Ricorso della Regione Puglia, in persona del Presidente della Regione pro tempore, autorizzato con deliberazione della Giunta regionale 1971/12, rappresentata e difesa, come da procura speciale a margine dall'avv. prof. Alberto Lucarelli con domicilio eletto in Roma presso Cancelleria Corte costituzionale... Contro il Presidente del Consiglio dei Ministri per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale, previa sospensione dell'esecuzione dell'art. 4, commi 1 e 8, del decreto-legge del 6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 135 pubblicata in SO n. 173, reiativo alla G.U. 14 agosto 2012, n. 189. Per violazione: dell'art 117, primo, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, della Costituzione; dell'art. 118, primo e secondo comma, della Costituzione; dell'art. 119 della Costituzione; dell'art. 41 della Costituzione; dell'art. 42 della Costituzione; dell'art. 43 della Costituzione; degli artt. 1, 5, 75, 77, 114 della Costituzione, nei modi e per i profili di seguito illustrati. Con il decreto-legge del 6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla legge n. 7 agosto 2012, n. 135, il legislatore statale ha introdotto alcune disposizioni che incidono sulle competenze delle Regioni. In particolare, l'art. 4, rubricato «Riduzione di spese, messa in liquidazione e privatizzazione di societa pubbliche», al comma 1, dispone: «Nei confronti delle societa' controllate direttamente o indirettamente dalla pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2 del decreto legislativo n. 165 del 2001, che abbiano conseguito nell'anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90 per cento (dell'intero fatturato), si procede, altemativamente: a) allo scioglimento della societa' entro il 31 dicembre 2013. Gli atti e le operazioni poste in essere in favore delle pubbliche amministrazioni di cui al presente comma in seguito allo scioglimento della societa' sono esenti da imposizione fiscale, fatta salva l'applicazione dell'imposta sul valore aggiunto, e assoggettati in misura fissa alle imposte di registro, ipotecarie e catastali; b) all'alienazione con procedure di evidenza pubblica, delle partecipazioni detenute alla data di entrata in vigore del presente decreto entro il 30 giugno 2013 ed alla contestuale assegnazione del servizio per cinque anni (non rinnovabili) a decorrere dal 1° gennaio 2014. Il bando di gara considera, tra gli elementi rilevanti di valutazione dell'offerta, l'adozione di strumenti di tutela dei livelli di occupazione. L'alienazione deve riguardare l'intera partecipazione della pubblica amministrazione». Inoltre, cosi' il successivo comma 2 dell'art. 4: «Ove l'amministrazione non proceda secondo quanto stabilito ai sensi del comma 1, a decorrere dal 1° gennaio 2014 le predette societa' non possono comunque ricevere affidamenti diretti di servizi, ne' possono fruire del rinnovo di affidamenti di cui sono titolari...». I suddetti commi 1 e 2 dell'art. 4, come precisato dal successivo comma 3, non si applicano «... alle societa' che svolgono servizi di interesse generale, anche aventi rilevanza economica, alle societa' che svolgono prevalentemente compiti di centrali di committenza ai sensi dell'art. 33 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, nonche' alle societa' di cui all'art. 23-quinquies, commi 7 e 8, del presente decreto, e alle societa' finanziarie partecipate dalle regioni, ovvero a quelle che gestiscono banche dati strategiche per il conseguimento di obiettivi economico-finanziari, individuate, in relazione alle esigenze di tutela della riservatezza e della sicurezza dei dati, nonche' all'esigenza di assicurare l'efficacia del controlli sull'erogazione degli aiuti comunitari del settore agricolo, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, da adottare su proposta del Ministro o dei Ministri aventi poteri di indirizzo e vigilanza, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri. Le medesime disposizioni non si applicano qualora, per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento non sia possibile per l'amministrazione pubblica controllante un efficace e utile ricorso al mercato. In tal caso, l'amministrazione, in tempo utile per rispettare i termini di cui al comma 1, predispone un'analisi del mercato e trasmette una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all'Autorita' garante della concorrenza e del mercato per l'acquisizione del parere vincolante, da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della relazione. Il parere dell'Autorita' e' comunicato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Le disposizioni del presente articolo non si applicano altresi' alle societa' costituite al fine della realizzazione dell'evento di cui al Presidente del Consiglio dei Ministri, 30 agosto 2007, richiamato dall'art. 3, comma 1, lett. a), del decreto-legge 15 maggio 2012, n. 59, convertito con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2012, n. 100». Il comma 3-sexies, sempre in merito ai servizi di cui al comma 1, ha previsto un'ulteriore disciplina dal carattere della eccezionalita': «Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto le pubbliche amministrazioni di cui al comma 1 possono predisporre appositi piani di ristrutturazione e razionalizzazione delle societa' controllate. Detti piani sono approvati previo parere favorevole del Commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa per acquisto di beni e servizi di cui all'art. 2 del decreto-legge 7 maggio 2012, n. 52, convertito con modificazioni, dalla legge 6 luglio 2012, n. 94, e