ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nei giudizi riuniti di legittimita' costituzionale degli artt. 1  della
 legge  27  maggio  1929,  n.  810 (Esecuzione del Trattato, dei quattro
 allegati annessi, e del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la  Santa
 Sede  e  l'Italia, l'11 febbraio 1929) e 17 della legge 27 maggio 1929,
 n. 847 (Disposizioni per l'applicazione del Concordato dell'11 febbraio
 1929 tra la Santa Sede e l'Italia, nella parte relativa al matrimonio),
 promossi con le seguenti ordinanze:
     1) ordinanza emessa dalla Corte di cassazione il 31 marzo 1977, nel
 procedimento civile vertente tra  Di  Filippo  Gigliola  e  Gospodinoff
 Aldomir  ed  altro,  iscritta  al  n. 434 del registro ordinanze 1977 e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  347  del  21
 dicembre 1977;
     2)  n.  5 ordinanze emesse dalla Corte d'appello di Roma il 15 e 31
 marzo  1977,  3  maggio  1977,  6  maggio  1977  (due  ordinanze)   nei
 procedimenti  civili  vertenti  tra  Papaleo Saverio e Medugno Liliana,
 Filippucci Lorenzo e Donati Paola, Mimmi Augusto  e  Olivieri  Claudia,
 Cioci  Nazareno e Oliva Lidia, Paolini Lorenzo e Berlen Elena, iscritte
 ai nn.   355,  313,  501,  303  e  385  del  registro  ordinanze  1977,
 pubblicate  nella  Gazzetta  Ufficiale della Repubblica nn.   258, 244,
 353, 244 e 286 rispettivamente del 21 e 7  settembre,  28  dicembre,  7
 settembre e 19 ottobre 1977;
     3)  n.  14 ordinanze emesse dalla Corte d'appello di Milano il 15 e
 24 aprile 1977, 3 giugno 1977 (due  ordinanze),  14  ottobre  1977,  30
 giugno  1978 (tre ordinanze), 13 ottobre 1978, 23 marzo, 27 aprile e 18
 maggio 1979, 25 gennaio e 15 febbraio  1980,  nei  procedimenti  civili
 vertenti  tra  Rodi  Renato  e  Del  Bono Maria Luisa, Tuccio Adriana e
 Bisello Giorgio, Galeazzi Bruno e Cornali  Silvia,  Vignetta  Silvio  e
 Darosi  Iolanda,  Marazzi Giacomo e Ricchi Faustina, Mazza Ermanno e Di
 Cintio Carmela, Califano Prisco  e  Califano  Carmela,  Cola  Romano  e
 Guerriero  Paola,  Bertoli  Silvano e Biffi Piera, Gallinoni Vincenzo e
 Pagani Paola, Ruggiero Vincenzo e Crotti Emiliana,  Cugnasca  Enrico  e
 Levy  Nella,  Sabelli  Fioretti  Claudio  e  Oldrini  Francesca, Bosoni
 Achille e Marchese Bruna, iscritte ai nn. 329, 451 e 452  del  registro
 ordinanze  1977, ai nn. 79 e 68 del registro ordinanze 1978, ai nn. 10,
 11, 12, 13, 625, 626 e 1025 del registro ordinanze 1979 e ai nn. 527  e
 419  del  registro  ordinanze 1980, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
 della Repubblica nn.  258, 320, 327 del 21 settembre, 23 e 30  novembre
 1977; nn.  109 e 101 del 19 e 12 aprile 1978; nn. 80 e 310 del 21 marzo
 e  13  novembre  1979  e nn. 71, 270 e 194 del 12 marzo, l ottobre e 16
 luglio 1980;
     4) ordinanza emessa dalla Corte d'appello di Palermo il  14  aprile
 1977  nel  procedimento  civile  vertente  tra Amodeo Francesco e Gioia
 Maria Aurora,  iscritta  al  n.  407  del  registro  ordinanze  1977  e
 pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica n. 293 del 26
 ottobre 1977.
