ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
     nei giudizi riuniti di legittimita' costituzionale dell'art.    330
 del Codice penale promossi con le seguenti ordinanze:
     1)  ordinanza  emessa  il 21 luglio 1966 dal giudice istruttore del
 tribunale di Roma nel  procedimento  penale  a  carico  di  Agostinelli
 Ottavio,  Balsimelli Luciano, Merola Salvatore ed altri, iscritta al n.
 88 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale
 della Repubblica n. 157 del 24 giugno 1967;
     2)  ordinanza  emessa  il  2  marzo  1968  dal  pretore di Roma nel
 procedimento penale  a  carico  di  Sica  Giovanni,  Giacomi  Vittorio,
 Bontatti  Luigi,  Santandrea  Filippo  ed  altri, iscritta al n. 82 del
 Registro ordinanze 1968 e pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  della
 Repubblica n. 152 del 15 giugno 1968;
     3)  ordinanza  emessa  il  7  marzo  1968  dal  pretore di Roma nel
 procedimento penale a carico di Corsi Bernardino ed altri, iscritta  al
 n.  107  del  Registro  ordinanze  1968  e  pubblicata  nella  Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 203 del 10 agosto 1968.
     Visti gli atti di costituzione di Balsimelli ed  altri,  Merola  ed
 altri, Sica, Giacomi, Bontatti e Santandrea;
     udita  nell'udienza  pubblica  del 29 gennaio 1969 la relazione del
 Giudice Costantino Mortati;
     uditi gli avvocati Ugo De Leone, Guido Martuscelli, Vincenzo Summa,
 Luciano Ventura, Massimo Severo Giannini  e  Benedetto  Bussi,  per  le
 parti private costituite.
                           Ritenuto in fatto:
     1.  - In relazione ad un procedimento penale in corso di istruzione
 formale promosso nei confronti di  203  persone,  imputate  alcune  dei
 reati  di  cui  all'art.  330  del Codice penale, per avere abbandonato
 collettivamente il pubblico ufficio di  vigile  urbano  nei  giorni  30
 giugno  e  1 luglio 1965 e altre per avere promosso ed organizzato tale
 abbandono collettivo,  il  Giudice  istruttore  di  Roma  ha  sollevato
 questione  di  legittimita'  costituzionale della suddetta norma penale
 per violazione degli artt. 39 e 40 della Costituzione.
     Nell'ordinanza in data 21 luglio 1966  si  osserva  preliminarmente
 che  la  questione e' rilevante, nonostante che i reati rubricati siano
 coperti dall'intervenuta amnistia, poiche', ove l'art. 330  del  Codice
 penale  fosse  dichiarato  incostituzionale,  gli  imputati  dovrebbero
 essere prosciolti nel merito, in applicazione dell'art. 152  cpv.,  del
 Codice di procedura penale.
     Nel  merito  l'ordinanza,  dopo  avere  indicato  i  motivi i quali
 conducono ad escludere che la originaria correlazione dell'art. 330 con
 l'ordinamento corporativo sia  cosi'  stretta  da  determinare  la  sua
 automatica  abrogazione,  in  seguito  ai  provvedimenti legislativi di
 soppressione di tale ordinamento intervenuti negli anni  1943  e  1944,
 passa  a  deliberare  la  fondatezza  della  questione  di legittimita'
 costituzionale, che non gli appare preclusa dalla sentenza n.  123  del
 1962 della Corte costituzionale, sia perche' viene ora dedotta anche la
 violazione  dell'art.  39  della  Costituzione,  sia  perche'  in  tale
 sentenza  la  questione  non  sarebbe  stata  pienamente  affrontata  e
 risolta,  dato  che  essa si limito' ad affermare l'applicabilita' alla
 fattispecie della scriminante di cui all'art.  51  del  Codice  penale,
 sancendo  cosi'  la validita' dell'art. 330 Cod. pen. Nonostante i suoi
 riconosciuti "aspetti d'incostituzionalita'". Conclude pertanto per  la
 non  manifesta  infondatezza  della  questione, nei confronti oltreche'
 dell'art. 40, anche  dell'art.  39,  perche'  il  riconoscimento  della
 liberta'  sindacale  potrebbe  direttamente  giustificare  la  liceita'
 penale di tutte le varie forme di tutela degli interessi professionali.
     L'ordinanza  e'  stata  regolarmente   comunicata,   notificata   e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 157 del 24 giugno 1967.
     Avanti la Corte si sono costituiti due gruppi di imputati.
     Il  primo  assistito  dagli  avv. Massimo Severo Giannini, Giuseppe
 Sabatini e  Guido  Martuscelli,  i  quali,  in  una  memoria  a  stampa
 depositata il 14 gennaio 1969 hanno illustrato le conclusioni contenute
 nell'atto  di costituzione, tendenti a far dichiarare la illegittimita'
 costituzionale dell'art. 330 del  Codice  penale  in  riferimento  agli
 artt.  39 e 40 della Costituzione, o, quanto meno, l'inesistenza di una
 questione di incostituzionalita' per mancanza di  azioni  incriminabili
 "essendo  stati  i  fatti ascritti ai giudicabili assoggettati a limiti
 atti  a  salvaguardare  quegli  interessi   che   potessero   ritenersi
 preminenti".
