IL TRIBUNALE DI LECCE 
 
    Ha pronunziato la seguente ordinanza nei confronti di P. A.C., n.
Lecce il 3 febbraio 1979, sull'appello presentato il 23 dicembre 2011
avverso l'ordinanza emessa dal g.u.p. presso il Tribunale di Lecce in
data 6 dicembre 2011 con la quale si disponeva la sostituzione  della
misura della custodia cautelare in carcere con quella  degli  arresti
domiciliari. 
    Con la gravata ordinanza il g.i.p., pur premettendo che il P. era
stato condannato in primo grado con rito abbreviato per  un  episodio
di estorsione aggravato dall'art. 7 d.l. n.  152/1991,  disponeva  la
menzionata sostituzione per la necessita' di perequare  la  posizione
dell'istante con quella del coimputato R.G. (per il quale la  sezione
feriale di questo Tribunale aveva operato analoga sostituzione pur in
presenza della contestazione  di  piu'  episodi  estorsivi  aggravati
dall'art. 7 d.l. n. 152/1991), «anche alla luce del fatto che  il  P.
e' soggetto che e' stato riconosciuto colpevole di un  solo  episodio
di estorsione aggravata (dal quale si evince che egli ha rivestito un
ruolo, si' importante, ma limitato nel tempo». 
    Avverso  il  suddetto  provvedimento  ha  interposto  appello  il
pubblico ministero lamentando la violazione del  disposto  del  terzo
comma dell'art. 275 c.p.p.  per  il  quale  quando  sussistono  gravi
indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all'art. 51, comma
3-bis e  3-quater  c.p.p.  e'  applicata  la  custodia  cautelare  in
carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari. A fronte del chiaro dettato normativo,
sostiene il pubblico ministero, deve recedere l'esigenza  perequativa
affermata dal g.u.p. «dal momento che cio'  determinerebbe  di  fatto
una reiterata e sistematica violazione di una  norma  del  codice  di
rito». 
    Anche il difensore ha impugnato l'ordinanza evidenziando in primo
luogo l'ammissione dell'usura subita ad opera di altri coimputati  ed
in secondo luogo il ruolo assolutamente  marginale  e  per  un  unico
episodio risalente neI tempo. Afferma  inoltre  l'appellante  che  la
sperequazione di trattamento cautelare va  ravvisata  soprattutto  in
rapporto alla posizione processuale di S. A ., da tempo  in  liberta'
piena; sperequazione non giustificata dalla collaborazione da  questi
offerta atteso che in sede di  trattamento  sanzionatorio  lo  stesso
g.i.p. ha valutato insussistente l'attenuante di cui all'art. 8 legge
n. 203/1991. 
    Ha inoltre sollevato, per il caso che  questo  Tribunale  dovesse
ritenere sussistenti  esigenze  cautelari  e  fondato  l'appello  del
pubblico ministero, questione di costituzionalita' della  presunzione
di adeguatezza posta dall'art. 275, comma 3, c.p.p. sulla base  delle
considerazioni che seguono: 
        "Si ipotizza che la previsione contenuta nel codice  di  rito
costituisca  irragionevole  esercizio  della   discrezionalita'   del
Legislatore, violando, in maniera patente, gli artt. 3, 13 comma 1  e
27 comma 2 Cost.; muovendo dalle  concrete  evenienze  della  vicenda
oggetto del procedimento a quo, che pur essendo tali - ad avviso  del
primo giudice -  da  far  emergere  la  sussistenza  dei  presupposti
applicativi di una misura cautelare (sia quanto ai  gravi  indizi  di
colpevolezza sia quanto alle esigenze cautelari, anche se non  meglio
specificate), si ritiene  che  l'impossibilita'  per  il  Giudice  di
salvaguardare  adeguatamente  i  restanti  pericoli   connessi   alla
liberta' dell'imputato attraverso l'applicazione di una  misura  meno
gravosa   della   custodia   in   carcere   rappresenti   motivo   di
irragionevolezza della disciplina censurata. 
    Ed invero, la riferita  disciplina,  in  quanto  derogatoria  del
principio  di  adeguatezza   espresso   nella   prima   parte   della
disposizione sospettata di illegittimita'  costituzionale,  imponendo
una misura piu' afflittiva in tutti i casi  previsti  dalla  medesima
disposizione, si pone in contrasto  con  l'esigenza  di  disporre  la
custodia carceraria solo come extrema ratio. 
    In relazione al profilo di asserita irragionevolezza, la norma di
cui all'art. 275 comma 3 c.p.p. e' passibile  di  censura  in  quanto
sottrae al Giudice il potere di adeguare la misura al caso  concreto,
pur affidando, incoerentemente, al  medesimo  Organo  il  compito  di
apprezzare appieno l'esistenza stessa delle  esigenze  cautelari,  in
cio' dimostrando di non operare correttamente  il  bilanciamento  tra
liberta' personale e misure cautelari. 
    Non puo' non ricollegarsi, altresi',  all'anzidetto  profilo,  in
rapporto al medesimo parametro dell'art.  3  Cost.,  il  sospetto  di
violazione del principio di uguaglianza, giacche' la norma si risolve
con l'appiattire situazione obiettivamente e soggettivamente diverse,
sia in astratto  che  in  concreto,  determinando,  cosi',  un'eguale
risposta cautelare  per  casi  sensibilmente  diversi  tra  loro.  Ed
infine, la lettura combinata degli  artt.  13  e  27  Cost.  consegna
l'esigenza di circoscrivere allo strettamente  necessario  le  misure
limitative della liberta' personale, per cui la custodia  in  carcere
ne risulta connotata come rimedio estremo, come modo di  "autotutela"
dell'ordinamento al  quale  ricorrere  soltanto  quando  nessun'altra
misura risulti idonea a tutelare le  esigenze  sottese  alla  cautela
personale. 
