IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la presente ordinanza sul ricorso numero di registro generale 225 del 2012, proposto da: Alparone Carmela + altri 114, rappresentati e difesi dagli avv. Carlo Emanuele Gallo, Vittorio Angiolini, Marco Cuniberti e Luca Formilan, con domicilio eletto presso Carlo Emanuele Gallo in Torino, via Pietro Palmieri, 40; Contro Presidenza del Consiglio dei ministri, in persona del Capo del Governo in carica, Ministero della giustizia e Ministero dell'economia e delle finanze, in persona dei Ministri pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Torino presso la quale domiciliano in corso Stati Uniti n. 45; per il riconoscimento, previa idonea cautela, e con riserva di motivi aggiunti del diritto al trattamento retributivo spettante senza tener conto delle decurtazioni previste dall'art. 9, comma 2, del decreto-legge 31 marzo 2010, n. 78, convertito in legge 30 luglio 2010, n. 122, e confermate dall'art. 2, comma 1, decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, come modificato in sede di conversione dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, nonche' per la condanna delle Amministrazioni resistenti al pagamento delle somme corrispondenti, con ogni accessorio di legge. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'economia e delle finanze, del Ministero della giustizia e della Presidenza del Consiglio dei ministri; Relatore nella camera di consiglio del giorno 21 marzo 2012 il dott. Vincenzo Salamone e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; I ricorrenti sono tutti magistrati ordinari, attualmente in servizio presso uffici giudiziari di competenza territoriale di questo Tribunale amministrativo e titolari di un trattamento economico complessivo superiore a 90.000 euro annui, come risulta dai cedolini stipendiali che sono stati prodotti; pertanto sono soggetti alle misure applicative delle disposizioni contenute nel comma 2 dell'art. 9 del decreto-legge 31 marzo 2010 n. 78, convertito in legge 30 luglio 2010 n. 122, secondo cui, «in considerazione della eccezionalita' della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche (...), superiori a 90.000 euro lordi annui sono ridotti del 5 per cento per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonche' del 10 per cento per la parte eccedente 150.000 euro», e «a seguito della predetta riduzione il trattamento economico complessivo non puo' essere comunque inferiore 90.000 euro lordi annui'». I ricorrenti chiedono il riconoscimento, previa idonea cautela, e con riserva di motivi aggiunti del diritto al trattamento retributivo spettante senza tener conto delle decurtazioni previste dall'art. 9, comma 2, del decreto-legge 31 marzo 2010, n. 78, convertito in legge 30 luglio 2010, n. 122, e confermate dall'art. 2, comma 1, decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, come modificato in sede di conversione dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, nonche' la condanna delle Amministrazioni resistenti al pagamento delle somme corrispondenti, con ogni accessorio di legge. Il Ministero della giustizia; il Ministero dell'economia e delle finanze e la Presidenza del Consiglio dei ministri, nel costituirsi in giudizio con il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, hanno chiesto il rigetto del ricorso. Nel corso della camera di consiglio fissata per la trattazione della domanda cautelare e' stata prospettata alle parti la possibile definizione della controversia con sentenza redatta in forma abbreviata ovvero con ordinanza propedeutica a detta pronuncia, compresa la possibile rimessione alla Corte costituzionale di eventuale questione di costituzionalita' come richiesto dalle parti ricorrenti. Il Collegio Ritiene non manifestamente infondata e rilevante ai fini della decisione del gravame la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 2, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito in legge n. 122 del 2010 per violazione del principio di eguaglianza e ragionevolezza (art. 3 Cost.), anche in riferimento al principio di solidarieta' (art. 2 Cost.) e del principio di capacita' contributiva (art. 53 Cost.); ingiustificata disparita' di trattamento tra pubblici dipendenti ed altre categorie di lavoratori; irragionevolezza ed illogicita' manifeste; eccesso e sviamento di potere. Va Premesso che le disposizioni