LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento conseguente all'impugnazione proposta da Erbacci Massimo, nato a Savignano sul Rubicone il 18 maggio 1959, avverso la sentenza del pretore di Forli' in data 30 dicembre 1999, n. 1258. Motivazione Imputato di tre reati, Erbacci Massimo e' stato giudicato dal pretore di Forli' il 30 dicembre 1999. Con la sentenza in tale data il pretore ha assolto l'imputato da due reati e l'ha condannato per il terzo, riqualificando come minaccia il fatto gia' rubricato come violenza privata ed applicando la pena di lire 100.000 di multa. Ha condannato, inoltre, l'Erbacci a risarcire alla parte civile, Ricci Andrea, il danno, la cui liquidazione ha rimesso al giudice civile. Ha condannato, infine, il medesimo Erbacci a pagare una provvisionale alla parte civile ed a rifondere a questa le spese del giudizio. L'imputato ha impugnato la sentenza, chiedendo di essere assolto dal reato di minaccia ed ha chiesto in subordine, in caso di conferma della condanna, l'applicazione di una pena minore e la riduzione della provvisionale assegnata alla parte civile. L'imputato ha denominato appello la sua impugnazione e dalla cancelleria del giudice di primo grado gli atti sono stati trasmessi a questa corte d'appello. All'udienza del 9 gennaio 2001, alla quale e' stato fissato il dibattimento di secondo grado, il pubblico ministero ha chiesto a questa corte di dichiarare inammissibile l'appello, in quanto proposto avverso una sentenza di condanna relativa ad un reato per il quale e' stata applicata la sola pena pecuniaria. Il pubblico ministero ha indicato il fondamento normativo della sua richiesta nel terzo comma dell'art. 593 c.p.p., come sostituito dall'art. 18 della legge 24 novembre 1999, n. 468. Va ricordato, per quanto qui ora interessa, che la predetta norma, che ha una seconda parte, della quale si dira' in seguito, relativa all'inappellabilita' di talune sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere, nella precedente formulazione della sua prima parte disponeva l'inappellabilita' delle sentenze di condanna relative a contravvenzioni, per le quali fosse stata applicata la sola pena dell'ammenda. Nella formulazione novellata essa prevede l'inappellabilita' delle sentenze relative a reati per i quali sia stata applicata la sola pena pecuniaria. L'inappellabilita' e' stata estesa, dunque, alle sentenze di condanna relative a delitti per i quali sia stata applicata la sola multa. La nuova norma, poiche' la legge n. 468 del 1999 e' stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 15 dicembre 1999, e' entrata in vigore il 30 dicembre 1999, proprio il giorno in cui e' stata emessa la sentenza a carico dell'Erbacci. Tale sentenza e' stata, comunque, pronunciata nella vigenza della norma novellata e siccome infligge all'imputato la pena della sola multa, e' tra quelle soggette al ricorso per cassazione, ma non all'appello. A norma dell'ultimo comma dell'art. 568 c.p.p., questa corte, quale giudice incompetente a trattare il processo a seguito dell'impugnazione proposta, dovrebbe disporre la trasmissione degli atti alla Corte di cassazione. Questa, esaminata l'impugnazione, potrebbe, tuttavia, dichiararla inammissibile, a norma dell'art. 606 c.p.p., anche quale ricorso, riscontrando in essa solo motivi non consentiti in relazione allo specifico mezzo. L'impugnazione proposta dall'Erbacci, fondata essenzialmente sull'assunto di avere agito per legittima difesa a seguito di un comportamento aggressivo del Ricci, pare contenere, invero, solo motivi di merito, cioe' non rientranti fra quelli previsti dal menzionato art. 606. A causa di cio' sono ovvie le sfavorevoli prospettive davanti alla Corte di cassazione, indipendentemente dall'eventuale buon fondamento dei motivi di merito, deducibili con l'appello, ma non con il ricorso. Va rilevato che l'impugnazione proposta dall'Erbacci associa domande di natura penale e domande relative agli interessi civili. L'assoluzione richiesta riguarderebbe, infatti, sia l'imputazione penale sia la domanda della parte civile di risarcimento del danno e di rifusione delle spese del giudizio. In ogni caso, va tenuto presente che in subordine l'imputato ha chiesto una riduzione della provvisionale assegnata alla parte civile. Quanto ora detto circa la duplice natura dell'impugnazione proposta dall'Erbacci si pone sulla linea dell'esplicito disposto del quarto comma dell'art. 574 c.p.p., per il quale, appunto, l'impugnazione dell'imputato contro la pronuncia di condanna penale estende i suoi effetti alla pronuncia di condanna al risarcimento dei danni ed alla rifusione delle spese processuali, se questa pronuncia dipende dal capo o dal punto impugnato. Nel caso in esame il rapporto di dipendenza, richiesto dalla norma, risulta evidente: l'assoluzione dal reato di minaccia escluderebbe la condanna al risarcimento del danno ed alla rifusione delle spese alla parte