     Visti gli atti di costituzione di  Oliva  Lidia,  Medugno  Liliana,
 Cioci  Nazareno, Filippucci Lorenzo, Rodi Renato, Mazza Ermanno, Donati
 Paola,  Papaleo  Saverio,  Amodeo  Francesco,  Di   Filippo   Gigliola,
 Gospodinoff  Aldomir,  Olivieri  Claudia,  e gli atti di intervento del
 Presidente del Consiglio dei ministri;
     udito nell'udienza pubblica del 9 dicembre 1981 il Giudice relatore
 Antonino De Stefano;
     uditi gli avvocati Mauro Mellini per Oliva Lidia, Medugno Liliana e
 Di Filippo Gigliola; Paolo  Barile  per  Di  Filippo  Gigliola;  Cesare
 Mirabelli   per   Filippucci  Lorenzo;  Corrado  Bernardini  per  Cioci
 Nazareno, Filippucci Lorenzo, Rodi Renato e Mazza Ermanno; Leo Leli per
 Papaleo Saverio;  Pietro  Gismondi  e  Filippo  Satta  per  Gospodinoff
 Aldomir;  e  l'avvocato dello Stato Giorgio Azzariti, per il Presidente
 del Consiglio dei ministri.
                           Ritenuto in fatto:
     1. - Le norme  che  attribuiscono  ai  tribunali  ecclesiastici  la
 giurisdizione  in materia di nullita' dei matrimoni canonici trascritti
 agli effetti civili e delimitano i poteri spettanti al giudice italiano
 nel procedimento di esecutivita' delle sentenze di nullita' che da quei
 tribunali provengono, sono oggetto di eccezioni di  incostituzionalita'
 formulate,  sotto  vari  profili,  con  ordinanza  31 marzo 1977, dalle
 Sezioni unite della Corte di cassazione.
     Il giudizio di legittimita' costituzionale e'  stato  promosso,  su
 istanza  di  parte, in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 24, 25, 29 e 101
 della Costituzione, nei confronti dell'art. 34, commi quarto, quinto  e
 sesto,  del  Concordato  tra  la  Santa Sede e l'Italia, reso esecutivo
 dall'art. 1 della legge 27 maggio 1929, n. 810, nonche'  nei  confronti
 dell'art.  17  della legge 27 maggio 1929, n. 847 (recante disposizioni
 per l'applicazione del Concordato medesimo,  nella  parte  relativa  al
 matrimonio;  c.d.  legge  matrimoniale).  Il  giudizio  a quo, pendente
 innanzi alle Sezioni unite, verte su un ricorso proposto da Di  Filippo
 Gigliola  contro  l'ordinanza  con cui la Corte d'appello di Roma aveva
 reso esecutiva la sentenza 6 marzo 1972 del tribunale ecclesiastico del
 Vicariato  di  Roma,  dichiarativa  della nullita', per riserva mentale
 consistente nella esclusione del bonum sacramenti, ex parte  viri,  del
 matrimonio da lei contratto con Aldomir Gospodinoff.
     La  pronuncia  di  questa  Corte - si premette nel provvedimento di
 rimessione -  viene  sollecitata  dopo  che  questioni  in  gran  parte
 analoghe,  ma  formulate in termini piu' circoscritti, sollevate, nello
 stesso giudizio, con ordinanza emessa il 3 luglio 1975,  nei  confronti
 soltanto  dell'art.  17  della  legge  matrimoniale, senza investire le
 correlative disposizioni dell'art. 34 del Concordato,  erano  state  da
 questa Corte dichiarate inammissibili, per difetto di rilevanza, con la
 sentenza  n.  1  del  1977.  Essendo ora impugnato anche l'art. 1 della
 legge n. 810 del 1929, nella parte in  cui  inserisce  nell'ordinamento
 dello Stato i commi quarto, quinto e sesto dell'art. 34 del Concordato,
 il  giudice  a  quo  afferma che, alla stregua delle stesse indicazioni
 desumibili dalla menzionata sentenza di  questa  Corte,  "la  rilevanza
 delle  questioni  proposte resta fuori di discussione". Peraltro, anche
 in questa seconda ordinanza, con riferimento  al  giudizio  a  quo,  si
 ribadisce  che, avendo le parti, sia nel corso del procedimento dinanzi
 alla Corte  d'appello,  sia  nella  successiva  fase  di  legittimita',
 discusso  intorno  alla portata e alla costituzionalita' delle norme in
 parola, la Corte di cassazione non puo', ai fini  della  decisione  del
 ricorso,  prescindere  da  tali questioni. Una volta ritenute le stesse
 non  manifestamente  infondate  deve  quindi  sottoporle   alla   Corte
 costituzionale.