     Nella  memoria  si deduce che l'art. 330 del Codice penale dovrebbe
 ritenersi abrogato, sia per effetto della soppressione dell'ordinamento
 corporativo (dato che esso ebbe  come  sua  funzione  di  riprodurre  e
 completare  disposizioni  penali  gia'  contenute  nella legge 3 aprile
 1926,  n.  563)  sia  per  effetto  dei   nuovi   principi   introdotti
 nell'ordinamento  italiano con l'art. 40 della Costituzione sanzionanti
 la  liberta'  di  sciopero  e  il  diritto  di  sciopero.     La   tesi
 dell'abrogazione,  pur  se  non  ancora adottata espressamente, sarebbe
 tuttavia  prevalente  nel convincimento sostanziale e complessivo della
 stessa Corte,  come  risulterebbe  da  riconoscimenti  contenuti  nella
 motivazione  di  alcune  sentenze,  circa la sussistenza di un radicale
 contrasto fra i principi  dell'ordinamento  corporativo  e  quelli  del
 vigente sistema costituzionale.
     Si  deduce  poi che, anche a prescindere dall'abrogazione dell'art.
 330  del  Codice  penale,  l'azione  degli  imputati  non  risulterebbe
 incriminabile  per  essere stata compiuta nell'esercizio di un diritto.
 Ricordate le sentenze della Corte n. 46 del 1958, n. 29 del 1960  e  n.
 123  del  1962,  la difesa passa ad affrontare la particolare posizione
 che e' propria dei vigili urbani, per dimostrare  come  anche  ad  essi
 competa  il  diritto  di  sciopero,  in  applicazione  del fondamentale
 principio di eguaglianza stabilito dall'art. 3 della Costituzione.
     Considerato che l'esclusione dei vigili urbani dal novero di coloro
 che  hanno  diritto  di  scioperare  e'  stata  fatta  dipendere  dalla
 circostanza  che  essi  esercitano  funzioni  di polizia giudiziaria ed
 hanno la qualifica di agenti di pubblica  sicurezza,  la  difesa,  dopo
 avere  osservato che funzioni di polizia giudiziaria competono anche ad
 altro personale, come alle guardie daziarie, campestri ed alle  guardie
 giurate, per le quali e' inconcepibile l'esclusione del diritto stesso,
 mette  in  rilievo  che il riconoscimento prefettizio delle qualita' di
 agente di pubblica sicurezza non e' automatico per tutti  i  vigili  in
 quanto  tali, ma avviene con un provvedimento discrezionale ad personam
 che comporta l'attribuzione a singoli vigili di mansioni estranee  alle
 funzioni istituzionali del Corpo.
     Ne'  la  privazione  del  diritto  di  sciopero puo' farsi derivare
 dall'art. 98 della Costituzione, perche' questo prevede la possibilita'
 di limitare il divieto dell'iscrizione ai  partiti  politici  solo  per
 determinate  categorie di pubblici funzionari; e, poiche' nessuna altra
 norma costituzionale circoscrive il diritto di iscrizione ai  sindacati
 per  tali  categorie,  se  ne deve dedurre che ai membri di esse sia da
 riconoscere, in via conseguenziale, anche il diritto di sciopero.
     A parte queste considerazioni di ordine generale, la difesa  stessa
 fa  comunque  rilevare come l'azione di sciopero concretamente posta in
 essere,  ed  alla  quale  si  riferisce  l'attuale  incriminazione,  fu
 limitata  alle  funzioni  che  sono  proprie  dei  vigili  urbani  come
 dipendenti comunali, mentre gli stessi scioperanti sostarono nelle sedi
 dei rispettivi reparti dichiarandosi pronti ad assolvere alle  funzioni
 di  polizia  giudiziaria  e di pubblica sicurezza relative ad eventuali
 incidenti  stradali.  Cio'  in   conformita'   alle   direttive   delle
 organizzazioni  sindacali,  le quali avevano preso atto della circolare
 emanata dal  Prefetto  di  Roma,  nell'imminenza  dello  sciopero,  che
 richiamava  l'esigenza  dell'assolvimento delle funzioni stesse, e cio'
 non gia' al fine di legittimare lo sciopero (che essi ritengono in ogni
 caso  legittimo),  ma  per  la  responsabile  salvaguardia  di   quegli
 interessi  pubblici  piu'  essenziali,  la cui tutela e' stata ritenuta
 preminente e pregiudiziale nella sentenza n. 123 del 1962  della  Corte
 costituzionale.
     Per  il secondo gruppo di imputati gli avv. Benedetto Bussi, Ugo de
 Leone e Alfredo Pirrone hanno presentato il 14  luglio  1967  un  ampio
 scritto  di  deduzioni  nel  quale si rileva innanzi tutto che non puo'
 dubitarsi  dell'ammissibilita'  della  riproposizione  della  questione
 (benche'  gia'  risolta  in  senso negativo nella sentenza n.   123 del
 1962), data la diversita' dei termini in cui e' ora prospettata.  Nella
 precedente  sentenza, infatti, la legittimita' costituzionale dell'art.