    La disciplina denunciata, invece, collide con siffatto principio,
stabilendo un automatismo applicativo che rende inoperanti i  criteri
di proporzionalita' e adeguatezza (pur enunciati  in  generale  dallo
stesso art. 275 c.p.p.), dai  quali  deriverebbe  la  necessita'  che
siano sempre affidati al giudice "il governo dei valori in  gioco"  e
la determinazione in concreto del minimo sacrificio possibile per  la
liberta' personale. 
    Per le argomentazioni  teste'  enunciate,  la  difesa  reputa  la
questione sia rilevante per la risoluzione  del  giudizio  in  corso,
considerato   il   legame    di    strumentalita'     (rectius    "di
pregiudizialita'")  tra  la  sollevata  questione   di   legittimita'
costituzionale e il giudizio a quo;  l'instaurazione  incidentale  e'
necessitata   dall'inevitabile   applicazione   della    disposizione
sospettata di incostituzionalita' nel giudizio  pendente  dinanzi  al
Tribunale del Riesame. 
    Il profilo della concretezza della questione emerge, altresi', se
si mette conto che .il giudizio costituzionale si rivela in grado  di
incidere  positivamente  sul   procedimento   de   quo   laddove   la
declaratoria  di  incostituzionalita'   della   norma   nei   termini
prospettati  dalla  difesa  permetterebbe  all'odierno  prevenuto  di
fruire del regime  piu'  attenuato  degli  arresti  domiciliari  ove,
all'esito del vaglio giudiziale in  sede  di  appello  cautelare,  si
ravvisassero permanenti i pericula libertatis. Non solo. 
    Dalle considerazioni precedentemente svolte non v'e' chi non veda
come  sussista  anche  l'ulteriore   condizione   di   proponibilita'
dell'incidente   di   legittimita'   costituzionale:   la   questione
certamente possiede  prima  facie  fondamento  giuridico,  mentre  il
"ragionevole dubbio" sulla costituzionalita' dell'art.  275  comma  3
c.p.p. impedisce la  prosecuzione  del  procedimento  principale.  In
questa  prospettiva,  appare  doveroso  lo  svolgimento   di   alcune
riflessioni in tema di delitto aggravato dal "metodo mafioso". 
    L'art. 7 d.l. 152/91, recante provvedimenti urgenti  in  tema  di
lotta alla criminalita' organizzata e di trasparenza e buon andamento
dell'attivita' amministrativa,  prevede  una  circostanza  aggravante
pressoche' comune e ad effetto speciale connessa  con  i  profili  di
tipicita' del delitto  ex  art.  416  bis  c.p.  o  comunque  con  le
attivita' delle associazioni di tipo mafioso. 
    La fattispecie si snoda in due varianti: la  prima  consiste  nel
fatto che il delitto base sia commesso "avvalendosi delle  condizioni
previste dall'416-bis del  codice  penale";  la  seconda  attribuisce
portata  aggravante  "al  fine   di   agevolare   l'attivita'   delle
associazioni previste dallo stesso articolo".  Sopravvenute  a  quasi
dieci anni  di  distanza  dall'introduzione  nell'ordinamento  penale
della corrispondente fattispecie associativa,  le  due  articolazioni
dell'aggravante, cosiddette rispettivamente "del  metodo  mafioso"  e
"dell'agevolazione mafiosa", lasciano trasparire un  preciso  disegno
politico-criminale: assicurare una copertura  repressiva  totale  del
fenomeno criminoso contemplato,  senza  eccessiva  preoccupazione  da
parte del legislatore per i profili di possibile interferenza tra  le
distinte previsioni, normative e quindi per i  margini  di  effettiva
reciproca autonomia  delle  stesse  (crf.  De  Vero,  La  circostanza
aggravante del metodo e del fine  di  agevolazione  mafiosi:  profili
sostanziali e processuali, in Riv. It. Dir. e Proc. pen.,  1997,  01,
0042). Da una prima lettura dell'art. 7 d.1. 152/91 risulta  come  le
due varianti dell'aggravante sembrino concernere, la prima, una sorta
di postfatto della fattispecie di  associazione  mafiosa  finalizzata
alla commissione di delitti, in quanto l'avvalersi del metodo mafioso
viene presentato come modalita' effettiva di commissione di un  certo
delitto: la seconda,  un'ipotesi  di  concorso  eventuale  nel  reato
associativo per cosi' dire a consumazione anticipata, poiche'  assume
rilievo criminoso la semplice finalita'  di  agevolazione,  senza  il
riscontro dell'effettivo vantaggio che l'attuazione del delitto  base
abbia rappresentato per il sodalizio mafioso. 
    Con particolare riferimento al metodo mafioso, va evidenziato  il
carattere  di  preponderante  autonomia  della  variante  in   parola
rispetto al reato associativo mafioso; il ricorso al metodo  mafioso,
infatti, puo' essere addebitato  tanto  come  generale  connotato  di
struttura del reato associativo e/o  dei  suoi  delitti-scopo  quanto
come concreta modalita' di attuazione di taluno dei delitti  previsti
dalla legge penale che nulla hanno di condivisibile con  il  fenomeno
associativo di tipo mafioso. 
    (Ed  invero,  al  dubbio   ermeneutico   circa   l'applicabilita'
dell'aggravante del metodo mafioso soltanto'  o  in  prevalenza  agli
autori. delle condotte gia' riferibili all'art. 416-bis c.p.,  ovvero
se,  al  contrario,  la,  cerchia  elettiva  dei  destinatari   della
circostanza aggravante  sia  data  dai  soggetti  estranei  al  reato
associativo gli interpreti  hanno  fornito  una  risposta  pressoche'
unanime. 
