SENTENZA
     nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale degli artt.  10 e 19
 del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, modificato  dalla  legge  7  novembre
 1941,  n.  1360  (legge mineraria), promosso con ordinanza emessa il 14
 giugno 1966 dal Tribunale  di  Montepulciano  nel  procedimento  civile
 vertente  tra Rossi Galliano e la Societa' acque  radioattive del Bagno
 Santo di Sarteano, iscritta al n.  195 del Registro  ordinanze  1966  e
 pubblicata  nella    Gazzetta  Ufficiale della Repubblica n. 284 del 12
 novembre 1966.
     Visti gli atti di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri e di costituzione di Rossi Galliano;
     udita  nell'udienza  pubblica  del 18 ottobre 1967 la relazione del
 Giudice Nicola Jaeger;
     uditi l'avv. Ignazio  Orecchio,  per  il  Rossi,  ed  il  sostituto
 avvocato  generale  dello  Stato  Piero Peronaci, per il Presidente del
 Consiglio dei Ministri.
                           Ritenuto in fatto:
     Con  ordinanza  emessa  il  14  giugno  1966   dal   Tribunale   di
 Montepulciano, nel procedimento civile vertente tra Rossi Galliano e la
 Societa'  acque radioattive del Bagno Santo di Sarteano, veniva rimessa
 a questa Corte la questione di legittimita' costituzionale degli  artt.
 10  e  19  del  R.D.  29 luglio 1927, n. 1443, modificato dalla legge 7
 novembre 1941, n. 1360 (cosiddetta  "legge  mineraria"),  limitatamente
 alla  parte  in  cui viene imposto un pati a carico dei proprietari dei
 terreni compresi nel perimetro di ricerca e di  concessione  mineraria,
 in relazione all'art. 42, terzo comma, della Costituzione.
     L'ordinanza  e'  stata  notificata  alle parti in causa ed e' stata
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica a norma di legge.
     In detta ordinanza il Tribunale ha escluso che  la  causa  ad  esso
 sottoposta,  concernente i provvedimenti amministrativi con i quali era
 stato concesso alla Societa'  acque  radioattive  del  Bagno  Santo  di
 Sarteano    il  permesso  di  ricerca  su  un terreno di proprieta' del
 Rossi, potesse essere risolta alla stregua della legge 16 luglio  1916,
 n.  947, e del relativo regolamento di esecuzione 28 settembre 1919, n.
 1924,  in  quanto  tale    normativa darebbe disciplina unicamente alla
 ipotesi di apertura, di esercizio di stabilimenti termali,  nonche'  di
 vendita delle acque minerali naturali ed artificiali,  prescrivendo che
 in   tali  casi  e'  necessario,    rispettivamente,  un  provvedimento
 autorizzativo del  prefetto e del Ministro dell'interno per l'esercizio
 delle  predette attivita'.
     Il Tribunale ha ritenuto pertanto che il caso in questione  rientri
 nella disciplina normativa del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, modificato
 dalla  legge  7  novembre  1941,  n.  1360,  che  ha quale oggetto, tra
 l'altro, le concessioni  di  coltivazione  e  di  ricerca  delle  acque
 minerali o termali (art. 2, secondo comma, lett. E), ed ha sollevato la
 questione  di  legittimita'  costituzionale degli artt. 10 e 19 di tale
 legge, i quali, rispettivamente, da un lato  imporrebbero  un  pati  ai
 proprietari  dei  fondi compresi nel perimetro al quale si riferisce il
 permesso  di  ricerca  e  la  concessione  di  coltivazione,  e  quindi
 comprimerebbero  il  diritto  di  proprieta'  dei  terreni compresi nel
 perimetro, dall'altro non  prevederebbero  per  tale  sacrificio  alcun
 indennizzo.
     L'ordinanza  aggiunge  che la questione sollevata e' rilevante agli
 effetti della decisione della causa principale in corso, in quanto, ove
 si ritenesse che e' illegittima la mancata  previsione  dell'indennizzo
 per la soppressione di una facolta' contenuta nel diritto soggettivo di
 proprieta', verrebbe meno la norma che attribuisce al concessionario il
 diritto  di  compiere  lavori  di  ricerca  e di coltivazione nel fondo
 compreso nel perimetro di concessione. Sulla base di un  confronto  fra
 le  norme  denunciate  e l'art. 42, terzo comma, della Costituzione, il
 Tribunale conclude  infine  che  la  questione  non  puo'  considerarsi
 manifestamente infondata.