     Cio'  premesso,  motivando ai fini della non manifesta infondatezza
 della prima delle suddette eccezioni, le Sezioni unite,  rilevato  che,
 in  proposito,  "salva,  ove occorra, qualche ulteriore considerazione,
 puo'  essere  integralmente   utilizzata"   l'indagine   svolta   nella
 precedente  ordinanza del 1975, fanno richiamo a due sentenze di questa
 Corte (n. 98 del 1965 e n. 183 del 1973) sulle condizioni di  validita'
 e  sui  limiti della rinuncia dello Stato alla propria giurisdizione in
 favore degli organi di giustizia delle Comunita' europee, sottolineando
 come in queste pronunce l'assoggettamento alla  giurisdizione  previsto
 dai  Trattati  istitutivi  delle  Comunita'  medesime,  e'stato  bensi'
 ritenuto conforme a  Costituzione,  ma  solo  in  quanto  la  Corte  di
 giustizia  delle  Comunita'  e'  costituita  ed  opera  secondo  regole
 corrispondenti alle linee fondamentali dell'ordinamento giurisdizionale
 statale, ha natura  giurisdizionale,  ed  e'  composta  da  membri  che
 esercitano  le  proprie  funzioni  con indipendenza e imparzialita'. La
 legittimita' della produttivita' di effetti nell'ordinamento interno di
 sentenze  emesse  da  parte  degli  organi  comunitari  risulta  dunque
 subordinata,  in quelle sentenze, al rispetto del diritto del cittadino
 alla tutela giurisdizionale.
     Con richiamo, inoltre, alle sentenze di questa Corte n. 30 del 1971
 e n. 175 del 1973, concernenti direttamente la rinuncia dello Stato, in
 base al Concordato con la Santa Sede,  alla  propria  giurisdizione  in
 materia  di  nullita'  del  matrimonio  canonico  produttivo di effetti
 civili, il giudice a  quo  osserva  che,  mentre  la  prima  di  queste
 decisioni si era limitata ad affermare che il divieto di istituzione di
 giudici  speciali,  sancito  dall'art.  102  della  Costituzione, opera
 soltanto nell'ambito dell'ordinamento statale, la seconda, col chiarire
 che  la  sovranita'  dello  Stato,   proclamata   dall'art.   1   della
 Costituzione,    "non    implica   un'assoluta   inderogabilita'   alla
 giurisdizione", ha lasciato impregiudicato  il  problema  (che  ora  si
 propone)  se  la  riserva  a  favore  della giurisdizione ecclesiastica
 (benche' in linea di massima compatibile con  la  sovranita'  statuale)
 non   si   ponga,   in   considerazione   dei   connotati  qualificanti
 dell'ordinamento canonico, in contrasto con uno  degli  altri  principi
 supremi  del  sistema  costituzionale.  Di  quei  principi, cioe', alla
 stregua dei quali (come e'  stato  affermato  da  questa  Corte,  nelle
 sentenze  n.   30 e seguenti del 1971, e ribadito nella stessa sentenza
 n. 1 del 1977) l'art. 7 della Costituzione consente che anche le  norme
 delle  leggi  che  hanno  reso esecutivo il Concordato tra Santa Sede e
 Italia, possano essere sindacate.
     Sulle linee segnate dalla su ricordata giurisprudenza  della  Corte
 costituzionale  -  prosegue  l'ordinanza  di rinvio - si puo' e si deve
 dunque procedere - al fine di verificare il grado  di  tutela  da  esse
 garantito  -  ad  un  esame  delle  norme  che regolano il procedimento
 innanzi ai tribunali ecclesiastici in materia matrimoniale, vigenti  le
 quali  i  tribunali  stessi pronunciano le sentenze che, in forza delle
 norme impugnate,  il  giudice  italiano  deve  poi  rendere  esecutive.
