LA CORTE D'APPELLO 
 
    Sciogliendo la riserva assunta all'odierna  udienza  nella  causa
civile promossa da Valdichiana Tour s.r.l.,  rappresentata  e  difesa
dall'avv. Guido Giovannelli per delega in atti, con domicilio  eletto
in  Firenze  Lungarno  degli  Acciaiuoli  10  presso  lo  studio  del
medesimo, - ricorrente; 
    Contro Comune di  Sinalunga,  rappresentato  e  difeso  dall'avv.
Leonardo Piochi per delega in atti, con domicilio eletto  in  Firenze
via delle Cinque Giornate 31 presso lo studio dell'avv. Luca  Arinci,
resistente. 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza. 
    Con ricorso ex art. 702-bis  c.p.c.  depositato  il  17  novembre
2011, Valdichiana Tour s.r.l. si e' opposta  all'indennita'  proposta
dal Comune di Sinalunga (Siena) per l'espropriazione di un terreno e,
previa ammissione di c.t.u. volta a stimarne il valore di mercato, ha
chiesto la determinazione giudiziale dell'indennita' dovuta. 
    Costituendosi in giudizio, il Comune ha contestato la  fondatezza
della domanda avversa, per essere congruo l'indennizzo offerto. 
    L'art. 29 del D.-L. 1° settembre 2011 n. 150  stabilisce  che  le
controversie   aventi   ad   oggetto   l'opposizione    alla    stima
dell'indennita' di esproprio, gia'  devolute  alla  cognizione  della
Corte d'Appello in grado unico, sono regolate dal  rito  sommario  di
cognizione di cui agli artt. 702-bis e 702-ter c.p.c.. 
    L'art. 702-ter comma 2 c.p.c. prevede  in  via  generale  che  il
giudice, se le difese svolte dalle  parti  richiedono  un'istruttoria
non  sommaria,  con  ordinanza  non  impugnabile  dispone  procedersi
secondo il rito ordinario fissando  l'udienza  di  cui  all'art.  183
c.p.c.. 
    Il rito sommario trova infatti ragion d'essere nella  semplicita'
della materia trattata  e  degli  adempimenti  processuali  inerenti,
mentre si rivela inadeguato ad affrontare  problemi  piu'  complessi,
che impongono l'osservanza delle regole  del  giudizio  ordinario  di
cognizione. Soltanto nella prima ipotesi puo'  essere  consentito  al
giudice, ai sensi del comma 4 dell'art. 702-ter c.p.c.,  di  omettere
ogni  formalita'  non  essenziale  al  contraddittorio  e   procedere
liberamente  nel  modo  che  ritiene   piu'   opportuno   agli   atti
d'istruzione,  pronunciandosi  infine  con  ordinanza,  anziche'  con
sentenza, sulle domande delle parti. 
    Di  regola,  l'apprezzamento  delle  esigenze   sostanziali   e/o
processuali che possono suggerire la conversione del rito da sommario
ad ordinario e' rimessa alla valutazione insindacabile del giudice  e
trova espressione nell'ordinanza  non  impugnabile  di  cui  all'art.
702-ter comma 2 c.p.c., senonche' l'art. 3  del  d.-l.  n.  150/2011,
rubricato «disposizioni comuni  alle  controversie  disciplinate  dal
rito sommario di cognizione», introduce una deroga  a  tale  criterio
discrezionale,  escludendo  tassativamente  dalla   possibilita'   di
conversione le cause previste dal capo III  del  decreto  legislativo
medesimo, tra le quali e' compresa, all'art. 29,  l'opposizione  alla
stima dell'indennita' di espropriazione. 
    In breve, il sistema istituisce una presunzione iuris et de  iure
di  semplicita'  delle  controversie  in  tale   materia,   imponendo
inderogabilmente al giudice di trattarle secondo il rito sommario. Si
tratta  di  una  scelta  irrazionale,  che  determina  ingiustificate
disparita' di trattamento, che rischia di comprimere  il  diritto  di
difesa, di pregiudicare il buon andamento del processo e di  menomare
il  corretto  esercizio  del  contraddittorio,  in   violazione   dei
parametri costituzionali di uguaglianza (art. 3 cost.),  di  facolta'
difensiva (art. 24 cost.), di buona amministrazione  della  giustizia
(art. 97 cost.) e del giusto processo (art. 111 cost.). 
