IL TRIBUNALE Nel procedimento penale a carico di Cinci Valerio, Vallini Katia e Novelli Antonella in ordine ai reati di cui agli artt. 20, lett. c), legge n. 47/1985 e 163 d.lgs. n. 490/1999, alla pubblica udienza del 13 dicembre 2005, sentite le parti, ha pronunciato la seguente ordinanza. E' rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 181, comma 1-quinquies, d.lgs. n. 42 del 2004, nei termini di seguito indicati. 1. - Cinci Valerio (in qualita' di comproprietario), Novelli Antonella (in qualita' di comproprietaria) e Vallini Katia (quale direttore dei lavori) sono stati citati a giudizio al fine di rispondere dei reati di cui agli artt. 20, lett. c), legge n. 47/1985 e 163 d.lgs. n. 490/1999 per aver realizzato alcune opere edilizie in zona sottoposta a vincolo paesaggistico in assenza di concessione edilizia (oggi permesso di costruire) e del nulla osta dell'autorita' preposta alla tutela del vincolo. All'odierna udienza, il difensore degli imputati ha avanzato istanza di patteggiamento in ordine ad ogni reato contestato ivi compresa la imputazione nei confronti del Cinci e della Novelli e relativa alla realizzazione del servizio tecnologico con relativo sistema di smaltimento ad esso allacciato, costituito da un prefabbricato in legno poggiato su platea di calcestruzzo delle dimensioni di metri 1,64x 1,64, ed il p.m. ha prestato il proprio consenso. 2. - Ai fini della rilevanza, si osserva che questo giudice e' tenuto a verificare che non sussistano i presupposti per l'emissione di una sentenza di proscioglimento, come si ricava dal combinato disposto di cui agli artt. 444, comma 2, e 129 c.p.p. Ebbene, l'accoglimento della questione di legittimita' costituzionale, nei termini che seguono, imporrebbe l'emissione della pronuncia di non doversi procedere per estinzione dei reati edilizio ed ambientale conseguente alla realizzazione del manufatto suddetto, mentre con il regime normativo vigente puo' essere ravvisata la estinzione del solo reato ambientale e non anche di quello edilizio. Infatti, dalla attestazione di conformita' in sanatoria rilasciata dal dirigente dell'ufficio urbanistica del Comune di Monterotondo Marittimo in data 2 ottobre 2004, in ordine alle imputazioni diverse da quella relativa alla realizzazione del bagno, si evince che i comproprietari hanno provveduto sia alla rimozione del sistema fognante allacciato al manufatto in legno (gia' alla data del 31 ottobre 2002) sia del manufatto appoggiato al suolo nonche' della base di appoggio di detto manufatto (come accertato nel sopralluogo del 2 ottobre 2004). Pertanto, a seguito di tali attivita' di demolizione, il reato ambientale contestato agli imputati Cinci e Novelli e relativo alla realizzazione del manufatto adibito a bagno e' da ritenere estinto ex art. 181, comma 1-quinquies, d.lgs. n. 42/2004, mentre non puo' considerarsi estinto il reato edilizio conseguente alla realizzazione dello stesso manufatto in quanto non e' prevista esplicitamente l'estinzione anche di tale reato. Ne', sotto altro profilo, il reato edilizio suddetto puo' ritenersi estinto a seguito del rilascio del permesso in sanatoria, posto che l'accertamento di conformita' e' stato formulato proprio sul presupposto della totale demolizione dell'opera abusiva in esame. Di conseguenza, sussiste la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale nei termini che si vanno ad indicare. 3. - In ordine al requisito della non manifesta infondatezza, appare opportuno prendere le mosse da una disamina dei principi giurisprudenziali elaborati in relazione alla disciplina vigente prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004. 3.1. - In primo luogo, e' principio pacifico nella giurisprudenza di legittimita' che non sussiste assorbimento tra il reato edilizio di cui all'art. 20, legge n. 47/1985 (oggi art. 44 d.P.R. n. 380/2001) ed il reato c.d. di danno ambientale di cui all'art. 163, d.lgs. n. 490/1999 (oggi art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42/2004), trattandosi di reati con diversa obiettivita' giuridica (v., tra le tante, Cass. 24 ottobre 1995, n. 10557; 9 settembre 1994, n. 9749). 