LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto  da  E.
S., nato a Catania il 12 gennaio  1950  avverso  l'ordinanza  del  13
settembre 2011 del Tribunale di Spoleto; 
    Visti gli atti, li provvedimento impugnato e il ricorso; 
    Sentita la relazione svolta dal consigliere Nicola Milo; 
    Lette  le  richieste  del  Pubblico  Ministero,  in  persona  del
Sostituto  Procuratore  generale  Giuseppe  Volpe,  che  ha  concluso
chiedendo l'annullamento senza rinvio dell'ordinanza impugnata  e  la
sostituzione della pena dell'ergastolo inflitta a S. E. con  sentenza
della Corte di assise di appello di Catania in data 10  luglio  2001,
irrevocabile il 14 novembre 2003, con  quella  della  reclusione  per
anni trenta. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. Con sentenza in data 18 luglio 1998 della Corte di  assise  di
Catania, S. E. era stato  condannato  alla  pena  dell'ergastolo  con
isolamento  diurno,  perche'  dichiarato  colpevole  di  due  omicidi
volontari e della connessa violazione della normativa sulle armi. 
    Tale decisione era intervenuta in un momento nel  quale  non  era
consentito l'accesso al giudizio abbreviato per i reati punibili  con
la pena dell'ergastolo: il testo originario dell'art. 442,  comma  2,
secondo periodo, cod. proc. pen., che pur prevedeva l'accesso al rito
alternativo  per  tali  reati,   era   stato,   infatti,   dichiarato
incostituzionale, per eccesso di delega, con sentenza n. 176 del 1991
della Corte costituzionale. 
    Nel corso del  successivo  giudizio  d'appello,  era  entrata  in
vigore (2 gennaio 2000) la legge 16 dicembre  1999,  n.  479, il  cui
art. 30, comma 1, lett. b), aveva aggiunto, dopo il primo periodo del
comma 2 dell'art. 442  cod.  proc,  pen.,  li  seguente:  «Alla  pena
dell'ergastolo e' sostituita quella della reclusione di anni trenta»,
reintroducendo cosi' la possibilita'  per  li  soggetto  imputato  di
reati punibili con la pena perpetua di accedere al rito abbreviato, 
    L'E.,  avvalendosi  della  riapertura   del   termini,   disposta
dall'art. 4-ter della legge 5 giugno 2000, n. 144, di conversione del
d.l. 7 aprile 2000 n. 82, alla udienza  del  12  giugno  2000,  prima
udienza utile successiva alla data di entrata  in  vigore  (8  giugno
2000) della richiamata legge di conversione, aveva chiesto procedersi
con il rito alternativo, per effetto del quale,  a  quella  data,  la
pena dell'ergastolo, con o senza isolamento diurno, andava sostituita
con quella di anni trenta di reclusione. 
    Prima  della  conclusione  dei  giudizio  d'appello,  pero',  era
entrato in vigore il d.1., 24 novembre 2000, n. 341 (convertito dalla
legge 19 gennaio 2001, n. 4), il cui art. 7, nei  dichiarato  intento
di dare una interpretazione autentica al secondo periodo del comma  2
dell'art. 442 cod. proc,  pen.,  disponeva  che  l'espressione  «pena
dell'ergastolo»   ivi   adoperata    doveva    intendersi    riferita
all'ergastolo senza isolamento diurno ed inseriva  all'interno  della
stessa disposizione un terzo periodo, secondo  il  quale  «Alla  pena
dell'ergastolo con isolamento diurno, in caso di concorso di reati  e
di reato continuato, e' sostituita quella dell'ergastolo». 
    La Corte di assise di appello dl Catania,  con  sentenza  del  10
luglio 2001 (irrevocabile il 14 novembre 2003),  in  applicazione  di
quanto previsto dal citato art. 7 d.l. n. 341  del  2000,  infliggeva
all'E. la pena dell'ergastolo. 
    2. Il Tribunale di Spoleto, quale  giudice  dell'esecuzione,  con
ordinanza del 13 settembre 2011, rigettava l'istanza  del  condannato
finalizzata, ai sensi degli artt. 666 e 670  cod.  proc.  pen.,  alla
sostituzione della  pena  dell'ergastolo  con  quella  temporanea  di
trenta anni dl reclusione. 
    Il condannato, a  sostegno  della  propria  istanza,  dopo  avere
sottolineato che, al momento della richiesta di  giudizio  abbreviato
(12 giugno 2000), il testo vigente dell'art. 442,  comma  2,  secondo
periodo, cod, proc. pen., introdotto dalla legge  n.  479  del  1999,
prevedeva la pena temporanea in luogo  dell'ergastolo  (con  o  senza
isolamento diurna), evocava i  principi  affermati  con  la  sentenza
della Corte EDU 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, vale a dire la
natura sostanziale, con riferimento alla previsione  del  trattamento
sanzionatorio,    della    richiamata     norma,     l'illegittimita'
dell'applicazione retroattiva della sanzione piu' severa prevista dal
d.l. n. 341 del 2000, entrato in  vigore  il  24  novembre  2000,  la
violazione del  principio  di  legalita'  di  cui  all'art.  7  della
Convezione europea del diritti dell'uomo e dei diritto a un  processo
equo di cui al  precedente  art.  6  della  stessa  Convenzione,  per
inferirne che  era  «necessario  assicurare  omogeneita'  e  coerenza
nell'ambito dell'ordinamento costituito dai sistema multilivello  del
quale il sistema convenzionale europeo  fa  parte  insieme  a  quello
degli Stati nazionali» e che, conseguentemente, non doveva  ritenersi
precluso il potere del giudice dell'esecuzione di modificare la  pena
irrogata dal giudice della cognizione, dovendosi  la  sentenza  della
Corte     di     Strasburgo     equiparare     alla      declaratoria
d'incostituzionalita' sopravvenuta alla formazione dei  giudicato  e,
quindi, rilevante anche in executivis. 
    Il Tribunale  dl  Spoleto,  nel  disattendere  tale  istanza,  si
limitava a rilevare che nessuna violazione del principio di legalita'
di cui all'art. 7 della CEDU era stata accertata, nel caso specifico,
dalla Corte EDU, sicche' non era sopravvenuto all'esecutivita'  della
condanna alcun fatto nuovo. 
    3. Ha proposto ricorso  per  cassazione,  tramite  i  propri  due
difensori di fiducia, l'E., denunciando  la  violazione  della  legge
penale, con riferimento agli artt. 6, 7 CEDU e 442 cod.  proc.  pen.,
nonche' la mancanza, la contraddittorieta' e la manifesta illogicita'
della motivazione, per non avere li giudice a quo dato risposta  agli
argomenti sottoposti alla sua attenzione, e sollecitando, sulla  base
degli stessi argomenti, l'annullamento del provvedimento impugnato. 
    4. Il Consigliere  delegato  dal  Primo  Presidente  per  l'esame
preliminare dei ricorsi pervenuti alla Prima Sezione penale, con nota
del 1° marzo  2012,  ha  segnalato  l'opportunita'  di  assegnare  il
ricorso alle Sezioni Unite  penali,  stante  la  speciale  importanza
delle questioni implicate. 
