ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
     nei  giudizi riuniti, promossi con le ordinanze emesse il 18 aprile
 1975 dal tribunale di Torino (II sezione penale) ed il 16  aprile  1975
 dal tribunale di Milano (I sezione penale), rispettivamente iscritte ai
 nn.  15  e  16 del registro ricorsi 1975, per conflitto di attribuzione
 tra poteri dello Stato sorto  a  seguito  del  rifiuto,  opposto  dalla
 Commissione  parlamentare  d'inchiesta  sul  fenomeno  della  mafia  in
 Sicilia, di trasmettere documenti richiesti dai predetti tribunali.
     Visti gli  atti  di  costituzione  in  giudizio  della  Commissione
 parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia;
     udito nell'udienza pubblica dell'8 ottobre 1975 il Giudice relatore
 Vezio Crisafulli;
     uditi  gli  avvocati  Aldo Sandulli e Gian Domenico Pisapia, per la
 Commissione parlamentare, e gli avvocati Alberto  Dall'Ora  e  Giovanni
 Bovio, per il tribunale di Milano.
                           Ritenuto in fatto:
     1.  -  Con  ordinanza  emessa  il  18  aprile  1975 nel corso di un
 procedimento penale a carico di Pantaleone Michele e Einaudi Giulio, il
 tribunale di  Torino  sollevava  conflitto  di  attribuzione  ai  sensi
 dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, nei confronti del potere
 legislativo, assumendo che la Commissione parlamentare di inchiesta sul
 fenomeno  della mafia in Sicilia, istituita con legge 20 dicembre 1962,
 n. 1720 - dopo aver  aderito  solo  in  minima  parte  alle  richieste,
 avanzate  con  precedenti ordinanze dallo stesso tribunale, di copie di
 documenti ritenuti necessari ai fini della indagine - ad una successiva
 richiesta, disposta con  ordinanza  31  gennaio  1975,  della  predetta
 documentazione,  ritenuta  ormai  non  piu'  segreta  a  seguito  della
 pubblicazione della "Relazione sui lavori  svolti  e  sullo  stato  del
 fenomeno  mafioso  al  termine  della V Legislatura", aveva ribadito il
 proprio rifiuto con una lettera in data 21 febbraio 1975.
     2.  -  I  fatti  da  cui  ha  tratto origine il procedimento penale
 risalgono al 1969 quando l'editore Giulio Einaudi pubblicava  il  libro
 di  Michele Pantaleone "Antimafia occasione mancata" nel quale l'attore
 attribuisce a Bernardo Canzoneri, Gaspare  Cusenza,  Giovanni  Gioia  e
 Orazio Ruisi la commissione di vari reati.
     A  seguito  delle  querele  sporte  dalle persone sopra menzionate,
 nell'aprile e nel maggio 1969 il Procuratore della Repubblica di Torino
 citava a giudizio direttissimo il Pantaleone e l'Einaudi per rispondere
 dei reati di cui agli artt. 81, 110-595 del codice penale  e  13  della
 legge 8 febbraio 1948, n. 47.
     Nel  corso del dibattimento ed in particolare nelle diverse udienze
 tenutesi nel 1973, la difesa degli imputati,  cui  si  e'  generalmente
 associato  il  pubblico ministero, chiedeva l'acquisizione agli atti di
 documenti in possesso  della  Commissione  antimafia  ed  il  tribunale
 provvedeva emettendo le relative ordinanze.
     Seguivano le risposte in gran parte negative della Commissione, cui
 peraltro  il tribunale continuo' a chiedere oltre la documentazione non
 ricevuta, anche altri atti che lo svolgimento del processo faceva,  via
 via, apparire rilevanti ai fini dell'accertamento della verita'.
     Perdurando  il  diniego della Commissione, espresso definitivamente
 con la citata lettera del 21 febbraio 1975, alla udienza del 18  aprile
 1975  la  difesa  degli  imputati  sollecitava il tribunale a sollevare
 conflitto  di  attribuzione  davanti  alla  Corte  costituzionale.   Il
 pubblico  ministero  si  associava alla richiesta e, in conformita', il
 tribunale emetteva la nota ordinanza del 18 aprile 1975.
     3. - Con altra ordinanza, emessa il 16 aprile 1975 nel corso di  un
 procedimento penale a carico di Villani Silvano, il tribunale di Milano
 sollevava  analogo conflitto nei confronti della Commissione antimafia,
 denunciando  la  violazione  degli  artt.  24,  101  e  seguenti  della
 Costituzione.
     Il Villani aveva pubblicato sul Corriere della Sera del 4 settembre
 1971  un  articolo  intitolato  "La  voce della mafia al telefono", nel
 quale affermava essere Italo Jalongo un  pregiudicato  per  truffa,  un
 mafioso  e come tale aver fatto diversi favori a personaggi importanti.
 Lo Jalongo sporse querela per diffamazione a mezzo stampa concedendo la
 piu' ampia facolta' di prova. Il 2 aprile 1973 il Villani veniva citato
 a giudizio direttissimo dal  Procuratore  della  Repubblica  di  Milano
 sotto  l'imputazione  del  reato di cui agli articoli 595-81 del codice
 penale e 13 della legge n. 47 del 1948, per le  affermazioni  contenute
 nell'articolo suddetto.