prevedono l'individuazione delle attivita' connesse esclusivamente all'esercizio di funzioni amministrative di cui all'art. 118 della Costituzione, che possono essere riorganizzate e accorpate attraverso societa' che rispondono ai requisiti della legislazione comunitaria in materia di in house providing. I termini di cui al comma 1 sono prorogati per il tempo strettamente necessario per l'attuazione del piano di ristrutturazione e razionalizzazione con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, adottato su proposta del Commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa per l'acquisto di beni e servizi». Il comma 1 dell'art. 4, seppur con le eccezioni di cui ai commi 3 e 3-sexies, impone, tra l'altro, alle regioni e agli enti locali di dismettere le societa' partecipate, determinando un sostanziale impoverimento in capo ad enti quali le regioni. I profili di illegittimita' risiedono prima facie nella contrarieta' di parte del comma 1 dell'art. 4 con lo spirito del titolo V, II parte della Costituzione e con l'assetto delle competenze ivi fissato, informato alla valorizzazione dell'autonomia degli enti locali, che alla luce della normativa impugnata, sono di fatto spogliati degli strumenti e dei margini di operativita' che dovrebbero loro spettare. Vengono meno del tutto i principi di autonomia ed autarchia, consacrati anche in ambito sovranazionale - si pensi all'art. 5 TUE (ex art. 5 TCE) che fissa il principio di auto-organizzazione dell'ente locale - che spettano alle regioni in sede di determinazione delle proprie scelte. Il comma 1 dell'art. 4, nonostante l'introduzione di ipotesi di ammissibilita', come si e' visto di cui ai commi 3 e 3-sexies, incide sensibilmente sul potere di auto-organizzazione degli enti territoriali (e delle regioni in particolare), comprimendo margini di autonomia costituzionalmente garantiti. Tale disciplina costringe anche la Regione Puglia ad adeguarsi a «tappe forzate» - scioglimento (31 dicembre 2013) o all'alienazione (30 giugno 2013) delle sue societa' - al presunto nuovo «principio fondamentale per lo sviluppo economico», ledendo la sua potesta' legislativa, che a norma dell'art. 117, comma primo della Costituzione deve essere esercitata «nel rispetto della Costituzione» e, quindi, nel rispetto del regime delle competenze di cui ai commi 2 , 3 e 4 dell'art. 117 Cost. A cio' si aggiunga il carattere prescrittivo e sanzionatorio di cui al comma 2 dell'art. 4 che prevede che laddove non si proceda con scioglimento o alienazione le societa' regionali non potranno fruire del rinnovo degli affidamenti. Oggetto della norma, cosi' come espressamente affermato dal comma 3, sono tutti i servizi che non rientrano tra i servizi di interesse generate (SIG), quindi, da una lettura semantica della norma, sembrerebbe che non siano oggetto della disposizione ne' i servizi di interesse economico generale (SIEG), ne' i servizi non economici di interesse generate (SNEIG). I SIG, in quanto portatori di interessi generali, si articolano tra competenze europee, nazionali e regionali. Al contrario, i servizi pubblici privi sia di interesse generate che di rilevanza economica, prestati da societa' controllate direttamente o indirettamente dalla regione, sono governati e gestiti, ai sensi dei commi 1, 4, 6 dell'art. 117 Cost. e degli artt. 118 e 119 Cost. L'assenza dell'interesse generate e della dimensione economica del servizio collocano tali societa' nell'alveo legislativo regionale, sia dal punto di vista organizzativo, che gestionale-finanziario. Il comma 1 dell'art. 4 lede altresi' il principio costituzionale di tutela della proprieta' pubblica di cui all'art. 42 Cost., laddove impone l'alienazione o in alternativa la liquidazione di societa' regionali, ed in senso piu' generale, il principio autonomistico di cui agli artt. 5 e 114 Cost. Altra norma che incide sulle prerogative regionali e' il comma 8 dell'art. 4, che dispone: «A decorrere dal 1° gennaio 2014 l'affidamento diretto puo' avvenire solo a favore di societa' a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house e a condizione che il valore economico del servizio o dei beni oggetto dell'affidamento sia complessivamente pari o inferiore a 200.000 euro annui. Sono fatti salvi gli affidamenti in essere fino alla scadenza naturale e comunque fino al 31 dicembre 2014». In effetti, la disciplina introdotta conferma, in parte, l'impianto dell'art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133 e successivamente abrogato tramite il referendum del 12-13 giugno 2011 coartando, in modo costituzionalmente illegittimo, il diritto dell'ente territoriale responsabile di erogare i proprio servizi e di gestire i propri beni a favore della propria comunita' e tradendo di fatto l'esito del suddetto referendum. Infatti, il suddetto comma 8 dell'art. 4, forzando la liberalizzazione delle attivita' inerenti a servizi pubblici locali di rilevanza economica, marginalizzando le ipotesi di affidamenti diretti a societa' di capitale pubblico ed escludendo le ipotesi di affidamenti diretti a soggetti di diritto pubblico (v. aziende speciali), detta una normativa del tutto difforme, nello spirito e nei contenuti, dalla volonta' popolare espressa a seguito della consultazione referendaria, nonche' dagli stessi principi costituzionali e comunitari. Detta una disciplina che reintroduce i limiti agli affidamenti diretti a s.p.a. pubbliche, escludendo totalmente gli affidamenti a soggetti di diritto pubblico, riproducendo i contenuti dell'art. 4 del decreto-legge n. 138 del 2011, norma annullata successivamente dalla