    5. Il Primo Presidente, con decreto in pari data, ha assegnato  -
a norma dell'art. 610, comma 2, cod. proc. pen.  -  il  ricorso  alle
Sezioni  Unite,  fissando  per  la  trattazione   l'odierna   udienza
camerale. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. La questione di diritto per  la  quale  il  ricorso  e'  stato
assegnato  alle  Sezioni  Unite  e'  la  seguente:  Se   il   giudice
dell'esecuzione, in attuazione dei principi dettati dalla  Corte  EDU
con  la  sentenza  17  settembre  2009,  Scoppola  c.  Italia,  possa
sostituire la pena dell'ergastolo, inflitta  all'esito  del  giudizio
abbreviato, con la pena di anni trenta di  reclusione,  in  tal  modo
modificando il giudicato con  l'applicazione,  nella  successione  di
leggi intervenute in materia, di quella piu' favorevole», 
    2. Tale quaestio juris impone, innanzi  tutto,  di  stabilire  la
rilevanza che nell'ordinamento interno possono  assumere,  in  deroga
anche  al  giudicato,  le  violazioni,  accertate  dalla   Corte   di
Strasburgo  (Corte  EDU),  della  Convenzione  europea  del   diritti
dell'uomo (CEDU), firmata a Roma il 4  novembre  1950,  ratificata  e
resa esecutiva In Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848, 
    Ai  sensi   dell'art.   46   della   CEDU,   fatto   oggetto   di
interpretazione estensiva da parte della Corte di Strasburgo, le Alte
Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze  definitive
pronunciate dalla Corte nelle  controversie  nelle  quali  esse  sono
parti e al Comitato del Ministri e' affidato il compito  di  vigilare
sulla esecuzione di tali sentenze, con la conseguenza  che  lo  Stato
convenuto ha l'obbligo giuridico di adottare, sotto il controllo  del
detto Comitato, le misure generati e/o, se del caso, individuali  per
porre fine alla violazione constatata, eliminarne  le  conseguenze  e
scongiurare ulteriori violazioni analoghe. 
    Quando  la  Corte  EDU,  alla  quale  e'  affidato   il   compito
istituzionale di interpretare e applicare la Convenzione  (art.  32),
accerta violazioni della stessa connesse  a  problemi  sistematici  e
strutturali dell'ordinamento giuridico nazionale pone in  essere  una
cosi detta «procedura di sentenza pilota», che si propone di  aiutare
gli Stati contraenti a  risolvere  a  livello  nazionale  i  problemi
rilevati, in  modo  da  riconoscere  alle  persone  interessate,  che
versano nella stessa condizione della persona il cui  caso  e'  stato
gia' specificamente preso in considerazione, i diritti e le  liberta'
convenzionali, come dispone l'art. 1, offrendo  loro  la  riparazione
piu'  rapida,  in  tal  modo  alleggerendo  il  carico  della   Corte
sovranazionale,  che,  altrimenti,  dovrebbe   esaminare   moltissimi
ricorsi sostanzialmente simili (Corte  EDU,  G.C.,  22  giugno  2004,
Bronlowski c. Polonia, §§ 188-194; 28 settembre 2005,  stesse  parti,
§§ 34-35). 
    La giurisprudenza della Corte  EDU,  originariamente  finalizzata
alla soluzione di specifiche controversie relative a  casi  concreti,
si e' caratterizzata nel tempo «per una  evoluzione  improntata  alla
valorizzazione  di  una  funzione   para-costituzionale   di   tutela
dell'interesse generale al rispetto del diritto oggettivo». 
    Sempre piu' frequentemente, infatti, le sentenze della Corte, nel
rilevare la contrarieta' alla CEDU di situazioni interne  di  portata
generale, danno indicazioni allo Stato  responsabile  sui  rimedi  da
adottare per rimuovere la rilevata disfunzione sistemica nel  proprio
ordinamento interno. 
    La tecnica delle c.d. «sentenze pilota», affidata  -  dapprima  -
alla prassi in difetto di una  esplicita  base  normativa,  e'  stata
recentemente formalizzata nel regolamento di procedura  della  Corte,
emendato a tale scopo  nel  febbraio  2011  e  in  vigore,  per  come
modificato, dal 1° aprile 2011. 
    L'effettivita' dell'esecuzione  delle  sentenze  della  Corte  di
Strasburgo e' stata, inoltre, accresciuta  sensibilmente,  sul  piano
internazionale,  dall'entrata  in  vigore,  nel  giugno   2010,   del
Protocollo n. 14 alla CEDU, il quale,  modificando  l'art.  46  della
Convenzione,  ha  introdotto  una  procedura   di   infrazione,   che
«giurisdizionalizza il  meccanismo  di  supervisione  sull'attuazione
delle sentenze della Corte», meccanismo certamente  attivabile  anche
in caso di mancato rispetto dl «sentenza pilota». 
    La necessita' degli ordinamenti interni di  assicurare,  anche  a
prescindere da un intervento dei giudice europeo sul  caso  concreto,
il rispetto degli obblighi convenzionali, cosi' come gia' individuati
dalla Corte EDU, di porre fine a persistenti violazioni degli  stessi
e di prevenire nuove violazioni  pone  certamente  delicati  problemi
giuridici sulla tenuta  di  situazioni  gia'  definite  con  sentenze
passate  in  giudicato,  ma  in  palese  contrasto  con   i   diritti
fondamentali tutelati convenzionalmente. 
    La Corte Costituzionale, con i principi cristallizzati - dapprima
-  nelle  storiche  sentenze  n.  348  e  n.  349  del   2007   e   -
successivamente - con le sentenze n. 311 e n. 317 del 2009, n,  80  e
n. 113 del 2011, ha chiarito gli effetti prodotti dalle pronunce  del
giudice sovranazionale nei  nostro  ordinamento,  nel  senso  di  una
maggiore resistenza delle  norme  CEDU,  nell'interpretazione  datane
dalla Corte di Strasburgo, rispetto alle leggi ordinarie interne, che
devono essere interpretate, ove possibile, in maniera  conforme  alle
prime. 
    Di fronte  a  pacifiche  violazioni  convenzionali  di  carattere
oggettivo e  generale,  gia'  in  precedenza  stigmatizzate  in  sede
europea, il mancato esperimento del rimedio di cui all'art.  34  CEDU
(ricorso individuale) e la conseguente mancanza, nel  caso  concreto,
di una sentenza della Corte  EDU  cui  dare  esecuzione  non  possono
essere  di  ostacolo  ad  un  intervento  dell'ordinamento  giuridico
italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare  una  situazione
di illegalita' convenzionale,  anche  sacrificando  il  valore  della
certezza del giudicato, da ritenersi recessivo rispetto ad evidenti e
pregnanti  compromissioni  in  atto  di  diritti  fondamentali  della
persona. La preclusione, effetto  proprio  dei  giudicato,  non  puo'
operare  allorquando  risulti  pretermesso,  con   effetti   negativi
perduranti, un diritto fondamentale della persona,  quale  certamente
e' quello che incide sulla liberta': s'impone,  pertanto,  in  questo
caso di emendare «dallo stigma dell'ingiustizia» una tale situazione. 
    3. La sentenza della Corte EDU, G.C., 17 settembre 2009, Scoppola
c. Italia, che viene  in  rilievo  nel  caso  in  esame,  presenta  i
connotati sostanziali  di  una  «sentenza  pilota»,  in  quanto,  pur
astenendosi dal fornire specifiche indicazioni sulle misure  generali
da   adottare,   evidenzia    comunque    l'esistenza,    all'interno
dell'ordinamento  giuridico  italiano,  di  un  problema  strutturale
dovuto alla non conformita' rispetto alla CEDU dell'art. 7  del  d.1,
n. 341 del 2000, nella interpretazione  datane  dalla  giurisprudenza
interna. 