     Dall'8  maggio  1973  si  sono susseguite le udienze dibattimentali
 spesso  rinviate  a  causa  della  pendenza  delle  trattative  per  la
 remissione  della  querela.   All'udienza del 22 aprile 1974, avendo la
 difesa del Villani chiesto che venissero  acquisiti  atti  in  possesso
 della  Commissione  antimafia  ed essendosi associato alla richiesta il
 pubblico ministero, il tribunale in  pari  data  emetteva  la  relativa
 ordinanza.  Pervenuta  la comunicazione in data 6 dicembre 1974, con la
 quale  la  Commissione  antimafia  rifiutava  gli  atti  richiesti,  il
 tribunale,  in  data  12  febbraio  1974,  emetteva  nuova ordinanza di
 richiesta degli atti  in  questione,  replicando  nelle  premesse  alle
 argomentazioni  della  Commissione,  e  affermando, tra l'altro, che la
 prova liberatoria spetta all'imputato o per richiesta del querelante  o
 a  norma dell'art. 51 del codice penale in relazione agli artt. 21 e 24
 della Costituzione.
     Con  successiva  nota  del 26 marzo 1975 la Commissione in risposta
 all'ordinanza 12 febbraio, ribadiva il rifiuto di esibire i  documenti,
 insistendo  sul corretto significato da attribuire alla "pubblicazione"
 disposta al termine della V legislatura.
     All'udienza del  16  aprile  la  difesa  del  Villani  chiedeva  al
 tribunale  di  sollevare  conflitto  di attribuzione davanti alla Corte
 costituzionale nei confronti dell'antimafia. Il pubblico ministero, dal
 canto suo, si associava  alla  richiesta  "facendola  propria",  ed  il
 tribunale emetteva la nota ordinanza 16 aprile 1975.
     4.  -  Con  ordinanze  nn.  228  e  229 dell'8 luglio 1975 la Corte
 costituzionale, a norma dell'art. 37 della  legge  n.    87  del  1953,
 dichiarava  l'ammissibilita'  dei ricorsi per conflitto di attribuzione
 proposti rispettivamente dal tribunale di Torino  e  dal  tribunale  di
 Milano,  disponendo  altresi'  che: a) la cancelleria della Corte desse
 immediata comunicazione al ricorrente della ordinanza; b) che a cura di
 ciascun ricorrente l'ordinanza e il ricorso venissero  notificati  alla
 Commissione antimafia in persona del suo Presidente entro il termine di
 trenta giorni dalla data di comunicazione di cui sopra.
     A  seguito della comunicazione e delle notificazioni prescritte, la
 Commissione antimafia si e' costituita nei due conflitti con  deduzioni
 dell'avv. Aldo Sandulli e dell'avv. Gian Domenico Pisapia depositate il
 7 agosto 1975, cui hanno fatto seguito memorie aggiuntive depositate in
 data 25 settembre 1975.
     A  loro  volta  i  tribunali  di Torino e di Milano provvedevano al
 deposito dei ricorsi a norma dell'art. 26,  terzo  comma,  delle  Norme
 integrative   per   i   giudizi   davanti   alla  Corte  costituzionale
 rispettivamente in data 20 agosto e 8  agosto  1975.  Il  tribunale  di
 Milano  depositava altresi' memoria e successivamente conferiva mandato
 di rappresentarlo in udienza agli avvocati  Giovanni  Bovio  e  Alberto
 Dall'Ora.
     Nella  pubblica  udienza  i difensori delle parti hanno ribadito le
 rispettive tesi e conclusioni.
                         Considerato in diritto:
     1. - I giudizi per conflitto di attribuzione, promossi con  le  due
 ordinanze  dei  tribunali  di  Torino  e  di Milano nei confronti della
 Commissione parlamentare d'inchiesta  sul  fenomeno  della  "mafia",  a
 seguito  del  rifiuto  da  questa  opposto  di trasmettere ai tribunali
 medesimi, che ne avevano fatto formale richiesta,  determinati  atti  e
 documenti  in  suo possesso, ritenuti dai giudici predetti necessari ai
 fini dell'accertamento della verita' nei rispettivi processi, involgono
 sostanzialmente le stesse questioni e vanno percio'  decisi  con  unica
 sentenza.
     2.  -  La  difesa  della  Commissione  eccepisce  pregiudizialmente
 l'inammissibilita' dei conflitti, sia sotto il profilo  soggettivo  che
 sotto  il  profilo oggettivo.  Deduce, infatti, per un verso, che ne' i
 tribunali ricorrenti  ne'  essa  Commissione  sarebbero  legittimati  -
 rispettivamente  -  a sollevare i conflitti in oggetto ed a resistervi,
 non essendo organi "competenti a dichiarare definitivamente la volonta'
 del potere cui  appartengono",  come  prescritto  dall'art.  37,  primo
 comma,  della  legge  11 marzo 1953, n. 87, e che mancherebbe altresi',
 per altro verso, la materia di conflitto e difetterebbe  nei  tribunali
 l'interesse   a  ricorrere,  perche'  gli  atti  e  documenti,  cui  si
 riferivano le loro richieste e i  dinieghi  della  Commissione,  o  non
 sarebbero  validamente utilizzabili come mezzi di prova nei processi in
 corso  in  sede  dibattimentale  o avrebbero potuto e potrebbero essere
 richiesti ai soggetti, pubbliche autorita' e privati,  che  li  avevano
 autonomamente formati e da cui provenivano.
     Gli  argomenti addotti, peraltro, non sono tali da indurre la Corte
 a mutare l'avviso gia' espresso in linea  di  prima  delibazione  nelle
 ordinanze  nn.  228  e  229  del  corrente anno, alla motivazione delle
 quali, con le ulteriori precisazioni che seguono, si fa quindi espresso
 rinvio.