    Respinte le tesi estreme, e riconosciuto che soggetti attivi  dei
delitti  aggravati  dal  metodo  mafioso  possono  essere  tanto  gli
intranei quanto gli estranei al sodalizio mafioso, conviene piuttosto
interrogarsi sul grado di complementarieta'  rispettivamente  assunto
dalle   due    sottoipotesi'    nell'economia    della    fattispecie
circostanziata. 
    In dottrina si e' affermata l'idea di una  netta  prevalenza  dei
casi  in  cui  gli  autori  dei  delitti  cosi'  aggravati  risultano
appartenere all'associazione: l'opposta  ipotesi  di  estraneita'  al
gruppo criminale viene sostanzialmente ricondotta al limitato  ambito
del  delitto  compiuto  dal  soggetto   che   rivendichi   falsamente
l'appartenenza  al  sodalizio   mafioso,   in   modo   da   sfruttare
"abusivamente" un patrimonio  di  carica  intimidativa  che  non  gli
compete  (De  Liguori,  Concorso  e   contiguita'   nell'associazione
maflosa, 1996, p. 113 ss.  e  121,  mentre  ribadisce  la  dimensione
marginale del caso di simulazione di  appartenenza  mafiosa,  ravvisa
l'ambito di  applicazione  pressoche'  esclusivo  dell'aggravante  in
relazione agli estranei all'associazione, che  operino  comunque  con
modalita' e metodi propri dei contesti mafiosi; ma  finisce  poi  per
ammettere che questo spazio applicativo e' piu' teorico che reale, di
modo   che   l'unico   e    minimo    riscontro    empirico-criminoso
dell'aggravante resta l'ipotesi di  simulazione  di  appartenenza  al
sodalizio mafioso). 
    La  giurisprudenza  inclina,  di  contro,  a   sottolineare   che
l'aggravante in esame prescinde di per se' ed  in  via  di  principio
dall'appartenenza  all'associazione  criminale,  la  cui  compresenza
resta comunque compatibile  con  la  disposizione  dell'art.  7  d.l.
152/91 (tra le altre, Cass. 18 marzo 1994, in Giust. pen., 1994,  II,
e. 657; Id., 31 gennaio 1994, ivi, 1994, III, e. 586; Id.,  Sez.  II,
17 giugno 1993, Medita). 
    Questo secondo orientamento e' stato abbracciato come quello piu'
adatto ad assicurare uno  spazio  di  applicabilita'  dell'aggravante
distinto dall'area di operativita' dell'art. 416-bis c.p. 
    A riguardo sono state avanzate  perplessita'  da  parte  di  chi,
considerando  "non  molto  realistica  l'ipotesi  di   una   condotta
improntata alla millanteria circa l'appartenenza  alla  mafia",  teme
che l'applicazione della circostanza del metodo mafioso sfumi in  una
sorta di "contestualita' geografica e ambientale"  (cosi',  Insolera,
Diritto penale e criminalita' organizzata, 1996, p. 127): con cio' si
ipotizza l'eventualita' di un'applicazione indiscriminata ai  delitti
commessi in regioni ad alto tasso di  criminalita'  organizzata,  sul
presupposto che specialmente  talune  manifestazioni  criminose,  per
solito connesse all'attivita'  delle  associazioni  mafiose,  possano
sprigionare l'effetto intimidativo in questione indipendentemente  da
concrete  modalita'  esecutive  utilizzate  in  tale  direzione   dal
soggetto attivo del reato. 
    Se allora l'esigenza  di  una  ricostruzione  dell'aggravante  in
termini non (necessariamente) coincidenti con  il  nucleo  del  reato
associativo viene collegata ad una generale istanza, per cosi'  dire,
di "conservazione" (dei margini  di  autonomia)  della  piu'  recente
disposizione di legge, e' necessario anche fornire  indicazioni  piu'
stringenti, frutto di una meditata presa di posizione sul  ruolo  che
il c.d. metodo mafioso  e'  chiamato  a  svolgere  nei  due  distinti
contesti normativi. 
    A questo proposito va chiaramente detto  che,  al  di  la'  della
coincidenza  letterale,  l'elemento  costitutivo  previsto  dall'art.
416-bis c.p. e la circostanza aggravante ex art. 7 d.l.  n.  152/1991
si collocano in due ordini  di  grandezze  incommensurabili,  che  ne
impongono una ricostruzione in termini di reciproca autonomia. 
    La necessita' di ravvisare nella  condotta  del  soggetto  attivo
concreti elementi di intimidazione  evocatori  del  fenomeno  mafioso
consente di evitare  il  rischio,  sopra  accennato,  di  risoluzione
dell'aggravante nella mera "contestualita' geografico-ambientale" del
delitto commesso rispetto agli  ambiti  territoriali  di  piu'  acuta
evidenza della criminalita' organizzata; e cio'  senza  dover  essere
per altro verso costretti a postulare quella  effettiva  affiliazione
del reo ad una associazione mafiosa che ridurrebbe arbitrariamente lo
spazio di operativita' della circostanza. 
    Se tali premesse esegetiche sono condivisibili, allora  non  puo'
non cogliersi  l'irrazionalita'  della  scelta  legislativa  che  non
permetta al giudice di apprezzare l'ascrivibilita' del caso  concreto
all'una   od   all'altra   delle   due   sub-fattispecie    racchiuse
nell'aggravante del metodo mafioso. Ed invero, mentre  la  previsione
legale di una presunzione iuris  et  de  iure  di  adeguatezza  della
custodia carceraria  per  i  delitti  aggravati  dalla  finalita'  di
agevolare l'associazione prevista dall'art. 416 bis c.p. e per quelli
aggravati dal metodo mafioso commessi  dagli  intranei  al  sodalizio
puo'  apparire  ragionevole  perche'  giustificata  dalla   effettiva
esigenza di stroncare  il  vincolo  particolarmente  qualificato  che
sussiste tra l'associazione  mafiosa  radicata  in  un  certo  ambito
territoriale e il proprio affiliato, altrettanto non puo'  dirsi  nel
caso dei reati commessi col metodo mafioso da coloro per i  quali  si
accerta la mancanza di qualsivoglia legame con una cosca mafiosa. 