     Nel  giudizio  davanti a questa Corte si sono costituiti  il signor
 Galliano  Rossi  ed  il  Presidente  del  Consiglio     dei   Ministri,
 rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato.
     Nelle  deduzioni  depositate  in  cancelleria la difesa   del Rossi
 premette  di  non  condividere  il  convincimento  del   tribunale   di
 Montepulciano  circa  l'applicabilita'  al  caso   concreto della legge
 mineraria, trattandosi di una   sorgente,  regolata  "da  secoli"  come
 acqua pubblica,  che sarebbe divenuta oggetto di concessione mineraria,
 con  costituzione di un ampio comprensorio, ma sarebbe poi stata invece
 utilizzata  per alimentare uno stabilimento balneare, cioe'  per  scopi
 che nulla hanno a che vedere con la legge  mineraria.
     Condivide invece la conclusione, secondo la quale si e' in presenza
 di  un caso di espropriazione, e si  richiama ad una sentenza di questa
 Corte (n. 6 del 20 gennaio 1966), nella quale venne chiarita l'ampiezza
 di tale concetto.
     Sostiene poi che,  nel  caso  in  questione,  la  limitazione  alla
 proprieta' privata non deriverebbe soltanto dai due articoli denunciati
 dal tribunale, perche' questi si riconnetterebbero tanto alle norme che
 istituiscono il  comprensorio, quanto a quella che dichiara di pubblica
 utilita' tutte le opere successive. Conclude quindi augurandosi che, ai
 sensi  e  per gli  effetti dell'art. 27 della legge n. 87 dell'11 marzo
 1953,     la  Corte  estenda   la   dichiarazione   di   illegittimita'
 costituzionale  anche  alle  altre  norme della legge mineraria da essa
 citate (artt. 18, lett. C, e  32, primo comma).
     L'Avvocatura  generale  dello  Stato  ha  depositato  un    atto di
 intervento, nel quale si osserva che i limiti imposti  alla  proprieta'
 privata  con  gli artt. 10 e 19 della legge mineraria hanno lo scopo di
 assicurare  una  funzione  sociale,  quale  e'  la  valorizzazione  del
 sottosuolo  minerario,  in armonia con  il precetto sancito dal secondo
 comma dell'art. 42 della  Costituzione.
     In quanto al disposto degli  articoli  citati,  si  rileva  che  la
 limitazione   alla  proprieta'  privata  nel  corso  della  ricerca  ha
 carattere solo temporaneo, mentre nella  ipotesi che occorra invece dar
 corso ad opere  permanenti, queste non si sottraggono alla regola della
 dichiarazione di pubblica utilita' ed  alla  conseguente  procedura  di
 normale espropriazione ai  sensi della legge 25 giugno 1865, n. 2359.
     Infine,  l'Avvocatura  dello  Stato richiama l'attenzione sul fatto
 che l'art. 10 citato sopra  stabilisce  l'obbligo  del  ricercatore  di
 prestare cauzione e di risarcire i danni causati dai lavori di ricerca,
 istituendo  anche  una rapida  procedura per il deposito di una congrua
 somma a titolo  provvisorio, mentre l'art. 19 fa epressamente salvo  il
 diritto  alle indennita' spettanti ai proprietari per i danni subiti in
 conseguenza della concessione.
     Entrambe  le  parti  hanno  ribadito  le  proprie   argomentazioni,
 richiamando  anche  altre  decisioni  della  Corte,  e  insistito nelle
 conclusioni gia' formulate, tanto nelle rispettive  memorie  depositate
 nella   cancelleria  della  Corte  il  5  ottobre  1967,  quanto  nella
 discussione in pubblica udienza.
                         Considerato in diritto:
     Come risulta dalla esposizione dei fatti della causa, il  Tribunale
 di  Montepulciano  ha  ritenuto  di dover fare richiamo alla disciplina
 normativa contenuta nel R.D. n.  1443 del 29  luglio  1927,  modificata
 poi dalla legge 7 novembre 1941, n. 1360, ed ha limitato l'ambito delle
 questioni  sottoposte al giudizio della Corte costituzionale agli artt.
