ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi riuniti di legittimita' costituzionale dell'art. 330 del Codice penale promossi con le seguenti ordinanze: 1) ordinanza emessa il 21 luglio 1966 dal giudice istruttore del tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di Agostinelli Ottavio, Balsimelli Luciano, Merola Salvatore ed altri, iscritta al n. 88 del Registro ordinanze 1967 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 157 del 24 giugno 1967; 2) ordinanza emessa il 2 marzo 1968 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Sica Giovanni, Giacomi Vittorio, Bontatti Luigi, Santandrea Filippo ed altri, iscritta al n. 82 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 152 del 15 giugno 1968; 3) ordinanza emessa il 7 marzo 1968 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Corsi Bernardino ed altri, iscritta al n. 107 del Registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 203 del 10 agosto 1968. Visti gli atti di costituzione di Balsimelli ed altri, Merola ed altri, Sica, Giacomi, Bontatti e Santandrea; udita nell'udienza pubblica del 29 gennaio 1969 la relazione del Giudice Costantino Mortati; uditi gli avvocati Ugo De Leone, Guido Martuscelli, Vincenzo Summa, Luciano Ventura, Massimo Severo Giannini e Benedetto Bussi, per le parti private costituite. Ritenuto in fatto: 1. - In relazione ad un procedimento penale in corso di istruzione formale promosso nei confronti di 203 persone, imputate alcune dei reati di cui all'art. 330 del Codice penale, per avere abbandonato collettivamente il pubblico ufficio di vigile urbano nei giorni 30 giugno e 1 luglio 1965 e altre per avere promosso ed organizzato tale abbandono collettivo, il Giudice istruttore di Roma ha sollevato questione di legittimita' costituzionale della suddetta norma penale per violazione degli artt. 39 e 40 della Costituzione. Nell'ordinanza in data 21 luglio 1966 si osserva preliminarmente che la questione e' rilevante, nonostante che i reati rubricati siano coperti dall'intervenuta amnistia, poiche', ove l'art. 330 del Codice penale fosse dichiarato incostituzionale, gli imputati dovrebbero essere prosciolti nel merito, in applicazione dell'art. 152 cpv., del Codice di procedura penale. Nel merito l'ordinanza, dopo avere indicato i motivi i quali conducono ad escludere che la originaria correlazione dell'art. 330 con l'ordinamento corporativo sia cosi' stretta da determinare la sua automatica abrogazione, in seguito ai provvedimenti legislativi di soppressione di tale ordinamento intervenuti negli anni 1943 e 1944, passa a deliberare la fondatezza della questione di legittimita' costituzionale, che non gli appare preclusa dalla sentenza n. 123 del 1962 della Corte costituzionale, sia perche' viene ora dedotta anche la violazione dell'art. 39 della Costituzione, sia perche' in tale sentenza la questione non sarebbe stata pienamente affrontata e risolta, dato che essa si limito' ad affermare l'applicabilita' alla fattispecie della scriminante di cui all'art. 51 del Codice penale, sancendo cosi' la validita' dell'art. 330 Cod. pen. Nonostante i suoi riconosciuti "aspetti d'incostituzionalita'". Conclude pertanto per la non manifesta infondatezza della questione, nei confronti oltreche' dell'art. 40, anche dell'art. 39, perche' il riconoscimento della liberta' sindacale potrebbe direttamente giustificare la liceita' penale di tutte le varie forme di tutela degli interessi professionali. L'ordinanza e' stata regolarmente comunicata, notificata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 157 del 24 giugno 1967. Avanti la Corte si sono costituiti due gruppi di imputati. Il primo assistito dagli avv. Massimo Severo Giannini, Giuseppe Sabatini e Guido Martuscelli, i quali, in una memoria a stampa depositata il 14 gennaio 1969 hanno illustrato le conclusioni contenute nell'atto di costituzione, tendenti a far dichiarare la illegittimita' costituzionale dell'art. 330 del Codice penale in riferimento agli artt. 39 e 40 della Costituzione, o, quanto meno, l'inesistenza di una questione di incostituzionalita' per mancanza di azioni incriminabili "essendo stati i fatti ascritti ai giudicabili assoggettati a limiti atti a salvaguardare quegli interessi che potessero ritenersi preminenti". Nella memoria si deduce che