     3.  -  Piu'   particolarmente,   sotto   il   profilo   soggettivo,
 riecheggiando  una  nota  tesi dottrinale che, nell'interpretazione del
 primo comma dell'art. 37, tende a distinguere gli  organi  che  possono
 entrare  tra  loro  in  conflitto  da  quelli  legittimati  al relativo
 giudizio (i quali ultimi sarebbero unicamente gli  organi  supremi  dei
 poteri  cui  i  primi  appartengono),  si  assume  che, nella specie, i
 conflitti avrebbero dovuto essere proposti dalla Corte  di  cassazione,
 anziche'  dai tribunali direttamente interessati, e nei confronti delle
 Camere,  anziche'   della   Commissione   d'inchiesta.   Senonche',   a
 prescindere  dalle  difficolta'  che  all'accoglimento, in generale, di
 siffatta  tesi,  derivano  dallo  stesso  testo  dell'art.   37,   dove
 parlandosi  di  "conflitto"  si  allude all'oggetto del giudizio, e non
 viceversa al giudizio sul conflitto, e  dove  pertanto  il  riferimento
 agli  organi  competenti  a  dichiarare definitivamente la volonta' dei
 poteri va inteso come rivolto a designare gli  organi  confliggenti,  e
 non soltanto quelli legittimati ad processum, e' significativo rilevare
 che  la  difesa della Commissione esplicitamente ammette - da un lato -
 che alle Commissioni d'inchiesta deve riconoscersi (ed e' positivamente
 riconosciuta) un'amplissima autonomia, tanto piu' quando, come nel caso
 in oggetto, siano istituite con legge e senza prefissione  di  termini,
 quindi  destinati  a  durare  oltre  le singole legislature; ed altresi
 ammette - d'altro lato - che attualmente l'ordinamento  non  predispone
 (almeno,  "espressamente")  i  congegni  attraverso  i  quali  l'organo
 giudiziario "minore" potrebbe sollecitare l'intervento della  Corte  di
 cassazione,  la  quale  a  sua  volta  (si  aggiunge)  non  puo' essere
 considerata giuridicamente come "superiore" rispetto agli altri,  senza
 dire  delle  perplessita'  (anch'esse  accennate, ma non risolte, nelle
 deduzioni  di  costituzione  della  Commissione)   che   la   struttura
 "composita"  della stessa Corte di cassazione farebbe sorgere quando si
 volesse piu' precisamente stabilire in quale  delle  sue  articolazioni
 (Primo  Presidente, Sezioni Unite, ecc.) dovrebbe ritenersi concentrata
 la competenza a proporre conflitto.
     Ma tutte queste ammissioni, riserve e  perplessita'  finiscono  per
 avvalorare  indirettamente,  anche  sul terreno pratico, le conclusioni
 cui la Corte ebbe  a  pervenire  nelle  ordinanze  numeri  228  e  229,
 evidenziando  -  da  un  lato  - il carattere "diffuso" che tipicamente
 contrassegna il potere giudiziario, ciascuna componente  del  quale  e'
 idonea  a  porre in essere pronuncie sulle quali la Corte di cassazione
 non sarebbe in grado di esercitare il proprio  sindacato,  se  non  nei
 casi  previsti  dai  codici  di  rito  e  (con la sola eccezione di cui
 all'art. 41, primo comma, cod.  proc. civ.) sempre dietro iniziativa di
 chi sia parte in giudizio; nonche' - d'altro lato -  l'indipendenza  di
 cui   godono,  durante  il  corso  del  loro  mandato,  le  Commissioni
 parlamentari d'inchiesta, anche nei confronti delle Camere,  le  quali,
 come  non  potrebbero procedere esse stesse, direttamente, ad inchieste
 ex art.  82 Cost., cosi' nemmeno sono autorizzate ad interferire  nelle
 deliberazioni  adottate dalle Commissioni medesime per il piu' proficuo
 svolgimento dei loro lavori.
     E' da soggiungere che l'art. 37 della legge n. 87, nel  definire  i
 conflitti   tra   poteri   la   cui   risoluzione   spetta  alla  Corte
 costituzionale, non muove dal criterio della definitivita'  degli  atti
 che  ne  possono  essere  all'origine,  che'  anzi in tali conflitti (a
 differenza che in quelli tra Stato e Regioni o  tra  Regioni)  un  atto
 puo'  addirittura  mancare,  essendo sufficiente a determinarli un mero
 comportamento, anche omissivo; ma  designa  gli  organi  legittimati  a
 sollevarli  ed  a  resistervi  alla  stregua  della  loro  capacita' ad
 impegnare l'intero potere. Ne', in tale ordine di idee, ha  riferimento
 agli  organi  che - in concreto - abbiano dichiarato definitivamente la
 volonta' del potere, quanto invece agli  organi  a  cio'  "competenti",
 vale a dire che ne abbiano l'astratta possibilita'.
     Perde   percio'   consistenza   il   rilievo   della  difesa  della
 Commissione, secondo cui, a norma dell'art. 200 cod.   proc.  pen.,  le
 ordinanze istruttorie dei tribunali ricorrenti, alle quali seguirono le
 risposte  negative  della  Commissione,  sarebbero state (e sarebbero),
 oltre che revocabili come ogni ordinanza, impugnabili  unitamente  alla
 sentenza di merito.
     4. - E' anche da disattendere l'eccezione di inammissibilita' sotto
 il profilo oggettivo, per mancanza di materia di conflitto e carenza di
 interesse,  che, peraltro, nella parte in cui accenna a distinguere tra
 le diverse specie di atti richiesti dai  tribunali  e  rifiutati  dalla
 Commissione,  finisce  per involgere questioni inerenti al merito della
 controversia, o comunque con questo strettamente connesse, sulle  quali
 occorrera' soffermarsi in prosieguo.
     Ferma  restando  tale  riserva,  puo'  e  deve  essere ribadito che
 sussiste indubbiamente  nei  casi  in  esame  materia  di  conflitto  e
 interesse  a  sollevarlo,  assumendosi dai tribunali ricorrenti che dal
 rifiuto  illegittimamente  opposto   dalla   Commissione   risulterebbe
 menomata la sfera di attribuzioni ad essi garantita dalla Costituzione,
 per  l'impedimento  derivantene  all'acquisizione  delle prove ritenute
 necessarie per l'accertamento della verita'.