contenute nel comma 2 dell'art. 9 del decreto-legge 31 marzo 2010 n. 78, convertito in legge 30 luglio 2010 n. 122 si applicano a tutti i dipendenti, «anche di qualifica dirigenziale», delle amministrazioni pubbliche «inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di Statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3, dell'art. 1, della legge 31 dicembre 2009, n. 196»; tra i dipendenti cui la disposizione si applica, come peraltro ha chiarito la stessa Amministrazione, vi sono quindi anche i magistrati ordinari, cui l'art. 9 dedica, poi, l'ulteriore specifica previsione di cui al comma 22. Il decreto-legge n. 78 del 2010 e' stato adottato, come recita il preambolo, in considerazione della «straordinaria necessita' ed urgenza di emanare disposizioni per il contenimento della spesa pubblica e per il contrasto all'evasione fiscale ai fini della stabilizzazione finanziaria, nonche' per il rilancio della competitivita' economica»: nel quadro di una serie di previsioni finalizzate al contenimento e alla riduzione della spesa pubblica, si colloca appunto l'art. 9, relativo al «contenimento delle spese in materia di pubblico impiego», che impone ai soli dipendenti pubblici sacrifici di considerevole entita', a partire dal blocco di ogni meccanismo di adeguamento retributivo e di progressione stipendiale, fino, appunto, alle decurtazioni di cui all'art. 9, comma 2, per i dipendenti il cui trattamento economico complessivo superi i 90.000 euro. Nessuna previsione analoga e' prevista, invece, per i lavoratori dipendenti del settore privato e per i lavoratori autonomi, il cui reddito, quindi, nel triennio considerato non solo non subira' decurtazioni di sorta, ma anzi potra' addirittura aumentare. Lamentano i ricorrenti che proprio in considerazione del carattere discriminatorio della misura in esame, a poco piu' di un anno di distanza dall'emanazione del decreto-legge n. 78 del 2010, e a pochi mesi dall'inizio del periodo di operativita' della prescritta decurtazione stipendiale, il Governo si accingeva a porre rimedio a tale sperequazione, con l'abolizione del citato ad. 9, comma 2 del decreto-legge n. 78 del 2010 e la sua sostituzione con il c.d. «contributo di solidarieta'», ovvero un prelievo fiscale straordinario applicabile a tutti i redditi, da lavoro dipendente o da lavoro autonomo, e a tutti i lavoratori, dipendenti pubblici, privati, autonomi. L'art. 2, comma 1, del decreto-legge n. 138 del 13 agosto 2011, infatti, stabiliva che: «in considerazione della eccezionalita' della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, a decorrere dal 2011 e fino al 2013, in deroga all'art. 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212, sul reddito complessivo di cui all'art. 8 del testo unico delle imposte sui redditi approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, di importo superiore a 90.000 euro lordi annui, e' dovuto un contributo di solidarieta' del 5 per cento sulla parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonche' del 10 per cento sulla parte eccedente 150.000 euro. contributo di solidarieta' e' deducibile dal reddito complessivo, ai sensi dell'art. 10 del citato testo unico n. 917 del 1986». Il medesimo comma 1 prevedeva poi l'abrogazione, tra l'altro, delle «disposizioni di cui all'art. 9, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122». Il successivo comma 2 demandava infine ad un decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, da emanare entro il 30 settembre 2011, il compito di determinare le «modalita' di attuazione» delle disposizioni di cui sopra, «garantendo l'assenza di oneri per il bilancio dello Stato e assicurando il coordinamento tra le disposizioni di cui al comma 1 e quelle contenute nei soppressi articoli 9, comma 2, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010, e 18, comma 22-bis, del decreto-legge a 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011». L'abolizione della decurtazione prevista, per i soli dipendenti pubblici, dall'art. 9, comma 2, del decreto-legge n. 78 del 2010, e la sua sostituzione con il «contributo di solidarieta'» incidente, nella medesima misura, su tutti i redditi, pur senza eliminare del tutto le sperequazioni tra pubblici dipendenti ed altre categorie di lavoratori presenti anche in altre parti del testo dell'ad. 9, avrebbe consentito, quanto meno, di rimuovere la