civile (artt. 538 e 541 c.p.p.). Il menzionato art. 574, che regola nei primi due commi, affermandola, la facolta' dell'imputato di proporre impugnazioni per gli interessi civili, dispone al terzo comma che l'impugnazione e' proposta col mezzo previsto per le disposizioni penali della sentenza. Da questa disposizione deriva che la possibilita' per l'imputato di proporre l'appello per gli interessi civili e' esclusa, se dalla legge l'appello e' escluso con riferimento alle disposizioni penali della sentenza da impugnare, dato che la disposizione stessa, secondo la sua formulazione, trova il suo completamento nel terzo comma dell'art. 593, col quale forma un combinato disposto, per cui, appunto, l'imputato non puo' proporre appello per gli interessi civili se le statuizioni penali, per lui di condanna, hanno comportato l'applicazione di una pena solo pecuniaria. Ne deriva che all'imputato la possibilita' di ottenere in tema di interessi civili un secondo giudizio anche di merito, quale si ha a seguito dell'appello, e' preclusa non in considerazione della natura del fatto illecito attribuitogli ne' in base all'entita' del danno, che l'illecito stesso avrebbe prodotto, ma e' preclusa, salvo i casi di reati puniti con la sola pena pecuniaria, per i quali la preclusione deriva dalla previsione edittale, dal tipo di pena scelta in concreto dal giudice, nel pronunciare condanna . In pratica, e' l'esercizio del potere discrezionale nell'applicazione della pena da parte del giudice di primo grado che determina il corso ulteriore del processo, tanto per la materia penale quanto per quella civile, ove oggetto di esso sia un reato dal quale possa derivare l'applicazione di una pena detentiva o di una pecuniaria. Attraverso l'esercizio del suo potere discrezionale in tema di pena il giudice stabilisce implicitamente se la sua sentenza sia suscettibile di un riesame anche nel merito in grado di appello o se sia suscettibile solo del controllo, limitato alla legittimita', ottenibile col ricorso per cassazione. La determinazione ad opera del primo giudice, attraverso la scelta della pena, del tipo di impugnazione proponibile contro la sua sentenza si avra' non solo nel caso di fattispecie di reato per le quali sia prevista alternativamente la pena detentiva o quella pecuniaria, come per il reato di percosse (art. 581 c.p.), per quello di lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) o per quelli di ingiuria e di diffamazione (artt. 594 e 595 c.p., ma si avra' anche nel caso di fattispecie nelle quali l'ipotesi base del reato sia punita con la pena pecuniaria mentre le ipotesi aggravate siano punite con la pena detentiva . Fra queste ultime fattispecie rientra il reato di minaccia, di cui il pretore ha giudicato colpevole l'Erbacci, che nell'ipotesi base, prevista dal primo comma dell'art. 612 c.p., e' punito con la sola multa e nell'ipotesi aggravata prevista dal secondo comma dello stesso articolo e' punito con la sola reclusione (il pretore ha ritenuto sussistente l'ipotesi aggravata commessa con arma, prevista dal predetto secondo comma, ma ha concesso le attenuanti generiche, ha valutato queste equivalenti all'aggravante ed ha applicato in concreto all'imputato la sola multa, prevista dal predetto primo comma). Si puo' osservare che il regime delle impugnazioni, differenziato per effetto della specie di pena inflitta, quale risulta dal terzo comma dell'art. 593 c.p.p., proietta un'ombra, che contraddice l'apparente favore per l'imputato, sul motivo per il quale il giudice scelga la pena pecuniaria quando potrebbe infliggere quella detentiva. Tale ombra si riconnette all'interesse, attribuibile al giudice stesso, di sottrarre la propria sentenza al riesame, potenzialmente illimitato, ottenibile attraverso l'appello. Ad ogni modo, appare come singolare anomalia, nell'ambito dell'ordinamento processuale, che sia un elemento accessorio e quantitativo, determinato dall'esercizio di un'ampia discrezionalita' del giudice, e non il tipo di giudizio (assoluzione o condanna a determinare i rimedi esperibili dalle parti. Ma va rilevato, soprattutto, che il terzo comma dell'art. 593 c.p.p. contiene una norma che contrasta con la scelta generale del processo con due gradi di merito, che caratterizza sia il settore penale che quello civile della giurisdizione. La norma, inoltre, non pare abbia altro fine che una modesta economia processuale, modesta perche' relativamente scarso e' gia' in primo grado il numero dei processi aventi ad oggetto reati in concreto punibili con la sola pena pecuniaria ed ancora piu' scarso e', ovviamente, il numero di quei processi che puo' avere seguito in appello. In un sistema che continua ad avere come regola il doppio giudizio di merito e che si conforma in cio' alla tradizione ed ai fattori di razionalita' ed esperienza, che l'hanno determinata, l'inappellabilita' delle sentenze individuate dal terzo comma dell'art. 