sentenza n. 199 del 2012 della Corte costituzionale. I limiti posti alle procedure di affidamento diretto, di cui al comma 8 dell'art. 4 della L. n. 135 del 2012, si contrappongono inoltre alla sentenza n. 24 del 2011 della Corte costituzionale, laddove in maniera cristallina Codesta Corte evidenzia come il diritto comunitario ammetta pienamente il diritto di ogni amministrazione ad erogare direttamente i servizi pubblici autoproducendoli corrispondentemente alla propria missione (principio di neutralita' rispetto alle forme giuridiche di cui all'art. 345 TFUE). La marginalizzazione del ricorso agli affidamenti diretti alle societa' pubbliche in house costituisce un'ulteriore compressione dell'autonomia degli enti territoriali nell'individuazione dei modelli organizzativi piu' idonei per l'erogazione dei propri servizi, contraria oltre che alle disposizioni costituzionali sopra richiamate - e allo stesso art. 5 Cost. - finanche al diritto comunitario, che non fissa gli stessi severi limiti all'applicazione di modelli pubblici, in ossequio, come si e' visto, al principio di neutralita' di cui all'art. 345 TFUE. E' invece soltanto nel momento nel quale un'autorita' pubblica scelga di esternalizzare il servizio che il procedimento di affidamento deve rispettare i principi di non discriminazione, trasparenza, parita' di trattamento, libera circolazione di persone e imprese ed in particolare la disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici. Anche il suddetto comma 8 dell'art. 4, risulta, pertanto, lesivo delle competenze costituzionali delle regioni nelle materie dei servizi pubblici e dell'organizzazione degli enti locali, che si snodano nel rispetto del principio di leale collaborazione tra competenze comunitarie, statali e regionali (art. 117, comma 3). Peraltro, la Regione Puglia ha esercitato potesta' legislativa in tali ambiti, per esempio in materia di trasporto pubblico locale, con la legge regionale 31 ottobre 2002, n. 18, ed in materia di rifiuti urbani con la legge regionale del 31 dicembre 2009, n. 36, nonche' in materia di servizio idrico integrato con la l.r. 20 giugno 2011, n. 11. Di conseguenza, i commi 1 e 8 dell'art. 4 della l. n. 135 del 2012, incidendo in maniera consistente sulla sfera di competenza della Regione Puglia, sia sul piano patrimoniale-proprietario, che organizzativo-funzionale e gestionale, violano direttamente gli artt. 114, 117 e 118 Cost.; inoltre, tali disposizioni, entrando in conflitto con gli artt. 1, 5, 75 e 77 Cost., determinando una compressione dei suoi poteri. Compressione che contrasta altresi' con le disposizioni contenute negli artt. 41, 42 e 43 Cost., ancorche' diverse da quelle attributive di competenza legislativa, ma che tuttavia le Regioni possono nondimeno far valere «se tale contrasto si risolva in una esclusione o limitazione del potere regionali» (Corte cost. sent. 165/2007; ex multis cfr. anche Corte cost. sent. n. 50/2005, n. 32/1960, n. 961/1988). In tal senso, si pensi all'impatto che i commi 1 e 8 dell'art. 4 determinano sull'impianto della cosiddetta Costituzione economica (cfr. soprattutto 41, 42, 43 Cost.), in relazione ad una normativa che altera irrimediabilmente l'equilibrio tra proprieta' pubblica e proprieta' privata; tra impresa pubblica e privata, con un facilmente prevedibile deficit patrimoniale (si tratta di vere e proprie dismissioni), nonche' in termini di tutela dell'interesse generale e di tutela dei livelli occupazionali. Sussiste, quindi, la legittimazione ad agire nel giudizio di cui all'art. 127 Cost. Sull'illegittimita' del comma 1 dell'art. 4 della legge n. 135 del 2012 stabilisce che «Nei confronti delle societa' controllate direttamente o indirettamente delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2 del decreto legislativo n. 165 del 2001, che abbiano conseguito nell'anno 2011 un fatturato di prestazione di servizi a favore di pubbliche amministrazioni superiore al 90 per cento dell'intero fatturato, si procede, alternativamente: a) allo scioglimento...; b) all'alienazione...» Tale disposizione, cosi' come precisato nel successivo comma 3, non ha ad oggetto le societa' pubbliche che erogano servizi di interesse generale, ne' quelli aventi rilevanza economica. Quindi, in merito al regime delle competenze, si tratta di una materia che non ricade ne' nell'ambito delle competenze comunitarie, ne' nell'ambito di quelle statali (riservate e/o concorrenti). Si e' in presenza di una materia che rientra nelle competenze legislative di cui all'art. 117, comma 4 Cost., ovvero nelle competenze residuali delle regioni. Il titolo di legittimazione per gli interventi del legislatore statale, costituito dalla tutela della concorrenza, non e' applicabile a questo tipo di servizi, proprio perche in riferimento ad essi non esiste un mercato concorrenziale. Quindi la norma non ha ad oggetto i SIEG che, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. e) Cost. rientrano - seppur con una serie di distinguo - nella competenza legislativa esclusiva dello Stato: «tutela della concorrenza». La norma impugnata, attraverso la vendita o la liquidazione delle societa' pubbliche regionali, che non prestano attivita' di interesse generale e di rilevanza economica, determina una evidente lesione delle competenze regionali, con effetti invasivi concreti sulla sfera costituzionale. Come e' noto, nei casi di effetti invasivi concreti da parte di norme statali su competenze regionali, la Corte ha affermato che possa parlarsi di lesione delle prerogative (Corte Cost. n. 329 del 2003). Nel caso specifico si tratta di