l'art. 330 del Codice penale dovrebbe ritenersi abrogato, sia per effetto della soppressione dell'ordinamento corporativo (dato che esso ebbe come sua funzione di riprodurre e completare disposizioni penali gia' contenute nella legge 3 aprile 1926, n. 563) sia per effetto dei nuovi principi introdotti nell'ordinamento italiano con l'art. 40 della Costituzione sanzionanti la liberta' di sciopero e il diritto di sciopero. La tesi dell'abrogazione, pur se non ancora adottata espressamente, sarebbe tuttavia prevalente nel convincimento sostanziale e complessivo della stessa Corte, come risulterebbe da riconoscimenti contenuti nella motivazione di alcune sentenze, circa la sussistenza di un radicale contrasto fra i principi dell'ordinamento corporativo e quelli del vigente sistema costituzionale. Si deduce poi che, anche a prescindere dall'abrogazione dell'art. 330 del Codice penale, l'azione degli imputati non risulterebbe incriminabile per essere stata compiuta nell'esercizio di un diritto. Ricordate le sentenze della Corte n. 46 del 1958, n. 29 del 1960 e n. 123 del 1962, la difesa passa ad affrontare la particolare posizione che e' propria dei vigili urbani, per dimostrare come anche ad essi competa il diritto di sciopero, in applicazione del fondamentale principio di eguaglianza stabilito dall'art. 3 della Costituzione. Considerato che l'esclusione dei vigili urbani dal novero di coloro che hanno diritto di scioperare e' stata fatta dipendere dalla circostanza che essi esercitano funzioni di polizia giudiziaria ed hanno la qualifica di agenti di pubblica sicurezza, la difesa, dopo avere osservato che funzioni di polizia giudiziaria competono anche ad altro personale, come alle guardie daziarie, campestri ed alle guardie giurate, per le quali e' inconcepibile l'esclusione del diritto stesso, mette in rilievo che il riconoscimento prefettizio delle qualita' di agente di pubblica sicurezza non e' automatico per tutti i vigili in quanto tali, ma avviene con un provvedimento discrezionale ad personam che comporta l'attribuzione a singoli vigili di mansioni estranee alle funzioni istituzionali del Corpo. Ne' la privazione del diritto di sciopero puo' farsi derivare dall'art. 98 della Costituzione, perche' questo prevede la possibilita' di limitare il divieto dell'iscrizione ai partiti politici solo per determinate categorie di pubblici funzionari; e, poiche' nessuna altra norma costituzionale circoscrive il diritto di iscrizione ai sindacati per tali categorie, se ne deve dedurre che ai membri di esse sia da riconoscere, in via conseguenziale, anche il diritto di sciopero. A parte queste considerazioni di ordine generale, la difesa stessa fa comunque rilevare come l'azione di sciopero concretamente posta in essere, ed alla quale si riferisce l'attuale incriminazione, fu limitata alle funzioni che sono proprie dei vigili urbani come dipendenti comunali, mentre gli stessi scioperanti sostarono nelle sedi dei rispettivi reparti dichiarandosi pronti ad assolvere alle funzioni di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza relative ad eventuali incidenti stradali. Cio' in conformita' alle direttive delle organizzazioni sindacali, le quali avevano preso atto della circolare emanata dal Prefetto di Roma, nell'imminenza dello sciopero, che richiamava l'esigenza dell'assolvimento delle funzioni stesse, e cio' non gia' al fine di legittimare lo sciopero (che essi ritengono in ogni caso legittimo), ma per la responsabile salvaguardia di quegli interessi pubblici piu' essenziali, la cui tutela e' stata ritenuta preminente e pregiudiziale nella sentenza n. 123 del 1962 della Corte costituzionale. Per il secondo gruppo di imputati gli avv. Benedetto Bussi, Ugo de Leone e Alfredo Pirrone hanno presentato il 14 luglio 1967 un ampio scritto di deduzioni nel quale si rileva innanzi tutto che non puo' dubitarsi dell'ammissibilita' della riproposizione della questione (benche' gia' risolta in senso negativo nella sentenza n. 123 del 1962), data la diversita' dei termini in cui e' ora prospettata. Nella precedente sentenza, infatti, la legittimita' costituzionale dell'art. 330 fu esaminata rifacendosi alla relazione esistente tra le norme penali in esso contenute e la causa di giustificazione dell'esercizio del diritto di sciopero, derivante