    Per sincerarsene, occorre muovere dalla constatazione per cui  le
controversie in materia di espropriazione coinvolgono  una  serie  di
problemi  che  le  rendono  in  assoluto  tra  le  piu'  difficili  e
complesse. Bastera' ricordare che vi  si  discute  di  diritti  reali
immobiliari  secondo  la  piu'  classica  fenomenologia  civilistica,
inoltre occorre invariabilmente confrontarsi con spinose questioni di
diritto amministrativo connesse al regime urbanistico dei suoli, tana
che  per  identificare  correttamente  il   bene,   per   ricostruire
l'evoluzione dell'iter espropriativo e per accertare infine il valore
venale d'indennizzo, e'  pressoche'  generalizzato  il  ricorso  allo
strumento  della  consulenza   tecnica   d'ufficio,   particolarmente
impegnativo dal punto di  vista  degli  adempimenti  processuali,  in
quanto richiede l'instaurazione al  proprio  interno  di  un'ordinata
dialettica coi consulenti di parte. Non per niente, il legislatore ha
ritenuto opportuno stabilire in materia la competenza esclusiva della
Corte d'Appello, ossia di un giudice teoricamente  piu'  qualificato,
che  opera  normalmente  in   composizione   collegiale   (salva   la
possibilita' di delegare un membro del collegio al compimento di atti
d'istruzione). Anche nella prospettiva della rilevanza economica, non
v'e' dubbio che le vicende espropriative occupino  una  posizione  di
vertice nella gerarchia abituale del contenzioso civile. 
    Per quanto la fisionomia del caso concreto si presenti al livello
apparentemente piu' modesto e lineare della categoria, riguardando un
terreno di soli mq. 490 il cui valore e' stimato da parte attrice  in
euro 68.600,00, senza  involgere  questioni  ulteriori  non  di  rado
associabili alla materia (ad  esempio  di  accessione  invertita,  di
ablazione parziale con riflessi sulla proprieta' residua, o di  altro
tipo),  esso  nondimeno  ripropone  puntualmente   le   problematiche
accennate, in quanto e' contestata la natura dei vincoli  urbanistici
che gravano sul bene e in via istruttoria si chiede, senza incontrare
opposizione dalla difesa convenuta, che  venga  ammessa  «una  c.t.u.
volta a descrivere  il  terreno  espropriato,  ad  accertare  la  sua
estensione e  destinazione  urbanistica  con  riferimento  alla  data
dell'adozione del decreto di esproprio, nonche' volta  a  stimare  il
valore di mercato con riferimento alla predetta data, assumendone, in
tesi,  la  natura  edificabile  e,  in   ipotesi,   la   natura   non
edificabile». 
    La stessa  natura  dello  strumento  istruttorio  invocato  dalle
parti, che sembra in effetti necessario, porta a ritenere  logica  la
conversione del rito verso la forma  ordinaria.  E'  sufficiente  uno
sguardo alla minuziosa disciplina dettata dal codice di rito  per  la
nomina del consulente e per lo svolgimento  delle  indagini  tecniche
(artt. 191 e segg. c.p.c.) per rendersi conto che un sub-procedimento
del genere, rimesso alla guida dell'ausiliario del giudice, non  puo'
svolgersi senza formalita'  nelle  forme  liberamente  ritenute  piu'
opportune,   accantonando   questioni   come   il   giuramento    del
professionista incaricato, la redazione del  processo  verbale  delle
operazioni, o la preventiva disamina della relazione provvisoria  del
c.t.u. a cura dei c.t.p.. In sostanza, il contrasto fra  le  esigenze
dell'accertamento tecnico e la  sregolatezza  del  rito  sommario  e'
tanto marcata da far seriamente dubitare della compatibilita'  tra  i
due istituti. 
    Ma, anche ammettendo che sia possibile  esperire  una  consulenza
tecnica  in  via  informale,  se  fosse  giuridicamente   accettabile
trattare con rito  sommario  un  procedimento  in  cui  e'  in  gioco
l'ablazione   della   proprieta'   immobiliare,   caratterizzato   da
penetranti interferenze col diritto amministrativo e nel quale  viene
per l'appunto a porsi in maniera particolarmente acuta l'esigenza  di
indagini tecniche, davvero non si vede per quali ragioni e per  quali
controversie bisognerebbe mantenere il rito ordinario di  cognizione.
Viceversa, non solo il rito ordinario continua  ad  esistere,  ma  il
sistema paradossalmente consente al giudice monocratico di  Tribunale
la  scelta  sostanzialmente  discrezionale  di  utilizzarlo,   magari
soltanto per sentire un testimone al fine di decidere la piu'  infima
controversia d'inadempimento contrattuale, mentre costringe la  Corte
d'Appello a procedere in forma sommaria ad accertamenti istruttori di
notevole complessita' in materia di grande rilevanza economica. 
    Se le forme e  le  garanzie  dettate  in  via  ordinaria  per  lo
svolgimento della consulenza tecnica d'ufficio hanno un senso, non si
vede  perche'  dovrebbero   restare   obliterate   nelle   cause   di
espropriazione. Se viceversa quelle forme  e  quelle  garanzie  hanno
perso ogni significato, non si vede perche' dovrebbero  continuare  a
trovare applicazione  in  sede  di  cognizione  ordinaria,  magari  a
seguito di conversione dal rito laddove  e'  facoltativa,  e  giammai
nelle cause di espropriazione. 