norme dall'alto impatto socio-economico che hanno quali effetti l'alienazione e/o la liquidazione di asset proprietari con ripercussioni altresi' sul piano occupazionale e sulla tutela del lavoro. Cosi', l'ordinamento autonomo regionale e' chiamato a modificarsi secondo gli enunciati principi (sic!) di messa in liquidazione e privatizzazione di societa' pubbliche, principi estranei alla «Costituzione economica» - basata su un perfetto equilibrio tra proprieta' pubblica e proprieta' privata, tra iniziativa economica dei privati ed utilita' sociale - in piena violazione dell'art. 114 co. 2 Cost. che pone quale limite ampio all'autonomia locale il rispetto dei «principi della Costituzione». Principi costituzionali che si articolano attraverso quel complesso normativo che contribuisce alla costruzione della struttura istituzionale e socio-economica del Paese e che, in questo senso, non puo' non comprendere anche la dinamica equilibrata tra proprieta' pubblica/proprieta' privata (art. 41 Cost.), a maggior ragione in ambiti estranei alle logiche del mercato e della concorrenza. A cio' si aggiunga che l'equiparazione delle Regione agli altri enti locali, dal punto di vista dello scioglimento e dell'alienazione, costituisce un'ulteriore forzatura dell'ordine costituzionale delle fonti. Infatti, a differenza di Provincie e Comuni, le Regioni, come e' noto, hanno potesta' legislativa autonoma garantita direttamente dalla Costituzione (art. 117, commi 2 e 3): non puo' esser quindi introdotto per legge ordinaria un nuovo sedicente principio di privatizzazione, idoneo a coartarne la sovranita' legislativa negli ambiti ad esse costituzionalmente riconosciuti. E' dunque evidente che il comma 1 dell'art. 4 della l. n. 135 del 2011, da una parte viola il regime delle competenze tra Stato e regione, legiferando in una materia di competenza legislativa regionale residuale, di cui all'art. 117, comma 4 Cost., dall'altra marginalizza la struttura profonda della Costituzione economica italiana, imponendo una scelta centralizzatrice e privatistica, lontana dagli equilibri costituzionali vigenti, ignorando l'architettura istituzionale decentrata descritta dal Titolo V della Carta. Infine, non si comprende per quail motivi - di manifesta illogicita' ed irragionevolezza - la potesta' regionale in tale materia venga «recuperata» come strumento reattivo e di contrapposizione ai processi di alienazione e di liquidazione. Ovvero, processi dall'alto impatto socio-econonnico, quali l'alienazione e la liquidazione delle societa' pubbliche regionali, sono governati e gestiti, come si e' detto, illegittimamente attraverso leggi dello Stato, ma irragionevolmente il comma 3 dell'art. 4 attribuisce alle regioni il potere di predisporre un'analisi del mercato e trasmettere una relazione contenente gli esiti della predetta verifica all'Autorita' garante della concorrenza e del mercato per l'acquisizione del parere vincolante, da rendere entro sessanta giorni dalla ricezione della relazione. In sostanza, la regione puo' decidere di predisporre tale analisi, in tempo utile per rispettare i termini di cui al comma 1, laddove ritenga che per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento non sia possibile per l'amministrazione pubblica controllante un efficace e utile ricorso al mercato. Si tratta di attribuzione alle regioni di un potere «debole», estraneo al reale governo e gestione dei processi societari, un potere che puo' essere sempre ed in ogni caso interdetto e svuotato di effettivita', laddove ad un organo dell'amministrazione centrale, ancorche' indipendente, quale e' l'Autorita' garante della concorrenza e del mercato, e' attribuito il potere vincolante di decidere se sussistano o meno le condizioni per non procedere allo scioglimento o all'alienazione delle societa'. Sull'illegittimita' del comma 8 dell'art. 4 della legge n. 135 del 2012: a) per effetto della centralizzazione del potere ai danni della Regione. Occorre chiarire in limine, nell'ambito di un ricorso di costituzionalita' diretto di una regione, necessariamente circoscritto dalla sua natura, che la «scelta» di un regime concorrenziale estremo, reiterata dal legislatore nazionale dopo il referendum abrogativo del 13 giugno, circoscrive coercitivamente l'ambito delle possibili scelte che le regioni possono porre in essere tanto in via di prerogative primarie quanto sussidiarie. Infatti, l'analisi della disciplina impugnata evidenzia come essa non possa essere unicamente ricondotta nella materia «tutela della concorrenza» - appartenendo quindi ad una delle competenze esclusive dello Stato - ma coinvolga necessariamente attribuzioni regionali, incidendo sulle sfere di competenza proprie degli enti locali. Il comma 8 dell'art. 4, limitando il potere delle regioni e degli enti locali all'affidamento diretto soltanto a favore di societa' a capitale interamente pubblico, a condizione che il valore economico del servizio dell'affidamento sia complessivamente pari o inferiore a 200.000 euro, viola da una parte l'ordinamento comunitario, laddove il legislatore statale pone regole piu' restrittive, dall'altra ripropone il contenuto di norme (comma 13 dell'art. 4 del decreto-legge n. 138 del 2011) dichiarate incostituzionali dalla Corte costituzionale con sentenza n. 199 del 2012. Come e' noto, dopo l'abrogazione, in via referendaria, dell'art. 23-bis del decreto c.d. Ronchi e prima dell'introduzione dell'art. 4 del decreto-legge n. 138 del 2011, successivamente dichiarato incostituzionale, le Regioni, e gli enti locali in generale, sono state nuovamente