dalla combinazione dell'art. 40 della Costituzione con l'art. 51 del Codice penale: pertanto la questione fu ridotta ad un semplice problema di interpretazione e non di legittimita' costituzionale. Sulla base di quanto affermato dalla Corte stessa nella sentenza n. 29 del 1960 risulta tuttavia che lo sciopero, anche se non fosse riconosciuto come un "diritto" dall'art. 40, costituirebbe egualmente un atto penalmente lecito in virtu' del disposto dell'art. 39 della Costituzione e di conseguenza il problema della legittimita' dell'art. 330 non puo' essere risolto in una semplice relazione fra disposizione incriminatrice e causa di giustificazione dell'esercizio del diritto, ma dovrebbe essere esaminato in tutta la sua ampia portata di vera e propria questione di legittimita' costituzionale. In merito a tale questione, dopo avere richiamato la sentenza n. 46 del 1958 secondo cui l'abbandono di un ufficio puo' avvenire anche per ragioni diverse dallo sciopero, traendosene la conclusione che la norma non poteva essere dichiarata costituzionalmente illegittima, obietta che siffatta conclusione puo' venir rovesciata se si ammette - come deve ammettersi ove si abbia presente l'origine storica della norma - che la disposizione impugnata ha come suo fine, nella normale e costante applicazione che se ne e' fatta, l'incriminazione di un tipo di attivita' (quella sindacale) che e' espressamente prevista dalla Costituzione, quanto meno come attivita' penalmente lecita. Ove poi veramente la previsione di reato di abbandono di ufficio possa trovare un valido fondamento in altro che nel divieto dell'attivita' sindacale spettera' al legislatore ridimensionare l'ambito dell'incriminazione in conformita' ai principi della Costituzione. Dopo aver ulteriormente illustrato il dedotto contrasto tra l'art. 330 del Codice penale, inteso come ispirato e condizionato direttamente dai principi dello Stato corporativo, e gli artt. 39 e 40 della Costituzione, che nel nuovo ordinamento costituzionale hanno solennemente riaffermato, proprio in opposizione a quel sistema, il principio della liberta' sindacale inteso, gia' nella sentenza n. 29 del 1960, come liberta' di azione sindacale, la difesa dei vigili urbani conclude per la dichiarazione d'illegittimita' costituzionale della norma. Queste considerazioni sono state poi ulteriormente illustrate in una memoria depositata il 16 gennaio 1969, nella quale si richiamano le precedenti argomentazioni e si aggiunge che l'art. 39 costituisce un logico sviluppo della proclamazione dell'art. 1 secondo cui "l'Italia e' una Repubblica democratica fondata sul lavoro" e che, pur essendo inserito nel titolo terzo che regola i "rapporti economici" si riconnette in una felice ed efficace sintesi con le altre disposizioni regolanti i "rapporti civili". Aggiunge che la liberta' sindacale non puo' essere negata a particolari categorie di cittadini, stante il divieto di discriminazioni di cui all'art. 3 della Costituzione, e poiche' il' diritto di sciopero e' la principale manifestazione della liberta' sindacale non puo' come questa subire limiti di carattere soggettivo. La diretta tutela che quest'ultimo diritto trova nell'art. 40 determina a suo favore una doppia liceita'. In base a questi rilievi la difesa dei vigili conclude perche' l'art. 330 del Codice penale sia dichiarato costituzionalmente illegittimo. 2. - Altra questione analoga e' stata poi sollevata dal pretore di Roma nel corso di un processo penale contro cinque autisti e fattorini dell'Organizzazione Autoservizi Zeppieri di Roma, imputati del reati di cui all'art. 330 del Codice penale per avere partecipato ad uno sciopero impedendo improvvisamente le partenze dei pulmann, con riferimento agli artt. 3, 39 e 40 della Costituzione. Nell'ordinanza 2 marzo 1968 il pretore osserva innanzi tutto che la questione puo' essere risollevata nonostante che la Corte costituzionale si sia gia' pronunciata sullo sciopero degli incaricati di un pubblico servizio di autotrasporti, rifacendosi sostanzialmente ai motivi gia' richiamati a proposito dell'ordinanza del giudice istruttore per dedurne che la questione di costituzionalita' e' rimasta impregiudicata. Argomenta la non manifesta infondatezza della questione stessa facendo osservare che l'ammissione di limiti soggettivi