 L'esame  di  tali  norme  (che hanno fonte, da un lato, nel codex iuris
 canonici e,  dall'altro,  nella  Instructio  "Provida  mater  Ecclesia"
 emanata il 15 agosto 1936, e in una serie di testi successivi) conduce,
 secondo  l'ordinanza,  a  rilevare  che  il sistema della giurisdizione
 ecclesiastica in materia matrimoniale e' caratterizzato:
     I. Per quanto riguarda i giudici:
     a) dal principio secondo cui il Pontefice e' titolare  nativo  iure
 della  potesta'  giurisdizionale  ed  e'  pertanto  il  massimo giudice
 naturale in assoluto (canoni 218, 1569);
     b) dall'amovibilita' dei giudici  (prevista  in  via  assoluta,  ad
 nutum  episcopi,  dal  canone  1573,  paragrafo  5,  e  successivamente
 attenuata con l'attribuzione alla Conferenza regionale  episcopale  del
 potere  di rimozione per causa grave) e dall'avocabilita' al Pontefice,
 nella ricordata sua qualita', di qualunque causa in qualunque  stato  e
 grado,  con  conseguente  deferimento  a  giudici da lui scelti (canone
 1557, paragrafo 3);
     II. Per quanto riguarda le parti:
     c) dal riconoscimento della capacita' processuale ai  soli  coniugi
 cattolici    (canone    1971,    art.   35   dell'Instructio),   almeno
 nell'ordinamento vigente all'epoca dei fatti di  causa,  in  quanto  le
 limitazioni  in  danno  degli acattolici non sono state rimosse che nel
 1973;
     III. Per quanto concerne il contraddittorio e il diritto di difesa:
     d) da disposizioni  per  cui  il  convenuto  conosce  il  contenuto
 integrale   del   libello   introduttivo   soltanto   dopo  il  proprio
 interrogatorio (art. 113, paragrafo 1, dell'Instructio);
     e) dalla possibilita' che ai difensori sia interdetto il patrocinio
 "da parte dello stesso ordinario  che  regge  il  tribunale  regionale"
 (art.  48,  paragrafo  4,  dell'Instructio,  art.   1 delle Norme della
 Congregazione per la disciplina dei sacramenti del 10 luglio 1940);
     f) dal divieto per le parti e per i  loro  difensori  di  assistere
 all'assunzione delle prove testimoniali (art. 128 dell'Instructio);
     g)   dalle   limitazioni   a  testimoniare  poste  a  carico  degli
 scomunicati (art. 119 dell'Instructio);
     h) dall'inesistenza di sanzioni - che non siano di natura meramente
 spirituale - per le ipotesi di mancata presentazione dei testimoni,  di
 rifiuto di rispondere alle domande e di falsa testimonianza;
     i)  dal potere del Pontefice di rendere definitive decisioni ancora
 impugnabili, con conseguente discrezionale  esclusione  della  garanzia
 del doppio grado di giurisdizione;
     l)  dall'insuscettibilita' delle sentenze ecclesiastiche in materia
 matrimoniale di passare in giudicato (canone 1903, art. 217,  paragrafo
 1, dell'Instructio).
     Tale  sistema,  che  - osservano le Sezioni unite - trae la propria
 giustificazione e la propria interna coerenza,  "fuori  discussione  in
 questa sede", dalla natura sacramentale del matrimonio canonico, appare
 per piu' versi difforme da quello che la Costituzione vuole assicurato,
 e    che    risulta    invece    ispirato   ai   criteri   fondamentali
 dell'imparzialita',  della  indipendenza  (art.  101  Cost.)  e   della
 precostituzione  del  giudice  (art.  25  Cost.), nonche' del potere di
 ciascuno di agire in giudizio e di esercitare, in ogni  stato  e  grado
 del  procedimento  -  partecipando  ad  ogni  atto di esso - il diritto
 inviolabile di difesa, e di vedere altresi'  definitivamente  accertata
 la  conformita'  o  meno  di  una  determinata  situazione  alle  norme
 dell'ordinamento (art. 24, commi primo e secondo, Cost.).
     Per  stabilire  se,  sotto  questi  aspetti,   la   questione   sia
 proponibile innanzi alla Corte costituzionale, "non interessa stabilire
 -  precisa  ancora  l'ordinanza  di  rinvio  - se nel processo svoltosi
 dinanzi ai tribunali ecclesiastici che  ha  dato  luogo  alla  presente
 controversia,  abbiano  o  meno  trovato puntuale applicazione tutte le
 surricordate norme canoniche". La prospettata  violazione  del  diritto
 alla  tutela giurisdizionale - si afferma - e' ricollegabile invero non
 ad una lesione verificatasi nella singola fattispecie concreta, sibbene
 alla   strutturazione   generale   del   sistema   che,    nella    sua
 istituzionalita',   sembra  insuscettibile  di  garantire  congruamente
 quella tutela.
     Ne'  in  contrario  -  si  aggiunge  -  gioverebbe  richiamare   il
 "carattere  sostitutivo",  per  i  matrimoni  canonici  trascritti agli
 effetti civili, (che la motivazione della sentenza di questa Corte n. 1
 del 1977 pone in risalto) della giurisdizione di nullita' dei tribunali
 ecclesiastici.  Proprio  in  quanto   nella   materia   in   esame   la
 giurisdizione  statuale  e' sostituita da quella ecclesiastica - le cui
 singole  caratteristiche  cospirano  tutte  a  delineare   un   sistema
 profondamente  diverso  -  viene  infatti in evidenza il problema della
 difformita' tra l'ordinamento canonico ed il tipo  di  tutela  previsto
 dalla Costituzione.