protagoniste attive del processo decisionale relativo alla gestione e all'affidamento dei servizi pubblici locali (SIEG). La Corte costituzionale con sentenza n. 199 del 2012, depositata il 20 luglio, pronunciandosi sui ricorsi presentati da diverse regioni, ha annullato l'art. 4 del decreto-legge n. 138 del 2011. Infatti, ad avviso del Giudice delle leggi, tale norma avrebbe riproposto svariate disposizioni dell'art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, in violazione del divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volonta' popolare, desumibile dall'art. 75 Cost. La motivazione risulta evidente nel passaggio della sentenza in cui si rileva che «a distanza a meno di un mese dalla pubblicazione del decreto dichiarativo dell'avvenuta abrogazione dell'art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, il Governo e' intervenuto nuovamente sulla materia con l'impugnato art. 4, il quale (...) detta una nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, che non e' solo contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, in quanto opera una drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti in house, al di la' di quanto prescritto dalla normativa comunitaria, ma e' anche letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate disposizioni dell'abrogato art. 23-bis e di molte disposizioni del regolamento attuativo del medesimo art. 23-bis nel d.p.r. n. 168 del 2010». Sebbene la ragione della dichiarata incostituzionalita' risieda nella violazione dell'art. 75 Cost., Codesta Corte non rinuncia, in un importante passaggio, ad esprimere una valutazione di merito sulla disciplina dell'in house providing, laddove sottolinea la «difformita'» dell'incisiva compressione di tale istituto «rispetto a quanto previsto dalla normativa comunitaria che consente, anche se non impone (sentenza n. 325 del 2010) , la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell'ente locale, allorquando l'applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la speciale missione dell'ente pubblico (art. 106 TFUE)». Il comma 8 dell'art. 4 della l. n. 135 del 2012 6 la fotocopia in peius, dell'art. 4, comma 13 del d.l. n. 138 del 2011, dichiarato incostituzionale con sentenza n. 199 della Corte costituzionale, per violazione del vincolo referendario, ma anche per aver introdotto, cosi' come l'abrogato art. 23-bis, elementi di «difformita'» della disciplina interna rispetto a quella comunitaria. La Corte, nel sottolineare tale difformita' rispetto al diritto comunitario, in particolare per quanto attiene alle disposizioni riproposte dal comma 8 dell'art. 4, adombra il principio che non sono ammesse ulteriori limitazioni alle ipotesi di affidamento in house del servizio, il quale, ricorda la Corte, e' consentito nell'ordinamento comunitario «alle sole condizioni del capitale totalmente pubblico della societa' affidataria, del cosiddetto controllo «analogo» (il controllo esercitato dall'aggiudicante sull'affidatario deve essere di «contenuto analogo» a quello esercitato dall'aggiudicante sui propri uffici) ed in fine dello svolgimento della parte piu' importante dell'attivita' dell'affidatario in favore dell'aggiudicante». Insomma, e' chiaro che ulteriori limiti, posti dal legislatore statale agli affidamenti diretti in house, sarebbero illegittimi ed in contrasto con il diritto comunitario. Del resto, e' stato evidenziato proprio di recente come la giurisprudenza in tema di autoproduzione di servizi da parte di enti pubblici indichi che detta scelta sia da considerarsi legittima in linea di principio, come manifestazione dell'autonomia organizzativa dell'ente, come applicazione del principio comunitario di libera definizione (si veda TPG, T-289/03, BUPA), e non come soluzione eccezionale di tipo sussidiario (M. Libertini, Le societa' di autoproduzione in mano pubblica, controllo analogo, destinazione prevalente dell'attivita' e autonomia statutaria, in Riv. Dir. soc., 2012, p. 206). Per i suddetti motivi, il comma 8 dell'art. 4 risulterebbe palesemente incostituzionale e la normativa applicabile immediatamente in tema di servizi pubblici locali, esclusa la reviviscenza delle norme abrogate, come affermato dalla Corte cost., con sentenza n. 24 del 2011 (in particolare art. 113 TUEL), gia' per effetto dell'art. 23-bis, oggetto dell'ultimo referendum popolare, risulta la normativa comunitaria relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l'affidamento della gestione di servizi pubblici locali di rilevanza economica. L'in house deve tornare ad essere soggetto alle regole definite dalla giurisprudenza comunitaria. Il comma 8 dell'art. 4 viola contestualmente il vincolo referendario, i contenuti della sentenza n. 199 del 2012 e l'ordinamento comunitario in tema di affidamento dei servizi pubblici. Infatti, in conformita' con quanto affermato da Codesta Corte, all'abrogazione referendaria dell'art. 23-bis e' conseguita l'applicazione immediata nell'ordinamento italiano della normativa comunitaria, non verificandosi alcun vuoto legislativo, ne' alcuna reviviscenza di disposizioni precedentemente abrogate dallo stesso art. 23-bis (cfr. sent. n. 24 del 26 gennaio 2011, punto 4.2.2.). I principi e le regole del diritto comunitario, cosi' come affermato dalla giurisprudenza costituzionale richiamata, possono applicarsi direttamente nel nostro ordinamento, anche in assenza di una disciplina nazionale di adeguamento. Tale normativa, riassuntivamente esposta, prevede quanto segue: 1) la gestione diretta del servizio di rilevanza economica, attraverso un affidatario, anche di