 10 e 19 della legge stessa, osservando che la mancata previsione di  un
 indennizzo,  in  relazione  alla soppressione di una facolta' contenuta
 nel  diritto  di  proprieta',  potrebbe  importare  la   illegittimita'
 costituzionale  della  norma,  la  quale prevede il diritto di compiere
 lavori di ricerca e di coltivazione nel fondo compreso nel perimetro di
 concessione.
     La Corte ha gia' avuto altre occasioni di pronunciarsi  in  materia
 di legislazione mineraria, precisando gli aspetti di pubblico interesse
 inerenti  alla ricerca ed alla coltivazione delle cave e delle miniere,
 in relazione ai quali aspetti essa  ha  affermato  che,  pur  dovendosi
 considerare  sproporzionata  una  sottrazione  originaria  del  bene al
 proprietario del fondo, si deve ritenere congrua l'assegnazione  di  un
 limite  al  diritto  di  questi,  e che, mentre si puo' riconoscere che
 l'iniziativa  privata  potrebbe  bene  attendere   alla   realizzazione
 dell'interesse  generale,  tale  diritto convive tuttavia con un potere
 della pubblica amministrazione, cosi' che la coltivazione delle cave e'
 assoggettata alla  vigilanza  di  questa.  Tale  vigilanza,  prescritta
 rispetto  alla coltivazione delle miniere (art. 29 della legge citata),
 e' infatti estesa anche alle cave (art. 45, ultimo comma), e puo'  pure
 importare un intervento diretto a tutela dell'interesse generale, senza
 il  tramite  del  procedimento  tipico di espropriazione, qualora venga
 meno la fiducia nel proprietario del  fondo  (sentenza  n.  20  del  28
 febbraio 1967).
     In quanto alla salvaguardia dei diritti del proprietario stesso, la
 Corte  aveva  pure  avuto  occasione  di esprimere il proprio pensiero,
 affermando che la legge puo' non disporre indennizzi quando i modi ed i
 limiti che essa  segna,  nell'ambito  della  garanzia  accordata  dalla
 Costituzione,  attengano  al  regime  di  appartenenza    o  ai modi di
 godimento dei beni in generale, o di intere categorie di  beni,  ovvero
 quando  essa regoli la situazione che i beni stessi presentino rispetto
 a beni o ad interessi della pubblica  amministrazione,  sempre  che  la
 legge  sia  destinata  alla  generalita'  dei  soggetti,  i cui beni si
 trovino in date situazioni, e salva la possibilita'  di  accertare  con
 singoli  atti  amministrativi l'esistenza di tali situazioni rispetto a
 singoli soggetti ed a singoli beni.
     La Corte stessa precisava pero', che se le imposizioni non  abbiano
 carattere generale ed obiettivo, e comportino un sacrificio per singoli
 soggetti   e   gruppi   di   soggetti,   si   prospetta   il   problema
 dell'indennizzabilita'; ed aggiungeva che si deve attribuire  carattere
 espropriativo  anche  all'atto,  il  quale  imponga tali limitazioni da
 svuotare  di  contenuto  il  diritto  di  proprieta',  incidendo  tanto
 profondamente  sul  godimento  del  bene, da renderlo inutilizzabile in
 rapporto alla natura del bene stesso o determinando il venir meno o una
 penetrante incisione del suo valore di scambio (sentenza n.  6  del  19
 gennaio 1966).
     Tali  principi  fondamentali  consentono  di risolvere le questioni
 sollevate dal tribunale di Montepulciano con l'ordinanza di  rimessione
 che  ha  dato  luogo al presente giudizio, ove si interpretino le norme
 contenute negli artt. 10 e 19 della legge mineraria alla stregua  della
 giurisprudenza della Corte.
     E'  da  escludere anzitutto che nella fase preliminare  di ricerca,
 regolata dagli articoli  10  e  seguenti  della  legge,  si  attui  una
 espropriazione  dei  beni in questione, come ha sostenuto la difesa del
 Rossi; e si deve ritenere esatta l'asserzione della Avvocatura generale
 dello Stato, che le limitazioni alla proprieta' privata stabilite dalle
 citate  disposizioni  della  legge  mineraria   hanno   carattere   non
 permanente,  ma temporaneo, posto che nella ipotesi in cui occorra dare
 corso ad opere permanenti  dovranno  applicarsi  le  normali  procedure
 previste  dalla  legge  di  espropriazione  25 giugno 1865, n. 2359, la
 quale e' espressamente richiamata dall'art.  32, primo comma, del  R.D.