    Al paragrafo 147 la detta pronuncia,  infatti,  ribadisce  quanto
testualmente affermato da Corte EDU,  Bronlowski,  e  cioe'  che  «in
forza dell'art. 46, le  parti  si  sono  impegnate  a  rispettare  le
sentenze definitive della Corte in ogni caso in cui sono state  parti
[...]. Da cio' consegue, inter alla, che una sentenza nella quale  la
Corte ha individuato una violazione impone allo Stato  resistente  un
obbligo legale non solo di pagare alle persone indicate  dalla  Corte
le somme da questa stabilite a -  titolo  di  equa  soddisfazione  ai
sensi dell'art. 41, ma anche di individuare,  sotto  la  supervisione
del Comitato del Ministri,  le  misure  generali  e,  se  necessario,
individuali da adottare nell'ordinamento giuridico interno per  porre
fine alla violazione accertata dalla Corte e per eliminare per quanto
possibile gli effetti». 
    Eventuali effetti ancora perduranti della violazione, determinata
da una illegittima applicazione  di  una  norma  interna  di  diritto
penale  sostanziale  interpretata  in  senso  non   convenzionalmente
orientato, devono dunque essere rimossi anche nel confronti di coloro
che, pur non avendo proposto ricorso a Strasburgo, si trovano in  una
situazione identica a quella oggetto  della  decisione  adottata  dai
giudice europeo per il caso Scoppola. 
    4. Tale pronuncia,  in  particolare,  nel  tornare  ad  occuparsi
dell'aspetto contenutistico dell'art. 7 CEDU,  affronta  il  delicato
problema circa l'effettiva articolazione del principio  ivi  sancito,
quanto alla successione delle leggi penali nel tempo: se cioe'  detto
principio ha una portata meramente negativa, quale divieto  cioe'  di
applicazione retroattiva sia della norma  incriminatrice  sia  di  un
trattamento sanzionatorio piu' sfavorevole, ovvero se contiene  anche
un  implicito  riflesso  positivo,  costituito  dalla   esigenza   di
applicazione della legge sopravvenuta piu' favorevole. 
    La Corte di Strasburgo, innovando la precedente giurisprudenza in
senso restrittivo (decisione della Commissione  europea  dei  diritti
dell'uomo, 6 marzo 1978, X c. Repubblica Federale Tedesca;  decisioni
della stessa Corte, 5 dicembre 2000, Le Petit C. Regno Unito; 6 marzo
2003, Zaprianov c. Bulgaria), delinea  piu'  precisamente  i  confini
dello «statuto» della legalita' convenzionale in tema dl reati  e  di
pene. 
    Dopo avere svolto una preliminare ricognizione  dell'orientamento
giurisprudenziale formatosi sull'art.  7  CEDU,  con  riferimento  al
principio nullum crimen, nulla poena sine lege e alle nozioni di pena
e dl prevedibilita' della legge penale, afferma che  la  detta  norma
non garantisce soltanto il  principio  di  non  retroattivita'  delle
leggi penali piu' severe, ma impone anche che, nel  caso  in  cui  la
legge penale in vigore al  momento  della  commissione  del  reato  e
quelle successive adottate  prima  della  condanna  definitiva  siano
differenti, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono
piu'  favorevoli  al  reo,  con  l'effetto   che,   nell'ipotesi   di
successione  di  leggi  penali  nel  tempo,  costituisce   violazione
dell'art. 7, § 1, CEDU l'applicazione della pena piu' sfavorevole  al
reo. 
    La garanzia sancita da tale norma convenzionale,  quale  elemento
sostanziale della preminenza del diritto, assume un rilievo  centrale
nel sistema di tutela della CEDU, come puo' evincersi dal  successivo
art. 15, che non prevede alcuna deroga ad essa in tempo di  guerra  o
in caso di altre pubbliche calamita'. 
    A tale  conclusione  la  Corte  europea  perviene  tenendo  conto
dell'«evoluzione della situazione nello Stato convenuto e negli Stati
contraenti in generale» e privilegiando,  nell'interpretazione  della
Convenzione, un «approccio dinamico  ed  evolutivo»,  che  renda  «le
garanzie concrete ed effettive, e non  teoriche  ed  illusorie»;  da'
atto, peraltro, del «consenso a livello europeo e internazionale  per
considerare che l'applicazione della legge  penale  che  prevede  una
pena meno severa, anche posteriormente alla commissione del reato, e'
divenuta un principio fondamentale del diritto penale». 
    La Corte europea, inoltre, ritiene  che  l'art.  942  cod.  proc.
pere, nella parte in cui indica la misura della pena da infliggere in
caso di condanna  all'esito  di  giudizio  abbreviato,  e'  norma  di
diritto  penale  sostanziale,  che   soggiace   alle   regole   sulla
retroattivita' di cui ai menzionato  art.  7  CEDU.  Ne  consegue  la
violazione di quest'ultima norma nel caso in cui non  venga  inflitta
all'imputato la pena piu' mite  tra  quelle  previste  dalle  diverse
leggi succedutesi dai momento  del  fatto  e  quello  della  sentenza
definitiva. Tale ultima precisazione, come correttamente sottolineato
dai Procuratore  generale  nella  sua  requisitoria,  e'  chiaramente
riferita all'individuazione del termine entro il  quale  la  modifica
normativa  in  mitlus  del  trattamento  sanzionatorio  deve   essere
intervenuta, perche' se ne ritenga l'applicabilita', e non  certo  al
limite  temporale  entro  li  quale   la   violazione   della   norma
convenzionale puo' essere dedotta dinanzi ai giudice  nazionale,  non
affrontando espressamente la Corte europea il tema della  preclusione
del giudicato. 
    Nel caso esaminato, si  sono  succedute  nel  tempo  tre  diverse
disposizioni di legge: l'art. 442, comma 2, cod. proc. pen., dopo  la
declaratoria d'incostituzionalita' nella parte in  cui  prevedeva  la
sostituzione  dell'ergastolo  con  la  reclusione  di   anni   trenta
(sentenza n. 176 del 1991),  precludeva,  tra  il  1991  e  il  1999,
l'accesso al rito abbreviato per gli imputati di delitti punibili con
l'ergastolo; l'art. 30, comma 1, lett, b), della  legge  n.  479  del
1999,  entrata  in  vigore  il  2  gennaio  2000,  reintroduceva   la
previsione, nel caso di giudizio abbreviato, della sostituzione della
pena dell'ergastolo con  quella  della  reclusione  di  anni  trenta;
l'art. 7 del d.l. n. 341 del 2000, entrato in vigore il  24  novembre
2000 e convertito dalla legge n. 4 del 2001, stabilisce,  in  via  di
interpretazione autentica, che «Nell'articolo 442,  comma  2,  ultimo
periodo,  del  codice  di  procedura  penale,   l'espressione   «pena
dell'ergastolo»  deve   intendersi   riferita   all'ergastolo   senza
isolamento diurno» e aggiunge, in chiusura del comma  2,  il  periodo
«Alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno, nel casi di concorso
di reati e di reato continuato, e' sostituita quella dell'ergastolo». 
    In via transitoria, peraltro, l'art. 8 del richiamato d.l. n. 341
del 2000, cosi' come sostituito in sede di conversione, consentiva  a
chi avesse formulato richiesta  di  giudizio  abbreviato  nel  vigore
della sola legge n. 479 del 1999 dl revocare la  richiesta  entro  un
determinato  termine,  con  conseguente  prosecuzione  dei   processo
secondo il rito ordinarlo. 
    Sulla base di tale quadro  normativo,  la  Corte  di  Strasburgo,
negando il carattere di norma interpretativa dell'art. 7 del d.l.  n.