diritto pubblico, che costituisce la longa manus di un ente pubblico che lo controlla totalmente (Corte cost. 325/2010, punti 6.1 e 8.1), e' ammessa qualora lo Stato nazionale ritenga di ostacolo alla «speciale missione» dell'ente pubblico i meccanismi della concorrenza e lo strumento dell'affidamento a terzi mediante una gara ad evidenza pubblica (art. 106, comma 2 TFUE); 2) la gestione c.d. in house e' subordinata al verificarsi di tre condizioni: capitale totalmente pubblico del gestore; possibilita' di esecuzione del controllo di c.d. «contenuto analogo» a quello esercitato dall'aggiudicante stesso sui propri uffici; svolgimento della parte principale dell'attivita' dell'affidatario in favore dell'aggiudicante. E' agevole notare the il diritto comunitario (id est il contesto normativo antecedente alla legge impugnata) relativo alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica conceda agli enti locali una maggiore liberta' nella definizione delle procedure di affidamento: sul piano sostanziale, la normativa comunitaria, ben prevedendo ipotesi alternative al ricorso alla regola della concorrenza, e' assai «meno restrittiva» di quella posta dall'art. 23-bis (come riconosciuto da Corte cost. n. 24/2011), dall'art. 4 del decreto-legge n. 138 del 2011 e, ora, di quella risultante dalla disposizione de quo, decisamente orientata verso forme di gestione privatistica dei servizi (al pari dell'abrogato art. 23-bis e dell'annullato art. 4 del d.l. n. 138 del 2012), al punto da contemplare modelli di affidamento diretto a soggetti di diritto pubblico (si pensi all'azienda speciale contemplata dall'ordinamento giuridico italiano). Pertanto, sussiste una chiara lesione dell'autonomia costituzionale della Regione, proprio in forza della descritta compressione dei poteri ad essa attribuiti dalla legge: il comma 8 dell'art. 4, infatti, riproponendo, in parte la disciplina abrogata dal referendum, in particolare per quanto attiene ai limiti agli affidamenti in house e ai limiti a ricorrere ad un soggetto di diritto pubblico, in contrasto altresi' con quanto ammesso dal diritto comunitario, e comprimendo in capo agli enti territoriali e locali il potere di scegliere i relativi modelli di gestione, anche per quanto attiene alla natura giuridica del soggetto, stravolge l'effetto abrogativo prodotto dall'esito referendario e della successiva sentenza della Corte costituzionale n. 199 del 2012, operando una centralizzazione del potere decisionale in materia di beni e servizi pubblici, incompatibile con gli assetti decentrati previsti at Titolo V della Costituzione di cui le Regioni sono i principali beneficiari. A fronte di tale cornice giuridica, i servizi pubblici locali non possono essere esclusivamente ricondotti all'art. 117 comma 2, lett. e) Cost.: oltre al profilo di tutela e promozione della concorrenza emerge una parte consistente della loro disciplina che e' necessariamente rimessa agli enti locali e che, prescindendo da valutazioni di mercato, coinvolge altresi' la competenza regionale (art. 117 commi 3 e 4). Il coinvolgimento delle regioni e degli enti locali, nel governo e nella gestione dei servizi pubblici locali, anche quelli a rilevanza economica (SIEG), trova conferma nella tradizione storica dei servizi pubblici locali, la cui disciplina ha sempre avuto un collegamento essenziale con le comunita' di riferimento, seppur all'interno di una cornice giuridica generale statale: non e' dunque pensabile, oltre ad essere concretamente impossibile, che il legislatore statale attui un'espropriazione delle funzioni in capo a regioni enti locali, in merito alle scelte e alle modalita' di gestione dei propri servizi. Del resto, quanto detto sinora, trova un autorevole precedente nella giurisprudenza di Codesta Corte ed in particolare nella sentenza n. 272 del 2004: l'estremo dettaglio della disciplina inerente l'affidamento dei servizi pubblici di rilevanza economica «va al di la' della pur doverosa tutela degli aspetti concorrenziali inerenti alla gara», la regolamentazione autoapplicativa «pone in essere una illegittima compressione dell'autonomia regionale, poiche' risulta ingiustificato e non proporzionato rispetto all'obiettivo della tutela della concorrenza l'intervento legislativo statale». Cosi', se e' vero che la mancanza di una precisa definizione dell'ambito di appartenenza dei servizi pubblici locali rende difficile la loro collocazione nelle sfere di competenza definite con l'art. 117 Cost., e' ancor piu' vero che inquadrarli unicamente negli schematismi della concorrenza rappresenta un'operazione priva di contatto con la realta'. Ed allora, il quesito che si discute in questa IIlustre Sede e' se sia legittimo che nella (e per la) concorrenza si confondano altri capisaldi del nostro diritto costituzionale e comunitario, quali appunto il pluralismo normativo ed istituzionale. E' di fatti indiscutibile che la previsione in sede statale di una regolamentazione contraria all'esito referendario, e alla recente giurisprudenza costituzionale (sent. n. 199 del 2012) che comprime intere disposizioni dei Trattati (ad es., l'art. 5 TUE, gli artt. 14 e 106 co. 2 TFUE, ma anche l'art. 36 Carta europea dei diritti fondamentali), altera i delicati rapporti tra principi e deroghe in esse stabiliti, oltre che il principio di sussidiarieta' di cui all'art. 118 Costituzione, imponendo un monismo istituzionale e normativo in capo allo Stato che si pone in radicale contrasto con quel pluralismo delle fonti che caratterizza l'esperienza europea contemporanea e che vede come protagonisti irrinunciabili anche