593 appare il frutto di una scelta di compromesso che sacrifica, nei casi di reati di minore rilievo, l'interesse pubblico e dei singoli a decisioni giuste . Quel compromesso ha un aspetto negativo nel rischio, gia' detto, che il giudice scelga la pena minore per sottrarre la propria sentenza all'appello. Ma esso manifesta il suo difetto, come si dovra' considerare piu' dettagliatamente in seguito, soprattutto quando pare che tra gli effetti del reato tenga in conto solo la pena per valutare l'entita' degli interessi sacrificati con la preclusione dell'appello. Ci si tratterra', ancora non a lungo, sulle implicazioni normative piu' strettamente attinenti agli aspetti processuali penalistici. La Corte di cassazione, chiamata a delibare, in relazione alla disparita' di trattamento, la costituzionalita' del terzo comma dell'art. 593 del c.p.p. nella sua originaria formulazione escludente l'appello avverso sentenze di condanna relative a contravvenzioni ed applicative solo dell'ammenda, ha giudicato manifestamente infondata la questione, perche' l'istituto dell'appello non e' oggetto di previsione costituzionale, a differenza del ricorso per cassazione, e perche' il regime restrittivo, stabilito dalla predetta norma, sarebbe giustificato dalla diversa valutazione giudiziaria della gravita' del reato (Cass. pen. III, 8 aprile 1993, n. 3433, Mosca). In altra decisione, pure affermante la manifesta infondatezza della stessa questione, la Corte suprema ha ritenuto che e' perfettamente conforme alla Carta fondamentale ancorare l'appellabilita' o meno delle sentenze non alla gravita' tipica, ma alla gravita' concreta del reato, la quale non puo' essere accertata che dal giudice attraverso la determinazione della pena (Cass. pen. III, 6 maggio 1993, n. 4621, Serra). Si puo' osservare che il principio di ragionevolezza, desunto dall'art. 3 della Costituzione, non tanto viene in questione quando casi identici siano trattati in modo diverso, giacche' ogni caso singolo ha elementi che esclusivamente lo individuano, bensi' quando il diverso trattamento sia ancorato ad elementi marginali o secondari di diversita' mentre esistono elementi uguali di primario rilievo, in relazione ai quali il trattamento differenziato si manifesta discriminatorio. Del resto, il predetto articolo, quando espressamente menziona alcuni fattori che non devono essere motivo di disparita' di condizione giuridica, non fa che valutare irrilevanti le differenze, riferibili a quei fattori, rispetto a cio' che deve rendere uguali tutti i cittadini di fronte alla legge. La Corte di cassazione nelle sue citate decisioni indica con facilita', perche' esso e indicato gia' dalla norma, l'elemento della minore gravita' in concreto dei reati giudicati come caratteristico delle sentenze, contro le quali non e' ammesso l'appello, ma la stessa Corte non si trattiene ad esaminare l'aspetto della questione, che pare essenziale, cioe' se quell'elemento abbia carattere tale da giustificare la diversita' di trattamento (su cio' l'assunto affermativo resta apodittico). L'appello con il suo carattere di secondo giudizio anche di merito, finche' continuera' ad essere consentito di regola nei processi penali e civili, dovra' essere considerato strumento recepito nell'ordinamento come idoneo a realizzare il fine primario della giustezza delle sentenze, anche perche', con la prospettiva del successivo controllo, disincentiva nei giudici gli effetti di eventuali fattori di parzialita'. Resta, quindi, quantomeno da stabilire se il minore rilievo della pena, o del reato valutato in relazione alla concreta applicazione di essa, sia elemento tale da giustificare, in relazione al principio di ragionevolezza, la previsione normativa di un corso del processo con possibilita' piu' limitate, perche' l'appello non e' consentito, di approdo alla giustezza della decisione di quanto avvenga di regola. Il fatto che l'appello non sia oggetto di previsione costituzionale come il ricorso per cassazione non pare basti ad esentare da ogni censura di costituzionalita' ogni criterio, per quanto estemporaneo, in base al quale la legge escluda l'appellabilita' di certe sentenze, mentre continua a consentire l'appello come ordinario mezzo di impugnazione di esse. Deve, poi, ammettersi che in certi casi l'applicazione della pena pecuniaria, invece di quella detentiva, possa derivare da errate valutazioni anche di merito del giudice e che la decisione sia, quindi, bisognevole di emenda. In tali casi la previsione di inappellabilita' e la connessa impossibilita' di riesame del merito farebbero si' che proprio l'errata decisione sarebbe causa della propria inemendabilita'. Anche questo pare considerabile ai fini della valutazione di ragionevolezza del regime differenziato delle impugnazioni, di cui si tratta. Da cio' si puo' trarre spunto per notare, inoltre, come la Cassazione, nella sua decisione del 6 maggio 1993 ritenga