    L'esame  giudiziale  condotto  in  sede  di  accertamento   della
responsabilita' del P. ha evidenziato proprio che il fatto  posto  in
essere  dall'odierno  appellante,  lungi  dal  costituire   spia   di
un'appartenenza, anche non stabile, ad un sodalizio di tipo  mafioso,
ha rappresentato il frutto di un'iniziativa meramente occasionale  ed
episodica   dell'agente,   tutt'al   piu'   contaminata   da   quella
"contestualita'   geografico-ambientale"   di   cui   si   e'   detto
inprecedenza. 
    Con siffatto aspetto, dunque, non va confuso quello  connesso  ad
una eventuale  pericolosita'  piu'  marcata  del  soggetto  che,  nel
commettere uno dei delitti previsti dal codice, sfrutta le condizioni
previste dall'art. 416-bis c.p. in  chiave  di  maggiore  incisivita'
dell'azione posta in essere. 
    Al riguardo, infatti, va ribadito  quanto  gia'  affermato  dalla
Corte costituzionale: la gravita' astratta del reato, considerata  in
rapporto  alla  misura  della  pena  o  alla  natura   dell'interesse
protetto,  e'  significativa  ai'  fini  della  determinazione  della
sanzione, ma inidonea a fungere da elemento preclusivo alla  verifica
del grado delle esigenze cautelari e all'individuazione della  misura
concretamente idonea a farvi fronte. 
    Il rimedio all'allarme sociale causato dal reato non puo'  essere
annoverato tra le finalita' della custodia cautelare, costituendo una
funzione istituzionale della pena,  perche'  presuppone  la  certezza
circa  il  responsabile  del  delitto  che  ha  provocato   l'allarme
(sentenze corte cost. n.331, n. 231 e n.  164  del  2011,n.  265  del
2010). 
    Solo la ferrea delimitazione della  norma  di  cui  all'art.  275
comma 3 c.p.p.  all'area  degli  effettivi  delitti  di  criminalita'
organizzata di stampo mafioso rende manifesta la non irragionevolezza
dell'esercizio della discrezionalita' legislativa, atteso il tasso di
pericolosita' (non solo astratto ma anche empirico) per le condizioni
di base della  convivenza  e  della  sicurezza  collettiva  che  agli
illeciti di quel genere e' connaturato. 
    Ma se l'aggravante del metodo mafioso puo' venire a ricomprendere
fattispecie concrete marcatamente differenziate tra loro in punto  di
coefficiente di pericolosita' tanto da atteggiarsi come  variante  ad
ampia  latitudine  applicativa,  non  puo'  revocarsi  in  dubbio  il
carattere  accentuatamente  discriminatorio  della  previsione  della
presunzione assoluta in tema di misure cautelari. 
    Cio' che vulnera i valori costituzionali non e' la presunzione in
se', ma appunto il suo carattere assoluto, che implica una  totale  e
illogica negazione di rilievo al  principio  del  "minore  sacrificio
necessario". 
    Di contro, la previsione di  una  presunzione  solo  relativa  di
adeguatezza  della  custodia  carceraria  -  atta  a  realizzare  una
semplificazione del  procedimento  probatorio  suggerita  da  aspetti
ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile
da  elementi  di  segno  contrario  -  non   eccede   i   limiti   di
compatibilita' costituzionale. 
    E' pur vero che  nel  passato  la  Corte  costituzionale  ebbe  a
pronunciarsi su  analoga  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 275 comma 3 c.p.p. proprio in relazione a  reato  aggravato
ex art. 7 lg. n. 203/91 (ordinanza n°. 450 del 1995), sia pure  nella
differente forma dell'agevolazione mafiosa, ritenendone la  manifesta
infondatezza; ebbe ad affermare in tal caso  che  "la  previsione  di
adeguatezza della sola  misura  in  argomento,  per  certi  reati  di
spiccata gravita indicati nella norma impugnata, non  puo'  in  primo
luogo dirsi incoerente sul piano del raffronto con il potere affidato
al giudice di  valutare  l'esistenza  delle  esigenze  cautelari:  un
raffronto, istituito dal  giudice  a  quo,  fra  elementi  del  tutto
disomogenei, giacche' la sussistenza in concreto di una o piu'  delle
esigenze cautelari prefigurate dalla legge (l'un della  cautela)  non
puo',  per  definizione,  prescindere  dall'accertamento  della  loro
effettiva ricorrenza di volta in volta; mentre la scelta del 'tipo di
misura  (il  quomodo  di  una  cautela,  in  concreto  rilevata  come
necessaria) non impone, ex se, l'attribuzione al giudice  di  analogo
potere di apprezzamento, ben potendo  essere  effettuata  in  termini
generali dal legislatore, nel  rispetto  della  ragionevolezza  della
scelta  e  del  corretto  bilanciamento  dei  valori   costituzionali
coinvolti". 