le regioni. Insomma, l'art. 4 della l. n. 135 del 2012, segnatamente nei commi 1 e 8, costituisce un tentativo di restaurazione del monismo giuridico statalista che non 6 piü compatibile con l'ordine costituzionale vigente, espressione di una dialettica complessa e continua fra Costituzione, Trattati Europei obblighi internazionali e competenze riservate a regioni ed enti locali. Si prenda ad esempio il comma 8 dell'art. 4 della l. n. 135 del 2012, che sostanzialmente riproduce l'annullato comma 13 dell'art. 4 del decreto-legge n. 138 del 2011 che, limitando le ipotesi di affidamento diretto in house senza gara al di sotto di 200.000 euro alle sole societa' a capitale interamente pubblico, vulnera i principi di autodeterminazione degli enti locali (artt. 5, 114, 117, 118 Cost.), nonche' il principio comunitario di neutralita' rispetto agli assetti proprietari delle imprese e alle relative forme giuridiche ex art. 345 TFUE, oltre che, in generale, quello della cd. preemption, in base al quale la regolamentazione a livello UE ha l'effetto di precludere l'adozione a livello nazionale di discipline divergenti (cfr. CGCE, causa C-478/07, conclusioni dell'Avvocato Generale Ruiz-jarabo Colomer). In tal modo, in capo agli enti territoriali e locali, gia' indeboliti da politiche economiche, assai recessive rispetto ai trasferimenti, residuano spazi ridotti (per non dire inesistenti) in merito alla determinazione delle proprie politiche in materia di servizi pubblici locali, relativamente sia alla definizione della natura dei servizi sia alla scelta della forma giuridica da adottare per organizzare ed erogare tali servizi. (Segue): b) per effetto della violazione del vincolo referendario. I tratti di incostituzionalita' denunciati nel precedente paragrafo che, violando il pluralismo istituzionale e normativo danneggiano le Regioni, non possono essere colti in tutta la propria gravita' sostanziale se non anche in rapporto alla vicenda referendaria dello scorso giugno 2011. Infatti, prima del referendum, Codesta Corte aveva respinto il ricorso di diverse Regioni (fra cui l'esponente Puglia) avverso l'art. 23-bis (successivamente abrogato da voto referendario) ammettendone l'astratta costituzionalita' rispetto ad un ricorso diretto. La ricorrente Regione Puglia ha ben dimostrato che proprio dopo tale voto referendario il contesto sia cambiato e che le lesioni apportate ai suoi danni e l'espropriazione di potesta' costituzionali siano illegittime non solo per il loro contenuto, ma anche per lo strumentario giuridico con cui sono state perpetrate. Come si dira' di seguito, la norma che non soltanto, in parte, ripristini una disciplina abrogata in via referendaria, ma che in sostanza disattenda quanto affermato da Codesta Corte (sent. n. 199 del 2012) e' evidentemente incostituzionale nella forma, in quanto lesiva della volonta' popolare espressa ex art 75 Cost. Per questo motivo, il comma 8 dell'art. 4 della legge n. 135 del 2012, e' inadatto a produrre effetti sostanziali costituzionalmente ammissibili e a limitare le prerogative e le competenze di regioni ed enti locali. Codesta Corte ha stabilito in varie pronunce il «divieto di formale o sostanziale ripristino della normativa abrogata dalla volonta' popolare» (Corte cost. n. 9 del 1997, n. 199 del 2012). Invero, il legislatore «pur dopo l'accoglimento della proposta referendaria, conserva il potere d'intervenire nella materia oggetto di referendum senza limiti particolari che non siano quelli connessi al divieto di far rivivere la normativa abrogata» (Corte cost. n. 32/1993 , n. 33/1993, n. 199 del 2012). Insomma, «il referendum manifesta una volonta' definitiva e irripetibile», di guisa che la caducazione di una norma non puo' «consentire al legislatore la scelta politica di far rivivere la normativa ivi contenuta a titolo transitorio» (Corte cost. n. 468/1990, lungo il solco tracciato con la celebre sentenza n. 68/1978, con cui fu dichiarato illegittimo l'art. 39 della legge n. 352 del 1970 «limitatamente alla parte in cui non prevede che se l'abrogazione degli atti o delle singole disposizioni cui si riferisce il referendum venga accompagnata da altra disciplina della stessa materia, senza modificare ne' i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente ne' i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, il referendum si effettui sulle nuove disposizioni legislative»). Orbene, nel caso di specie, e' evidente che il legislatore abbia in parte ripristinato la normativa abrogata dal referendum (art. 23-bis) e poi annullata dalla Corte (art. 4 del decreto-legge n. 138 del 2011), introducendo una disciplina che riproduce i principi ispiratori (privatizzazione dei servizi pubblici locali e scelta politica pro-concorrenza) piu' restrittivi rispetto a quelli dello stesso dritto comunitario. Come si e' detto, il comma 8 dell'art. 4, in tema di affidamenti diretti in house providing, riproduce i contenuti di cui al comma 13 dell'art. 4 del decreto-legge n. 138 del 2011, dichiarato incostituzionale anche per violazione di vincolo referendario. Pertanto, in considerazioni delle suddette argomentazioni, anche il comma 8 dell'art. 4 va ritenuto lesivo della volonta' referendaria (violazione del vincolo referendario), oltre che in contrasto con il diritto comunitario che disciplina la materia degli affidamenti diretti in house. In particolare il comma 8 dell'art. 4 contiene norme interne illegittimamente ed irragionevolmente piu' stringenti del diritto comunitario che hanno quali conseguenze: la violazione del principio di neutralita' rispetto