3.2. - Cosi', e' stato piu' volte ribadito che la fattispecie estintiva conseguente al rilascio della concessione in sanatoria (oggi permesso in sanatoria) di cui al combinato disposto degli artt. 36 e 45 d.P.R. n. 380/2001 (gia' artt. 13 e 22 legge n 47/1985) riguarda esclusivamente il reato edilizio e non anche quello ambientale (v., per tutte, Cass., sez. III, 2 luglio 1994, n. 7541). A tal riguardo, la Corte costituzionale ha avuto modo di dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt. 13 e 22, legge n. 47/1985 nella parte in cui non prevede che il rilascio della concessione edilizia in sanatoria estingua, oltre alle violazioni di natura strettamente urbanistica, anche il reato di danno ambientale (Corte cost., ord. 6 marzo 2001, n. 46; ord. 21 luglio 2000, n. 327). In particolare, la Corte ha osservato che il diverso trattamento normativo trova giustificazione nella particolare esigenza di tutela dei beni paessaggistico-ambientali considerata tra i principi fondamentali della Costituzione come forma di tutela della persona umana nella sua vita, sicurezza e sanita', con riferimento anche alle generazioni future, in relazione al valore estetico-culturale assunto dall'ordinamento quale valore primario ed assoluto insuscettibile di essere subordinato a qualsiasi altro (Corte cost. ord. n. 46/2001). 3.3. - In ordine alla questione specifica della riduzione in pristino dell'opera abusiva, prima della entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004, era principio consolidato in giurisprudenza quello secondo cui l'eliminazione delle opere abusive non comportava l'estinzione del reato commesso con la loro costruzione, potendo la stessa essere soltanto valutata ai fini sia della mancanza di un danno penalmente rilevante, sia della buona fede dell'imputato (v., per tutte, Cass., sez. III, 29 settembre 1998, n. 10199; 14 marzo 1992, n. 2706). In particolare, e' interessante riportare un passo della motivazione della prima pronuncia richiamata, in cui si afferma che la demolizione delle opere abusive non comporta l'estinzione del reato commesso con la loro costruzione, in quanto nei reati urbanistici ha rilevanza penale anche l'elusione del controllo che l'autorita' amministrativa e' chiamata ad esercitare, in via preventiva e generale, sull'attivita' edilizia assoggettata al regime concessorio ed allorche' un'attivita' siffatta venga iniziata senza il preventivo assenso dell'amministrazione comunale si ha inesistenza di un danno urbanistico soltanto nell'ipotesi di cui all'art. 13 legge n. 47/1985, mentre al di fuori di tali ipotesi l'eliminazione spontanea del manufatto abusivo non vale ad eliminare l'antigiuridicita' sostanziale del fatto reato: il territorio, infatti, ha comunque subito un vulnus, pur se vi e' stata una successiva attivita' spontanea rivolta ad elidere le conseguenze dannose del reato (Cass., 29 settembre 1998, n. 10199). Relativamente al disposto di cui all'art. 8-quater, legge n. 298 del 1985, che escludeva la punibilita' nei confronti di coloro che avevano demolito o eliminato le opere abusive entro la data di entrata in vigore della legge di conversione (5 luglio 1985), la Cassazione ha affermato che si trattava di una disposizione testualmente riferita e limitata sotto il profilo temporale alle demolizioni di opere abusive eseguite entro la data di entrata in vigore suddetta (Cass., sez. III, 29 settembre 1998, n. 10199). Tale ultima conclusione riceveva l'autorevole avallo della Corte costituzionale, che con la sentenza n. 167 del 1989 osservo' che la interpretazione limitativa non era da considerare illegittima sotto il profilo costituzionale in quanto la demolizione dell'opera abusiva non eliminava l'antigiuridica del fatto. In