     Ne' puo' contestarsi che ogni valutazione sulla  utilita'  e  sulla
 valida  utilizzabilita'  in giudizio dei mezzi di prova e' di esclusiva
 competenza dell'autorita' giudiziaria procedente, sottraendosi pertanto
 a qualsiasi sindacato  che  non  sia  quello  esplicabile  dal  giudice
 eventualmente adito in sede di gravame.
     5.  -  Nel  merito,  la  controversia  concerne  determinati atti e
 documenti   dell'inchiesta   antimafia,   non   inseriti   negli   Atti
 parlamentari  (Documento n. XXIII-2, Septies, della V Legislatura) come
 allegati alla "Relazione sui lavori svolti e sullo stato  del  fenomeno
 mafioso   al   termine   della   V  Legislatura",  ivi  pubblicata,  ma
 specificatamente  indicati   nell'elenco,   anch'esso   allegato   alla
 relazione   predetta   (n.  62),  denominato  "Indice  analitico  della
 documentazione esistente agli atti della Commissione".  Ed il  problema
 di  fondo  che  si  dibatte  in  entrambi  i  giudizi  e', dunque, piu'
 precisamente,  se  la  Commissione   abbia   l'obbligo   giuridico   di
 trasmettere  all'autorita'  giudiziaria  tali atti e documenti, potendo
 esimersene soltanto nei casi ed alle condizioni  di  cui  all'art.  342
 cod.    proc.  pen.  (in  relazione  anche all'art. 352), ovvero se, in
 considerazione  delle  finalita'   di   pubblico   interesse   cui   e'
 costituzionalmente   preordinato   il   potere  di  inchiesta  e  delle
 prerogative  di  cui  godono le Assemblee legislative ed i loro organi,
 nell'esercizio delle loro funzioni istituzionali (delle quali  soltanto
 e' questione nella specie e tra le quali certamente rientra la funzione
 ispettiva,  esprimentesi  tra  l'altro attraverso le inchieste), sia da
 riconoscere alla Commissione predetta la facolta'  di  stabilire  se  e
 quali dei suoi atti e relativa documentazione debbano essere coperti da
 segreto, opponibile anche agli organi giudiziari.
     La  posizione  "di  assoluta  indipendenza" del Parlamento, come di
 altri  organi  "ai  vertici  dello  Stato",  anche  nei  loro  rapporti
 reciproci  (sent.  n. 143 del 1968), e' stata piu' volte riaffermata da
 questa Corte (sent. n. 15  del  1969  e  sent.  numero  110  del  1970:
 quest'ultima,   con   particolare   riferimento   alle   deroghe   alla
 giurisdizione, ammissibili nei loro confronti pur se "sempre di stretta
 interpretazione"), che non  ha  mancato,  in  occasione  del  conflitto
 insorto  tra  la  Commissione  parlamentare inquirente per i giudizi di
 accusa e il giudice istruttore del tribunale di Roma,  di  sottolineare
 la  necessita' di contemperare "l'autonomia e l'indipendenza del potere
 giudiziario da  ogni  altro  potere"  con  "l'indipendenza  del  potere
 politico  rispetto  ad  ogni  indebita  ingerenza",  anche da parte del
 potere giudiziario (sent. n. 13 del 1975).
     Piu' analiticamente,  l'indipendenza  delle  Camere  (riflettentesi
 naturalmente sui loro organi) si articola, nella normativa direttamente
 dettata   dal  testo  costituzionale,  nell'autonomia  organizzativa  e
 normativa spettante a ciascuna di esse ("riserva di regolamento":  art.
 64, primo comma); nella loro esclusiva competenza  alla  convalida  dei
 propri  membri (art. 66); nella non responsabilita' dei medesimi "per i
 voti dati e le opinioni espresse nell'esercizio  delle  loro  funzioni"
 (art.  68, primo comma: immunita', sotto questo aspetto, assoluta, che,
 in omaggio al  principio  democratico  rappresentativo,  l'art.    122,
 ultimo  comma,  estende  anche ai membri dei Consigli regionali), oltre
 che nella immunita', che puo' dirsi relativa, di cui al  secondo  comma
 del  detto art. 68 (non proseguibilita' dell'azione penale e divieto di
 arresto e perquisizione personale o  domiciliare  senza  autorizzazione
 dell'Assemblea,  fuori  dei  casi  di  flagrante  delitto  che comporti
 obbligatorieta' di mandato di cattura).
     Alle  quali  disposizioni,   contenute   nella   Costituzione,   si
 aggiungono  poi,  svolgendone  ed  applicandone  i principi, quelle dei
 regolamenti parlamentari, tra cui sono specialmente  da  ricordare,  ai
 fini  che  qui interessano, l'art. 62 del Regolamento della Camera e il
 corrispondente art. 69 del Regolamento del Senato, che attribuiscono ai
 rispettivi  Presidenti  l'esercizio  dei  poteri  di   polizia   e   la
 disposizione della forza pubblica nell'interno delle Assemblee: poiche'
 da queste disposizioni, per lunga tradizione, si suole trarre la regola
 della  cosi  detta "immunita' della sede" (valevole anche per gli altri
 supremi organi dello Stato)  in  forza  della  quale  nessuna  estranea
 autorita'  potrebbe  far  eseguire  coattivamente  propri provvedimenti
 rivolti al Parlamento ed ai suoi organi. Di guisa che, ove  gli  organi
 parlamentari   non  vi  ottemperassero,  sarebbe  unicamente  possibile
 provocare l'intervento  di  questa  Corte,  in  sede  di  conflitto  di
 attribuzione, cosi come precisamente e' avvenuto nel caso in oggetto.