disparita' di trattamento. Pur tuttavia nel corso dell'iter di approvazione del disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 78 del 2010, su proposta del Governo, la formulazione originaria dell'art. 2, comma 1, del decreto legge n. 78 e' stata soppressa: le decurtazioni stipendiali previste dall'art. 9, comma 2, del decreto-legge n. 78 del 2010 sono state confermate, e il «contributo di solidarieta'» e' stato sostanzialmente eliminato. Il testo dell'art. 2, quale risultante dalle modifiche proposte dal governo ed approvate in sede di conversione, prevede infatti ora, al comma 1, che «le disposizioni di cui agli articoli 9, comma 2, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, continuano ad applicarsi nei termini ivi previsti rispettivamente dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2013 e dal 1° agosto 2011 al 31 dicembre 2014». Il successivo comma 2, sempre «in considerazione della eccezionalita' della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea», stabilisce poi che «a decorrere dal 10 gennaio 2011 e fino al 31 dicembre 2013 sul reddito complessivo di cui all'art. 8 del testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, di importo superiore a 300.000 euro lordi annui, e' dovuto un contributo di solidarieta' del 3 per cento sulla parte eccedente il predetto importo». Il «contributo di solidarieta'», che nelle intenzioni originarie avrebbe dovuto assorbire le decurtazioni di cui all'art. 9, comma 2, ripristinando la parita' di trattamento tra dipendenti pubblici e dipendenti privati. e lavoratori autonomi, nel testo poi approvato in sede di conversione si trasforma in un prelievo incidente in misura decisamente minore (il 3%) e solo in presenza di redditi di gran lunga superiori (oltre i 300.000 euro): per tutti i titolari di redditi tra i 90.000 ed i 300.000 euro annui, la discriminazione tra dipendenti pubblici ed altre categorie di lavoratori permane in tutta la sua gravita'. Come rilevano i ricorrenti nel ricorso il Ministro dell'economia, intervenendo alla seduta della V Commissione permanente del Senato del 1° settembre 2011, nell'illustrare l'emendamento del Governo volto alla soppressione del c.d. «contributo di solidarieta'», sosteneva che «la prevista soppressione della disposizione del decreto-legge istitutiva del contributo di solidarieta'» sarebbe stata compensata dalla «introduzione di ulteriori misure, rispetto a quelle gia' adottate, di contrasto all'evasione fiscale» (in particolare, la «partecipazione dei Comuni all'attivita' di accertamento tributario», nonche' alcune modifiche in materia di dichiarazioni dei redditi, di sanzioni e di prescrizione dei reati tributari), e affermava che, «nel complesso, le previsioni di gettito derivanti dalle nuove misure di contrasto all'evasione fiscale sono equivalenti a quelle relative al soppresso contributo di solidarieta'». Le decurtazioni di cui all'art. 9, comma 2, del decreto-legge n. 78 del 2010 colpiscono il trattamento economico di una sola categoria di lavoratori (i pubblici dipendenti) lasciando invece del tutto indenni, a parita' di condizioni reddituali, altre categorie di lavoratori (segnatamente, dipendenti del settore privato e autonomi), introducendo una disparita' di trattamento che non trova alcuna ragionevole giustificazione. Nel triennio 2011 - 2013, infatti, i lavoratori dipendenti del settore privato o i lavoratori autonomi il cui reddito supera i 90.000 euro lordi annui, non solo non subiranno alcuna decurtazione del proprio trattamento economico, ma anzi potrebbero addirittura incrementarlo. Riconosce il Collegio che le misure di cui trattasi, cosi' come altre misure previste dall'art. 9 in materia di trattamento economico dei dipendenti pubblici, si inseriscono in un ambito di misure volte a realizzare obiettivi di contenimento della spesa in materia di pubblico impiego, «in considerazione della eccezionalita' della situazione economica internazionale e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea». I ricorrenti espressamente dichiarano in ricorso che «non intendono affatto contestare che anche i magistrati, cosi' come ogni altra categoria di pubblici dipendenti, possano essere chiamati a concorrere al raggiungimento di simili obiettivi». Rileva il Collegio che in passato, ed in particolare negli ultimi anni, sono state adottate misure che, sempre per finalita' di