 330 fu esaminata rifacendosi alla  relazione  esistente  tra  le  norme
 penali  in  esso contenute e la causa di giustificazione dell'esercizio
 del diritto di sciopero,  derivante  dalla  combinazione  dell'art.  40
 della  Costituzione  con  l'art.  51  del  Codice  penale:  pertanto la
 questione fu ridotta ad un semplice problema di interpretazione  e  non
 di  legittimita'  costituzionale.  Sulla base di quanto affermato dalla
 Corte stessa nella sentenza n. 29 del  1960  risulta  tuttavia  che  lo
 sciopero,  anche  se non fosse riconosciuto come un "diritto" dall'art.
 40, costituirebbe egualmente un atto penalmente lecito  in  virtu'  del
 disposto  dell'art.  39 della Costituzione e di conseguenza il problema
 della legittimita'  dell'art.  330  non  puo'  essere  risolto  in  una
 semplice   relazione   fra   disposizione  incriminatrice  e  causa  di
 giustificazione  dell'esercizio  del  diritto,   ma   dovrebbe   essere
 esaminato  in tutta la sua ampia portata di vera e propria questione di
 legittimita' costituzionale.
     In merito a tale questione, dopo avere richiamato la sentenza n. 46
 del 1958 secondo cui l'abbandono di un ufficio puo' avvenire anche  per
 ragioni diverse dallo sciopero, traendosene la conclusione che la norma
 non  poteva  essere  dichiarata costituzionalmente illegittima, obietta
 che siffatta conclusione puo' venir rovesciata se  si  ammette  -  come
 deve  ammettersi  ove si abbia presente l'origine storica della norma -
 che la disposizione  impugnata  ha  come  suo  fine,  nella  normale  e
 costante  applicazione  che se ne e' fatta, l'incriminazione di un tipo
 di attivita' (quella sindacale) che  e'  espressamente  prevista  dalla
 Costituzione,  quanto  meno  come  attivita' penalmente lecita. Ove poi
 veramente la previsione di reato di abbandono di ufficio possa  trovare
 un  valido fondamento in altro che nel divieto dell'attivita' sindacale
 spettera' al legislatore ridimensionare l'ambito dell'incriminazione in
 conformita' ai principi della Costituzione.
     Dopo aver ulteriormente illustrato il dedotto contrasto tra  l'art.
 330 del Codice penale, inteso come ispirato e condizionato direttamente
 dai  principi  dello  Stato  corporativo,  e  gli  artt.  39 e 40 della
 Costituzione,  che   nel   nuovo   ordinamento   costituzionale   hanno
 solennemente  riaffermato,  proprio  in  opposizione a quel sistema, il
 principio della liberta' sindacale inteso, gia' nella  sentenza  n.  29
 del  1960,  come  liberta'  di  azione  sindacale, la difesa dei vigili
 urbani conclude per la  dichiarazione  d'illegittimita'  costituzionale
 della norma.
     Queste  considerazioni  sono  state poi ulteriormente illustrate in
 una memoria depositata il 16 gennaio 1969, nella quale si richiamano le
 precedenti argomentazioni e si aggiunge che l'art.  39  costituisce  un
 logico  sviluppo  della proclamazione dell'art. 1 secondo cui "l'Italia
 e' una Repubblica democratica fondata sul lavoro" e  che,  pur  essendo
 inserito  nel  titolo  terzo  che  regola  i  "rapporti  economici"  si
 riconnette in una felice ed efficace sintesi con le altre  disposizioni
 regolanti  i "rapporti civili".  Aggiunge che la liberta' sindacale non
 puo' essere negata a particolari  categorie  di  cittadini,  stante  il
 divieto  di  discriminazioni  di  cui  all'art. 3 della Costituzione, e
 poiche' il' diritto di sciopero e' la principale  manifestazione  della
 liberta'  sindacale  non  puo'  come  questa subire limiti di carattere
 soggettivo. La diretta tutela che quest'ultimo diritto trova  nell'art.
 40 determina a suo favore una doppia liceita'. In base a questi rilievi
 la  difesa dei vigili conclude perche' l'art. 330 del Codice penale sia
 dichiarato costituzionalmente illegittimo.
     2.  - Altra questione analoga e' stata poi sollevata dal pretore di
 Roma nel corso di un processo penale contro cinque autisti e  fattorini
 dell'Organizzazione Autoservizi Zeppieri di Roma, imputati del reati di
 cui  all'art.  330  del  Codice  penale  per  avere  partecipato ad uno
 sciopero  impedendo  improvvisamente  le  partenze  dei  pulmann,   con
 riferimento agli artt. 3, 39 e 40 della Costituzione.
     Nell'ordinanza 2 marzo 1968 il pretore osserva innanzi tutto che la
 questione   puo'   essere   risollevata   nonostante   che   la   Corte
 costituzionale si sia gia' pronunciata sullo sciopero degli  incaricati
 di  un  pubblico servizio di autotrasporti, rifacendosi sostanzialmente
 ai motivi  gia'  richiamati  a  proposito  dell'ordinanza  del  giudice
 istruttore per dedurne che la questione di costituzionalita' e' rimasta
 impregiudicata. Argomenta la non manifesta infondatezza della questione
 stessa  facendo  osservare  che  l'ammissione  di  limiti soggettivi al
 diritto di sciopero, mentre violerebbe l'art. 3, sarebbe  in  contrasto
 con  l'art.  40  che consente solo limitazioni riguardanti l'esercizio,
 non gia' la titolarita' del diritto stesso, ed altresi' con l'art.  39,
 data la connessione fra quest'ultimo e la liberta' sindacale.