 29 luglio 1927, n. 1443, in questione.
     E'  anche  vero  che  il  citato art. 10, dopo avere disposto che i
 possessori dei fondi compresi nel perimetro al quale  si  riferisce  il
 permesso  non  possono  opporsi ai lavori di ricerca, soggiunge che "e'
 fatto obbligo al ricercatore di risarcire i danni cagionati dai  lavori
 di  ricerca"  e che "il proprietario del terreno soggetto alle ricerche
 ha facolta' di  esigere  una  cauzione",  la  cui  misura  puo'  essere
 concordata fra le parti o, in mancanza di accordo, stabilita d'ufficio,
 provvisoriamente  dall'ingegnere capo del distretto minerario, sentito,
 ove occorra, l'avviso di un perito; e in tal caso il ricercatore potra'
 dare esecuzione ai lavori solo dopo avere eseguito il deposito.
     In quanto all'art.  19  della  suddetta  legge  mineraria  si  deve
 osservare  poi  che  esso,  integrando  le disposizioni del primo comma
 dell'art. 10 per quanto concerne le attivita' successive al decreto  di
 concessione, stabilisce che "i possessori dei fondi non possono opporsi
 alle operazioni occorrenti per la delimitazione della concessione, alla
 apposizione  dei  termini relativi ed ai lavori di coltivazione, "salvo
 il diritto alle indennita' spettanti per gli eventuali danni".
     Si  possono  ricordare  del  resto  anche  altre disposizioni della
 stessa legge, che offrono ulteriori  garanzie  agli  interessati,  come
 l'art.  31,  a norma del quale "il concessionario e' tenuto a risarcire
 ogni danno  derivante  dall'esercizio  della  miniera"  e  "per  quanto
 riguarda  la  prestazione  di eventuale cauzione, si osservano le norme
 stabilite nell'art. 10 (riferito sopra)".
     Se si confrontano poi le disposizioni  vigenti  in  materia  con  i
 principi  generali  definiti  dalla  Corte nelle sentenze sopra citate,
 appare evidente  che  tali  disposizioni  non  si  possono  considerare
 costituzionalmente  illegittime,  in  quanto  risultano  sufficienti  a
 contemperare l'interesse pubblico con quello dei privati.
     L'obbligo del ricercatore di risarcire i danni cagionati dai lavori
 e, a garanzia della osservanza di tale dovere, di prestare una adeguata
 cauzione prima ancora dell'inizio dei lavori  stessi,  sembra  tutelare
 sufficientemente  il  titolare  del fondo, il quale deve pure ammettere
 che la ricerca  e  la  coltivazione  di  giacimenti,  la  cui  scoperta
 potrebbe  recare  notevoli utilita' all'economia nazionale, non possono
 essere rimesse esclusivamente alla sua discrezione. Si  deve  ricordare
 infine  che, a norma dell'art. 45 della citata legge mineraria, le cave
 e le torbiere sono lasciate  in  disponibilita'  del  proprietario  del
 suolo e che l'ingegnere capo del distretto minerario puo' dare ad altri
 la  concessione relativa solo quando il proprietario non intraprenda la
 coltivazione e non vi dia sufficiente sviluppo, previa  la  prefissione
 di  un  termine  e  la  scadenza  infruttuosa  di  questo.  Contro tale
 provvedimento e' poi ammesso il  ricorso  gerarchico  al  Ministro  per
 l'industria,  il  commercio e l'artigianato, il quale decide sentito il
 Consiglio superiore delle miniere.
     Il fatto, infine, che al proprietario viene corrisposto  il  valore
 degli  impianti,  dei  lavori  utilizzabili  e  del  materiale estratto
 disponibile presso la cava o la torbiera, conferma la  conclusione  che
 il  legislatore  non  ha  inteso  affatto  trascurare gli interessi dei
 titolari dei fondi, ma solo contemperarli con quelli generali, che  non
 possono evidentemente essere del tutto subordinati ai primi.