341 del 2000, ritiene che Franco Scoppola, essendo stato  ammesso  al
rito abbreviato nel vigore della legge n. 479 del 1999, avrebbe avuto
diritto, al sensi dell'art. 7 CEDU cosi' come interpretato, a vedersi
infliggere la pena di anni trenta di reclusione, piu'  mite  rispetto
sia a quella prevista (ergastolo con isolamento diurno) dall'art. 442
cod. proc, pen. nel testo vigente al momento  della  commissione  del
fatto, sia a quella  prevista  (ergastolo  senza  isolamento  diurno)
dall'art. 7 del d.l. n. 341  del  2000,  in  vigore  al  momento  del
giudizio. 
    E' indubbio che tale  precedente  sovranazionale,  censurando  il
meccanismo processuale col  quale  si  allega  efficacia  retroattiva
all'art. 7, comma 1, del d.1. 341 del 2000,  qualificato  come  norma
d'interpretazione autentica del testo dell'art. 442 cod,  proc.  pen.
come modificato dalla legge n. 479 del 1999,  enuncia,  in  linea  dl
principio, una regola dl giudizio di portata generale, che, in quanto
tale, e' astrattamente applicabile a fattispecie identiche  a  quella
esaminata  e,  quindi,  anche  al  caso   che   interessa   l'attuale
ricorrente, il quale, avvalendosi della riapertura del termini, aveva
chiesto e ottenuto, nel corso  dei  giudizio  d'appello  (udienza  12
giugno 2000) e nel vigore della lex mitior n. 479 del 1999, l'accesso
al giudizio abbreviato, ma la Corte di assise di  appello  gli  aveva
riservato il piu' rigoroso  trattamento  sanzionatorio  previsto  dal
d.1. n. 341 del 2000, entrato in vigore prima della  conclusione  del
giudizio. 
    A conferma della portata di piu' ampio  respiro  della  decisione
della Corte EDU  sul  caso  Scoppola  c.  Italia,  non  e'  superfluo
sottolineare che il Comitato del Ministri, nel dichiarare chiusa, con
provvedimento  dell'8  giugno  2011,   la   relativa   procedura   di
sorveglianza   sull'esecuzione   della   sentenza,   prendeva   atto,
dichiarandosi  soddisfatto,  della  nota  con  la  quale  l'Autorita'
italiana, in ordine alle misure di carattere generale da adottare per
situazioni analoghe,  aveva  precisato  di  ritenere  sufficiente  la
pubblicazione e la diffusione della sentenza ai Tribunali competenti,
in considerazione  «degli  effetti  diretti  concessi  dal  Tribunali
Italiani alle sentenze della Corte europea e [...] delle possibilita'
offerte dalla procedura di incidente di esecuzione a  coloro  che  si
trovino in situazioni uguali a quella del  richiedente  nel  caso  in
esame». Il Comitato del Ministri individuava cosi' con  chiarezza  la
strada da seguire in situazioni analoghe a quella del caso Scoppola. 
    5. Se dunque  al  nuovo  e  piu'  ampio  profilo  di  tutela  del
principio di legalita'  convenzionale  in  materia  penale  enunciato
dalla Corte EDU, all'esito dell'approfondita  operazione  ermeneutica
dell'art.  7  CEDU,  deve  attribuirsi  una   valenza   generale   e,
conseguentemente, tin effetto vincolante per  la  soluzione  di  casi
identici, e' agevole trarre la conclusione che  l'avere  inflitto  al
ricorrente E., la cui posizione e' sostanzialmente  sovrapponibile  a
quella dello Scoppola, la pena  dell'ergastolo,  anziche'  quella  di
trent'anni  di  reclusione,  sembra  avere  violato  il  suo  diritto
all'applicazione retroattiva (art. 7 CEDU) della  legge  penale  piu'
favorevole, violazione che inevitabilmente si riverbera, con  effetti
perduranti  in  fase  esecutiva,  sul  diritto   fondamentale   della
liberta'. 
    Una tale situazione, anche a costo di porre in crisi  il  «dogma»
del giudicato, non  puo'  essere  tollerata,  perche'  legittimerebbe
l'esecuzione di una pena ritenuta, oggettivamente e quindi ben al  di
la' della species facti, illegittima dall'interprete autentico  della
CEDU e determinerebbe una patente violazione del principio di parita'
di trattamento tra condannati che versano in identica posizione. 
    Diverso  e'  li  caso  di  una   pena   rivelatasi   illegittima,
esclusivamente perche' inflitte all'esito  di  un  giudizio  ritenuto
dalla Corte EDU non equo,  ai  sensi  dell'art.  6  CEDU:  in  questa
ipotesi, l'apprezzamento, vertendo su eventuali errores in procedendo
e implicando  valutazioni  strettamente  correlate  alla  fattispecie
specifica, non puo' che essere compiuto caso per caso, con  l'effetto
che il giudicato interno puo' essere posto in discussione soltanto di
fronte a  un  vincolante  dictum  della  Corte  di  Strasburgo  sulla
medesima fattispecie, 
    Il caso in esame non e' dissimile da ogni altra situazione in cui
vi sia stata condanna in forza di  una  legge  penale  dichiarata  ex
post, nella sua  parte  precettiva  o  sanzionatoria,  illegittima  o
comunque inapplicabile, perche'  in  contrasto  con  norme  di  rango
superiore alla legge penale medesima. 
    Numerosi sono  gli  esempi  nei  quali  la  giurisprudenza  delle
massime Corti nazionali ha avvertito la  necessita'  di  adeguare  le
pronunce  del  giudici  di   cognizione   alle   norme   della   CEDU
nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo e ha  ritenuto,
pertanto, di potere superare li principio  della  intangibilita'  del
giudicato, anche al di fuori delle ipotesi  previste  dai  codice  di
rito, tanto da pervenire, con la sentenza n. 113 del 2011 della Corte
Costituzionale, ad una declaratoria  d'incostituzionalita'  dell'art.
630 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede un diverso caso di
revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine  di
conseguire  le  riapertura  del  processo,  per  conformarsi  ad  una
sentenza definitiva della Corte EDU, 
    L'applicazione   retroattiva   nel   giudizio   di    cognizione,
celebratosi prima dell'intervento interpretativo dell'art. 7 CEDU  da
parte della Corte di Strasburgo, di una norma penale  sostanziale  di
sfavore  produce  attualmente,  essendo   in   esecuzione   la   pena
dell'ergastolo inflitta al ricorrente,  una  permanente  lesione  del
diritti fondamentali  di  costui  e  l'ordinamento  italiano,  lo  si
ribadisce, non puo' sottrarsi  al  dovere  di  rimuovere  una  simile
situazione in forza del principi affermati da Corte EDU, Scoppola  c.
Italia,  verificando  logicamente,  come  meglio  si  precisera'   in
seguito, la compatibilita' con tali principi della normativa  interna
di riferimento. 
    La crisi  dell'irrevocabilita'  del  giudicato  e'  riscontrabile
nell'art. 2, comma terzo, cod.  pen.  (inserito  dell'art.  14  della
legge 24 febbraio  2006,  n.  85),  secondo  cui  la  pena  detentiva
inflitta con condanna definitiva si  converte  automaticamente  nella
corrispondente pena pecuniarie, se la legge posteriore  al  giudicato
prevede esclusivamente  quest'ultima,  regola  questa  che  deroga  a
quella posta invece dal quarto comma dello stesso art.  2  cod.  pen.
(primato della lex mitior, salvo che sia stata  pronunciata  sentenza
irrevocabile). 
    A tale novita' normativa puo' essere accostato, in via analogica,
il novum dettato dalla Corte EDU in tema di legalita' della penai  in
entrambi i casi, e' l'esigenza imprescindibile  di  porre  fine  agli
effetti negativi dell'esecuzione dl una pena contro legem a prevalere
sulla tenuta del giudicato, che deve cedere, anchein executivis, alla
«piu' alta valenza fondativi dello statuto della pena». 