     6.  -  Ma  e'  soprattutto  da  rilevare che, fermo restando che il
 principio fondamentale in materia e'  quello  della  pubblicita'  degli
 atti  parlamentari (art. 64, secondo comma, Cost.), e' tuttavia rimesso
 alla valutazione delle Camere (e rientra nella autonomia costituzionale
 ad esse, come sopra accennato, garantita) di derogarvi in singoli casi,
 deliberando  di  riunirsi  in  seduta segreta (nella quale ipotesi, gli
 artt. 34, punto 3, Reg. Camera e 60, punto 4,  Reg.  Senato  consentono
 che  possano altresi stabilire di non farne stendere processo verbale).
 A sua volta, l'art.  72 Cost., nel terzo comma, demanda ai  regolamenti
 parlamentari  di  determinare  le forme di pubblicita' dei lavori delle
 Commissioni legislative: al che, codificando una prassi gia'  formatasi
 sotto  il vigore dei precedenti regolamenti, provvede ora l'art. 65 del
 Regolamento  della  Camera,  disponendo  che   tale   pubblicita'   sia
 assicurata "mediante resoconti pubblicati nel Bollettino delle Giunte e
 delle  Commissioni parlamentari", a cura del Segretario Generale. E del
 principio implicito in questa disposizione, espressamente  dettata  per
 le Commissioni legislative, ha fatto applicazione, nel caso in oggetto,
 la  Commissione  di  inchiesta,  cosi  stabilendo  nell'art.  1 del suo
 Regolamento interno del 31 luglio 1969 e  nell'art.  1  del  successivo
 Regolamento del 16 maggio 1973.
     Sempre  in  tema  di  pubblicita',  a parte per ora le disposizioni
 regolamentari   che   prevedono   il    segreto    delle    Commissioni
 "nell'interesse  dello  Stato"  (art.  65,  punto  3  , Reg. Camera, ed
 analogamente, seppure  con  formulazione  piu'  generica,  parlando  di
 "documenti,  notizie o discussioni che interessano lo Stato", l'art 31,
 punto 3, Reg. Senato), sulle quali  dovra'  tornarsi  subito  appresso,
 mette  conto  rammentare  in  particolar  modo  quelle  dettate  per le
 indagini  conoscitive  esperite  dalle  Commissioni,  cui  viene   data
 facolta'  di  decidere  di  non fare verbale ne' resoconto stenografico
 delle sedute a dette indagini dedicate (art. 144, punto 4, Reg. Camera,
 e art. 48, Reg. Senato): trattandosi evidentemente  di  un  settore  di
 attivita' parlamentare molto vicino a quello delle inchieste.
     7. - Dal complesso dei principi e delle disposizioni richiamate nei
 precedenti nn. 5 e 6 si ricava, dunque, che le Commissioni parlamentari
 d'inchiesta,  le  quali,  sostituendo necessariamente a norma dell'art.
 82, primo comma, Cost. il plenum delle Camere, a buon  diritto  possono
 configurarsi   come   le   stesse   Camere   nell'atto   di   procedere
 all'inchiesta, sono  libere  di  organizzare  i  propri  lavori,  anche
 stabilendo  - in tutto od in parte - il segreto delle attivita' da esse
 direttamente svolte e della documentazione  risultante  dalle  indagini
 esperite:   e   cio'   in   funzione   del   conseguimento   dei   fini
 istituzionalmente ad esse propri, specificamente indicati, nel caso  in
 oggetto,  dall'art.  2 della legge 20 dicembre 1962, n. 1720, a termini
 del quale "La Commissione, esaminate la genesi e le caratteristiche del
 fenomeno  della  mafia,  dovra'  proporre  le  misure  necessarie   per
 reprimerne le manifestazioni ed eliminarne le cause".
     Non  vale in contrario l'argomento che l'ordinanza del tribunale di
 Milano vorrebbe  trarre  proprio  dalle  disposizioni  dei  regolamenti
 parlamentari,  ricordate  alla  fine  del punto precedente, relative al
 segreto "nell'interesse dello Stato", poiche'  tali  disposizioni,  che
 letteralmente  non tanto consentono, quanto impongono, la segretezza di
 determinate sedute delle Commissioni, in realta' rimettono  pur  sempre
 all'apprezzamento  politico  delle  stesse (sicuramente non sindacabile
 dall'Autorita'  giudiziaria)  di  verificare  se  e  quando   l'ipotesi
 prevista  concretamente  ricorra;  e  percio',  nella  sostanza,  lungi
 dall'intaccare  i  principi  sopra  enunciati,  ne  offrono   indiretta
 conferma.  Senza dire che la circostanza che, per particolari casi, sia
 prescritto  un obbligo non basterebbe ad escludere, per ogni altro, una
 facolta',  che  appare  invece,   secondo   il   gia'   detto,   insita
 nell'autonomia  delle  Camere  e  dei loro organi, e segnatamente delle
 Commissioni di inchiesta da esse istituite;  per  le  quali  ultime  la
 segretezza,  che  puo'  circondarne  i  lavori,  e'  funzionalizzata al
 conseguimento dei fini alle medesime assegnati.