     Passando  a  considerare  il  problema  dei  limiti  obbiettivi del
 diritto di sciopero, l'ordinanza osserva  che  esula  dalla  competenza
 dell'autorita'  giudiziaria  effettuare  quella  comparazione  fra  gli
 interessi tutelati con l'esercizio del diritto  di  sciopero  e  quelli
 generali  preminenti  da cui la Corte fa discendere uno di tali limiti.
 Escluso poi che l'art.  330 comprenda in se' ipotesi di astensione  dal
 lavoro  non  qualificabili come sciopero, essendo ipotesi di tal genere
 previste dal successivo art. 333, non e'  prospettabile  l'eventualita'
 che  dall'annullamento  dell'art. 330 possa discendere una lacuna, tale
 da precludere la pronunzia che lo sancisca.
     Infine il pretore segnala l'antinomia  che  si  determinerebbe  tra
 l'applicazione    "residuale"    dell'art.    330   e   la   previsione
 dell'aggravante  per  l'ipotesi  in  cui  il  fatto  abbia  determinato
 dimostrazioni,  tumulti  o  sommosse popolari, la quale e' conciliabile
 invece con l'interpretazione da lui seguita.
     L'ordinanza  e'  stata  regolarmente   comunicata,   notificata   e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 152 del 15 giugno 1968.
     Avanti  la  Corte  costituzionale si sono costituiti Sica Giovanni,
 col patrocinio degli avv. Benedetto Bussi e  Vincenzo  Summa,  Bontatti
 Luigi e Santandrea Filippo, col patrocinio degli avv. Luciano Ventura e
 Vincenzo  Summa  e  Giacomi  Vittorio  col  patrocinio degli avv. Carlo
 Smuraglia e Vincenzo Summa, i quali hanno svolto le loro argomentazioni
 nella memoria depositata il 16 gennaio 1969.
     Anch'essi deducono preliminarmente che l'art. 330 del Codice penale
 deve ritenersi escluso dal sistema positivo per  effetto  della  caduta
 dell'ordinamento  corporativo  e  comunque  a  seguito  dell'entrata in
 vigore della Costituzione, per assoluta incompatibilita' con l'art.  40
 di  questa  e  ricordano come in un primo tempo fosse stata addirittura
 prospettata una sorta di  eccezionale  "desuetudine"  di  questa  norma
 penale  e  come in ogni caso la dottrina non abbia avuto dubbi circa la
 sua abrogazione ai sensi dell'art. 15 delle preleggi.
     Poiche'  tuttavia,  in  seguito,  si  e'   manifestato   anche   un
 orientamento  giurisprudenziale diretto a negare l'abolizione implicita
 della norma, o a risolvere il problema mediante ricorso all'esimente di
 cui all'art. 51 del Codice penale, appare necessario che si  giunga  ad
 un   completo  chiarimento  sul  punto,  col  riconoscimento  esplicito
 dell'illegittimita' costituzionale della norma.
     Dopo avere ricordata la sentenza della Corte n. 123 del 1962  e  la
 giurisprudenza  dei giudici ordinari, sempre restia ad applicare l'art.
 330, i difensori  si  diffondono  a  dimostrare  come  l'abbandono  del
 servizio sia previsto anche da altre norme sanzionatorie, rispetto alle
 quali  quella  in  esame  presenta  la particolarita' di essere diretta
 contro le astensioni a carattere collettivo e  contro  l'organizzazione
 dei  lavoratori,  come  del  resto era nelle intenzioni del legislatore
 dell'epoca. Donde la conseguenza che  l'art.  330  appare  oggi  o  una
 ripetizione   superflua   di  altre  norme  penali  o  come  una  norma
 incompatibile con i principi di liberta'  che  informano  l'ordinamento
 vigente.
     Dopo  avere  svolto  varie  considerazioni  volte  ad illustrare le
 particolarita' del rapporto di lavoro dei ferrotranvieri,  i  difensori
 mettono  in  rilievo  la  diversa  formulazione  della  norma impugnata
 rispetto a quella dell'art. 328  del  Codice  penale  che  punisce  chi
 indebitamente rifiuta ecc., ed a quella dell'art. 333, che punisce ogni
 prestazione  del servizio svolta (al fine anziche' soltanto in modo) da
 turbarne la regolarita', ed osservano che molto piu' grave ne  risulta,
 di  conseguenza,  la limitazione alla liberta' di azione sindacale. Per
 contro, la formula dell'art. 330 e' da avvicinare  a  quella  dell'art.
 502,  secondo  comma,  del  Codice  penale,  che  fu infatti dichiarato
 incostituzionale con la sentenza n. 29 del 1960.
     Per queste ragioni insistono per la dichiarazione di illegittimita'
 costituzionale dell'art. 330 del Codice penale,  per  violazione  degli
 artt. 3, 39 e 40 della Costituzione.