    Tale principio, d'altra parte, a' stato gia' affermato da Sez. 1,
n. 977 del 27 ottobre 2011, dep. 13  gennaio  2012,  Hauohu,  che  ha
ravvisato il potere del giudice dell'esecuzione di  rideterminare  la
pena inflitta a chi sia stato condannato  per  un  delitto  aggravato
dalla propria condizione di clandestinita' ex art. 61 n. 11-bis  cod.
pen., in seguito alla dichiarazione di  incostituzionalita'  di  tale
aggravante (sent. n. 249 del 2010), con eliminazione  della  frazione
di pena in eccesso, da  considerarsi  illegittima  e,  pertanto,  non
eseguibile. 
    In forza dello stesso principio,  consolidato  e'  l'orientamento
giurisprudenziale  circa  la  possibilita'  di  emendare,   in   sede
esecutiva, l'illegalita' della pena accessoria inflitta con  condanna
irrevocabile (ex plurimis, Sez. 1, n. 38245 del 13 ottobre  2010,  Di
Marco). 
    6. Le argomentazioni  sin  qui  svolte  evidenziano  fa  centrale
rilevanza che la decisione della Corte EDU sul caso  Scoppola  assume
per la valutazione della posizione di S. E. 
    S'impone,  quindi,  la  verifica   della   compatibilita'   della
normativa interna di riferimento e, piu' esattamente, degli artt. 7 e
8 d.l. n. 341 del 2000, convertito in legge n. 4  del  2001,  con  ti
principio di legalita' convenzionale dl cui all'art.  7  CEDU,  nella
interpretazione datane dalla Corte europea. 
    Le sentenze della Corte dl Strasburgo  non  sono  in  alcun  modo
equiparabili a quelle della Corte di Giustizia del Lussemburgo, adita
in via pregiudiziale o nel contesto di una procedura  di  infrazione.
In sostanza, il giudice ordinario non puo' risolvere il contrasto tra
legge interna  e  norma  convenzionale  evidenziato  dalla  Corte  di
Strasburgo,  provvedendo  egli  stesso  a  disapplicare   la   prima,
presupponendo cio'  il  riconoscimento  dl  un  primato  delle  norme
contenute nella Convenzione  e/o  delle  sentenze  della  Corte  EDU,
analogo a quello conferito ai  diritto  dell'Unione  Europea  e  alte
sentenze  della  Corte  di  Giustizia,  che   incidono   direttamente
nell'ordinamento  nazionale  e  possono  determinare  addirittura  la
disapplicazione delle norme interne eventualmente contrastanti. 
    La giurisprudenza  costituzionale,  a  partire  dalle  richiamate
sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, e' costante nel ritenere  che  «le
norme della CEDU nei significato loro attribuito dalla Corte  europea
del diritti dell'uomo, specificamente  Istituita  per  dare  ad  esse
interpretazione e applicazione (art. 32, § 1,  della  Convenzione)  -
integrano,  quali  norme  interposte,  il  parametro   costituzionale
espresso dall'art. 117, comma primo, Cost., nella parte in cui impone
la conformazione della  legislazione  interna  al  vincoli  derivanti
dagli obblighi internazionali» (sentenze n. 113 e n. 1 del  2011;  n.
196, n. 187 e n. 138 del 2010; n. 317 e n. 311 del 2009;  n.  39  del
2008). 
    Il Giudice delle leggi - di fronte a  prese  di  posizioni  della
giurisdizione  amministrativa  circa  un  asserito  inserimento   nei
diritto dell'Unione europea della CEDU compiuto dall'art. 6, § 2, del
Trattato sull'Unione europea, cosi' come modificato nel dicembre 2009
a seguito dell'entrata in vigore  dei  Trattato  di  Lisbona  dei  13
dicembre 2007 (Cons. Stato, n. 1220 del 2 marzo 2010; Tar  Lazio,  n.
11984 del 18 maggio 2010) - ha ritenuto la perdurante validita' della
detta ricostruzione pur dopo l'entrata  in  vigore  del  Trattato  di
Lisbona. 
    Con la sentenza n. 80 del 2011, infatti, la Corte  costituzionale
ha posto un freno alla «fuga in avanti» del  giudici  amministrativi,
sottolineando  che  il  riferimento  all'art.  6,  §  2,  T.U.E.   e'
prematuro, nelle more dell'adesione dell'U.E. alla CEDU, e precisando
soprattutto che li richiamo alla CEDU operato dal diritto dell'Unione
viene in rilievo con esclusivo riguardo al casi  in  cui  li  giudice
italiano deve  valutare  fattispecie  che  rientrano  nell'ambito  di
applicazione del diritto dell'Unione. 
    La  Consulta  ha  anche  chiarito  (sentenza  n.  311  del  2009,
richiamata nella sentenza n. 236 del 2011)  che  «l'art.  117,  primo
comma,   Cost,,   ed   In   particolare    l'espressione    «obblighi
internazionali»  in  esso  contenuta,   si   riferisce   alle   norme
internazionali convenzionali anche diverse da quelle  comprese  nella
previstone degli artt. 10 e 11 Cost., Cosi' Interpretato, l'art. 117,
primo comma, cost,, ha colmato la  lacuna  prima  esistente  rispetto
alle norme che a  livello  costituzionale  garantiscono  l'osservanza
degli obblighi internazionali  pattizi.  La  conseguenza  e'  che  ti
contrasto di una norma nazionale  con  una  norma  convenzionale,  in
particolare della CEDU, si traduce in una violazione  dell'art.  117,
primo comma, Cost.». 
    Profilandosi un contrasto tra una norma interna e una norma della
CEDU,  pero',  «il  giudice  nazionale  comune  deve  preventivamente
verificare la  praticabilita'  di  una  interpretazione  della  prima
conforme alla norma  convenzionale,  ricorrendo  a  tutti  i  normali
strumenti di ermeneutica giuridica» (sentenze n, 113 del 2011, n.  93
del 2010, n. 311 e  n.  239  del  2009).  L'esito  negativo  di  tale
verifica  e  il  contrasto  non  componibile  in  via  interpretativa
impongono al giudice ordinarlo - che non puo' disapplicare  la  norma
interna ne' farne applicazione, per li ritenuto contrasto con la CEDU
e quindi con  la  Costituzione  -  di  sottoporre  alla  Consulta  la
questione di legittimita' costituzionale in riferimento all'art. 117,
comma primo, Cost, (sentenze n. 113 del 2011, n. 93 del 2010 e n. 311
del 2009), attraverso un rinvio pregiudiziale, con la conseguenza che
l'eventuale  operativita'  della  norma  convenzionale,  cosi'   come
interpretata dalla Corte di Strasburgo, deve passare  attraverso  una
declaratoria  d'incostituzionalita'  della   normativa   interna   di
riferimento o, se del caso, l'adozione di una sentenza interpretativa
o additiva. 
    Competera', inoltre, al  Giudice  delle  leggi,  ove  accerti  il
denunciato contrasto tra  norma  interna  e  norma  della  CEDU,  non
risolvibile in via interpretativa, verificare se la seconda,  che  sl
colloca  pur  sempre  ad  un  livello  sub-costituzionale,  si  ponga
eventualmente in conflitto con altre norme della Carta  fondamentale,
ipotesi questa che condurra' ad  escludere  l'idoneita'  della  norma
convenzionale a integrare  il  parametro  costituzionale  considerato
(sentenze n. 303 e n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 del  2009,
n. 349 e n. 348 del 2007). 