     Ora,  com'e'  riconosciuto,  puo'  ben  dirsi,  unanimemente  dalla
 dottrina  antica e recente, tali fini differiscono nettamente da quelli
 che caratterizzano le istruttorie delle autorita' giudiziarie.  Compito
 delle  Commissioni  parlamentari di inchiesta non e' di "giudicare", ma
 solo di raccogliere notizie e  dati  necessari  per  l'esercizio  delle
 funzioni  delle  Camere;  esse  non  tendono  a  produrre,  ne' le loro
 relazioni conclusive producono, alcuna modificazione giuridica  (com'e'
 invece  proprio  degli atti giurisdizionali), ma hanno semplicemente lo
 scopo di mettere a disposizione  delle  Assemblee  tutti  gli  elementi
 utili  affinche'  queste possano, con piena cognizione delle situazioni
 di fatto, deliberare la propria  linea  di  condotta,  sia  promuovendo
 misure  legislative, sia invitando il Governo a adottare, per quanto di
 sua competenza, i provvedimenti del caso.    L'attivita'  di  inchiesta
 rientra,  insomma,  nella  piu'  lata  nozione della funzione ispettiva
 delle Camere; muove  da  cause  politiche  ed  ha  finalita'  del  pari
 politiche;  ne'  potrebbe  rivolgersi  ad  accertare  reati  e connesse
 responsabilita' di ordine penale, che' se cosi' per avventura  facesse,
 invaderebbe   indebitamente   la   sfera  di  attribuzioni  del  potere
 giurisdizionale. E, ove nel corso delle indagini vengano  a  conoscenza
 di  fatti  che  possano  costituire reato, le Commissioni sono tenute a
 farne rapporto  all'autorita'  giudiziaria,  cosi  come,  nel  caso  in
 oggetto,  la  Commissione antimafia si e' vincolata a fare con i propri
 regolamenti interni sopra citati, del 1969 e  del  1973,  e,  stando  a
 quanto affermato nella relazione, in pratica ha fatto.
     Come  sono diversi i fini, cosi' differiscono o possono differire i
 mezzi di  cui  si  valgono  le  Commissioni  parlamentari  d'inchiesta,
 rispetto  a  quelli tipici dell'autorita' giudiziaria. Il secondo comma
 dell'art. 82  Cost.  attribuisce,  bensi',  alle  prime  a  gli  stessi
 poteri",  e prescrive a le stesse limitazioni", di quest'ultima, e cio'
 per consentire loro di superare, occorrendo, anche coercitivamente, gli
 ostacoli nei quali  potrebbero  scontrarsi  nel  loro  operare.  Ma  le
 Commissioni restano libere di prescegliere modi di azione diversi, piu'
 duttili  ed  esenti  da  formalismi  giuridici,  facendo  appello  alla
 spontanea collaborazione dei cittadini e  di  pubblici  funzionari,  al
 contributo  di studiosi, ricorrendo allo spoglio di giornali e riviste,
 e via dicendo. Come esattamente fu notato da una  antica  dottrina,  le
 persone  dalle Commissioni interrogate non depongono propriamente quali
 "testimoni", ma forniscono informazioni; e lo stesso e' a  dirsi  delle
 relazioni  varie  che  pubbliche  autorita' possono, su richiesta delle
 Commissioni,  ad  esse  presentare  con   riferimento   a   determinate
 situazioni  e circostanze ambientali, tra cui bene possono trovar posto
 anche stati d'animo e convincimenti diffusi, registrati  per  quel  che
 sono,  indipendentemente  dalla  loro  fondatezza,  da  chi, per la sua
 particolare esperienza o per l'ufficio ricoperto, sia meglio  in  grado
 di averne diretta notizia.
     Ma  siffatti  obiettivi  e  mezzi  di  azione, nella loro reciproca
 connessione,  postulano  logicamente  che  le  Commissioni  d'inchiesta
 abbiano  il  potere  di  opporre il segreto alle risultanze di volta in
 volta acquisite nel corso della  loro  indagine,  libere  rimanendo  di
 derogarvi,  quando  non  lo vietino altri principi, ogni qual volta non
 possano derivarne conseguenze tali da impedire o intralciare gravemente
 l'assolvimento  del  loro  compito:    specie  per  venire  incontro  a
 richieste  provenienti  da  autorita'  giudiziarie,  in  uno spirito di
 doverosa collaborazione tra organi di poteri distinti  e  diversi,  per
 fini  di  giustizia.  In  questo senso, il segreto delle Commissioni di
 inchiesta non corrisponde, a rigore, ai vari specifici tipi di  segreto
 previsti  dalle norme dei codici di diritto e procedura penale, ma puo'
 qualificarsi piuttosto, piu' genericamente, come un segreto funzionale,
 del quale spetta alle Commissioni medesime determinare la necessita' ed
 i limiti. E non importa che, nella specie,  la  Commissione  antimafia,
 nel  suo  ricordato  regolamento  interno  del  1973, abbia ritenuto di
 affermare un "segreto istruttorio" e poi un "segreto di ufficio", ed  a
 quest'ultimo  abbia  fatto  riferimento  nelle  lettere  di risposta ai
 tribunali ricorrenti, che stanno alle origini dei sollevati  conflitti,
 adoperando  anche  circonlocuzioni  e  perifrasi non sempre necessarie,
 poiche' quel che conta e' la sostanza, e  la  sostanza  e'  quella  che
 emerge dalle considerazioni fin qui svolte.
     Comunque,  che  la Commissione antimafia potesse opporre un segreto
 alle richieste delle autorita' giudiziarie non viene contestato, se ben
 si guarda, dallo stesso tribunale di Torino, che, in un primo  momento,
 nell'ordinanza  4  giugno  1973, dopo aver affermato in premessa che al
 Parlamento "unicamente spetta,  nell'esercizio  della  discrezionalita'
 politica,  di  stabilire  e in quali limiti dare pubblicita' agli atti"
 dell'inchiesta,   invitava    l'organo    parlamentare    al    riesame
 "dell'opportunita' di aderire alla richiesta" precedentemente avanzata,
 con  riferimento alla documentazione "non pubblicata, pur se di essa vi
 e'   cenno   nel    testo    delle    relazioni".        Mentre    poi,
 nell'ordinanza-ricorso  del  18  aprile  1975,  il  tribunale  medesimo
 sollevava il conflitto, assumendo che con la intervenuta pubblicazione,
 nel 1972, della "Relazione sui lavori svolti e sullo stato del fenomeno
 mafioso, al termine  della  V  Legislatura",  sarebbe  venuto  meno  il
 segreto  per  determinazione della stessa Commissione, per avere questa
 disposto  di  pubblicare  tra  gli  allegati  alla  Relazione  predetta
 l'indice analitico cui si e' sopra accennato al punto 5.