contenimento della spesa, hanno inciso sul trattamento economico dei dipendenti pubblici. In particolare, gia' per l'anno 2007, in applicazione dell'art. 1, comma 576, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (finanziaria 2007), l'adeguamento retributivo previsto dall'art. 24 della legge n. 448 del 1998 e' stato corrisposto solo nella misura del 70 %; successivamente, l'art. 69 della legge 6 agosto 2008, n. 133 (di conversione del decreto-legge n. 112 del 25 giugno 2008, recante «disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita', la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria») ha stabilito, per il c.d. personale «non contrattualizzato», il differimento di 12 mesi della maturazione dell'aumento biennale o della classe di stipendio, nel limite del 2.5 %. Misure analoghe erano state adottate anche nel decennio precedente: in particolare, il precedente piu' significativo e' rappresentato dalla manovra effettuata nel 1993 con l'art. 7 del decreto-legge n. 384 del 1992, convertito in legge n. 438 del 1992, il quale, al comma 3, stabiliva che «per l'anno 1993 non trovano applicazione le norme che comunque comportano incrementi retributivi in conseguenza sia di automatismi stipendiali, sia dell'attribuzione di trattamenti economici, per progressione automatica di carriera, corrispondenti a quelli di funzioni superiori, ove queste non siano effettivamente esercitate». La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimita' costituzionale delle misure introdotte dal citato art. 7 del decreto-legge n. 384 del 1992, aveva a suo tempo dichiarato infondata la questione (sent. n. 245 del 1997 e ord. n. 299 del 1999): in particolare, nella sentenza n. 245 del 1997 la Corte, nel rigettare una questione di costituzionalita' sollevata su tale disposizione, con riferimento all'art. 3 cost., osservava che il decreto-legge n. 384, «emanato in un momento delicato della vita nazionale» e caratterizzato nel suo complesso «dalla finalita' di realizzare, con immediatezza, un contenimento della spesa pubblica per il 1993, nel rispetto degli obiettivi fondamentali di politica economica e dei vincoli derivanti dal processo di integrazione europea», si limitava a disporre un «blocco» con evidente «carattere provvedimentale del tutto eccezionale», che «esauriva i suoi effetti nell'anno considerato, limitandosi a impedire erogazioni per esigenze di riequilibrio del bilancio, riconosciute da questa Corte meritevoli di tutela a condizione che le disposizioni adottate non risultino arbitrarie». Il riferimento al carattere eccezionale e circoscritto nel tempo della misura e' stato poi ripreso nella successiva ordinanza n. 299 del 1999, nella quale, richiamata la precedente sentenza del 1997, la Corte ribadiva che norme di tale natura, volte ad imporre «sacrifici anche onerosi» in nome di esigenze di riequilibrio del bilancio, «possono ritenersi non lesive del principio di cui all'art. 3 della Costituzione (...), a condizione che i suddetti sacrifici siano eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso», e che nella specie tali requisiti sarebbero stati rispettati «in quanto il sacrificio imposto ai pubblici dipendenti dal comma 3 del citato art. 7 e' stato limitato a un anno». Ad avviso del Collegio la norma sospetta nella fattispecie di incostituzionalita' e' diversa da quelle gia' esaminate dalla Corte costituzionale. Le misure su cui ha avuto modo di esprimersi la Corte costituzionale non si risolvevano in una decurtazione del trattamento economico dei dipendenti pubblici, ma solamente in una temporanea sospensione dell'operativita' dei meccanismi di adeguamento o di incremento automatico delle retribuzioni: ben diverso e', invece, l'intervento operato con l'art. 9 del decreto-legge n. 78 del 2010 il quale, da un lato ripropone (commi 21 e 22) il medesimo «blocco» dei meccanismi di adeguamento retributivo e di progressione automatica (estendendone gli effetti ad un intero triennio), dall'altro dispone direttamente la decurtazione (nella misura del 5 o del 10%) della retribuzione di quei dipendenti il cui trattamento economico complessivo superi i 90.000 (o i 150.000) euro. Nelle pronunce ora richiamate la Corte a piu' riprese sottolinea il carattere temporaneo e del tutto limitato nel tempo (un solo anno) del sacrificio imposto dal decreto-legge n. 384 del 1992, laddove nel caso di cui