    7. Tenuto conto che,  alla  luce  di  quanto  argomentato,  sulla
decisione del  presente  ricorso  incide,  in  maniera  determinante,
l'applicazione delle norme dl cui agli artt. 7 e 8 d.l.  n.  341  del
2000, s'impone la verifica della  compatibilita'  di  tate  normativa
interna con il principio dl legalita' convenzionate di cui all'art. 7
CEDU, cosi' come interpretato dalla Corte EDU. 
    Seguendo le scansioni metodologiche indicate  dal  Giudice  delle
leggi, devesi preventivamente verificare  la  praticabilita'  di  una
interpretazione convenzionalmente orientata della normativa interna. 
    Ritiene la Corte che non vi sono spazi  per  una  interpretazione
conforme alla Convenzione delle disposizioni degli artt. 7 e  8  d.l.
n. 341 del 2000, dalla cui applicazione e' derivata e tuttora  deriva
la   violazione   del    diritto    fondamentale    dei    condannato
all'operativita'  della  legge  piu'  favorevole   (art.   7   CEDU),
individuabile, nel caso specifico, nell'art. 30, comma 1,  lett.  b),
legge n, 479 del 1999,  il  solo  in  vigore  nell'arco  temporale  2
gennaio-24 novembre 2000, quando cioe'  fu  formulata  e  accolta  la
richiesta in data 12 giugno 2000 di accesso al rito abbreviato.  Tale
violazione ha inciso In termini peggiorativi e con effetti perduranti
sul trattamento sanzionatorio previsto, in caso di rito semplificato,
per i reati punibili con la pena dell'ergastolo. 
    Il  Capo  III  del  d.l.  n.  341  del  2000,   convertito,   con
modificazioni,  dalla  legge   n.   4   del   2001,   e'   intitolato
«Interpretazione autentica  dell'art.  442  comma  2  del  codice  di
procedura penale e disposizioni in materia di giudizio abbreviato nei
processi per i reati puniti con l'ergastolo». 
    L'art. 7, comma 1, inserito nel detto Capo  stabilisce,  infatti,
che l'espressione «pena  dell'ergastolo»,  contenuta  nell'art.  442,
comma 2, ultimo periodo, cod. proc. pen., «deve  intendersi  riferita
all'ergastolo senza isolamento diurno»;  lo  stesso  articolo  7,  al
comma 2, che e' in logica coordinazione col comma 1,  stabilisce  che
la pena dell'ergastolo con isolamento diurno e' sostituita con quella
dell'ergastolo. 
    La chiara intenzione del  legislatore  si  evince  dal  contenuto
della Relazione governativa al decreto, nella quale si precisa che la
disposizione intende risolvere, in via interpretativa, i dubbi  circa
l'applicabilita' della disciplina su giudizio abbreviato al  casi  in
cui, stante il concorso di  reati,  alla  pena  dell'ergastolo  debba
aggiungersi anche la sanzione dell'isolamento diurno. 
    Si e'  di  fronte,  quindi,  ad  una  legge  che  il  legislatore
qualifica  come  interpretativa,   con   l'effetto   che   la   norma
interpretante non fa venire meno la norma interpretata,  ma  l'una  e
l'altra si saldano tra loro, dando luogo  ad  un  precetto  normativo
unitario. 
    La legge interpretativa, normativa mente  considerata,  non  puo'
sostanzialmente  ritenersi  posteriore  e  quella  interpretata,   ma
«coeva» alla stessa, nei senso che comincia ad esistere  ed  opera  -
sempre sotto li profilo normativo  -  come  se  fosse  stata  emanata
congiuntamente alla  legge  precedente.  Ne  consegue  che  la  legge
interpretativa, in quanto materialmente successiva nel tempo a quella
interpretata, ha efficacia retroattiva  in  deroga  al  principio  di
irretroattivita' della legge in generale, fissato dall'art. 11  delle
preleggi. 
    La retroattivita' della legge interpretativa  rimane  logicamente
circoscritta nel tempo, nel senso che essa non puo' retroagire  oltre
«il termine a quo» della legge interpretata, ma «rimane ristretta» al
tempo di quest'ultima. 
    E' il caso di sottolineare che, in  coerenza  con  la  dichiarata
natura interpretativa della norma di cui all'art. 7 d.1, n.  341  del
2000, il successivo art. 8, come sostituito in sede  di  conversione,
prevede  la  facolta'  per  l'imputato,  sia  In  sede   di   udienza
preliminare che in sede dibattimentale, dl revocare la  richiesta  di
giudizio abbreviato nei  casi  in  cui  e'  applicabile  o  e'  stata
applicata la pena dell'ergastolo con isolamento diurna, con l'effetto
che, In mancanza di revoca, saranno applicabili le nuove disposizioni
di cui al precedente art. 7, il che conferma l'efficacia  retroattiva
attribuita dal legislatore alle medesime. 
    La natura formalmente interpretativa del richiamato  art.  7,  li
suo testo letterale, la disciplina transitoria di cui  al  successivo
art. 8 non legittimano una Interpretazione di  tali  disposizioni  in
linea con il principio dl legalita'  convenzionale:  nulla  Induce  a
ritenere, infatti, che le stesse, in coerenza con tale principio, non
sarebbero applicabili per li passato e, piu'  esattamente,  in  tutte
quelle ipotesi in cui, nel vigore della legge n. 479 del 1999, vi sia
stata, come nella specie, richiesta  di  giudizio  abbreviato,  nella
prospettiva di beneficiare,  in  caso  di  condanna,  del  piu'  mite
trattamento   sanzionatorio   previsto   per i   reati   puniti   con
l'ergastolo. 
    Effetto proprio della interpretazione autentica e', come e' stato
osservato, «di avere un'autorita' imperativa e generale», il  comando
in essa contenuto ha valenza incondizionata, trattasi  di  «norma  di
diritto oggettivo», che,  «coincida  o  no  coll'effettivo  contenuto
della  disposizione  a  cui  si   riferisce»,   obbliga   formalmente
l'interprete ad adeguarvisi, senza alcuna possibilita'  d'individuare
spazi ermeneutici ulteriori  e  alternativi  a  quelli  indicati  dal
legislatore. 
    8. L'esito negativo della verifica circa la praticabilita' di una
interpretazione della normativa interna  conforme  all'art.  7  CEDU,
nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, e l'insanabile
contrasto tra dette norme a  confronto  impongono  di  sottoporre  al
Giudice delle  leggi,  non  apparendo  manifestamente  infondata,  la
questione dl legittimita' costituzionale, in riferimento agli arti. 3
e 117, comma primo, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 CEDU,
degli artt. 7 e 8 d.l. n. 341 del 2000, convertito dalla legge  n.  4
del 2001, nella  parte  in  cui  tali  disposizioni  interne  operano
retroattivamente e, piu' specificamente, in relazione alla  posizione
di coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio  abbreviato
nella vigenza della sola legge n. 479 del 1999, sono stati  giudicati
successivamente, quando cioe', a  far  data  dal  pomeriggio  del  24
novembre 2000  (pubblicazione  della  Gazzetta  Ufficiale,  ai  sensi
dell'art. 2 r.d. n. 1252 del 7 giugno 1923), era entrato in vigore il
citato  decreto  legge,  con  conseguente   applicazione   del   piu'
sfavorevole trattamento sanzionatorio previsto dal medesimo decreto. 