     Ma  si  tratta  di  un equivoco, nel quale d'altronde cade anche la
 difesa  del  tribunale  di  Milano,  insistendo,  sia  pure  in   linea
 subordinata,  su  analoga tesi. Altro e', infatti, pubblicare una serie
 di documenti, quali appunto quelli di cui agli allegati da 1 a 61 uniti
 alla  relazione  presentata  al  termine  della  V  Legislatura,  altro
 pubblicare  un  indice di documenti tuttora detenuti dalla Commissione;
 altra  cosa  e'  esteriorizzare  il  contenuto  di  certi  atti,  altro
 limitarsi a renderne nota l'esistenza.
     E  poiche',  come  a  suo  luogo  non si e' mancato di rilevare, il
 contrasto tra Commissione e tribunali ricorrenti  verte  esclusivamente
 intorno a documenti inclusi nell'indice, rimangono ferme le conclusioni
 fin qui raggiunte, nel senso che la Commissione d'inchiesta disponeva e
 dispone, in funzione delle proprie finalita', del regime di pubblicita'
 o di segretezza dei documenti in questione.
     8.  - Tali conclusioni, peraltro, come dovrebbe risultare implicito
 nel gia' detto, valgono limitatamente alla documentazione  relativa  ad
 accertamenti  svolti  o  direttamente disposti dalla Commissione, oltre
 che alle discussioni che hanno avuto luogo nel corso delle sue sedute e
 alle  valutazioni  ed  apprezzamenti  in  quella  sede espressi, ma non
 divulgati  attraverso  le  relazioni  pubblicate,  e  sono  logicamente
 estensibili ad esposti ed anonimi ad essa rivolti.
     Le  considerazioni  che  precedono  quanto ai particolari metodi di
 indagine cui una Commissione d'inchiesta puo'  ricorrere,  alla  natura
 confidenziale o comunque riservata che possono avere le informazioni ad
 essa  fornite o da essa raccolte, delle quali non sempre la Commissione
 e' in grado di accertare con sufficiente sicurezza la piena conformita'
 al vero, giustificano, infatti, la eventuale segretezza  dei  risultati
 in  tali  forme  acquisiti, e di questi soltanto, anche per non esporre
 quanti forniscono informazioni al rischio di conseguenze dannose. Ed e'
 ovvio che anche la sola prospettiva di consimili  rischi  costituirebbe
 una  remora  non  indifferente  per  gli  interessati,  minacciando  di
 compromettere il conseguimento,  non  soltanto  delle  finalita'  della
 singola  inchiesta,  ma  altresi',  in  prospettiva,  di ogni possibile
 inchiesta futura, vanificando in definitiva il  potere  che  l'art.  82
 Cost. conferisce alle Camere.
     9.  -  Entro  l'ambito  teste' precisato, il limite che dal segreto
 funzionale delle  Commissioni  d'inchiesta  (cui  esse  soltanto  hanno
 facolta'  di  derogare)  puo'  derivare  all'esercizio  della  funzione
 giurisdizionale  al  diritto  di  difesa  delle  parti,  essenzialmente
 connaturato   al  suo  vario  esplicarsi,  non  puo'  essere  giudicato
 illegittimo.
     A criteri analoghi si e' ispirata la sentenza n. 13 del 1975, sopra
 citata, in tema di rapporti tra giurisdizione penale e potere politico;
 mentre, per quel che piu' particolarmente concerne il diritto di difesa
 garantito nell'art.  24  Cost.,  la  Corte  nella  sua  giurisprudenza,
 costantemente  affermandone  il  carattere  di diritto fondamentale, ha
 piu' volte avuto occasione di rilevare come non sia  da  escludere  che
 esso  abbia ad incontrare determinati limiti, necessari a contemperarne
 la   tutela   con   quella   pure   spettante   ad   altri    interessi
 costituzionalmente  rilevanti;  purche'  in ogni caso detti limiti "non
 siano di entita' tale da comprometterne seriamente l'esercizio"  (sent.
 n. 175 del 1970), o peggio da ridurlo ad un nome vano.
     Il  che  non  si  verifica  quando  una  Commissione d'inchiesta si
 attenga al criterio, nella specie adottato, come risulta dal  resoconto
 della  seduta  del  16 novembre 1972, di indicare alle autorita' che ad
 essa richiedono documenti coperti  dal  suo  segreto  "le  fonti  delle
 notizie  raccolte...  in modo che le' predette autorita' siano poste in
 grado di svolgere in materia propri autonomi accertamenti".
     Puo'   aggiungersi,   con   specifico   riguardo   alla    presente
 controversia,   che   non  soltanto  l'ampiezza  delle  relazioni  gia'
 pubblicate e l'abbondanza della documentazione allegata, ma  la  stessa
 formulazione  dell'indice,  che  costituisce, come accennato, un vero e
 proprio sommario, sono suscettibili di offrire ai tribunali  ricorrenti
 una  traccia  tutt'altro  che  esigua per procedere essi stessi, ove lo
 ritengano, agli incombenti istruttori del caso, nei modi e nelle  forme
 previste dal codice di rito.
     10.  -  D'altro canto, non tutti i documenti nella specie richiesti
 dai tribunali ricorrenti e rifiutati dalla Commissione  si  riferiscono
 ad  atti  da  questa  formati  o direttamente disposti ai propri fini e
 secondo i propri metodi di lavoro. Sono, infatti, tra  essi  ricompresi
 anche  atti  precostituiti  da  altre  autorita'  o  da  enti pubblici,
 nell'esplicazione  dei  loro compiti istituzionali; come pure documenti
 privati e scritti anonimi.