     Che,  poi,  il diritto alla tutela giurisdizionale, parametro della
 legittimita'  delle  norme  impugnate,  abbia  dignita'  di  "principio
 supremo",  e'  punto  sul  quale  -  aggiungono le Sezioni unite - ogni
 decisione  va  lasciata  alla   Corte   costituzionale.   E'   comunque
 significativo - si aggiunge - che la Corte costituzionale, in una delle
 sentenze surrichiamate (n. 98 del 1965), ha gia' inquadrato quello alla
 tutela   giurisdizionale   fra   i   "diritti   inviolabili  dell'uomo"
 riconosciuti e garantiti dall'art. 2 della Costituzione.
     La seconda questione di legittimita' costituzionale, questione  che
 -  si  precisa  ancora nell'ordinanza - da' per scontata la conformita'
 alla  Costituzione  della  riserva  di  giurisdizione  in  favore   dei
 tribunali  ecclesiastici,  verte  sui  limiti  dei  poteri  del giudice
 chiamato  a  dare  esecutivita',  nell'ordinamento  dello  Stato,  alle
 sentenze  dei  tribunali  ecclesiastici.  Le  norme  impugnate, secondo
 l'interpretazione datane da una consolidata giurisprudenza,  altro  non
 consentono  al  giudice  italiano, una volta verificata la regolarita',
 puramente formale, della documentazione rimessagli dal tribunale  della
 Segnatura  apostolica,  se  non  di  prendere  atto  dell'esistenza del
 provvedimento  emesso  nell'ordinamento  canonico,  e   che   va   reso
 esecutivo,  senza  che  si possa compiere alcun esame, neppur sommario,
 delle  modalita'  della   procedura   svoltasi   innanzi   al   giudice
 ecclesiastico  e delle questioni di diritto sostanziale da esso decise.
 Al  giudice  italiano  e',  dunque,  precluso  di  accertare   se   nel
 procedimento  in  cui  e'  stata  resa  la  sentenza  di  nullita'  del
 matrimonio,   sia   stato   assicurato   l'effettivo    rispetto    del
 contraddittorio  e  del  diritto  di  difesa;  se  la sentenza sia o no
 definitiva; se siano stati realmente effettuati, da parte del tribunale
 della Segnatura, i controlli (circa la conformita' della sentenza  alle
 norme  del  diritto canonico relative alla competenza del giudice, alla
 citazione ed alla legittima rappresentanza o contumacia  delle  parti),
 controlli  previsti  dal  comma quinto dell'art. 34 del Concordato; se,
 infine, le disposizioni contenute nella  sentenza  di  nullita',  siano
 conformi  (come  previsto dall'art.  797, n. 7, del codice di procedura
 civile, e segnatamente dall'art. 31 delle preleggi)  al  principio  del
 rispetto  dell'ordine  pubblico  italiano.  Anche  a questo riguardo al
 giudice a quo  appare  quindi  dubbia  la  compatibilita'  delle  norme
 impugnate  con il "principio supremo" del diritto di agire e difendersi
 in giudizio, dinanzi a qualsiasi organo fornito dei poteri tipici della
 giurisdizione, che dagli artt. 2, 24  e  101  della  Costituzione  deve
 ritenersi  garantito  al  cittadino  anche in tema di riconoscimento di
 sentenze rese in altri ordinamenti.
     Un "ulteriore profilo" di  contrasto  delle  denunciate  norme  con
 "principi  supremi  del  sistema costituzionale" viene infine ravvisato
 dalle Sezioni unite nel fatto che le disposizioni  medesime,  imponendo
 al  giudice  statale  di  rendere  esecutive le sentenze ecclesiastiche
 anche se fondate su cause di nullita' non previste  dalla  legge  dello
 Stato,  e  in  particolare  (come  nel  caso  di  specie) sulla riserva
 mentale, "senza possibilita' di rilevarne  il  conflitto  con  l'ordine
 pubblico  italiano",  sembrano  introdurre nell'ordinamento dello Stato
 "un  tipo  di  matrimonio  contrastante  con  quello   previsto   dalla
 Costituzione,  in  violazione  dei  canoni relativi all'eguaglianza dei
 cittadini senza distinzione di religione, ed al  concetto  medesimo  di
 matrimonio  accolto  dalla  Carta  fondamentale  (artt.  2,  3,  7 e 29
 Cost.)". Anche a  questo  proposito,  circa  la  natura  "suprema"  dei
 principi  invocati,  il  giudice  a  quo  ritiene  di  non poter trarre
 conclusioni  definitive,  rimettendosi  alla  decisione   della   Corte
 costituzionale.  Ricorda  comunque che, riguardo alla scelta del regime
 matrimoniale, civile o canonico, questa Corte  ha  affermato  (sentenze
 nn.  31  e 32 del 1971 e 175 del 1973) che tale liberta' di scelta puo'
 riconoscersi conforme all'art.   3  della  Costituzione,  "purche'  nel
 regime   prescelto   non   si   abbia   violazione  di  altri  precetti
 costituzionali supremi".