che il principio di legalita' penale di cui all'art. 25 della Costituzione (...) non impedisce evidentemente la scelta giurisprudenziale della pena fra quelle previste alternativamente dalla legge, ne' impedisce che attraverso questa scelta si determini l'appellabilita' o meno della sentenza. Per la Cassazione e' chiaro, dunque, che e' la scelta della pena da parte del giudice a determinare, nell'ambito del congegno del terzo comma dell'art. 593, l'appellabilita' o meno della sentenza. La suprema Corte non considera, pero', quello che necessariamente discende da cio' che le risulta chiaro, cioe' che l'effetto della scelta della pena sull'appellabilita' della sentenza puo' condizionare il giudice nella scelta stessa. Questo, che nel 1993 avrebbe potuto forse piu' mediatamente assumere rilievo nella valutazione della costituzionalita' della norma, assume ora un diretto rilievo in relazione al nuovo testo dell'art. 111 della Costituzione, che al secondo comma dispone che ogni processo si svolge davanti ad un giudice terzo ed imparziale. Con questa disposizione viene a confliggere ogni norma, che ponga le premesse per cui il giudice risulti anche solo potenziale portatore di un interesse proprio nel processo. Le precedenti considerazioni delineano il quadro di riferimento e rendono piu' chiari i termini della piu' specifica questione di costituzionalita', che questa corte ritiene non manifestamente infondata, questione che si ricollega al gia' sottolineato duplice oggetto dell'impugnazione proposta dall'Erbacci. Si e' detto che la sentenza di primo grado ha pronunciato anche la condanna dell'Erbacci al risarcimento del danno ed alla rifusione della spesa del giudizio alla parte civile, alla quale ha assegnato una provvisionale. Si e' detto che l'impugnazione dell'Erbacci investe sia la condanna penale sia la dipendente condanna relativa agli interessi patrimoniali. Per quanto diretta ad ottenere il rigetto della domanda di risarcimento e di rifusione delle spese, proposta dalla parte civile, l'impugnazione dell'Erbacci e', secondo l'intitolazione dell'art. 574 del c.p.p., impugnazione dell'imputato per gli interessi civili. Si e' visto che per il disposto del terzo comma del predetto articolo tale impugnazione puo' essere proposta con il mezzo previsto per le disposizioni penali della sentenza e si e' visto che la sentenza contro l'Erbacci, a norma del terzo comma dell'art. 593 c.p.p., e' inappellabile in relazione alle statuizioni penali e risulta, di conseguenza, inappellabile anche per gli interessi civili. E' bene rendere esplicito che la sentenza in questione, come per l'imputato, e' inappellabile anche per il pubblico ministero nonche' per la parte civile, le cui impugnazioni, regolate dall'art. 576 c.p.p., sono le stesse esperibili contro la sentenza dal pubblico ministero. Emerge che il codice di procedura penale, che in generale tende a consentire a tutte le parti, che contendono di interessi civili nel processo penale, ampia facolta' di impugnare le statuizioni civili, che eventualmente accompagnino nelle sentenze quelle penali, tanto che in esso trova collocazione una norma, quella del primo comma dell'art. 573, secondo la quale in fase di impugnazione la forma del processo penale serve per la trattazione anche di controversie esclusivamente civilistiche (l'impugnazione per i soli interessi civili e' proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale), quel codice - si diceva - prevede una limitazione dell'impugnabilita' delle statuizioni civili proprio attraverso quel collegamento normativo, per cui tanto la parte civile quanto l'imputato, per impugnare capi della sentenza solo civilistici, possono esperire non altro che i mezzi consentiti in relazione alle statuizioni penali. Cosi', la scelta del giudice relativa alla specie di pena da applicare in concreto all'imputato non solo determina l'appellabilita' o meno dei capi penali della sentenza ma anche l'appellabilita' o meno dei capi di esclusivo rilievo civilistico di essa. Si puo' accreditare, in ipotesi, il punto di vista, espresso nelle decisioni della Cassazione, prima richiamate, secondo il quale il minore rilievo del fatto penale, quale risulta non dal dato normativo ma dalla valutazione espressa dal giudice attraverso la scelta della pena, puo' dare non irragionevole fondamento all'oggettiva disparita' di trattamento derivante dalla previsione di inappellabilita' di certe sentenze, ma non si puo' omettere di osservare, allora, che quel minore rilievo attiene ad un aspetto solo penalistico, che sotto nessun riguardo puo' fare considerare affievolito e sacrificabile l'interesse pubblico e dei privati, per la giustezza della decisione, al doppio grado di merito in tema di interessi civili. Il terzo comma dell'art. 593 contiene una previsione di inappellabita' di statuizioni penali ma, attraverso i richiami che ne fanno altre norme, esso finisce per stabilire