agli assetti proprietari, la violazione del principio di sussidiarieta' verticale, la violazione del principio della «libera definizione» che attribuisce alla regione ed agli enti locali il potere di qualificare la natura del servizio e la relativa modalita' di gestione da cui si evince la natura e la qualificazione del servizio, l'esclusione dall'affidamento diretto del servizio a soggetti di diritto pubblico). La ratio dell'art. 23-bis, identificabile del favor verso lo strumento della gara per l'affidamento dei servizi pubblici locali e nei limiti posti all'affidamento in house e le relative modalita' di applicazione, cosi' come sopra sinteticamente elencate, rappresentano quella «intenzione del legislatore» che un intervento normativo successivo all'abrogazione in via referendaria non puo' riprodurre. Una «intenzione del legislatore» sostanzialmente ripresa nel comma 8 dell'art. 4 della l. n. 135 del 2012, laddove si consente che l'affidamento diretto del servizio possa avvenire soltanto a favore di societa' a capitale interamente pubblico... a condizione che il valore economico del servizio... oggetto dell'affidamento sia complessivamente pari o inferiore a 200.000 euro annui...» La norma interviene restrittivamente sulla qualificazione della natura giuridica del soggetto affidatario e sulle modalita' di affidamento. Oltre alla riproduzione della ratio e del contenuto, una lettura sovrapposta consente di rilevare altresi' una vera e propria identita' linguistica tra le due disposizioni (comma 13 art. 4 decreto-legge n. 138 del 2011 e comma 8 art. 4 della l. n. 135 del 2012). Questo quadro rende percio' evidente che il legislatore abbia ripristinato sostanzialmente non solo la disciplina abrogata in via referendaria, ma altresi' la sentenza di Codesta Corte n. 199 del 2012, disattendendo contestualmente la volonta' popolare, il quadro normativo comunitario e la recente giurisprudenza della Corte costituzionale. Il legislatore ha ancora una volta violeto il vincolo referendario, ricorrendo nuovamente per l'affidamento diretto dei servizi pubblici locali ad un'interpretazione estrema delle regole del mercato e della concorrenza, ignorando peraltro le indicazioni emerse della sentenza n. 325 del 2010 di codesta Corte, che aveva chiarito come l'art. 23-bis rappresentasse soltanto «una delle diverse discipline possibili della materia che il legislatore avrebbe potuto legittimamente adottare senza violare il diritto comunitario». Orbene, e' chiaro che quell'opzione politica concretantesi in una delle diverse discipline possibili a livello europeo, ancorche' aperta nel 2010 (ai tempi della sentenza n. 325) non lo e' piu' dopo il referendum del 13 giugno 2011 perche' il popolo italiano si e' orientato nel senso di escluderne la possibilita'. Come detto chiaramente da Codesta Corte a seguito dell'abrogazione referendaria di quella disciplina (art. 23-bis) risulta oggi direttamente applicabile in Italia il diritto comunitario che, oltre ad essere da sempre «neutrale» circa il quantum di proprieta' pubblica o private presente in ciascuno Stato membro (art. 345 TFUE), riequilibra con il Trattato di Lisbona il c.d. modello socio-economico europeo, riconoscendo un fondamentale collegamento tra beni, servizi, cittadinanza europea e tutela dei diritti fondamentali, contribuendo a configurare le linee generali del c.d. diritto pubblico europeo dell'economia. L'illegittimita' rileva, pertanto, sia dal punto di vista della forma tecnico-normativa, relativamente al regime giuridico vigente in seguito all'approvazione del referendum ed alla sentenza di Codesta Corte n. 199 del 2012, sia dal punto di vista sostanziale, relativamente alle opzioni individuate nel comma 8 dell'art. 4 della l. n. 135 del 2012. E' stato illustrato come i principi e le regole del diritto comunitario, cosi' come affermati dalla giurisprudenza costituzionale richiamata, possano applicarsi direttamente nel nostro ordinamento, anche in assenza di una disciplina nazionale di adeguamento. In una prospettiva di legittimita', anche legata al fraseggio dell'art. 77 Cost., risulta percio' difficile scorgere le ragioni di «straordinaria necessita' ed urgenza» per le quali adottare una disciplina interna che contrasta con la normativa europea, e che sembrerebbe soltanto ispirata ai principi della svendita del patrimonio pubblico ed orientata al c.d. super principio delle privatizzazioni e della concorrenza, estraneo alla Costituzione italiana. Un intervento legislativo statale in conseguenza del prodursi dell'effetto abrogativo e della giurisprudenza di Codesta Corte, sarebbe dovuto essere di razionale sistemazione di una materia, quella del rapporto fra pubblico e privato nella gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, in armonia con l'attuale forma di Stato e con il dettato degli artt. 41, 42, 43 della Costituzione. Lungi dal poter essere portato avanti con urgenza (art. 77 Cost.) e senza dibattito parlamentare, un tale intervento di adeguamento alla volonta' popolare avrebbe semmai dovuto svolgersi nelle forme e nei modi meditati di un intervento strutturale di riforma, capace di cogliere appieno le novita' politiche ed istituzionali introdotte dal referendum e tradurle in un quadro articolato di principi e regole coerenti con gli assetti decentrati introdotti dalla Costituzione italiana e con il pieno rispetto sia della volonta' del suo popolo, che attraverso il referendum ha esercitato la sua sovranita' «nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1), che delle recenti decisioni di Codesta Corte costituzionale.