altri termini, secondo la Consulta, la norma in questione integrava una causa di non perseguibilita' con esenzione di pena per ragioni di politica criminale e non certo come effetto della caduta di antigiuridicita' per cause intrinseche attinenti al nucleo sostanziale dell'illecito, con la conseguenza che la indicazione di limiti temporali a taluni effetti di estinzione del reato o della pena, o di non procedibilita', doveva ritenersi riservata alla discrezionalita' del legislatore (Corte cost. sent. n. 167 del 1989). Pertanto, prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004, la giurisprudenza di legittimita' affermava con orientamento consolidato che la demolizione dell'opera abusiva non comportava l'estinzione ne' del reato edilizio ne' di quello c.d. di danno ambientale, potendo la demolizione rilevare solo ai fini della buona fede dell'imputato o della sussistenza del danno. A tal proposito, e ad integrazione di quanto osservato sub. 2 in punto di rilevanza della questione, si rileva come nella fattispecie la natura del manufatto, il lasso di tempo trascorso tra la realizzazione e la demolizione, ed il comportamento degli imputati non consentano di ritenere l'insussistenza del danno, in quanto l'opera ha certamente determinato un vulnus al territorio; ne', d'altra parte, vi sono elementi per ravvisare la buona fede degli imputati, per cui gli stessi - in difetto della esplicita previsione di estinzione del reato edilizio conseguente alla rimessione in pristino - non potrebbero beneficiare di una pronuncia di non doversi procedere ex art. 129 c.p.p. in ordine allo stesso. 4. - Con l'entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004, il legislatore ha previsto esplicitamente l'estinzione del reato di cui all'art. 181, comma 1 (gia' art. 163, d.lgs. n. 490/1999) a seguito della rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, a condizione che cio' avvenga a cura del trasgressore prima che sia disposta d'ufficio dall'autorita' amministrativa e comunque prima che intervenga la condanna (art. 181, comma 1-quinquies). Tale norma deve ritenersi applicabile anche agli abusi commessi prima dell'entrata in vigore della stessa disposizione, in virtu' del principio ex art. 2, comma 2, c.p. (per l'applicazione della speciale ipotesi di depenalizzazione sancita dai commi 1-ter e 1-quater agli abusi pregressi, v. Cass. sent. n. 18205/2005). La fattispecie estintiva de qua e' da ritenere applicabile a qualsiasi abuso, a prescindere dalla natura e dalla gravita' dello stesso, essendo solo prevista la rimessione in pristino in epoca precedente alla demolizione d'ufficio ed alla emissione della condanna. Di conseguenza, nella fattispecie, gli imputati possono certamente beneficiare di tale disposizione piu' favorevole per quanto riguarda la contestazione del reato ambientale ex art. 163, d.lgs. n. 490/1999, posto che dagli atti risulta la totale rimessione in pristino del manufatto oggetto di contestazione, avvenuta ad opera dei proprietari in epoca anteriore sia alla demolizione d'ufficio sia alla sentenza di condanna. Diversamente, gli stessi non possono beneficiare della medesima disposizione in ordine al reato edilizio ex art. 20, lett. c), legge n. 47/1985 (oggi art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001) in quanto la causa estintiva e' stata prevista solo in ordine al reato c.d. di danno ambientale, con implicita esclusione (attesa la tassativita' delle previsioni estintive di reati) dei reati edilizi, logicamente e normativamente distinti ed autonomi rispetto alle violazioni della legge ambientale (quest'ultima considerazione e' contenuta nella ordinanza n. 46 del 2001 della Corte costituzionale). Si tratta, pertanto, di valutare la ragionevolezza del diverso trattamento normativo. Ebbene, la valutazione deve partire dalle considerazioni riportate in precedenza sub. 3.2. in ordine alla particolare esigenza di tutela del bene