il criterio di inappellabilita' di una serie di statuizioni che non riguardano il reato o che non riguardano le due parti essenziali del processo penale. Si consideri l'art. 575 c.p.p. e si consideri che esso, per il collegamento che ha col terzo comma dell'art. 593 attraverso il terzo comma dell'art. 574, a chi sia stato ritenuto dal primo giudice responsabile civile, oltre che a chi sia stato ritenuto civilmente obbligato per la pena pecuniaria, preclude la deducibilita' attraverso l'appello di motivi di merito relativi all'errata decisione di detto giudice. Anche con riferimento a cio' in precedenza si e' detto del difetto manifestato dall'art. 593 col considerare solo la pena per valutare l'entita' degli interessi sacrificati con la preclusione dell'appello. Chi si trova a partecipare al processo penale, perche' citato dalla parte civile quale responsabile civile, e tale ritenuto dal giudice e come tale condannato al pagamento eventualmente anche di ingenti somme, si vede precluso un secondo grado di merito, nel quale vorrebbe far valere che non ha la qualita' di responsabile, che gli e' stata attribuita, esclusivamente perche' l'imputato invece di essere stato condannato a pochi giorni di pena detentiva, magari sostituita con la pena pecuniaria di specie corrispondente, e' stato condannato solo a pena pecuniaria. A questa corte pare troppo evidente, cosicche' sull'argomento si puo' non aggiungere altro, che il trattamento discriminatorio, in ordine alla sua difesa, che il preteso responsabile civile deve subire, per quell'esile, eppure determinante, collegamento che ha con il tipo di pena inflitta all'imputato, e del tutto irragionevole. Ma il caso estremo del trattamento del responsabile civile e' solo poco dissimile da quello del trattamento della parte civile e dell'imputato relativo alla preclusione dell'appello a tutela di interessi solo civili. Certo, non e' che al minore rilievo del fatto penale corrisponda, neppure di regola, una minore dannosita' patrimoniale e morale del fatto stesso. Si consideri anche solo il caso delle lesioni personali colpose, che possono essere connotate da un lieve grado della colpa e possono essere commesse da persona esente da qualsiasi connotazione delinquenziale. Per quel reato in concreto puo' ben risultare adeguata la sola multa, consentita dalla previsione normativa, almeno per effetto del giudizio di valenza tra gli opposti elementi circostanziali . Evento del reato di lesioni personali colpose possono essere, pero', menomazioni che riducono una o piu' persone ad una vita meramente vegetativa. In casi del genere il danno civilistico e' tra i maggiori che si possano ipotizzare come derivanti da un reato. Di conseguenza, il processo penale, nel quale si inserisce a seguito della costituzione di parte civile un giudizio civile, seppure risulti per l'imputato non grave in relazione alla prospettiva della sanzione penale, puo' risultare enormemente grave negli effetti patrimoniali per lui nonche' per altri, come il responsabile civile, che col reato e col magistero punitivo hanno rapporto solo indiretto ed occasionale. Ora, pero', va individuato un caso particolare, del quale quello dell'Erbacci e' un esempio concreto, nel quale il combinato disposto del terzo comma dell'art. 574 e del terzo comma dell'art. 593 riesce a creare un trattamento dell'imputato rispetto agli interessi civili immotivatamente differenziato e discriminatorio in confronto del trattamento della parte civile. E' il caso in cui il reato non e' edittalmente punito con la sola pena pecuniaria ma e edittalmente punito con pena pecuniaria nell'ipotesi base e con la pena detentiva nelle ipotesi aggravate. In tali casi, in relazione al medesimo reato, se la sentenza e' di condanna con applicazione della sola pena pecuniaria, essa risulta inappellabile per gli interessi civili sia per l'imputato che per la parte civile e per le altre parti eventuali, mentre se la sentenza e' di proscioglimento o di non luogo a procedere, essa e' appellabile dalla parte civile nel caso in cui all'imputato sia stata contestata un'ipotesi aggravata del reato punita con la pena detentiva. Questa disparita' di trattamento si pone anche tra imputato e pubblico ministero ai fini dell'impugnabilita' delle statuizioni penali, ma questa disparita' di trattamento non e direttamente denunciata, ed e' una manchevolezza, con questa ordinanza. A cio' potra', eventualmente, porre riparo la Corte costituzionale estendendo la sua pronuncia per consequenzialita'. Proprio, quindi, nei casi dei reati, come quello di minaccia attribuito all'Erbacci, per i quali la pena puo' essere in concreto quella solo pecuniaria non per effetto di una previsione edittale alternativa ma per effetto del giudizio di valenza tra opposte circostanze, giacche' la pena edittale e' solo pecuniaria per l'ipotesi base e solo detentiva per le ipotesi aggravate, a parita' di reato la sentenza