al diritto di sciopero, mentre violerebbe l'art. 3, sarebbe in contrasto con l'art. 40 che consente solo limitazioni riguardanti l'esercizio, non gia' la titolarita' del diritto stesso, ed altresi' con l'art. 39, data la connessione fra quest'ultimo e la liberta' sindacale. Passando a considerare il problema dei limiti obbiettivi del diritto di sciopero, l'ordinanza osserva che esula dalla competenza dell'autorita' giudiziaria effettuare quella comparazione fra gli interessi tutelati con l'esercizio del diritto di sciopero e quelli generali preminenti da cui la Corte fa discendere uno di tali limiti. Escluso poi che l'art. 330 comprenda in se' ipotesi di astensione dal lavoro non qualificabili come sciopero, essendo ipotesi di tal genere previste dal successivo art. 333, non e' prospettabile l'eventualita' che dall'annullamento dell'art. 330 possa discendere una lacuna, tale da precludere la pronunzia che lo sancisca. Infine il pretore segnala l'antinomia che si determinerebbe tra l'applicazione "residuale" dell'art. 330 e la previsione dell'aggravante per l'ipotesi in cui il fatto abbia determinato dimostrazioni, tumulti o sommosse popolari, la quale e' conciliabile invece con l'interpretazione da lui seguita. L'ordinanza e' stata regolarmente comunicata, notificata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 152 del 15 giugno 1968. Avanti la Corte costituzionale si sono costituiti Sica Giovanni, col patrocinio degli avv. Benedetto Bussi e Vincenzo Summa, Bontatti Luigi e Santandrea Filippo, col patrocinio degli avv. Luciano Ventura e Vincenzo Summa e Giacomi Vittorio col patrocinio degli avv. Carlo Smuraglia e Vincenzo Summa, i quali hanno svolto le loro argomentazioni nella memoria depositata il 16 gennaio 1969. Anch'essi deducono preliminarmente che l'art. 330 del Codice penale deve ritenersi escluso dal sistema positivo per effetto della caduta dell'ordinamento corporativo e comunque a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione, per assoluta incompatibilita' con l'art. 40 di questa e ricordano come in un primo tempo fosse stata addirittura prospettata una sorta di eccezionale "desuetudine" di questa norma penale e come in ogni caso la dottrina non abbia avuto dubbi circa la sua abrogazione ai sensi dell'art. 15 delle preleggi. Poiche' tuttavia, in seguito, si e' manifestato anche un orientamento giurisprudenziale diretto a negare l'abolizione implicita della norma, o a risolvere il problema mediante ricorso all'esimente di cui all'art. 51 del Codice penale, appare necessario che si giunga ad un completo chiarimento sul punto, col riconoscimento esplicito dell'illegittimita' costituzionale della norma. Dopo avere ricordata la sentenza della Corte n. 123 del 1962 e la giurisprudenza dei giudici ordinari, sempre restia ad applicare l'art. 330, i difensori si diffondono a dimostrare come l'abbandono del servizio sia previsto anche da altre norme sanzionatorie, rispetto alle quali quella in esame presenta la particolarita' di essere diretta contro le astensioni a carattere collettivo e contro l'organizzazione dei lavoratori, come del resto era nelle intenzioni del legislatore dell'epoca. Donde la conseguenza che l'art. 330 appare oggi o una ripetizione superflua di altre norme penali o come una norma incompatibile con i principi di liberta' che informano l'ordinamento vigente. Dopo avere svolto varie considerazioni volte ad illustrare le particolarita' del rapporto di lavoro dei ferrotranvieri, i difensori mettono in rilievo la diversa formulazione della norma impugnata rispetto a quella dell'art. 328 del Codice penale che punisce chi indebitamente rifiuta ecc., ed a quella dell'art. 333, che punisce ogni prestazione del servizio svolta (al fine anziche' soltanto in modo) da turbarne la regolarita', ed osservano che molto piu' grave ne risulta, di conseguenza, la limitazione alla liberta' di azione sindacale. Per contro, la formula dell'art. 330 e' da avvicinare a quella dell'art. 502, secondo comma, del Codice penale, che fu infatti dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 29 del 1960. Per queste ragioni insistono per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 330 del Codice penale, per violazione degli artt. 3, 39 e 40 della Costituzione. 