     3.  - Infine, altra simile questione di legittimita' costituzionale
 e' stata sollevata dallo stesso pretore di Roma, con ordinanza 7  marzo
 1968, nel corso del processo penale promosso contro Corsi Bernardino ed
 altri  dipendenti  dell'Azienda Comunale Centrale del Latte di Roma che
 avevano anch'essi abbandonato collettivamente il servizio  per  aderire
 ad uno sciopero.
     Dopo  avere  svolto  considerazioni  preliminari  analoghe a quelle
 esposte nelle altre ordinanze, il pretore osserva che la statuizione di
 questa Corte, secondo cui l'art. 330 puo' trovare  ancora  applicazione
 per  gli  scioperi  a  finalita'  non  economiche,  e  per  quelli  dei
 funzionari esercenti attivita' la cui interruzione riesca lesiva  degli
 interessi  generali  tutelati  dalla  Costituzione,  in  quanto  ha per
 conseguenza di affidare al giudice ordinario la  identificazione  della
 natura  dello  sciopero  e  la  valutazione comparativa degli interessi
 confliggenti, viene a contrastare con il  principio  della  riserva  di
 legge  posta  dall'art.  40  della  Costituzione  che  non  consente di
 decidere nei singoli casi, e con criteri necessariamente  variabili  da
 caso  a  caso,  quali  siano  gli  interessi  suscettibili  di  imporre
 limitazioni  soggettive  ed  oggettive  del  diritto  in  questione,  e
 contrasta  altresi'  con  l'altro principio dell'eguaglianza consacrato
 nell'art. 3.  Aggiunge che, anche a volere ammettere la sussistenza  di
 limiti  di  tal genere, non se ne puo' senz'altro argomentare che dalla
 loro violazione siano da far discendere sanzioni penali, essendo invece
 possibile ipotizzare conseguenze intermedie fra  l'illecito  penalmente
 sanzionato e il diritto, la cui determinazione non e' stata operata dal
 legislatore,  ne'  e' desumibile dall'interpretazione data dalla Corte.
 Altro  contrasto  con  i  principi  il  giudice  desume dall'ipotesi di
 aggravamento che il n.  1  dell'ultimo  comma  dello  stesso  art.  330
 prevede  pel  caso  che  l'abbandono  dei  pubblici servizi avvenga per
 finalita' politica.  Ipotesi  che  (mentre  non  appare  integrata  nel
 vigente  sistema costituzionale che e' sorto da esperienze storiche che
 hanno conferito agli scioperi  politici  rilievo  fondamentale,  e  che
 riconosce  all'autotutela  popolare  una  funzione  di  garanzia contro
 involuzioni antidemocratiche dell'ordinamento) presenta il pericolo che
 si ravvisi una finalita' politica in ogni forma di sciopero di pubblici
 dipendenti. Fa rilevare infine che l'esclusione dal diritto di sciopero
 per intere categorie di lavoratori importa gravi conseguenze in  ordine
 alla  liberta'  sindacale,  che  e'  in  stretta  correlazione con quel
 diritto (come  la  Corte  ha  altre  volte  ritenuto)  e  determina  di
 conseguenza anche una violazione dell'art. 39.
     L'ordinanza debitamente notificata e comunicata e' stata pubblicata
 nella  Gazzetta  Ufficiale  n.  203  del  10  agosto 1968. Nel giudizio
 innanzi a questa Corte nessuna delle parti si e' costituita.
                         Considerato in diritto:
     Le tre cause, aventi ad oggetto una stessa disposizione legislativa
 e  richiedenti  l'interpretazione  delle  disposizioni   costituzionali
 attinenti  alla  stessa  materia  vanno  riunite  e  decise  con  unica
 sentenza.
     1. - L'ordinanza del giudice istruttore  denuncia  l'illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  330 del Codice penale, per violazione, oltre
 che  dell'art.  40  della  Costituzione,  gia'  preso  in  esame  dalla
 precedente  sentenza n. 123 del 1962, anche dell'art. 39, mentre le due
 del pretore aggiungono a queste la violazione dell'art. 3.
     Si rende opportuno, prima  di  procedere  all'esame  delle  censure
 riferite,  prendere  in  considerazione  il  motivo,  fatto valere piu'
 particolarmente  dalla  difesa  di  parte,  che,   se   vero,   sarebbe
 assorbente,  secondo  cui, avendo l'art. 330 recepito in ogni sua parte
 (con in piu' l'aggravamento delle pene) l'art. 19 della legge 3  aprile
 1926,  n.  563,  sulla  disciplina giuridica dei rapporti collettivi di
 lavoro, ed essendo percio' permeato  dell'ideologia  corporativa  della
 quale  quella  legge fu tipica espressione, non se ne puo' ammettere la
 permanenza in un ordinamento  come  quello  ora  vigente  poggiante  su
 concezioni  con  essa  contrastanti.    Sicche',  anche  a  non volerne
 dichiarare l'avvenuta abrogazione (come la Corte ebbe  a  ritenere  nei
 confronti  dell'art. 502, con la sentenza 29 del 1960), sia da statuire
 l'illegittimita' dell'intera disciplina ivi contenuta.