e' inappellabile, ove sia di condanna, ed appellabile per la parte civile agli effetti civili, oltre che per il pubblico ministero agli effetti penali, ove sia di proscioglimento o di non luogo a procedere. In questi casi, infatti, mancando la condanna, manca anche la pena in concreto, cui fare riferimento, ed il reato, se contestato secondo l'ipotesi aggravata, non fa parte ne' di quelli puniti con la sola pena pecuniaria ne' di quelli puniti con pena alternativa, cui fa riferimento la seconda parte del terzo comma dell'art. 593 per stabilire quali siano le sentenze inappellabili di proscioglimento o di non luogo a procedere. Inoltre, seppure in un ambito piu' ristretto che per il pubblico ministero e per la parte civile, le sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere risultano appellabili anche dall'imputato, se relative a reati puniti con pena solo detentiva nelle ipotesi aggravate. Oltre che per questioni, quando consentite, di formula relativa al reato, l'imputato potra' appellare la sentenza per gli interessi civili, ad esempio nel caso che non abbiano trovato accoglimento sue domande per il risarcimento del danno e per la rifusione di spese processuali. Quanto detto fa rilevare che l'originario testo del terzo comma dell'art. 593 c.p.p., riguardante solo le contravvenzioni, oltre ad avere un piu' limitato ambito di applicabilita' per la piu' limitata categoria di reati, cui si riferiva, in concreto creava poco probabili prospettive di un regime complesso delle impugnazioni, quale deriva, invece, secondo cio' che si e' mostrato, dalla formulazione dello stesso comma, come novellata nel 1999. C'e' da chiedersi se in occasione della modifica legislativa del 1999 vi sia stata consapevolezza che la norma avrebbe riguardato non solo i reati edittalmente puniti con la sola pena pecuniaria o con quella alternativa, espressamente considerati dalla norma stessa, ma anche la categoria dei reati, nella quale rientrano forse sporadiche fattispecie contravvenzionali ma sicuramente non marginali fattispecie di delitti, nelle quali l'ipotesi base e' punita con la sola pena pecuniaria e le ipotesi aggravate con la sola pena detentiva. Ad ogni modo, certo e' che la sentenza contro l'Erbacci rientra fra quelle che, a parita' di fattispecie di reato, risultano: appellabili da tutte le parti se di condanna a pena detentiva, inappellabili per tutte le parti, se di condanna a pena pecuniaria, appellabili dal pubblico ministero e dalla parte civile, se di proscioglimento o di non luogo a procedere, appellabili dall'imputato, se di proscioglimento o di non luogo a procedere, ai fini della formula, quando consentito, ed agli effetti civili in caso di rigetto o di parziale accoglimento di domande dell'imputato stesso relative al risarcimento del danno o alla rifusione di spese del giudizio. Questo schema, consentirebbe anche altre osservazioni, sulle quali non ci si trattiene, perche' ormai si e' nell'evidenza, riguardo alla irrazionale casualita' del complessivo regime delle impugnazioni creato dal terzo comma dell'art. 593 c.p.p., in se' e nel coordinamento con altri articoli, come il 574, il 575 e il 576. L'esame dello schema mostra, comunque, la disparita' di trattamento che discrimina immotivatamente l'imputato soccombente con un trattamento deteriore rispetto alla parte civile soccombente e, paradossalmente, rispetto a se stesso ove non soccombente rispetto al giudizio penale ma soccombente rispetto a sue pretese civilistiche. Risulta evidente, infatti, che le diverse parti della stessa controversia civile, inserita nel processo penale, hanno prospettive diversificate di tutela giurisdizionale in caso di soccombenza. L'imputato, in caso di accoglimento delle domande della parte civile, non potra' proporre appello neppure per i soli interessi civili e si vedra', quindi, precluse tutte le possibili doglianze di merito relative alla sentenza di primo grado per il solo fattore, occasionale ed irrilevante rispetto alla controversia civile, di essere stato condannato alla sola pena pecuniaria. La parte civile potra' invece appellare la sentenza, in caso di proscioglimento dell'imputato o di pronuncia di non luogo a procedere, in relazione al fattore, anch'esso del tutto estrinseco ed irrilevante rispetto alla controversia civile, costituito dal fatto che all'imputato sia stata contestata un'ipotesi aggravata di reato, edittalmente punita con la reclusione. Si tenga presente che l'appello della sola parte civile lascia intatto il giudicato assolutorio penale e che l'aggravante del reato, originariamente contestata, e' irrilevante rispetto alla riproposta pretesa risarcitoria. E', cosi', individuata una disparita' di trattamento tra la parte civile e l'imputato, discriminatoria per questo, che non puo', almeno con riferimento a sentenze relative a reati puniti con la pena pecuniaria nell'ipotesi base e con la reclusione nelle ipotesi