    Si rilevo' ancora come "la delimitazione della norma all'area dei
delitti di criminalita' organizzata di  tipo  mafioso  (delimitazione
mantenuta   nella   recente   novella)   rende   manifesta   la   non
irragionevolezza dell'esercizio della  discrezionalita'  legislativa,
atteso il coefficiente di pericolosita' per  le  condizioni  di  base
della convivenza e della sicurezza collettiva che  agli  illeciti  di
quel genere e' connaturato (sentt. n. 103 del 1993; n. 407 del 1992)"
e che non vi fosse possibilita' di denunciare eventuali disparita' di
trattamento cautelare  "a  fronte  di  ipotesi  delittuose  tra  loro
diverse ... urta volta che si consideri  il  comune  denominatore  di
quei reati, cio' che costituisce la ragione fondante della scelta del
legislatore, vale a dire l'individuazione di un'area  di  reati  che,
per comune sentire, pone a rischio, come si e' gia'  osservato,  beni
primari individuali e collettivi (secondo una linea  gia'  scrutinata
da questa Corte: sent. n.1 del 1980 citata)". 
    Non v'e' chi non veda come la evoluzione giurisprudenziale  della
Corte  Costituzionale  (interessante  ai  fini  che  in  questa  sede
interessano anche l'ordinanza n. 133/2009), alla luce  delle  quattro
decisioni intervenute nel corso degli ultimi  due  anni  di  parziale
declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 275  comma  3
c.p.p., ponga oggi  nuovi  profili  di  problematica  interpretazione
della norma processuale in esame, tanto piu' nel peculiare  caso  del
reato aggravato dal metodo mafioso. 
    Ne' tanto piu' appare dirimente l'intervento della Corte  Europea
dei diritti dell'Uomo, pure citata in alcune  delle  decisioni  della
Consulta (6 novembre 2003, Pantano e/ Italia, n.  60851),  limitatosi
al caso specifico del reato p. e p. dall'art. 416-bis  c.p.  per  cui
«la lutte contre le fleau  que  constitue  la  criminalite'  de  type
mafieux peut, dans certains cas, appeler  a'  l'adoption  de  mesures
justifiant une derogation a la regie fixee  par  l'article  5  de  la
Convention. Dans ce contexte, la presomption legale  de  dangerosite'
peut se justifier lorsqu'elle n'est pas absolue. 
    La mise en detention provisoire de  persone  accusees  de  delits
lles a la criminalite' de type  mafieux,  tend  a  couper  les  liens
existants entre elles et leur milieu criminel d'origine. Eu  egard  a
la nature de ce type de criminalite' et aux conditions critiques  des
enquetes sur la mafia menees par les  autorites,  comme  celle  menee
contre le requerant, le legislateur italien  pouvait  raisonnablement
estimer que les mesures de precaution s'imposaient pour une veritable
exigence d'interet public. Par consequent, la Cour considere que  les
prorogations de la detention provisoire du  requerant  n'etaient  pas
deraisonnables, et elle estime qu'aucune  apparence  d'arbitraire  ne
saurait etre decelee en l'espece ». 
    P.A. e' stato condannato per una estorsione posta in  essere  con
metodo mafioso, laddove la modalita' esecutiva del reato non consente
di poter dire che l'imputato sia contiguo all'associazione mafiosa  o
abbia contatti con tale contesto; da qui  l'irragionevolezza  di  una
presunzione assoluta che lo pone in una condizione di  impossibilita'
ad accedere a regimi cautelari attenuati». 
    L'appello del pubblico ministero risulta fondato. 
    Ed invero, come da questi lamentato, il g.i.p.  sembra  non  aver
tenuto in alcun conto la presunzione di  adeguatezza  posta  dall'ari
275, comma 3, c.p.p. che impone per i reati di cui all'art. 51, comma
3-bis, c.p.p. l'applicazione della custodia  in  carcere  "salvo  che
siano  acquisiti  elementi  dai  quali  risulti  che  non  sussistono
esigenze cautelari". Che, invece, i  suddetti  elementi  non  fossero
stati ritenuti acquisiti lo riconosce lo stesso g.i.p. nell'applicare
comunque all'imputato una misura cautelare. 
    Va anzitutto sottolineato come in  ordine  alla  sussistenza  dei
gravi indizi  a  carico  dell'indagato  in  relazione  alla  suddetta
circostanza  aggravante  si  sia  ormai  formato  il  c.d.  giudicato
cautelare ed anzi i medesimi si sono trasformati in prova essendo  il
P. stato condannato con il riconoscimento dell'aggravante in parola. 
    Ne consegue che in applicazione della presunzione di  adeguatezza
posta dall'art. 275, comma 3, c.p.p. non puo' che essere ripristinata
la misura cautelare della custodia in carcere. 
    Diventa pertanto  rilevante  la  questione  di  costituzionalita'
proposta dal difensore. 
    Essa e' rilevante in quanto in assenza della suddetta presunzione
di adeguatezza il Tribunale avrebbe il potere di valutare liberamente
il grado  delle  esigenze  cautelari  residue  applicando  la  misura
cautelare ritenuta piu' idonea a fronteggiarle. 
    Va in proposito rilevato che il pericolo di reiterazione di reati
della medesima specie di quello  per  cui  si  procede  deriva,  alla
stregua dei criteri indicati dall'art. 274, lett.  c),  c.p.p.  dalle
specifiche modalita' e circostanze del  fatto  e  dalla  personalita'
dell'indagato. 
    Il  P.,  infatti,  e'  attualmente   imputato   nell'ambito   del
procedimento in esame di plurimi e gravi fatti di reato (associazione
per delinquere finalizzata all'usura, usura  ed  estorsione)  la  cui
condotta si e' protratta, secondo gli addebiti  cautelari,  dal  2006
sino all'emissione  della  misura  cautelare,  dimostrando  con  cio'
l'avvenuto inserimento in un contesto criminale di vaste  proporzioni
e,  in  considerazione  dei  soggetti  che   vi   partecipavano,   di
particolare capacita' criminale. Deve poi  aggiungersi  che  egli  ha
posto in essere una pluralita' di fatti di  reati  per  un  lasso  di
tempo consistente. 
