tutelato. Questi parametri giocano un ruolo di rilievo, ma neppure esaustivo, in sede di giudizio di colpevolezza, particolarmente per la determinazione della sanzione, ma risultano, di per se', inidonei a fungere da elementi preclusivi ai fini della verifica della sussistenza di esigenze cautelari e - per quanto qui rileva - del loro grado, che condiziona l'identificazione delle misure idonee a soddisfarle". Analoghe considerazioni la Corte svolgeva con le sentenze n. 164/2011, con la quale si dichiarava l'incostituzionalita' della norma in relazione al delitto di cui all'art. 575 c.p., e n. 231/2011, in relazione a quello p. e p. dall'art. 74 d.P.R. n. 309/1990. Ritiene il Tribunale che quanto ripetutamente affermato dalla Corte Costituzionale in ordine alla ontologica non riconducibilita' dei delitti contro la liberta' sessuale e di quelli di' cui agli arti 74 d.P.R. n. 309/1990 e 575 c.p. a quelli espressione dell'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, o della condivisione dei disvalori da queste fatti propri, possa agevolmente ribadirsi anche con riferimento a quella particolare manifestazione della condotta criminosa consistente nell'avvalersi delle condizioni di assoggettamento indicate dall'art. 416-bis c.p. Anche tali delitti, invero, hanno o possono avere una struttura individualistica e sono tali,.. per le loro connotazioni, da non postulare necessariamente esigenze cautelari affrontabili esclusivamente con la custodia in carcere. L'aggravante in parola, consistendo in una peculiare manifestazione dell'azione antigiuridica, puo' accompagnare la commissione di qualsiasi fattispecie delittuosa prevista dal codice penale. La locuzione «delitti di mafia» cui si fa ripetutamente cenno nelle decisioni della Corte costituzionale finisce con il parificare nella sua genericita', sotto il profilo del disvalore sociale e giuridico, manifestazioni delittuose del tutto differenti tra loro sia con riferimento alla loro portata criminale che con riferimento alla pericolosita' dell'agente. E' sufficiente la mera evocazione, al fine di accrescere la portata intimidatoria della condotta posta in essere, di un'organizzazione criminale reale o supposta ma con la quale in realta' l'agente non abbia alcun collegamento perche' tale aggravante risulti integrata. La giurisprudenza di legittimita' sul punto e' costante nell'affermare che «la circostanza aggravante di cui all'art. 7 d.l. 13/05/1991, conv. in legge 12 luglio 1991, n. 203, qualifica l'uso del metodo mafioso, fondato sull'esistenza in una data zona di associazioni mafiose, anche in riguardo alla condotta di un soggetto non appartenente a dette associazioni" (Cass. pen., sez. I, sent. n. 4898/2009, rv. 243346; nei medesimi termini cfr. sez. I, sent, n. 5881/2011, rv. 251830; sez. 1, sent. n. 16883/2010, rv. 246753). Il fatto in esame e' esemplificativo di un siffatto orientamento atteso che al P. e' contestato di aver prospettato alla vittima, nel caso non avesse trovato i soldi per coprire i titoli di credito rimasti impagati, gravi ritorsioni consistite nell'intervento di ulteriori "amici" di N. e C., appartenenti alla criminalita' organizzata. Poiche', tuttavia, al a soggetto sostanzialmente incensurato, non e' in alcun modo attribuito di appartenere ad un sodalizio mafioso o di avere contiguita' con esso, alla sua posizione non si attagliano in alcun modo le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale e dalla stessa C.E.D.U. per giustificare la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere. Non si vede, infatti, quali legami con l'associazione di tipo mafioso l'appellante debba recidere posto che essi non sono stati in alcun modo ritenuti esistenti. Se tale presunzione - nella sua assolutezza - e' stata ritenuta ingiustificata persino nei confronti di appartenenti ad associazioni dedite al traffico di stupefacenti non si vede come essa possa operare nei confronti di chi m ipotesi agisca individualmente e si "limiti" ad evocare - a meri fini funzionali al successo dell'azione delittuosa - un'entita' della quale non fa parte. Il Tribunale ritiene che tale sola manifestazione di una condotta che altrimenti sarebbe sfuggita a tale presunzione non possa far considerare la pericolosita' sociale del suo autore talmente elevata da richiedere inevitabilmente l'applicazione della custodia in carcere. Proprio la possibilita' di formulare una ipotesi concreta che smentisce la generalizzazione posta a base della presunzione assoluta posta dalla disposizione in esame rende conto della sua irragionevolezza. Se la compatibilita' con i valori costituzionali dell'art. 275, c.3, c.p.p. e' stata ravvisata solo in considerazione della peculiare struttura della fattispecie e delle sue connotazioni criminologiche connesse alla circostanza che l'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un'adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice, e nella ritenuta esistenza di una regola di esperienza sufficientemente condivisa secondo la quale le misure "minori" non sono sufficienti a troncare i rapporti tra l'indiziato e l'ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosita', non si vede come tale ratio possa ricorrere nel caso in cui tale appartenenza e tale adesione non vi siano. Ne consegue un'ingiustificata parificazione tra chi a dette associazioni abbia aderito o intenda agevolare e chi, invece, senza appartenere ad esse intenda approfittare della condizione di assoggettamento dalle medesime creato per portare piu' efficacemente a compimento il proprio proposito criminoso: comportamento ovviamente grave ed indice di pericolosita' ma non necessariamente ed in ogni caso maggiore di chi abbia fatto parte di un'associazione dedita al traffico di stupefacenti. E' ben vero che nella prospettiva della vittima del reato una condotta connotata da "mafiosita'" risulta ugualmente ed allo stesso modo lesiva del suo bene giuridico, sia che sia stata posta in essere da persona appartenente ad un'associazione di quel tipo oppur no, ma tale uguale percezione attiene evidentemente alla gravita' del fatto ed all'allarme sociale che esso suscita ma non gia' al pericolo di reiterazione dei reati da parte del suo autore. La diversita' dei piani e' del tutto evidente e la loro irragionevole parificazione finisce con il produrre, come e' stato notato, una ingiustificata risposta sanzionatoria anticipata rispetto al pieno accertamento della penale responsabilita'. Richiamate, pertanto, e fatte proprie le condivisibili argomentazioni svolte dal difensore, il Tribunale ritiene che l'art. 275, comma 3, c.p.p., nell'imporre necessariamente all'autore di un delitto commesso avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p:, quando sussistano esigenze cautelari anche di infimo grado, la piu' afflittiva delle misure cautelari impedendo cosi' all'autorita' giudiziaria chiamata ad applicare dette misure di valutare se nel caso concreto risultino elementi specifici che facciano ritenere altrettanto idonee a soddisfarle altre misure meno afflittive, violi: l'art. 3 Cost., sia per l'irragionevole parificazione di situazioni tra loro diverse (all'interno delle ipotesi per le quali la presunzione assoluta opera) che per l'altrettanto irragionevole disparita' di trattamento tra soggetti che esprimano il medesimo grado di pericolosita' sociale; l'art. 13 Cost., per la lesione dell'affermato principio del minor sacrificio possibile al bene della liberta' personale; l'art. 27, comma 2, Cost., in quanto l'applicazione della custodia in carcere in mancanza di una effettiva e concreta esigenza cautelare costituisce una indebita anticipazione di una pena prima ancora di un giudiziale definitivo accertamento della responsabilita' penale.