aggravate, proporre appello, ove sia stato condannato alla pena della multa, neppure al solo fine civilistico di essere assolto dalla domanda di risarcimento del danno o di rifusione delle spese del giudizio. E' appena il caso di precisare che puo' avvenire che l'imputato faccia acquiescenza alla condanna penale e proponga ugualmente impugnazione avverso la sentenza solo per gli interessi civili, ad esempio sostenendo, cosa che non interferisce con le statuizioni penali, che chi si e' costituito parte civile non ha subito alcun danno o che il risarcimento era avvenuto prima del giudizio, o sostenendo che alla parte civile e' stato liquidato il danno in misura eccessiva o che eccessiva e' stata la provvisionale assegnata. La parte civile puo', invece, proporre appello per gli interessi civili avverso le sentenze relative alla predetta categoria di reati, ove il reato sia stato contestato secondo la fattispecie aggravata e le sentenze stesse abbiano prosciolto l'imputato o dichiarato non luogo a procedere nei suoi confronti. La disparita' di trattamento e' ancorata solo al rilevato elemento del tipo di pena inflitta, che ove pure fosse idoneo, cosa dalla quale si dissente per motivi gia' espressi, a fondare un regime differenziato di impugnabilita' delle statuizioni penali, resta assolutamente occasionale ed estrinseco e percio' inidoneo a fondare un razionale trattamento differenziato della impugnabilita' delle statuizioni civili della sentenza. E' questa una prima e piu' limitata configurazione della questione di incostituzionalita', che questa corte ritiene non manifestamente infondata, del combinato disposto del terzo comma dell'art. 574 e del terzo comma dell'art. 593 c.p.p. per contrarieta' con l'art. 3 della Costituzione e del principio di ragionevolezza, che esso esprime. L'ipotesi, prima configurata astrattamente e sospettata di incostituzionalita', corrisponde al caso concreto riguardante l'Erbacci, la cui impugnazione, proposta come appello, risulta come tale inammissibile, mentre risulterebbe ammissibile ove la facolta' di impugnazione dell'imputato fosse resa omogenea, a seguito di pronuncia della Corte costituzionale, con la facolta' di impugnazione riconosciuta dalla legge alla parte civile. Secondo la normativa attuale questa corte dovrebbe ritenere inammissibile l'appello e trasmettere gli atti alla Corte di cassazione, in relazione alla proponibilita' avverso la sentenza impugnata solo del ricorso. A seguito di una pronuncia della Corte costituzionale dichiarativa della denunciata incostituzionalita', l'impugnazione proposta dall'Erbacci risulterebbe ammissibile come appello e questa corte dovrebbe trattarla. Con cio' resta affermativamente verificato che questa corte non puo' definire il giudizio sull'impugnazione proposta dall'Erbacci, del quale e' investita, indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale . Nella configurazione, prima esposta, la questione di costituzionalita' si riferisce solo al trattamento differenziato ed immotivatamente deteriore, rispetto a quello della parte civile, riservato all'imputato agli effetti dell'appellabilita' delle sentenze relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria nella fattispecie base e con la sola pena detentiva nelle ipotesi aggravate. In questa configurazione si ha una disparita' irrazionale e discriminatoria del tutto uguale a quella che si avrebbe ove nel processo civile si consentisse all'attore soccombente l'appello ed al convenuto soccombente solo il ricorso per cassazione . Questa corte ritiene, pero', che il combinato disposto del terzo comma dell'art. 574 e del terzo comma dell'art. 593 sia sospettabile di incostituzionalita' nella sua intera portata, cioe' non solo perche' in relazione a particolari ipotesi di reato differenzia tra la parte civile e l'imputato il regime delle impugnazioni proponibili per i soli interessi civili ma anche perche' senza un fondamento di razionalita' non consente di proporre appello avverso certe sentenze anche per i soli interessi civili ne' all'imputato ne' alla parte civile. Al riguardo bisogna richiamare cio' che si e' detto circa il fatto che il disposto relativo all'esclusione dell'appellabilita' di certe sentenze nei capi relativi agli interessi civili, disposto eccezionale rispetto a quanto di regola e' previsto sia nel processo civile che nel processo penale, individua quelle sentenze solo in base ad un elemento del tutto irrilevante ed estrinseco, rispetto alla controversia civile, un elemento che non riguarda ne' la natura del fatto dannoso ne' l'entita' del danno prodotto. Infatti, le sentenze risultano inappellabili per gli interessi civili in relazione al tipo di pena in concreto inflitta per il reato, se di condanna, e, se di proscioglimento e di non luogo a procedere, in relazione alla previsione edittale, per il reato contestato, della sola pena pecuniaria o di pena alternativa. Si e' visto