     Il richiamo all'art.  502  e'  pero'  inconferente  perche'  questo
 puniva lo sciopero effettuato per motivi contrattuali, contrastante con
 l'ordine  del  lavoro  e  rubricato  fra  i  delitti  contro l'economia
 pubblica, sicche', strettamente collegato  com'era  ad  un  insieme  di
 istituti   creati  per  la  composizione  in  via  giurisdizionale  dei
 conflitti fra le classi addette alla produzione, non pote' sopravvivere
 alla loro caduta. Differente e' invece la valutazione da fare dell'art.
 330, riguardante un reato iirriducibile all'altro per la diversita' dei
 soggetti e  degli  interessi  coinvolti  nell'abbandono  del  servizio.
 Infatti  il  Codice  lo  fa  rientrare  fra  i reati contro la pubblica
 Amministrazione, considerando suoi soggetti attivi, oltre ai lavoratori
 dipendenti, anche alcune categorie di  lavoratori  autonomi  e  persino
 soggetti,  quali  i pubblici funzionari, del tutto estranei ai rapporti
 di lavoro cui si riferiva l'ordinamento corporativo.
     Si  puo'  aggiungere  che  nei  confronti di questi ultimi anche il
 Codice penale prefascista del 1889, puniva  all'art.    181  l'indebito
 allontanamento dall'ufficio effettuato previo concerto in numero di tre
 o  piu' persone.   Allontanamento che, secondo le concezioni del tempo,
 era considerato "indebito" pur quando fosse stato promosso dall'intento
 di ottenere mutamenti delle norme regolanti rapporti di lavoro  con  lo
 Stato  o  con  altri  enti  pubblici  (come  puo'  desumersi  anche dal
 confronto con  il  disposto  dell'art.  166,  dettato  per  i  rapporti
 disciplinati  da  convenzioni  di  diritto  privato,  rispetto ai quali
 perseguito penalmente era l'abbandono del lavoro  solo  se  promosso  o
 accompagnato da violenza o da minacce).
     Se  una correlazione e' dato riscontrare fra l'art. 330 e l'assetto
 politico vigente al tempo della sua emanazione, essa non  attiene  alla
 disciplina   giuridica  dei  rapporti  di  lavoro  o  di  servizio  ivi
 considerati, ma piuttosto alla generale  concezione  autoritaria  della
 posizione  dello  Stato  nei  rapporti  con i cittadini che ispirava il
 regime dell'epoca e conduceva a ridurre la tutela dei diritti  pubblici
 soggettivi  di  costoro,  quando non anche a negarne il riconoscimento;
 concezione che trova un riflesso, per  quanto  riguarda  l'articolo  in
 esame,  nella  gravita'  delle  sanzioni  penali dal medesimo comminate
 (tanto piu' evidente quando si pongano a  confronto  con  quelle  prima
 disposte   dall'art.   181,   fatte   consistere  solo  nella  multa  e
 nell'interdizione temporanea dall'ufficio). Ma, a parere  della  Corte,
 tale circostanza non e' sufficiente a far ritenere caducato l'articolo,
 ne' per la parte precettiva, ne' per quella sanzionatoria.
     Che  l'art.  330  non  possa  in  nessun  caso venir meno nella sua
 totalita' emerge poi anche dall'altro rilievo che la genericita'  della
 sua  formulazione  lo rende applicabile a fatti di abbandono collettivo
 del lavoro i quali non abbiano finalita' rivendicative degli  interessi
 economici di coloro che l'effettuano, sicche' verrebbe a conservare una
 sua  propria  ragione  d'essere (contrariamente a quanto si sostiene, e
 senza considerare il precedente rilievo sull'incongruenza  della  pena)
 anche   se   dovesse   venire   affermata  l'incostituzionalita'  della
 particolare fattispecie criminosa costituita dallo  sciopero  in  senso
 tecnico.  Ne'  vale  a  far  ritenere  diversamente l'argomento desunto
 dall'intitolazione data all'articolo in esame  poiche',  se  pure  essa
 corrispondeva  all'intenzione del legislatore dell'epoca di considerare
 lo sciopero come fattispecie tipica del crimine voluto  reprimere,  non
 esclude  la  possibilita'  di far rientrare nell'ampia sua formulazione
 anche  ipotesi  differenti  da  quella  tipica.  Puo'  aggiungersi  che
 l'ordinamento antecedente prevedeva come reato a se' stante l'abbandono
 dell'ufficio  da  parte  di  un  singolo  pubblico ufficiale (art. 181,
 secondo comma), dal che  puo'  argomentarsi  che  la  pluralita'  degli
 agenti   era   considerata  costitutiva  di  un  reato  a  se'  stante,
 differenziabile quindi da quello cui da' luogo  la  comune  figura  del
 concorso di piu' persone in uno stesso reato. Il che sembra sufficiente
 a  contestare  l'esattezza  della tesi enunciata dalla difesa di parte,
 secondo cui la caduta dell'art. 330 non  determinerebbe  alcuna  lacuna
 riguardo alla repressione dell'abbandono collettivo dell'attivita', per
 il  fatto  che  vi  si  potrebbe provvedere ricorrendo all'applicazione
 dell'art.   333 del Codice penale.  La  diversita'  delle  due  ipotesi
 appare   comprovata   dal   fatto  che,  mentre  quest'ultimo  articolo
 condiziona la punibilita' alla prova del dolo specifico  (abbandono  al
 fine  di turbare la continuita' o regolarita' del servizio), l'altro ne
 prescinde,   nella   presunzione  che  tale  turbamento  si  accompagni
 necessariamente  all'abbandono  effettuato  da  un  gruppo  di  persone
 d'accordo fra loro.