    9. Viene in rilievo  il  problema  della  distinzione  tra  legge
autenticamente interpretativa, che  si  limita  a  indicare  li  vero
significato dei verba della legge  preesistente,  e  legge  che,  pur
dichiarata formalmente interpretativa, si rivela  invece  innovativa,
perche' intacca antinomicamente la ratio della legge interpretata. 
    Soltanto nel primo caso, puo' allegarsi alla legge interpretativa
efficacia retroattiva nel  senso  piu'  sopra  chiarito,  perche'  si
limita ad assegnare alla  disposizione  interpretata  un  significato
gia' in essa contenuto, riconoscibile come una  delle  sue  possibili
letture, con  le  finalita'  di  chiarire  «situazioni  di  oggettiva
incertezza del dato normativo»,  dl  «ristabilire  un'interpretazione
piu'  aderente  all'originaria  volonta'  del   legislatore»   e   dl
garantire, quindi,  la  certezza  del  diritto  e  l'uguaglianza  dei
cittadini,   principi   -   questi   -   di   preminente    interesse
costituzionale, che rendono la  legge  interpretativa  conforme  alla
Carta fondamentale (Corte Cost, sentenze n. 78 del 2012; n. 271 e  n.
257 del 2011; n. 209 del 2010; n. 311 e n. 24 del 2009). 
    Nel secondo caso, la legge che, al di la' dei  dato  enunciativo,
innova la precedente non puo' che valere per l'avvenire,  opponendosi
all'efficacia  retroattiva  la  tutela  di  valori  fondamentali   di
civilta' giuridica, quali  i1  rispetto  del  principio  generale  di
ragionevolezza,  che  si   riflette   nei   divieto   di   introdurre
Ingiustificate disparita' di trattamento, la tutela  dell'affidamento
che e' connaturato allo Stato di diritto, la coerenza e  la  certezza
dell'ordinamento    giuridico,    il    rispetto    delle    funzioni
costituzionalmente  riservate  ai  potere  giudiziario  (Corte  Cost.
sentenze n. 78 del 2012; n. 209 del 2010). 
    Cio'  posto,   ritengono   le   Sezioni   Unite   che   la   c.d.
«interpretazione autentica  dell'art.  442  comma  2  del  codice  di
procedura penale», operata dall'art. 7 d.l. n. 341 del 2000,  rientra
nella seconda categoria di norme. 
    Non sembra, infatti, che testo dell'art. 442,  comma  2,  secondo
periodo, cod. proc. pen., cosi' come introdotto dalla  legge  n.  479
del 1999,  evidenziasse,  nella  sua  generica  formulazione,  alcuna
ambiguita'  interpretativa;  la  pena  dell'ergastolo  (con  o  senza
isolamento diurno) doveva essere  sostituita,  in  caso  di  giudizio
abbreviato,  con   la   reclusione   di   anni   trenta.   Non   puo'
conseguentemente allegarsi al contenuto dell'art. 7 d.l. n.  341  del
2000 la mera valenza di una possibile  variante  di  significato  del
testo della norma asseritamente interpretata. 
    La stessa Relazione governativa al d.l. n. 341 del 2000 riconosce
implicitamente cio', nei momento stesso  in  cui  sottolinea  che  li
testo  normativo  preesistente  determinava,  in   modo   del   tutto
irragionevole,  «l'appiattimento  verso  il  basso   della   sanzione
applicabile in caso di concorso di reati o di reato continuato» e  la
conseguente equiparazione del «trattamento sanzionatorio  applicabile
ad un solo delitto punito con l'ergastolo rispetto a quello  relativo
ad una  serie,  virtualmente  illimitata,  di  delitti  punibili  con
l'ergastolo». 
    Il legislatore del 2000, in realta',  come  si  e'  osservato  in
dottrina, ha inteso porre rimedio a tale  insoddisfacente  disciplina
e, per incidere  immediatamente  sui  processi  in  corso  aventi  ad
oggetto  gravi   fatti   omicidiari,   ha   optato   per   la   legge
interpretativa,  anche  se  non  v'era   alcun   effettivo   problema
ermeneutico da risolvere, «ma semplicemente l'esigenza,  favorita  da
fattori  poiltico-emozionali,   di   diversificare   il   trattamento
sanzionatorio in relazione alla pluralita' o unicita' di  imputazioni
importanti l'ergastolo». 
    Il giudice ordinario, pero', non puo' recepire  acriticamente  la
dichiarata natura interpretativa dell'art. 7 d.l. n. 341 del 2000, il
quale, in realta', innova la disciplina del giudizio abbreviato per i
reati punibili con la  pena  dell'ergastolo  e,  non  presentando  un
carattere  polisenso  che  possa  fare  dubitare  della  sua  univoca
efficacia retroattiva, non lascia spazio, per le ragioni esposte,  ad
una interpretazione adeguatrice,  utilizzando  i  canoni  ermeneutici
codicistici. 
    Lo strumento di normazione interpretativa e' stato, in  generale,
ritenuto legittimo dalla giurisprudenza costituzionale  (sentenza  n.
525 del 2000), ma non e' consentito al legislatore di abusare di tale
strumento intervenendo retroattivamente, in maniera autoreferenziale,
«su rapporti processuali  aventi  diretti  riflessi  sul  trattamento
sanzionatorio». 
    Il  giudice,  tuttavia,  chiamato  ad  applicare  una  legge   di
interpretazione autentica, non puo' ritenere la violazione del limiti
all'ammissibilita'  e  alla  efficacia  retroattiva   della   stessa,
qualificarla  come  innovativa,  circoscriverne   temporalmente,   in
contrasto con la sua ratto  ispiratrice,  l'area  operativa,  finendo
cosi', in sostanza, per disapplicarla. 
    L'autorita' imperativa e generale della legge impone, come si  e'
detto, all'interprete di adeguarvisi, il che delinea  il  confine  in
presenza del quale ogni diversa operazione ermeneutica deve cedere il
passo al sindacato di legittimita' costituzionale. 
    10. Non va sottaciuto, per rimanere aderenti alla fattispecie  in
esame, che gli aspetti processuali  propri  del  giudizio  abbreviato
sono strettamente collegati con aspetti sostanziali,  dovendosi  tali
ritenere quelli relativi alla diminuzione o alla  sostituzione  della
pena,  profilo  questo  che  si  risolve  indiscutibilmente   in   un
trattamento penale di favore. 
    La richiesta di giudizio abbreviato cristallizza  il  trattamento
sanzionatorio vigente al momento dl essa, con l'effetto che una norma
sopravvenuta  di  sfavore  non  puo'  retroattivamente   deludere   e
vendicare il legittimo  affidamento  riposto  dall'interessato  nello
svolgimento del giudizio secondo le piu' favorevoli regole in  vigore
all'epoca della scelta processuale. 
    Obbligata,   pertanto,    e'    la    via    dell'incidente    di
costituzionalita'. 
    La norma di cui d'art.  7  e,  dl  riflesso,  quella  di  cui  al
successivo art. 8 d.l.  n.  341  del  2000,  con  la  loro  efficacia
retroattiva, sembrano essere in contrasto, in  primo  luogo,  con  il
parametro dl cui all'art. 117, comma primo, Cost., nella parte in cui
impone  la  conformazione  della  legislazione  interna  al   vincoli
derivanti dagli  obblighi  internazionali,  e  quindi  con  la  norma
interposta  di  cui   all'art.   7   CEDU,   che   delinea,   secondo
l'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, un nuovo  profilo
dl tutela del principio di legalita' convenzionale in materia penale:
non  solo  la  irretroattivita'  dello  legge  penale  piu'   severa,
principio gia' contenuto  nell'art.  25,  comma  secondo,  Cost.,  ma
anche, e implicitamente, la retroattivita'  o  l'ultrattivita'  della
lex mitior, in quanto va ad incidere sulla configurabilita' dei reato
o sulle specie e  sull'entita'  della  pena  e,  quindi,  su  diritti
fondamentali della persona. 