     Dopo aver posto in evidenza "le  differenze  di  fondo,  certamente
 esistenti  fra  i  due  tipi  di  matrimonio",  canonico e civile, e la
 diversita' che nei due  ordinamenti  caratterizza  la  regolamentazione
 delle  cause di nullita', viene sottolineato come, mentre l'ordinamento
 dello Stato considera primaria l'esigenza di salvaguardare la "societa'
 naturale fondata sul matrimonio" (art.  29  della  Costituzione)  e  il
 mantenimento  del  rapporto familiare, anche se costituito in virtu' di
 un  atto  invalido  (come le norme del codice civile in materia, specie
 quelle sulla "sanatoria" delle  nullita',  per  piu'  versi  largamente
 concorrono  a  dimostrare),  nell'ordinamento  canonico  per contro, in
 ragione della natura  sacramentale  del  matrimonio,  riveste  decisiva
 importanza  "la  verifica  della  puntuale  adesione della volonta' del
 nubente a ciascuno dei caratteri tipici del sacramento". Cosicche'  ne'
 l'oggetto  del  consenso, ne' il protrarsi della convivenza impediscono
 l'accertamento di una eventuale mancata corrispondenza fra la  volonta'
 di  ciascuno  dei  nubenti  e le finalita' sacramentali, ancorche' tale
 difformita', come nel  caso  (che  e'  quello  che  si  verifica  nella
 fattispecie)  della  riserva mentale, sia rimasta del tutto sconosciuta
 all'altro coniuge, con  la  possibile  conseguenza  che  in  base  alla
 regolamentazione   canonica,  in  forza  delle  norme  impugnate,  puo'
 liberarsi dal vincolo, anche agli effetti civili, deducendo la nullita'
 del matrimonio, proprio il coniuge che  abbia  posto  a  suo  tempo  le
 relative condizioni, vedendo cosi' premiata la sua mala fede.
     Sotto  tutti  gli  aspetti  considerati,  percio'  -  concludono le
 Sezioni unite - le questioni sollevate, anche per gli argomenti offerti
 dalle numerose conferme di  ordine  dottrinale,  devono  ritenersi  non
 manifestamente infondate.
     2.  -  Innanzi  a questa Corte si sono costituiti sia la Di Filippo
 che  il  Gospodinoff.  E  anche  intervenuta,  per  il  Presidente  del
 Consiglio dei ministri, l'Avvocatura dello Stato.
     Per  i  motivi  esposti  nell'ordinanza  di rimessione, ai quali si
 riporta integralmente, la difesa della Di Filippo chiede che  le  norme
 impugnate vengano riconosciute illegittime. Dal canto suo la difesa del
 Gospodinoff  chiede invece che la Corte dichiari la questione sollevata
 inammissibile, e comunque infondata.  In  via  pregiudiziale,  infatti,
 sostiene  che  le  eccezioni  prospettate  dalla  Cassazione  sarebbero
 irrilevanti perche' astratte e formulate  senza  specifico  riferimento
 alla concreta vicenda procedurale.
     Nel  merito, la difesa del Gospodinoff fa richiamo alle sentenze di
 questa Corte n. 31 del 1971 e n. 175 del 1973, secondo le quali ne'  la
 semplice  differenza  di  regime  riscontrabile fra matrimonio civile e
 matrimonio canonico  ne'  la  rilevanza  della  giurisdizione  canonica
 nell'ordinamento   italiano   comporterebbero  violazione  di  principi
 supremi. Aggiunge  che  non  dovrebbe  essere  dimenticato  che  fra  i
 principi   qualificanti   il  vigente  sistema  costituzionale  rientra
 certamente  l'art.  7,  primo  comma,  della  Costituzione,  il   quale
 riconosce  che  "lo  Stato e la Chiesa sono ciascuno nel proprio ordine
 indipendenti e sovrani". Di tutto cio', del resto, si avrebbe  conferma
 nella stessa piu' recente sentenza n. 1 del 1977, la' dove questa Corte
 afferma  che "le disposizioni dell'art. 34 del Concordato e della legge
 n. 810 del  1929  godono  attualmente  della  copertura  costituzionale
 fornita dall'art. 7, secondo comma, della Costituzione".