     Piu'  persuasivo  dei precedenti non e' neppure un ultimo argomento
 che si ritiene di poter trarre dall'aggravamento di pena sancito dal n.
 2 del secondo comma  dell'art.  330  pel  caso  che  l'abbandono  abbia
 determinato   dimostrazioni   o   tumulti,   poiche',  comprendendo  la
 disposizione, come si e' detto, ogni specie di astensione  dal  lavoro,
 non  si  sarebbe potuto non considerare l'ipotesi che i fini perseguiti
 da qualcuna di esse o le modalita' del suo  svolgimento  inducessero  a
 fatti di violenza o di turbamento dell'ordine pubblico.
     2.  -  Passando  ora a considerare le censure dedotte dall'art. 40,
 con riferimento allo sciopero ivi considerato, caratterizzato  (secondo
 l'origine  e  la  funzione  attribuita  al  termine  nell'attuale  fase
 storica)  dalla  sospensione  dell'attivita'  di  lavoro  da  parte  di
 lavoratori   dipendenti,   strumentale   pel   conseguimento  dei  beni
 economico-sociali che il sistema costituzionale collega  alle  esigenze
 di  tutela  e  di  sviluppo  della  loro  personalita',  la  Corte deve
 riconfermare l'interpretazione data nella precedente  sentenza  n.  123
 del  1962  circa  l'ambito da assegnare ai limiti che l'articolo stesso
 connette all'esercizio del diritto di sciopero.
     Si e' in contrario pregiudizialmente sostenuto che,  avendo  l'art.
 40   assegnato   alla  legge  la  determinazione  di  siffatti  limiti,
 l'interprete non potrebbe sostituirsi ad essa senza violare la  riserva
 disposta  a  suo  favore.  E'  agevole  replicare  che  la liberta' del
 legislatore in materia non puo' esercitarsi in misura tale da  riuscire
 lesiva  di  altri principi costituzionali, indirizzati alla tutela o di
 beni  di  singoli,   pari   ordinati   rispetto   a   quelli   affidati
 all'autotutela  di  categoria,  oppure  delle  esigenze  necessarie  ad
 assicurare la vita stessa della comunita' e dello  Stato.  E  non  puo'
 esser  dubbio  che  competa  alla  Corte  costituzionale la funzione di
 accertare se limiti di tal genere si desumano dal  sistema,  procedendo
 nell'affermativa  alla  loro  determinazione,  allorche'  cio' si renda
 necessario, come avviene nella specie, per potere decidere  della  loro
 applicabilita'  alla  legge  denunciata.  Ove si ritenesse diversamente
 risulterebbe violata non gia' la riserva di legge, ma  l'altra  riserva
 che  l'art.  134  dispone nei confronti della Corte quando le affida il
 compito di giudicare della  legittimita'  costituzionale  delle  leggi.
 L'ampia  discrezionalita'  spettante  al legislatore per l'assolvimento
 del compito conferitogli dall'art. 40 non potrebbe mai  esercitarsi  in
 modo  da pregiudicare gli interessi fondamentali dello Stato previsti e
 protetti dalla Costituzione. Ne' puo' ammettersi che l'intervento della
 Corte si renda possibile solo dopo che il potere predetto  sara'  stato
 esercitato  ed in confronto alla legge a tale scopo emanata, perche', a
 parte l'assurdo di un diritto suscettibile di svolgersi  per  un  tempo
 indeterminato  all'infuori  di  ogni  limite,  il  vincolo a carico del
 legislatore,  proveniente  da  una  fonte  sopraordinata,   com'e'   la
 Costituzione, precede e condiziona la sua attivita'.
     La tesi enunciata dalle ordinanze secondo cui l'art. 40, prevedendo
 solo  limitazioni  all'esercizio  del  diritto, non tollera che esse si
 estendano  alla  sua  titolarita',  si  dimostra  inesatta  sulla  base
 dell'osservazione che queste ultime sono necessariamente collegate alle
 prime.  Infatti, una volta ammesso, com'e' indubbio, che la liberta' di
 sciopero, per rimanere nell'ambito corrispondente al  suo  oggetto,  di
 liberta'  di  non  fare,  deve  svolgersi  in  modo da non ledere altre
 liberta'  costituzionalmente  garantite,  com'e'  quella  consentita  a
 quanti  non  aderiscono allo sciopero, di continuare nel loro lavoro, o
 altri diritti egualmente protetti, quale quello di poter  continuare  a
 fruire  dei  beni patrimoniali privati o di appartenenza pubblica senza
 che essi siano esposti al pericolo di danneggiamenti o  ad  occupazioni
 abusive,  se  ne  deve  dedurre che, gia' pur sotto questo circoscritto
 punto di vista, non sia contestabile l'esigenza di limitare il  diritto
 in  parola per coloro cui siano demandati compiti rivolti ad assicurare
 il rispetto degli interessi  che  potrebbero  riuscire  compromessi  da
 scioperanti  indotti a sostenere le proprie ragioni con intimidazioni o
 violenze, e rispetto a cui si rende indispensabile l'impiego di congrui
 mezzi di prevenzione o di repressione. Rilievo ancora maggiore assumono
 le prospettate esigenze garantiste quando si abbia riguardo  ai  valori
 fondamentali  legati all'integrita' della vita e della personalita' dei
 singoli, la cui salvaguardia, insieme a quella  della  sicurezza  verso
 l'esterno,  costituisce  la  prima  ed essenziale ragion d'essere dello
 Stato.