    La citata normativa interna sembra,  inoltre,  contrastare  anche
con l'art. 3 Cost., perche', facendo retroagire la disciplina in esse
prevista, non rispetterebbe  il  canone  generale  di  ragionevolezza
delle norme e  il  principio  di  eguaglianza.  Interviene,  infatti,
sull'art. 442, comma  2,  ultimo  periodo,  cod.  proc.  pen.,  nella
versione risultante dalla legge n. 479 del 1999, in assenza - come si
e' detto - di una situazione di oggettiva  incertezza  di  tale  dato
normativo di riferimento, al  quale  nettamente  deroga,  innovandolo
rispetto al testo previgente; tradisce il principio dell'affidamento,
connaturato allo Stato di diritto, legittimamente sorto nel  soggetto
al momento della scelta del rito alternativo, regolato da norma  piu'
favorevole;  determina  ingiustificate  disparita'  di   trattamento,
affidate casualmente al variabili tempi processuali, tra soggetti che
versano in una identica posizione sostanziale. 
    Conclusivamente, e' proprio l'applicazione retroattiva  in  malam
partem della c.d. legge interpretativa a  determinare  la  violazione
del diritto del soggetto interessato all'operativita', invece,  della
legge piu' mite tra quelle succedutesi nell'arco temporale 2  gennaio
-  24  novembre  2000,  in  presenza  del   presupposto   processuale
rappresentato dalla richiesta del rito  abbreviato  effettuata  nello
stesso periodo, e a legittimare i dubbi  di  costituzionalita'  della
medesima legge interpretativa. 
    11. La questione di  costituzionalita'  che  si  solleva  con  la
presente ordinanza e' senza dubbio rilevante, considerato  che,  come
innanzi precisato, la  decisione  della  vicenda  in  esame  dovrebbe
comportare l'applicazione dell'art. 7 d.l. n.  341  del  2000  e  non
potrebbe prescindere dai riflessi che  su  tale  norma  spiega  anche
quella transitoria di cui al successivo art. 8,  come  sostituito  in
sede di conversione dalla legge n. 4 del 2001. Sussiste,  quindi,  un
rapporto  di  strumentalita'  necessaria  tra  la  risoluzione  della
questione  di  costituzionalita'  e  la   definizione   dell'attivato
incidente di esecuzione. 
    Anche in questo, infatti, assumono peculiare rilievo i canoni  di
ragionevolezza e di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost.,  nonche'  il
principio di legalita' convenzionale di cui all'art.  7  CEDU,  quale
imprescindibile presidio  a  tutela  dl  diritti  fondamentali  della
persona e dato interposto che  integra  il  parametro  costituzionale
espresso dall'art. 117, comma primo, Cost., non essendo  proponibile,
come si e' precisato, una interpretazione della  normativa  nazionale
in senso conforme a tale principio. 
    L'eventuale  dichiarazione  di  incostituzionalita'  delle  norme
interne innanzi citate, avendo una forza invalidante ex tunc, la  cui
portata, gia' implicita nell'art. 136 Cost., e' chiarita dall'art. 30
legge 11 marzo 1953 n.  87,  inciderebbe  sull'esecuzione  ancora  in
corso  della  pena  illegittimamente  inflitta   al   ricorrente   in
applicazione della piu' severa norma penale sostanziale,  sospettata,
nella parte relativa alla sua efficacia  retroattiva,  di  essere  in
contrasto con la Carta fondamentale. 
    L'art. 30, comma quarto, legge n. 87 del 1953 dispone che, quando
in applicazione della  norma  dichiarata  incostituzionale  e'  stata
pronunciata   sentenza   irrevocabile   di   condanna,   ne   cessano
l'esecuzione e tutti gli effetti penali. Ne consegue che, nel caso di
dichiarazione di incostituzionalita' di una norma penale sostanziale,
la tutela della liberta' personale si  unisce  alla  forza  espansiva
della  dichiarazione  di  incostituzionalita'  e  travolge  anche  il
giudicato, con effetti diretti sull'esecuzione, ancora in atto, della
condanna irrevocabile. 
    Il richiamato art. 30, comma quarto, legge n. 87 del 1953  ha  un
campo di operativita' piu' esteso rispetto  a  quello  dell'art.  673
cod. proc. pen.. 
    Quest'ultimo  fa  riferimento  alle  sole  norme  che   prevedono
specifiche fattispecie incriminatrici e stabilisce che,  in  caso  di
abrogazione o di dichiarazione di illegittimita' costituzionale delle
stesse nella loro interezza, il giudice dell'esecuzione, nel revocare
la sentenza di condanna, deve dichiarare che il fatto non e' previsto
dalla legge  come  reato  e  adottare  i  conseguenti  provvedimenti.
Trattasi, pertanto, di norma non utilizzabile nel caso di specie. 
    Sembra utilizzabile, invece, l'art. 30, comma quarto, legge n. 87
del 1953, che ha una portata di piu' ampio  respiro,  nel  senso  che
impedisce anche l'esecuzione della pena  o  della  frazione  di  pena
inflitta in base alla norma dichiarata costituzionalmente illegittima
sui punto, senza coinvolgere li precetto, e cio' in coerenza  con  la
funzione che la pena, ex art. 27 Cost., deve  assolvere  dal  momento
della sua irrogazione a quello della sua esecuzione (Sez. 1,  n.  977
del 27 ottobre 2011, dep.  13  gennaio  2012,  Hauohu).  Trattasi  di
disposizione che,  derogando  al  principio  dell'intangibilita'  dei
giudicato, va ad incidere su  una  situazione  esecutiva  non  ancora
esaurita. 
    Ove la prospettata questione di  costituzionalita'  sia  ritenuta
fondata,  il  principio  di  retroattivita'/ultrattivita'  della  lex
mitior che definisce i reati e  le  pene,  riconosciuto  dall'art.  7
CEDU,  non  incontrerebbe  ostacoli   di   operativita',   anche   in
executivis,   nell'ordinamento   nazionale,   che   agevolmente    si
armonizzerebbe  con  tale  principio,  proprio  facendo  leva   sulle
disposizioni in materia di successione nel tempo delle  leggi  penali
sostanziali e sull'art. 30, comma quarto, legge n. 87 del 1953. 
    Quest'ultima disposizione, infatti, al pari della  previsione  di
cui all'art. 2, comma 3, cod, pen. (Inserito dall'art. 14 legge n. 85
del 2006), si pone come eccezione alla regola di cui al comma  quarto
del  medesimo  art.  2,  secondo  la  quale  si  applica  al  reo  la
disposizione  piu'  favorevole,  salvo  che  sia  stata   pronunciata
sentenza  irrevocabile,  e  legittima  quindi  il   superamento   del
giudicato  di  fronte  alle  primarie  esigenze,  insite  nell'intero
sistema penale, di tutelare diritto fondamentale della  persona  alla
legalita' della pena anche in fase esecutiva e di assicurare  parita'
di  trattamento  tra  i  condannati  che  versano  in  una   identica
situazione. 
    12.  Gli  atti  pertanto,  devono  essere  trasmessi  alla  Corte
Costituzionale, per la risoluzione della  questione  di  legittimita'
costituzionale sollevata, di ufficio, nei termini innanzi  precisati,
e il giudizio in corso deve, conseguentemente, essere sospeso. 
    La  Cancelleria  provvedera'  agli  adempimenti  in   dispositivo
precisati.