    In  ogni  caso,  l'espletamento  di  significativi,  per   quanto
informali,  adempimenti  istruttori  suggerisce   l'opportunita'   di
concedere, a garanzia dell'effettivita' del  diritto  di  difesa,  la
possibilita' di argomentare per mezzo  di  scritti  conclusionali  le
risultanze acquisite (magari tali da mutare  sensibilmente  l'assetto
dei fatti inizialmente dedotti), cosa che invece il rito non ammette,
sicche' la causa e' destinata a passare il  decisione  senza  che  le
difese   abbiano   modo   di   commentare    adeguatamente    l'esito
dell'istruzione sommaria svolta (l'assonanza col  vecchio  codice  di
procedura penale non e' casuale). Ora, e' ben vero che  l'ordinamento
conosce altre situazioni, nelle quali  pure  si  discute  di  diritti
fondamentali, come le controversie di lavoro o  quelle  di  famiglia,
rispettivamente trattate con l'apposito rito o col rito camerale,  in
cui il diritto di difesa si esplica adeguatamente  senza  bisogno  di
scritti conclusionali, tuttavia in quei procedimenti vi e' un secondo
grado di merito, nell'ambito del quale e' sempre possibile far valere
eventuali distorsioni nella valutazione delle risultanze istruttorie,
mentre nella causa articolata  in  grado  unico  non  resterebbe  che
sottoporre alla Corte di Cassazione quel che non e'  stato  possibile
formalizzare davanti al giudice a quo, con tutte le  difficolta'  che
cio' comporta  nel  delimitare  l'ambito  e  la  tempestivita'  delle
questioni. 
    Anche in vista della decisione, e' davvero arduo  comprendere  la
scelta legislativa per lo strumento dell'ordinanza rispetto a  quello
della sentenza. Siccome ogni provvedimento giurisdizionale dev'essere
motivato rispetto all'intensita' del contenuto precettivo che assume,
non e' accettabile che una causa pregna di difficolta'  giuridiche  e
nella quale sono stati assunti mezzi di prova laboriosi, possa essere
definita in modo diverso e piu'  sbrigativo  di  quello  che  gli  e'
tipico da sempre. Nella tradizione giuridica piu'  remota  e  persino
nell'etimologia  comune,  mentre  l'ordinanza  e'  un   provvedimento
interinale (ordinatorio, come il presente, o come quello che  dispone
la conversione del rito), la sentenza e' il provvedimento che  decide
la causa. Non e' cambiando i nomi che si puo'  cambiare  la  realta'.
Senza curarsi della dignita' del linguaggio, al  nome  di  «sentenza»
potremmo anche sostituire quello di  «fulmine»  o  «saetta»,  ma  non
servirebbe a mutare la natura del provvedimento, ne' a renderlo  piu'
svelto, se non riducendo la portata dell'obbligo motivazionale. 
    Apparendo tuttavia inconcepibile che una causa di  espropriazione
venga decisa con motivazione minorata, ancora una volta, come per  le
formalita' della  consulenza  tecnica,  viene  da  domandarsi  se  la
sentenza sia diventata uno strumento obsoleto senza che nessuno se ne
accorgesse. Ove la risposta fosse positiva, sarebbe bene farne a meno
in tutte le occorrenze.  Ove  la  risposta  fosse  negativa,  non  si
capisce perche' e in vista di quale  utilita'  il  canone  aureo  sia
stato disatteso nelle cause di espropriazione. 
    Quanto meno, alla stregua delle brevi osservazioni sopra  svolte,
non sembra manifestamente infondato il dubbio che l'art. 29 del d.-l.
n.  150/2011,  nell'imporre  la  trattazione  sommaria  in   subjecta
materia, o comunque l'art. 3 dello stesso  decreto,  nel  vietare  la
conversione del  rito  sommario  in  quello  ordinario  nella  stessa
materia,  si  pongano  in  contrasto  coi  parametri   costituzionali
richiamati e segnatamente: 
        col principio di uguaglianza di  cui  all'art.  3  cost.,  in
quanto tali norme impongono di trattare con rito  semplificato  cause
complesse, mentre il sistema consente di trattare col rito  ordinario
cause semplici; 
        col diritto di difesa di cui all'art.  24  cost.,  in  quanto
tali norme rischiano di limitare l'accesso alla prova, rimettendo  al
giudice la facolta' di procedere liberamente  nel  modo  che  ritiene
piu' opportuno agli atti  d'istruzione,  non  permettendo  infine  ai
difensori di  formalizzare  compiutamente  i  propri  commenti  sulle
risultanze istruttorie; 
        col principio di buona amministrazione della giustizia di cui
all'art. 97 cost., in quanto tali norme impongono di  affrontare  con
strumenti  processuali  inadeguati  realta'  contenziose  di  elevata
difficolta'; 
        col principio del giusto processo di cui all'art. 111  cost.,
in quanto tali norme costringono ad affrontare adempimenti istruttori
particolarmente  impegnativi  in  forma  libera  e  sommaria,   senza
assicurare l'operativita' delle garanzie previste nel rito ordinario. 
    Il dubbio di legittimita' costituzionale della  normativa  citata
va quindi rimesso ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953  n.
87  alla  Corte  costituzionale,  alla  quale  vanno   immediatamente
trasmessi gli atti, previa sospensione del giudizio in corso.