che secondo il regime in esame risultano inappellabili sentenze, che alle parti risultano gravosissime o per il debito, che creano, o per la pretesa risarcitoria, che disattendono, e cio' mentre sono appellabili per gli interessi civili, solo perche' nella parte penale relative a reati in concreto puniti o astrattamente punibili con pena detentiva, sentenze di uguale o di molto minore rilievo patrimoniale. La stessa controversia, fra le stesse parti e con lo stesso oggetto, ha la prospettiva di due gradi di giudizio di merito e di uno di legittimita', se trattata in sede civile. La stessa controversia, fra le stesse parti e con lo stesso oggetto, ha di regola la prospettiva di due gradi di merito e di una di legittimita' anche se inserita nel processo penale. Ma quella stessa controversia, fra le stesse parti e con lo stesso oggetto, ha la diversa prospettiva di un solo grado di merito, oltre al grado di legittimita', se inserita nel processo penale, nel caso in cui il primo grado di questo si concluda con l'applicazione della pena pecuniaria, invece che della possibile pena detentiva. La previsione normativa, gia' discriminatoria nei confronti dell'imputato, lo e' ancora di piu' nei confronti della parte civile, che puo' proporre l'appello, ove siano state rigettate in tutto o in parte le sue domandedi risarcimento o di rifusione delle spese del giudizio, se la sentenza di primo grado e' di condanna ed haapplicato, tra le pene astrattamente possibili, quella detentiva, mentre non puo' proporre appello se la decisione penale e' di proscioglimento o di non luogo a procedere e la pena edittalmente prevista per il reato siaalternativa. Questa situazione si ribalta nel caso, in rapporto al quale e' stata elaborata la prima e piu' restrittiva configurazione di illegittimita' costituzionale della normativa, in cui la sentenza sia di proscioglimento o di non luogo a procedere ed il reato contestato sia un'ipotesi aggravata, punita con la sola pena detentiva, di un reato punito con la sola pena pecuniaria nell'ipotesi base. L'analisi svolta, nel corso della quale non e' riuscito evitare fastidiose ripetizioni, e' anche intesa a fare emergere con qualche chiarezza la molteplicita' delle implicazioni del combinato disposto in esame e delle irragionevoli disparita' di trattamento che esso crea. Cio' si ritiene che serva non solo a meglio definire le specifiche questioni di legittimita' costituzionale, che vengono sollevate, ma anche a fornire lo spunto per eventuali declaratorie di incostituzionalita' che la Corte ritenesse di pronunciare per rapporto di consequenzialita'. In effetti, pare che l'eventuale declaratoria di incostituzionalita' di una parte del combinato disposto in esame implichi l'estensione a varie altre parti di esso. Prima di concludere, pare opportuna un'ultima considerazione, intesa a rilevare un ulteriore aspetto della irragionevole disparita' di trattamento, deteriore per l'imputato. Mentre per il danneggiato dal reato l'esercizio dell'azione civile nel processo penale e' oggetto di scelta, l'imputato, preteso danneggiante, non puo' che subire la scelta della parte civile. Questa puo' scegliere la sede penale proprio perche' vuole precludere alla controparte la possibilita' dell'appello, o che faccia certe previsioni circa l'esito del giudizio di primo grado o che comunque abbia, anche senza motivo, quella preferenza. La parte civile avra', quindi, un processo con un solo grado di merito solo se lo sceglie, l'imputato avra' un processo in materia di interessi civili con un solo grado di merito perche' la parte civile glielo impone. Sono molteplici, quindi, gli elementi di contrarieta' delle disparita' di trattamento, derivanti dal combinato disposto esaminato, al principio di ragionevolezza sancito dall'art. 3 della Costituzione. Anche nella seconda e piu' ampia configurazione la questione di legittimita' costituzionale sollevata e' pregiudiziale rispetto ad ogni ulteriore decisione relativa all'impugnazione proposta dall'Erbacci, perche' gli effetti della eventuale pronuncia di incostituzionalita' sarebbero gli stessi gia' in precedenza precisati. Per completezza si puo' aggiungere che l'ammissibilita' dell'appello per gli interessi civili comporterebbe, a norma dell'art. 580 c.p.p., che anche la parte dell'impugnazione dell'Erbacci, relativa al capo penale della sentenza, andrebbe trattata in sede di appello. Sono noti i lavori parlamentari in corso, concretatisi anche in una recente votazione approvativa del Senato, per una modifica legislativa con effetti comprendenti quelli che deriverebbero dalla pronuncia di incostituzionalita', che questa ordinanza potrebbe provocare. Pare che anche nel caso in cui la modifica legislativa venisse approvata, per la mancanza di una retroattivita' capace di rendere ammissibile come appello l'impugnazione dell'Erbacci, l'intesse alla decisione della questione sollevata permarrebbe.