     Secondo  la  difesa  del  Gospodinoff,  anche il dubbio prospettato
 dall'ordinanza di rinvio riguardo alla diversa disciplina  delle  cause
 di  nullita'  del  matrimonio civile e del matrimonio canonico dovrebbe
 ritenersi gia' risolto dalla precedente giurisprudenza di questa Corte.
 Non si vedrebbe, tuttavia, in qual modo la  dichiarazione  di  nullita'
 del  matrimonio - prevista dall'ordinamento canonico - per simulazione,
 possa ledere i principi  supremi  dell'ordinamento  costituzionale.  Si
 tratta  infatti  di  una causa di nullita' che, sia pure con disciplina
 parzialmente diversa, e' ammessa ora, dopo la riforma  del  diritto  di
 famiglia, anche dall'art. 123 del codice civile.
     A  sua  volta,  nel  chiedere  che  le  eccezioni di illegittimita'
 costituzionale formulate dalle Sezioni unite della Corte di  cassazione
 vengano   respinte  perche'  infondate,  l'Avvocatura  dello  Stato  fa
 richiamo, oltre che alla sentenza n. 175 del 1973, alla sentenza n.  30
 del  1971  di  questa  Corte.  Sia  l'una  che  l'altra,  infatti,  col
 riconoscere la legittimita' della riserva per le cause di nullita'  dei
 matrimoni  canonici  trascritti  agli effetti civili alla giurisdizione
 canonica, avrebbero implicitamente riconosciuto  anche  la  sufficienza
 delle  garanzie processuali previste da quell'ordinamento. Alla luce di
 queste pronunce, percio', il rilievo  mosso  nell'ordinanza  di  rinvio
 alle   disposizioni  impugnate  in  base  alla  pretesa  minore  tutela
 giurisdizionale  che  il  processo  canonico  offrirebbe  alle   parti,
 dovrebbe ritenersi superato.
     Secondo  l'Avvocatura,  inoltre, se e' vero, come ha argomentato il
 giudice a  quo,  che  la  Corte  costituzionale  nel  giudicare,  nelle
 sentenze  n.  98  del  1965 e n. 183 del 1973, riguardo ai rapporti fra
 Stato italiano e Comunita' europee, della  legittimita'  costituzionale
 della rinuncia dello Stato all'esercizio della propria giurisdizione in
 favore  di quella di un altro ordinamento, ha fatto ricorso al criterio
 della  verifica  del  grado  di  efficienza  del  sistema   di   tutela
 giurisdizionale garantito dall'ordinamento non statale, non e' men vero
 che   il   ricorso   a   tale  criterio  postula  l'esclusivita'  della
 giurisdizione dell'altro ordinamento. Nei casi di specie,  invece,  non
 si  ha una esclusivita' (della giurisdizione canonica) ma piuttosto una
 alternativita' fra le due giurisdizioni (civile o canonica) in funzione
 della  libera  scelta  dei  nubenti.  Secondo  le  norme  concordatane,
 infatti,  alla giurisdizione canonica restano soggetti solo coloro che,
 pur potendo, come  cittadini  italiani,  contrarre  matrimonio  civile,
 secondo  le  leggi  dello Stato, decidono, invece, in base alle proprie
 convinzioni religiose, di celebrare il  matrimonio  -  pur  essendo  in
 grado  di conoscere la diversa disciplina a cui e' sottoposto - secondo
 il regime concordatario.
     Quanto, poi, alla lamentata preclusione di ogni potere  al  giudice
 italiano   nel  procedimento  di  esecutivita'  delle  sentenze  e  dei
 provvedimenti ecclesiastici, la difesa  del  Presidente  del  Consiglio
 osserva  che,  secondo  i  principi  generali  vigenti  in  materia  di
 riconoscimento di sentenze di autorita' giudiziarie estere, il  giudice
 italiano non puo' certo conoscere il merito della causa, ne' tanto meno
 esigere  una identita' di regole procedurali tra il diritto nazionale e
 quello applicato nella sentenza da delibare, potendo  solo  controllare
 il rispetto dell'ordine pubblico.
     Infine  l'Avvocatura  ricorda che la normativa denunciata e'oggetto
 di esame in sede di trattative per la revisione del Concordato, operata
 la quale i dubbi di legittimita' costituzionale sollevati  non  avranno
 piu' ragion d'essere.