ambientale, motivazioni che avevano condotto il legislatore, da un lato, a tenere distinte, ai fini dell'estinzione conseguente all'accertamento di conformita', le ipotesi del reato edilizio e di quello ambientale, e la Consulta, dall'altro, ad affermare la legittimita' di tale diverso trattamento normativo. Muovendo da tale premessa, appare francamente sprovvista di ogni ragionevole giustificazione la previsione dell'estinzione del reato ambientale a seguito della rimessione in pristino e non anche del reato edilizio, in considerazione proprio della maggiore rilevanza del bene giuridico protetto dal reato ambientale. Il diverso trattamento normativo non si giustifica in relazione alla natura del reato: a diversa conclusione, infatti, si sarebbe potuti pervenire nella ipotesi in cui il reato edilizio, a differenza di quello ambientale, fosse stato considerato di mero pericolo, ma la giurisprudenza di legittimita' puo' dirsi consolidata nell'orientamento secondo cui il reato ambientale ha natura di reato di pericolo per la cui configurabilita' non e' necessario un effettivo pregiudizio per l'ambiente (v., tra le tante, Cass. 20 marzo 2003, n. 12863; 28 marzo 2003, n. 14461; 29 aprile 2003, n. 19761). Sotto altro profilo, si puo' obiettare che proprio l'autonomia tra le due fattispecie di reato (v. supra subb. 3.1. e 3.2.) non permette di ravvisare quello schema «ternario» necessariamente presupposto dal giudizio di ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione. A tale obiezione, tuttavia, si puo' agevolmente replicare che il principio di uguaglianza non puo' ritenersi violato solo nella ipotesi classica del trattamento differenziato di situazioni sostanzialmente identiche, ma anche in quella di trattamento identico di fattispecie dotate di offensivita' diversa e quindi, a maggior ragione, pure nel caso di trattamento piu' sfavorevole riservato alla fattispecie penale oggettivamente meno grave. Ebbene, e' proprio quest'ultima ipotesi a ricorrere nella vicenda che ci occupa, in quanto il regime normativo attualmente vigente prevede, in caso di rimessione in pristino, l'estinzione del reato c.d. di danno ambientale e non anche di quello edilizio, nonostante che il bene giuridico tutelato da quest'ultimo non abbia la rilevanza costituzionale propria del bene tutelato dall'altra fattispecie penale, ed in assenza di altri elementi atti a giustificare in qualche modo il diverso trattamento normativo. Infine, potrebbe obiettarsi che la disposizione di cui all'art. 181, comma 1-quinquies, deve qualificarsi come derogatoria alla disciplina generale circa la punibilita' di ogni forma di trasformazione del territorio a prescindere dall'effettivo pregiudizio procurato, con il conseguente richiamo di quell'orientamento secondo cui il principio di uguaglianza in questi casi potrebbe essere invocato solo al fine di ripristinare la disciplina generale, ingiustificatamente derogata da quella particolare, e non gia' al fine di estendere ad altri casi quest'ultima (v. Corte cost. sent. n. 383 del 1992). Anche a tale eccezione, pero', si deve replicare che la Consulta ha precisato che e' possibile estendere l'ambito di una previsione eccezionale o derogatoria quando tra il caso ricompreso e quello escluso ricorra l'eadem ratio derogandi (ord. n. 484 del 1994), non potendo allora ritenersi che la salvaguardia della discrezionalita' legislativa esima la Corte dal valutare se non vi siano manifesti motivi di irrazionalita', e di discriminazioni prive di fondamento giustificativo (Corte cost. sent. n. 185 del 1995), soprattutto in considerazione del fatto che in questo caso la valutazione di irragionevolezza non condurrebbe ad una interpretazione in malam partem in materia penale. In definitiva, non essendo possibile una interpretazione adeguatrice sulla base del diritto vigente, stante la tassativita' delle ipotesi estintive, non rimane che sottoporre la questione al vaglio della Consulta.