     Di  questi  ultimi,  consistenti  in  un   esposto   rivolto   alla
 Commissione  da  Michele  Pantaleone  nonche' in lettere anonime aventi
 riguardo al medesimo, del pari indirizzate alla  Commissione  (doc.  di
 cui  al n. 846 dell'indice allegato alla relazione pubblicata nel 1972,
 nn.  2 e 3), si e' gia' detto sopra, al punto 8 della motivazione,  che
 debbono   essere   assimilati   a   quelli  formati  o  disposti  dalla
 Commissione,  perche'  nessuna  differenza  sostanziale  sussiste   tra
 deposizioni o confidenze da questa raccolte ed esposti o lettere, anche
 se  anonime,  ad  essa  direttamente  pervenuti.  Non  vi e', pertanto,
 obbligo di trasmetterli ai giudici richiedenti.
     Tra gli altri atti che la Commissione  semplicemente  detiene,  una
 considerazione  a  parte  meritano  quelli  indicati  ai  nn. 787 e 788
 dell'indice piu' volte citato, e precisamente i verbali di trascrizione
 delle intercettazioni telefoniche, nonche' le trascrizioni dei relativi
 nastri  magnetici,  riferentisi  all'apparecchio  di   Italo   Jalongo,
 trasmessi  dalla Procura della Repubblica presso il tribunale di Roma e
 dalla Questura di Roma.
     Questi documenti, inerendo ad un procedimento penale  in  corso  di
 istruttoria,  erano  e sono gia' a disposizione del potere giudiziario,
 complessivamente considerato, entro l'ambito del quale non mancano  gli
 strumenti  suscettibili  di  consentirne  ai  giudici  che  vi  abbiano
 interesse l'acquisizione, ne'  gli  strumenti  per  dirimere  eventuali
 contrasti tra l'una e l'altra autorita' giudiziaria (art. 51 cod. proc.
 pen.).  E  non  puo'  ritenersi  illegittimamente  menomata la sfera di
 attribuzioni del potere giudiziario, per il fatto  che  la  Commissione
 parlamentare,   organo   di  un  diverso  potere,  abbia  rifiutato  di
 consegnarli  al  tribunale  di  Milano,  invitandolo  per  l'appunto  a
 procurarseli   presso   l'altra  autorita'  giudiziaria  investita  del
 processo cui originariamente pertengono.
     Per tutto il resto, e sempre nell'ambito della  specie  di  atti  e
 documenti di cui ora si discorre, in ordine ai quali la Commissione non
 puo'  invocare  il proprio segreto funzionale (e non lo ha, in effetti,
 invocato), si tratta di accertare se e per quali tra essi i soggetti da
 cui originariamente provengono  fossero'  alla  stregua  di  specifiche
 norme  di  legge  (della  cui  legittimita'  costituzionale  non  sorge
 questione nei presenti conflitti) tenuti ad un segreto opponibile anche
 all'autorita' giudiziaria penale.
     Ma l'ipotesi non ricorre nella specie. Ed infatti:
     1) il prospetto dei voti  preferenziali  delle  elezioni  regionali
 1963  nella  Provincia di Palermo, trasmesso da quella Prefettura (doc.
 di cui al n. 69 dell'indice, richiesto dal  tribunale  di  Torino)  non
 puo'  considerarsi  comunque  segreto  e  la  Commissione  pertanto  ha
 l'obbligo di trasmetterlo al tribunale predetto;
     2) considerazioni analoghe e identiche conclusioni valgono per  gli
 atti  della  Commissione  d'inchiesta del Consiglio della Regione Lazio
 sul caso Rimi ed i relativi resoconti stenografici (doc. di cui ai  nn.
 736 e 784 dell'indice, richiesti dal tribunale di Milano);
     3) appartengono alla categoria di atti coperti da segreto d'ufficio
 o  professionale,  non opponibile peraltro all'autorita' giudiziaria in
 sede penale:
     -  le  copie delle deliberazioni della Cassa di Risparmio "Vittorio
 Emanuele" di Palermo, relative ai rapporti tra la Cassa medesima ed  il
 Vassallo,  e  gli estratti conti delle varie operazioni (doc. di cui al
 n. 8, nn. 1 e 2, richiesti dal tribunale di Torino);
     - la "documentazione varia" della  Questura  di  Palermo,  relativa
 alla  proposta  di  assegnazione  a  soggiorno  obbligato  di Francesco
 Vassallo (doc. di cui al n. 627, richiesto dal tribunale di Torino);
     - il fascicolo personale intestato al medesimo  presso  il  Comando
 della  Guardia  di  finanza  di  Palermo,  riferentesi  alle infrazioni
 valutarie accertate nei suoi confronti  e  comprendente  altresi'  note
 informative,  documentazione  e corrispondenza varia (doc. di cui al n.
 12, richiesto dal tribunale di Torino);
     -  l'altro  fascicolo  personale,  intestato  ad  Italo  Jalongo  e
 trasmesso  dalla Questura di Roma (doc. di cui al n. 790, richiesto dal
 tribunale di Milano).
     In ordine ai quali tutti  va  pertanto  affermato  l'obbligo  della
 Commissione  parlamentare  di  trasmetterli  ai  tribunali richiedenti,
 restando  pur  sempre  esclusi,  in  conformita'  dei  principi   sopra
 affermati ai punti 7 e 8 della motivazione, eventuali atti inseriti nei
 documenti  ora  elencati,  ma  formati dietro specifica richiesta della
 Commissione medesima e ad essa rivolti.