    Da cio' l'impossibilita' di pervenire ad un giudizio  di  assenza
del pericolo di reiterazione di reati della medesima specie di quelli
per cui si procede. 
    E tuttavia il riconosciuto ruolo marginale del P. in uno  con  la
non gravita' dei precedenti penali  risultanti  dal  certificato  del
casellario giudiziale (un decreto penale per la violazione  del  T.U.
delle leggi doganali commesso nel 1999  ed  una  contravvenzione  per
guida in stato di  ebbrezza  risalente  al  2005)  fanno  chiaramente
ritenere che dette esigenze non siano di tale rilevanza ed entita' da
poter essere fronteggiate esclusivamente con la piu' afflittiva delle
misure cautelari previste, tanto piu' che non risultano in alcun modo
circostanze  dalle  quali  prevedere  il   mancato   rispetto   delle
prescrizioni inerenti una misura cautelare  meno  afflittiva  -  come
quella in esecuzione, che non risulta allo  stato  essere  mai  stata
violata - ove il medesimo vi fosse sottoposto. 
    Da qui la rilevanza della proposta questione, dovendo  ritenersi,
per le ragioni appena esposte, altrettanto adeguata a fronteggiare le
pur persistenti esigenze cautelari  una  misura  meno  afflittiva  di
quella della custodia in carcere. 
    La questione posta appare, poi, non manifestamente infondata. 
    Sulla norma in questione piu' volte la  Corte  costituzionale  e'
stata chiamata a pronunciarsi. 
    Con ordinanza n. 450 del 1995 la Corte, cui il  procedimento  era
stato rimesso dal  Tribunale  di  Firenze  che  aveva  ravvisato  una
questione di  costituzionalita'  della  norma  in  esame  proprio  in
riferimento all'aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152/1991,  aveva
affermato che: 
        la sussistenza in concreto  di  una  o  piu'  delle  esigenze
cautelari prefigurate dalla legge (l'an della cautela) non puo',  per
definizione,  prescindere  dall'accertamento  della  loro   effettiva
ricorrenza di volta in volta; mentre la scelta del tipo di misura (il
quomodo di una cautela, in concreto  rilevata  come  necessaria)  non
impone, ex  se,  l'attribuzione  al  giudice  di  analogo  potere  di
apprezzamento, ben potendo essere effettuata in termini generali  dal
legislatore, nel rispetto della ragionevolezza  della  scelta  e  del
corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti; 
        compete  al  legislatore  l'individuazione   del   punto   di
equilibrio  tra  le  diverse  esigenze,  della   minore   restrizione
possibile della liberta' personale e  dell'effettiva  garanzia  degli
interessi di rilievo costituzionale tutelati attraverso la previsione
degli strumenti cautelari nel processo penale (sentt. n.1  del  19801
n. 64 del 1970) 
        la  delimitazione  della  norma  all'area  dei   delitti   di
criminalita' organizzata di  tipo  mafioso  (delimitazione  mantenuta
nella  recente  novella)  rende  manifesta  la   non-irragionevolezza
dell'esercizio  della   discrezionalita'   legislativa,   atteso   il
coefficiente  di  pericolosita'  per  le  condizioni  di  base  della
convivenza e della sicurezza collettiva che  agli  illeciti  di  quel
genere e' connaturato (sentt. n. 103 del 1993; n. 407 del 1992); 
        la predeterminazione in via generale della  necessita'  della
cautela piu' rigorosa (salvi, ovviamente, gli istituti specificamente
disposti a salvaguardia di  peculiari  situazioni  soggettive,  quali
l'eta', la salute e cosi'  via)  non  risulta  in  contrasto  con  il
parametro dell'art. 3  della  Costituzione,  non  potendosi  ritenere
soluzione costituzionalmente obbligata quella di  affidare  sempre  e
comunque  al  giudice  la  determinazione  dell'accennato  punto   di
equilibrio  e  contemperamento  tra  il  sacrificio  della   liberta'
personale  e  gli  antagonisti  interessi  collettivi,  anch'essi  di
rilievo costituzionale 
        la  censura  di  disparita'  di  trattamento,  per   l'eguale
"risposta cautelare" a fronte di ipotesi delittuose tra loro  diverse
non puo' trovare accoglimento una volta che si  consideri  il  comune
denominatore di quei reati, cio' che costituisce la ragione  fondante
della scelta del legislatore, vale a dire l'individuazione di un'area
di reati che, per comune sentire, pone a rischio,  come  si  e'  gia'
osservato, beni primari individuali e collettivi (secondo  una  linea
gia' scrutinata da questa Corte: sent. n.1 del 1980 citata);  che  il
rilievo che precede vale anche alla luce  della  ulteriore  selezione
qualitativa operata attraverso la recente legge n. 332 del 1995; 
    Con  la  sentenza  n.  265/2010   e'   stata   invece   affermata
l'incostituzionalita' della norma, limitatamente ai  delitti  di  cui
agli artt. 600 bis, primo comma, 609-bis  e  609-quater  c.p.,  nella
parte in cui non consente l'applicazione di misure diverse da  quelle
della custodia in  carcere  per  l'ipotesi  in  cui  siano  acquisiti
elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali  risulti
che le  esigenze  cautelari  possono  essere  soddisfatte  con  altre
misure. 