     Si potrebbe ritenere che la soddisfazione  di  tali  finalita'  non
 richieda  necessariamente  e  sempre  l'esclusione  dall'esercizio  del
 diritto per tutti i preposti ai compiti di  protezione  di  cui  si  e'
 parlato,  potendo  risultare  sufficiente,  almeno  per alcuni di essi,
 consentire l'esercizio stesso in una misura tale da  assicurare  almeno
 un  minimo  di  prestazioni che attengano iai servizi essenziali. Ma e'
 chiaro che la disciplina di  un  siffatto  uso  parziale  non  potrebbe
 essere  consentita  altrimenti che con apposita legge, cui competerebbe
 fissarne i casi di ammissibilita', nonche'  le  condizioni  ed  i  modi
 necessari  ad  assicurare  la  efficienza  e la continuita' dei servizi
 stessi.
     Le conclusioni alle  quali  si  e'  pervenuto  nell'interpretazione
 dell'art.  40  non  sono in nessun modo influenzate dal richiamo che le
 ordinanze fanno all'art. 3, dato che l'eguaglianza  nel  godimento  dei
 diritti puo' farsi valere fino a quando sussista parita' di situazioni,
 e  tale  presupposto non si verifica per i preposti ad organi e per gli
 appartenenti a corpi che importano  l'assoggettamento  dei  medesimi  a
 quei  particolari  doveri  ai  quali  e'  legato il conseguimento delle
 finalita' prima menzionate.
     Parimenti non decisivo deve ritenersi  il  richiamo  all'art.    39
 poiche',  anche  ad  ammettere  che  la  liberta'  di  associazione  di
 categoria per coloro il cui rapporto di lavoro non sia  regolato  dalla
 contrattazione  collettiva trovi fondamento in detta norma, e non debba
 piuttosto farsi discendere dal principio consacrato nell'art. 18, e pur
 tenendo presente quanto la Corte ha statuito con le due sentenze n.  29
 del  1960  e n. 141 del 1967, secondo cui la liberta' di organizzazione
 sindacale trova il suo necessario corollario nella liberta' di  azione,
 non   puo'   senz'altro   farsene  discendere  in  ogni  caso  una  sua
 indiscriminata pienezza di esercizio, una volta dimostrato, come si  e'
 fatto,  che  la  liberta' stessa, considerata in se' e nel sistema, non
 puo' non risultare limitata. Ed e' chiaro che anche l'art. 81, lett. e,
 della legge delegata n. 3  del  1957,  sullo  statuto  degli  impiegati
 civili  dello  Stato,  invocato  dalla  difesa  di  parte,  deve essere
 interpretato  alla  stregua  del   criterio   delineato.   Naturalmente
 competera' poi al legislatore stabilire i mezzi di azione sindacale per
 la  difesa  degli interessi di categoria dei funzionari, per i quali il
 limite in parola fosse fatto valere.
     Discende  dalle  precedenti  considerazioni  che per i soggetti non
 addetti alle menzionate funzioni essenziali debba riconoscersi pienezza
 di esercizio del diritto di sciopero,  salva  sempre  la  potesta'  del
 legislatore di regolarne le modalita'.
     3.  -  Il  compito affidato alla Corte non puo' spingersi al di la'
 della  determinazione  del  criterio   generale,   qual'e'   desumibile
 dall'interpretazione   sistematica  dell'art.  40  della  Costituzione.
 Compete al giudice di merito procedere alla applicazione  del  criterio
 stesso   ai   casi  concreti,  che  dovra'  effettuarsi  in  base  alla
 valutazione di  tutti  gli  elementi  che,  nelle  singole  situazioni,
 concorrono a far decidere circa l'appartenenza a categorie per le quali
 il  riconoscimento  del  diritto  all'astensione  collettiva dal lavoro
 rischi di compromettere funzioni o servizi  da  considerare  essenziali
 pel  loro  carattere  di  preminente interesse generale, ai sensi della
 Costituzione.
     Non e' esatto quanto asserito  in  qualcuna  delle  ordinanze,  che
 cioe'  sfugga  al  potere  del giudice la valutazione comparativa degli
 interessi,  quale  si  rende  necessaria  per  la   risoluzione   delle
 controversie  in  materia,  poiche'  a  valutazioni  siffatte  l'organo
 giudicante  necessariamente  deve  procedere  tutte  le  volte  che  la
 formulazione delle norme da applicare le richieda.