3. - Infine, altra simile questione di legittimita' costituzionale e' stata sollevata dallo stesso pretore di Roma, con ordinanza 7 marzo 1968, nel corso del processo penale promosso contro Corsi Bernardino ed altri dipendenti dell'Azienda Comunale Centrale del Latte di Roma che avevano anch'essi abbandonato collettivamente il servizio per aderire ad uno sciopero. Dopo avere svolto considerazioni preliminari analoghe a quelle esposte nelle altre ordinanze, il pretore osserva che la statuizione di questa Corte, secondo cui l'art. 330 puo' trovare ancora applicazione per gli scioperi a finalita' non economiche, e per quelli dei funzionari esercenti attivita' la cui interruzione riesca lesiva degli interessi generali tutelati dalla Costituzione, in quanto ha per conseguenza di affidare al giudice ordinario la identificazione della natura dello sciopero e la valutazione comparativa degli interessi confliggenti, viene a contrastare con il principio della riserva di legge posta dall'art. 40 della Costituzione che non consente di decidere nei singoli casi, e con criteri necessariamente variabili da caso a caso, quali siano gli interessi suscettibili di imporre limitazioni soggettive ed oggettive del diritto in questione, e contrasta altresi' con l'altro principio dell'eguaglianza consacrato nell'art. 3. Aggiunge che, anche a volere ammettere la sussistenza di limiti di tal genere, non se ne puo' senz'altro argomentare che dalla loro violazione siano da far discendere sanzioni penali, essendo invece possibile ipotizzare conseguenze intermedie fra l'illecito penalmente sanzionato e il diritto, la cui determinazione non e' stata operata dal legislatore, ne' e' desumibile dall'interpretazione data dalla Corte. Altro contrasto con i principi il giudice desume dall'ipotesi di aggravamento che il n. 1 dell'ultimo comma dello stesso art. 330 prevede pel caso che l'abbandono dei pubblici servizi avvenga per finalita' politica. Ipotesi che (mentre non appare integrata nel vigente sistema costituzionale che e' sorto da esperienze storiche che hanno conferito agli scioperi politici rilievo fondamentale, e che riconosce all'autotutela popolare una funzione di garanzia contro involuzioni antidemocratiche dell'ordinamento) presenta il pericolo che si ravvisi una finalita' politica in ogni forma di sciopero di pubblici dipendenti. Fa rilevare infine che l'esclusione dal diritto di sciopero per intere categorie di lavoratori importa gravi conseguenze in ordine alla liberta' sindacale, che e' in stretta correlazione con quel diritto (come la Corte ha altre volte ritenuto) e determina di conseguenza anche una violazione dell'art. 39. L'ordinanza debitamente notificata e comunicata e' stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 203 del 10 agosto 1968. Nel giudizio innanzi a questa Corte nessuna delle parti si e' costituita. Considerato in diritto: Le tre cause, aventi ad oggetto una stessa disposizione legislativa e richiedenti l'interpretazione delle disposizioni costituzionali attinenti alla stessa materia vanno riunite e decise con unica sentenza. 1. - L'ordinanza del giudice istruttore denuncia l'illegittimita' costituzionale dell'art. 330 del Codice penale, per violazione, oltre che dell'art. 40 della Costituzione, gia' preso in esame dalla precedente sentenza n. 123 del 1962, anche dell'art. 39, mentre le due del pretore aggiungono a queste la violazione dell'art. 3. Si rende opportuno, prima di procedere all'esame delle censure riferite, prendere in considerazione il motivo, fatto valere piu' particolarmente dalla difesa di parte, che, se vero, sarebbe assorbente, secondo cui, avendo l'art. 330 recepito in ogni sua parte (con in piu' l'aggravamento delle pene) l'art. 19 della legge 3 aprile 1926, n. 563, sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, ed essendo percio' permeato dell'ideologia corporativa della quale quella legge fu tipica espressione, non se ne puo' ammettere la permanenza in un ordinamento come quello ora vigente poggiante su concezioni con essa contrastanti. Sicche', anche a non volerne dichiarare l'avvenuta abrogazione (come la Corte ebbe a ritenere nei confronti dell'art. 502, con la sentenza 29 del 1960), sia da statuire l'illegittimita' dell'intera disciplina ivi contenuta. Il richiamo all'art. 502 e' pero' inconferente perche' questo