    Cosi motivava la Corte: 
        «Secondo la giurisprudenza di questa Corte,  «le  presunzioni
assolute,  specie  quando  limitano  un  diritto  fondamentale  della
persona, violano il principio di eguaglianza, se  sono  arbitrarie  e
irrazionali,  cioe'  se  non  rispondono   a   dati   di   esperienza
generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod   plerumque
accidit».  In  particolare,  l'irragionevolezza   della   presunzione
assoluta si coglie tutte le volte  in  cui  sia  "agevole"  formulare
ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione  posta  a
base della presunzione stessa (sentenza n. 139 de12010). 
    Per questo verso, alle figure criminose che interessano non  puo'
estendersi la ratio gia' ritenuta, sia  da  questa  Corte  che  dalla
Corte europea dei diritti dell'uomo, idonea a giustificare la  deroga
alla disciplina ordinaria quanto ai procedimenti relativi  a  delitti
di mafia in senso stretto: vale a dire  che  dalla  struttura  stessa
della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche -  connesse
alla circostanza che l'appartenenza ad associazioni di  tipo  mafioso
implica un'adesione permanente ad un  sodalizio  criminoso  di  norma
fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta  rete
di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice
- deriva, nella generalita' dei casi concreti ad  essa  riferibili  e
secondo una regola  di  esperienza  sufficientemente  condivisa,  una
esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe  adeguata  solo  la
custodia in carcere (non essendo le  misure  "minori"  sufficienti  a
troncare i rapporti tra  l'indiziato  e  l'ambito  delinquenziale  di
appartenenza, neutralizzandone la pericolosita'). 
    Con  riguardo  ai  delitti  sessuali  in  considerazione  non  e'
consentito pervenire ad analoga conclusione. La regola di esperienza,
in questo  caso,  e'  ben  diversa:  ed  e'  che  i  fatti  concreti,
riferibili alle fattispecie in questione  (pur  a  prescindere  dalle
ipotesi  attenuate  e  considerando  quelle   ordinarie)   non   solo
presentano  disvalori  nettamente   differenziabili,   ma   anche   e
soprattutto  possono  proporre  esigenze  cautelari  suscettibili  di
essere soddisfatte con diverse misure. 
    La  ragionevolezza  della  soluzione  normativa  scrutinata   non
potrebbe essere rinvenuta neppure, per altro  verso,  nella  gravita'
astratta del reato, considerata sia in  rapporto  alla  misura  della
pena, sia - come mostra  invece  di  ritenere  l'Avvocatura  generale
dello Stato - in rapporto alla natura (e, in particolare, all'elevato
rango) dell'interesse tutelato. Questi parametri giocano un ruolo  di
rilievo, ma neppure esaustivo, in sede di giudizio  di  colpevolezza,
particolarmente per la determinazione della sanzione,  ma  risultano,
di per se', inidonei a fungere da elementi preclusivi ai  fini  della
verifica della sussistenza di esigenze cautelari e - per  quanto  qui
rileva - del  loro  grado,  che  condiziona  l'identificazione  delle
misure idonee a soddisfarle". 
    Analoghe considerazioni la Corte  svolgeva  con  le  sentenze  n.
164/2011, con la  quale  si  dichiarava  l'incostituzionalita'  della
norma in relazione  al  delitto  di  cui  all'art.  575  c.p.,  e  n.
231/2011, in relazione a quello  p.  e  p.  dall'art.  74  d.P.R.  n.
309/1990. 
    Ritiene il Tribunale che  quanto  ripetutamente  affermato  dalla
Corte Costituzionale in ordine alla ontologica  non  riconducibilita'
dei delitti contro la liberta' sessuale e di quelli di' cui agli arti
74  d.P.R.  n.   309/1990   e   575   c.p.   a   quelli   espressione
dell'appartenenza  ad  associazioni  di   tipo   mafioso,   o   della
condivisione dei disvalori da queste fatti propri, possa  agevolmente
ribadirsi anche con riferimento a quella  particolare  manifestazione
della condotta criminosa consistente nell'avvalersi delle  condizioni
di assoggettamento indicate dall'art. 416-bis c.p. 
    Anche tali delitti, invero, hanno o possono avere  una  struttura
individualistica e sono tali,.. per  le  loro  connotazioni,  da  non
postulare    necessariamente    esigenze    cautelari    affrontabili
esclusivamente con la custodia in carcere. 
    L'aggravante   in   parola,   consistendo   in   una    peculiare
manifestazione  dell'azione  antigiuridica,  puo'   accompagnare   la
commissione di qualsiasi fattispecie delittuosa prevista  dal  codice
penale. 
    La locuzione «delitti di mafia» cui  si  fa  ripetutamente  cenno
nelle decisioni della Corte costituzionale finisce con il  parificare
nella sua genericita', sotto  il  profilo  del  disvalore  sociale  e
giuridico, manifestazioni delittuose del tutto  differenti  tra  loro
sia con riferimento alla loro portata criminale che  con  riferimento
alla pericolosita' dell'agente. 
    E' sufficiente la mera  evocazione,  al  fine  di  accrescere  la
portata  intimidatoria   della   condotta   posta   in   essere,   di
un'organizzazione criminale reale o  supposta  ma  con  la  quale  in
realta' l'agente non abbia alcun collegamento perche' tale aggravante
risulti integrata. La giurisprudenza di  legittimita'  sul  punto  e'
costante  nell'affermare  che  «la  circostanza  aggravante  di   cui
all'art. 7 d.l. 13/05/1991, conv. in legge 12 luglio  1991,  n.  203,
qualifica l'uso del metodo mafioso,  fondato  sull'esistenza  in  una
data zona di associazioni mafiose, anche in riguardo alla condotta di
un soggetto non appartenente a dette associazioni" (Cass. pen.,  sez.
I, sent. n. 4898/2009, rv. 243346; nei medesimi termini cfr. sez.  I,
sent, n. 5881/2011, rv. 251830; sez.  1,  sent.  n.  16883/2010,  rv.