qui si discute il sacrificio imposto ai dipendenti pubblici (non si limita a «congelare» le retribuzioni, ma ne riduce l'entita') non puo' certo definirsi «temporaneo» o «transeunte», in quanto protrae i suoi effetti per un intero triennio. Sussiste, infine, il dubbio di una irragionevole discriminazione operata dalla norma, nel momento in cui un siffatto «sacrificio» viene imposto non gia' a tutti i contribuenti (a parita' di capacita' contributiva), ma esclusivamente ai dipendenti pubblici. L'art. 9 del decreto-legge n. 78 del 2010, non introduce una decurtazione ragguagliata a progressioni stipendiali, anzianita' o altri aspetti del rapporto di lavoro, ma di decurtazione ragguagliata esclusivamente all'ammontare del reddito prodotto, che e' scollegata dunque da un «risparmio» derivante da riassetto del rapporto impiego e, consistendo in un mero prelievo forzoso di quanto altrimenti spettante, non puo' trovare ragione legittima nel distinguo tra pubblico e privato. Ad avviso del Collegio la scelta del legislatore di mantenere in vigore la decurtazione di cui all'art. 9, comma 2, del decreto-legge n. 78 del 2010, che colpisce i soli dipendenti pubblici, abbandonando definitivamente l'idea di sostituirla con una forma di prelievo straordinario idoneo ad incidere allo stesso modo su tutti i redditi, non trova alcuna giustificazione sul piano del rispetto dei principi costituzionali di eguaglianza e di capacita' contributiva. La misura in questione dell'art. 9, comma 2, del decreto-legge n. 78 del 2010 quindi, e' rimasta invariata anche dopo l'entrata in vigore della legge 14 settembre 2011, n. 148: essa si applica anche ai magistrati ricorrenti. I redditi, da cui eventualmente prelevare in funzione della crisi della finanza pubblica, non possono tra loro differenziarsi solo per la fonte, pubblica o privata, dalla quale sono prodotti. Al riguardo, occorre richiamare la gia' citata ordinanza della Corte costituzionale del 14 luglio 1999, n. 299: in tale pronuncia, la Corte, chiamata a pronunciarsi proprio sul punto specifico concernente la disparita' di trattamento tra pubblici impiegati (colpiti dal «blocco» dei meccanismi di incremento retributivo) ad altre categorie di lavoratori (esenti da misure analoghe), aveva rigettato la questione sulla base di due decisive considerazioni: la durata, come gia' si e' detto, incomparabilmente piu' limitata del sacrificio imposto (un solo anno), e il fatto che la misura in questione si inquadrava nell'ambito di una «manovra di contenimento della spesa pubblica» la quale «non ha inciso soltanto sulla condizione e sul patrimonio dei pubblici impiegati, ma anche su quello di altre categorie di lavoratori». Nel, caso in esame, entrambe le premesse in base alle quali la Corte era pervenuta al rigetto della questione appaiono al Collegio insussistenti. Sussiste la rilevanza della questione di costituzionalita' in quanto coinvolge «l'unico motivo di ricorso» del giudizio a quo, sempreche' il giudizio a quo stesso abbia «un petitum separato e distinto dalla questione di costituzionalita' sul quale il giudice remittente sia legittimamente chiamato, in ragione della propria competenza, a decidere» (Corte Cost., sentt. n. 4 del 2000 e n. 38 del 2009). Nel presente giudizio il petitum consiste nel riconoscimento del diritto dei ricorrenti a percepire la propria retribuzione senza tenere conto delle decurtazioni disposte dal cit. comma 2 dell'art. 9, e ove si ritenga impossibile pervenire diversamente al riconoscimento di tale diritto, la contestazione di illegittimita', da ritualmente sottoporre alla competente Corte costituzionale, del medesimo comma 2 dell'art. 9 del decreto-legge 31 marzo 2010 n. 78, come convertito in legge 30 luglio 2010 n. 122. A cio' va aggiunto che nel corso della camera di consiglio fissata per la trattazione della domanda cautelare e' stata prospettata alle parti la possibile definizione della controversia con sentenza redatta in forma abbreviata ovvero con ordinanza propedeutica a detta pronuncia, compresa la possibile rimessione alla Corte costituzionale di eventuale questione di costituzionalita' come richiesto dalle parti ricorrenti. Visto l'art. 23 della legge costituzionale n. 87/1953; Riservata ogni altra decisione all'esito del giudizio innanzi alla Corte costituzionale, alla quale va rimessa la soluzione dell'incidente di costituzionalita'.