puniva lo sciopero effettuato per motivi contrattuali, contrastante con l'ordine del lavoro e rubricato fra i delitti contro l'economia pubblica, sicche', strettamente collegato com'era ad un insieme di istituti creati per la composizione in via giurisdizionale dei conflitti fra le classi addette alla produzione, non pote' sopravvivere alla loro caduta. Differente e' invece la valutazione da fare dell'art. 330, riguardante un reato iirriducibile all'altro per la diversita' dei soggetti e degli interessi coinvolti nell'abbandono del servizio. Infatti il Codice lo fa rientrare fra i reati contro la pubblica Amministrazione, considerando suoi soggetti attivi, oltre ai lavoratori dipendenti, anche alcune categorie di lavoratori autonomi e persino soggetti, quali i pubblici funzionari, del tutto estranei ai rapporti di lavoro cui si riferiva l'ordinamento corporativo. Si puo' aggiungere che nei confronti di questi ultimi anche il Codice penale prefascista del 1889, puniva all'art. 181 l'indebito allontanamento dall'ufficio effettuato previo concerto in numero di tre o piu' persone. Allontanamento che, secondo le concezioni del tempo, era considerato "indebito" pur quando fosse stato promosso dall'intento di ottenere mutamenti delle norme regolanti rapporti di lavoro con lo Stato o con altri enti pubblici (come puo' desumersi anche dal confronto con il disposto dell'art. 166, dettato per i rapporti disciplinati da convenzioni di diritto privato, rispetto ai quali perseguito penalmente era l'abbandono del lavoro solo se promosso o accompagnato da violenza o da minacce). Se una correlazione e' dato riscontrare fra l'art. 330 e l'assetto politico vigente al tempo della sua emanazione, essa non attiene alla disciplina giuridica dei rapporti di lavoro o di servizio ivi considerati, ma piuttosto alla generale concezione autoritaria della posizione dello Stato nei rapporti con i cittadini che ispirava il regime dell'epoca e conduceva a ridurre la tutela dei diritti pubblici soggettivi di costoro, quando non anche a negarne il riconoscimento; concezione che trova un riflesso, per quanto riguarda l'articolo in esame, nella gravita' delle sanzioni penali dal medesimo comminate (tanto piu' evidente quando si pongano a confronto con quelle prima disposte dall'art. 181, fatte consistere solo nella multa e nell'interdizione temporanea dall'ufficio). Ma, a parere della Corte, tale circostanza non e' sufficiente a far ritenere caducato l'articolo, ne' per la parte precettiva, ne' per quella sanzionatoria. Che l'art. 330 non possa in nessun caso venir meno nella sua totalita' emerge poi anche dall'altro rilievo che la genericita' della sua formulazione lo rende applicabile a fatti di abbandono collettivo del lavoro i quali non abbiano finalita' rivendicative degli interessi economici di coloro che l'effettuano, sicche' verrebbe a conservare una sua propria ragione d'essere (contrariamente a quanto si sostiene, e senza considerare il precedente rilievo sull'incongruenza della pena) anche se dovesse venire affermata l'incostituzionalita' della particolare fattispecie criminosa costituita dallo sciopero in senso tecnico. Ne' vale a far ritenere diversamente l'argomento desunto dall'intitolazione data all'articolo in esame poiche', se pure essa corrispondeva all'intenzione del legislatore dell'epoca di considerare lo sciopero come fattispecie tipica del crimine voluto reprimere, non esclude la possibilita' di far rientrare nell'ampia sua formulazione anche ipotesi differenti da quella tipica. Puo' aggiungersi che l'ordinamento antecedente prevedeva come reato a se' stante l'abbandono dell'ufficio da parte di un singolo pubblico ufficiale (art. 181, secondo comma), dal che puo' argomentarsi che la pluralita' degli agenti era considerata costitutiva di un reato a se' stante, differenziabile quindi da quello cui da' luogo la comune figura del concorso di piu' persone in uno stesso reato. Il che sembra sufficiente a contestare l'esattezza della tesi enunciata dalla difesa di parte, secondo cui la caduta dell'art. 330 non determinerebbe alcuna lacuna riguardo alla repressione dell'abbandono collettivo dell'attivita', per il fatto che vi si potrebbe provvedere ricorrendo all'applicazione dell'art. 333 del Codice penale. La diversita' delle due ipotesi appare