246753). 
    Il fatto in esame e' esemplificativo di un siffatto  orientamento
atteso che al P. e' contestato di aver prospettato alla vittima,  nel
caso non avesse trovato i soldi  per  coprire  i  titoli  di  credito
rimasti impagati,  gravi  ritorsioni  consistite  nell'intervento  di
ulteriori  "amici"  di  N.  e  C.,  appartenenti  alla   criminalita'
organizzata. 
    Poiche', tuttavia, al a soggetto sostanzialmente incensurato, non
e' in alcun modo attribuito di appartenere ad un sodalizio mafioso  o
di avere contiguita' con esso, alla sua posizione non  si  attagliano
in alcun modo le considerazioni svolte dalla Corte  costituzionale  e
dalla stessa C.E.D.U. per giustificare  la  presunzione  assoluta  di
adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere.  Non  si  vede,
infatti, quali legami con l'associazione di tipo mafioso l'appellante
debba recidere posto che essi non sono stati in alcun  modo  ritenuti
esistenti. 
    Se tale presunzione - nella sua assolutezza - e'  stata  ritenuta
ingiustificata persino nei confronti di appartenenti ad  associazioni
dedite al traffico di  stupefacenti  non  si  vede  come  essa  possa
operare nei confronti di chi m ipotesi agisca  individualmente  e  si
"limiti" ad evocare - a meri fini funzionali al successo  dell'azione
delittuosa - un'entita' della quale non fa parte. 
    Il Tribunale ritiene che tale sola manifestazione di una condotta
che altrimenti sarebbe sfuggita a  tale  presunzione  non  possa  far
considerare la pericolosita' sociale del suo autore talmente  elevata
da  richiedere  inevitabilmente  l'applicazione  della  custodia   in
carcere. Proprio la possibilita' di formulare  una  ipotesi  concreta
che smentisce la generalizzazione  posta  a  base  della  presunzione
assoluta posta dalla disposizione in  esame  rende  conto  della  sua
irragionevolezza. 
    Se la compatibilita' con i valori costituzionali  dell'art.  275,
c.3, c.p.p. e' stata ravvisata solo in considerazione della peculiare
struttura della fattispecie e delle sue  connotazioni  criminologiche
connesse alla circostanza che l'appartenenza ad associazioni di  tipo
mafioso implica un'adesione permanente ad un sodalizio  criminoso  di
norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta
rete  di  collegamenti  personali  e  dotato  di  particolare   forza
intimidatrice, e nella ritenuta esistenza di una regola di esperienza
sufficientemente condivisa secondo la quale le  misure  "minori"  non
sono sufficienti a troncare i rapporti  tra  l'indiziato  e  l'ambito
delinquenziale di appartenenza,  neutralizzandone  la  pericolosita',
non si vede come tale ratio possa ricorrere  nel  caso  in  cui  tale
appartenenza e tale adesione non vi siano. 
    Ne consegue  un'ingiustificata  parificazione  tra  chi  a  dette
associazioni abbia aderito o intenda agevolare e chi,  invece,  senza
appartenere  ad  esse  intenda  approfittare  della   condizione   di
assoggettamento dalle medesime creato per portare piu'  efficacemente
a compimento il proprio proposito criminoso: comportamento ovviamente
grave ed indice di pericolosita' ma non necessariamente  ed  in  ogni
caso maggiore di chi abbia fatto parte di un'associazione  dedita  al
traffico di stupefacenti. 
    E' ben vero che nella prospettiva della  vittima  del  reato  una
condotta connotata da "mafiosita'" risulta ugualmente ed allo  stesso
modo lesiva del suo bene giuridico, sia che sia stata posta in essere
da persona appartenente ad un'associazione di quel tipo oppur no,  ma
tale uguale percezione attiene evidentemente alla gravita' del  fatto
ed all'allarme sociale che esso suscita ma non gia'  al  pericolo  di
reiterazione dei reati da parte del suo  autore.  La  diversita'  dei
piani e' del tutto evidente e  la  loro  irragionevole  parificazione
finisce con il produrre, come e'  stato  notato,  una  ingiustificata
risposta sanzionatoria  anticipata  rispetto  al  pieno  accertamento
della penale responsabilita'. 
    Richiamate,  pertanto,   e   fatte   proprie   le   condivisibili
argomentazioni svolte dal difensore, il Tribunale ritiene che  l'art.
275, comma 3, c.p.p., nell'imporre necessariamente all'autore  di  un
delitto commesso  avvalendosi  delle  condizioni  previste  dall'art.
416-bis c.p:, quando sussistano esigenze cautelari  anche  di  infimo
grado, la piu' afflittiva  delle  misure  cautelari  impedendo  cosi'
all'autorita' giudiziaria  chiamata  ad  applicare  dette  misure  di
valutare se  nel  caso  concreto  risultino  elementi  specifici  che
facciano ritenere altrettanto idonee a soddisfarle altre misure  meno
afflittive, violi: 
        l'art. 3 Cost.,  sia  per  l'irragionevole  parificazione  di
situazioni tra loro diverse (all'interno delle ipotesi per  le  quali
la presunzione assoluta opera) che  per  l'altrettanto  irragionevole
disparita' di trattamento tra  soggetti  che  esprimano  il  medesimo
grado di pericolosita' sociale; 
        l'art. 13 Cost., per la lesione dell'affermato principio  del
minor sacrificio possibile al bene della liberta' personale; 
        l'art. 27, comma 2, Cost.,  in  quanto  l'applicazione  della
custodia in carcere in mancanza di una effettiva e concreta  esigenza
cautelare costituisce una indebita anticipazione di  una  pena  prima
ancora di un giudiziale definitivo accertamento della responsabilita'
penale.