comprovata dal fatto che, mentre quest'ultimo articolo condiziona la punibilita' alla prova del dolo specifico (abbandono al fine di turbare la continuita' o regolarita' del servizio), l'altro ne prescinde, nella presunzione che tale turbamento si accompagni necessariamente all'abbandono effettuato da un gruppo di persone d'accordo fra loro. Piu' persuasivo dei precedenti non e' neppure un ultimo argomento che si ritiene di poter trarre dall'aggravamento di pena sancito dal n. 2 del secondo comma dell'art. 330 pel caso che l'abbandono abbia determinato dimostrazioni o tumulti, poiche', comprendendo la disposizione, come si e' detto, ogni specie di astensione dal lavoro, non si sarebbe potuto non considerare l'ipotesi che i fini perseguiti da qualcuna di esse o le modalita' del suo svolgimento inducessero a fatti di violenza o di turbamento dell'ordine pubblico. 2. - Passando ora a considerare le censure dedotte dall'art. 40, con riferimento allo sciopero ivi considerato, caratterizzato (secondo l'origine e la funzione attribuita al termine nell'attuale fase storica) dalla sospensione dell'attivita' di lavoro da parte di lavoratori dipendenti, strumentale pel conseguimento dei beni economico-sociali che il sistema costituzionale collega alle esigenze di tutela e di sviluppo della loro personalita', la Corte deve riconfermare l'interpretazione data nella precedente sentenza n. 123 del 1962 circa l'ambito da assegnare ai limiti che l'articolo stesso connette all'esercizio del diritto di sciopero. Si e' in contrario pregiudizialmente sostenuto che, avendo l'art. 40 assegnato alla legge la determinazione di siffatti limiti, l'interprete non potrebbe sostituirsi ad essa senza violare la riserva disposta a suo favore. E' agevole replicare che la liberta' del legislatore in materia non puo' esercitarsi in misura tale da riuscire lesiva di altri principi costituzionali, indirizzati alla tutela o di beni di singoli, pari ordinati rispetto a quelli affidati all'autotutela di categoria, oppure delle esigenze necessarie ad assicurare la vita stessa della comunita' e dello Stato. E non puo' esser dubbio che competa alla Corte costituzionale la funzione di accertare se limiti di tal genere si desumano dal sistema, procedendo nell'affermativa alla loro determinazione, allorche' cio' si renda necessario, come avviene nella specie, per potere decidere della loro applicabilita' alla legge denunciata. Ove si ritenesse diversamente risulterebbe violata non gia' la riserva di legge, ma l'altra riserva che l'art. 134 dispone nei confronti della Corte quando le affida il compito di giudicare della legittimita' costituzionale delle leggi. L'ampia discrezionalita' spettante al legislatore per l'assolvimento del compito conferitogli dall'art. 40 non potrebbe mai esercitarsi in modo da pregiudicare gli interessi fondamentali dello Stato previsti e protetti dalla Costituzione. Ne' puo' ammettersi che l'intervento della Corte si renda possibile solo dopo che il potere predetto sara' stato esercitato ed in confronto alla legge a tale scopo emanata, perche', a parte l'assurdo di un diritto suscettibile di svolgersi per un tempo indeterminato all'infuori di ogni limite, il vincolo a carico del legislatore, proveniente da una fonte sopraordinata, com'e' la Costituzione, precede e condiziona la sua attivita'. La tesi enunciata dalle ordinanze secondo cui l'art. 40, prevedendo solo limitazioni all'esercizio del diritto, non tollera che esse si estendano alla sua titolarita', si dimostra inesatta sulla base dell'osservazione che queste ultime sono necessariamente collegate alle prime. Infatti, una volta ammesso, com'e' indubbio, che la liberta' di sciopero, per rimanere nell'ambito corrispondente al suo oggetto, di liberta' di non fare, deve svolgersi in modo da non ledere altre liberta' costituzionalmente garantite, com'e' quella consentita a quanti non aderiscono allo sciopero, di continuare nel loro lavoro, o altri diritti egualmente protetti, quale quello di poter continuare a fruire dei beni patrimoniali privati o di appartenenza pubblica senza che essi siano esposti al pericolo di danneggiamenti o ad occupazioni abusive, se ne deve dedurre che, gia' pur sotto questo circoscritto punto di vista, non sia contestabile l'esigenza di limitare il diritto in parola per coloro cui siano demandati compiti rivolti ad assicurare il rispetto degli interessi che potrebbero riuscire compromessi da scioperanti indotti a sostenere le proprie ragioni con intimidazioni o violenze, e rispetto a cui si rende indispensabile l'impiego di congrui mezzi di prevenzione o di repressione. Rilievo ancora maggiore assumono le prospettate esigenze garantiste quando si abbia riguardo ai valori fondamentali legati all'integrita' della vita e della personalita' dei singoli, la cui salvaguardia, insieme a quella della sicurezza verso l'esterno, costituisce la prima ed essenziale ragion d'essere dello Stato. Si potrebbe ritenere che la soddisfazione di tali finalita' non richieda necessariamente e sempre l'esclusione dall'esercizio del diritto per tutti i preposti ai compiti di protezione di cui si e' parlato, potendo risultare sufficiente, almeno per alcuni di essi, consentire l'esercizio stesso in una misura tale da assicurare almeno un minimo di prestazioni che attengano iai servizi essenziali. Ma e' chiaro che la disciplina di un siffatto uso parziale non potrebbe essere consentita altrimenti che con apposita legge, cui competerebbe fissarne i casi di ammissibilita', nonche' le condizioni ed i modi necessari ad assicurare la efficienza e la continuita' dei servizi stessi. Le conclusioni alle quali si e' pervenuto nell'interpretazione dell'art. 40 non sono in nessun modo influenzate dal richiamo che le ordinanze fanno all'art. 3, dato che l'eguaglianza nel godimento dei diritti puo' farsi valere fino a quando sussista parita' di situazioni, e tale presupposto non si verifica per i preposti ad organi e per gli appartenenti a corpi che importano l'assoggettamento dei medesimi a quei particolari doveri ai quali e' legato il conseguimento delle finalita' prima menzionate. Parimenti non decisivo deve ritenersi il richiamo all'art. 39 poiche', anche ad ammettere che la liberta' di associazione di categoria per coloro il cui rapporto di lavoro non sia regolato dalla contrattazione collettiva trovi fondamento in detta norma, e non debba piuttosto farsi discendere dal principio consacrato nell'art. 18, e pur tenendo presente quanto la Corte ha statuito con le due sentenze n. 29 del 1960 e n. 141 del 1967, secondo cui la liberta' di organizzazione sindacale trova il suo necessario corollario nella liberta' di azione, non puo' senz'altro farsene discendere in ogni caso una sua indiscriminata pienezza di esercizio, una volta dimostrato, come si e' fatto, che la liberta' stessa, considerata in se' e nel sistema, non puo' non risultare limitata. Ed e' chiaro che anche l'art. 81, lett. e, della legge delegata n. 3 del 1957, sullo statuto degli impiegati civili dello Stato, invocato dalla difesa di parte, deve essere interpretato alla stregua del criterio delineato. Naturalmente competera' poi al legislatore stabilire i mezzi di azione sindacale per la difesa degli interessi di categoria dei funzionari, per i quali il limite in parola fosse fatto valere. Discende dalle precedenti considerazioni che per i soggetti non addetti alle menzionate funzioni essenziali debba riconoscersi pienezza di esercizio del diritto di sciopero, salva sempre la potesta' del legislatore di regolarne le modalita'. 3. - Il compito affidato alla Corte non puo' spingersi al di la' della determinazione del criterio generale, qual'e' desumibile dall'interpretazione sistematica dell'art. 40 della Costituzione. Compete al giudice di merito procedere alla applicazione del criterio stesso ai casi concreti, che dovra' effettuarsi in base alla valutazione di tutti gli elementi che, nelle singole situazioni, concorrono a far decidere circa l'appartenenza a categorie per le quali il riconoscimento del diritto all'astensione collettiva dal lavoro rischi di compromettere funzioni o servizi da considerare essenziali pel loro carattere di preminente interesse generale, ai sensi della Costituzione. Non e' esatto quanto asserito in qualcuna delle ordinanze, che cioe' sfugga al potere del giudice la valutazione comparativa degli interessi, quale si rende necessaria per la risoluzione delle controversie in materia, poiche' a valutazioni siffatte l'organo giudicante necessariamente deve procedere tutte le volte che la formulazione delle norme da applicare le richieda.