     In  una  elaborata memoria la difesa del Gospodinoff approfondisce,
 per  ciascuna  delle  questioni  sollevate,  le  critiche  volte   alla
 motivazione dell'ordinanza di rinvio.  Nelle sue conclusioni, tuttavia,
 pur  nel  ribadire  l'incensurabilita',  sotto tutti gli aspetti, delle
 disposizioni   impugnate   sotto   il   profilo   della    legittimita'
 costituzionale,    osserva    che   la   Corte,   pur   non   ritenendo
 costituzionalmente illegittimo il sistema  vigente,  potrebbe  se  mai,
 come  in  altri  casi  e  per altre materie ha fatto, enunciare ipotesi
 "piu' adeguate" sotto il profilo costituzionale.
     Riguardo  alla  prima  eccezione,  concernente la riserva in favore
 della giurisdizione matrimoniale ecclesiastica, in relazione al difetto
 di  garanzie  riscontrato  nel  processo  canonico,   la   difesa   del
 Gospodinoff,  richiamando  diverse  decisioni della Corte di cassazione
 successive all'ordinanza di rinvio, sostiene anzitutto che  l'eccezione
 stessa  dovrebbe  essere  ritenuta  senz'altro  irrilevante,  giacche',
 investendo il sistema nel suo complesso, non si  traduce  (come  invece
 questa  nuova giurisprudenza della Corte di cassazione richiede) "nella
 denuncia di disposizioni effettivamente applicate nel  procedimento  in
 corso  o  applicabili nelle ulteriori vicende processuali", ma tende "a
 prospettare solo l'eventuale lesione di diritti  altrui,  o  ipotetiche
 violazioni  di  diritti  (propri)  peraltro  non  verificatesi nel caso
 concreto".
     Secondo la memoria, altro assurdo, a cui la  logica  dell'ordinanza
 di  rinvio  porterebbe,  nell'ipotesi  in cui la questione - cosi' come
 formulata, "in ragione di alcune norme processuali canoniche"  -  fosse
 riconosciuta fondata, starebbe poi in cio': che in presenza delle nuove
 norme  processuali  canoniche,  che,  con  il  codice di cui si prevede
 imminente la pubblicazione, dovrebbero sostituirsi a quelle vigenti  (e
 che  non  sarebbe  lecito  presumere  in  contrasto  con i principi del
 diritto di  difesa  e  della  tutela  giurisdizionale),  la  competenza
 esclusiva  del  giudice canonico in materia matrimoniale dovrebbe, dopo
 la sua abolizione, ritornare in vita.
     Anche nel merito, comunque, gli argomenti esposti nell'ordinanza di
 rinvio, non reggerebbero alla critica. Non  sarebbe  esatto,  in  primo
 luogo, che con la sentenza n. 175 del 1973 questa Corte si sia limitata
 ad  escludere  che  la  riserva  di  giurisdizione  in questione sia in
 contrasto con il principio (art. 1 della Costituzione) della sovranita'
 dello   Stato,   lasciando   impregiudicati   i   punti    dell'attuale
 controversia.  Nel  giudizio  che  in  quella  sentenza  trovo'  la sua
 soluzione,  infatti,  la  riserva  di   giurisdizione   dei   tribunali
 ecclesiastici  sulle  cause  attinenti  alla  nullita'  del  matrimonio
 canonico trascritto agli effetti civili, era stata  infatti  contestata
 dal  giudice  a quo (tribunale di Rovigo), oltre che per violazione del
 principio di eguaglianza, con motivazioni sostanzialmente non dissimili
 da quelle fatte poi proprie dalle Sezioni unite, anche  per  violazione
 del diritto di difesa e del principio della precostituzione del giudice
 (artt.  3,  24  e  25 Cost.), e anche sotto questi aspetti le questioni
 sollevate furono disattese.
     Non pertinente, poi,  sarebbe  il  richiamo  (fulcro  di  tutto  il
 ragionamento  del provvedimento di rimessione) alle decisioni di questa
 Corte (n. 98 del 1965 e n. 183 del 1973) sui rapporti con le  Comunita'
 europee,  e  al  "grado  di  efficienza"  attribuito  dalle norme degli
 ordinamenti comunitari alle  garanzie  assicurate  dalla  giurisdizione
 della Corte di giustizia delle Comunita'. Il parallelismo di situazioni
 ravvisato  dalle  Sezioni  unite della Corte di cassazione fra Corte di
 giustizia delle Comunita' e tribunali ecclesiastici,  valido  sotto  il
 profilo negativo (della estraneita' degli organi di giurisdizione fra i
 quali  il  paragone  si  istituisce,  rispetto alla giurisdizione dello
 Stato,  e  della  carenza  di  giurisdizione  statuale  in  determinate
 materie),  non  sarebbe valido, invece, riguardo agli aspetti positivi.
 Le sentenze della Corte di giustizia delle  Comunita'  hanno,  infatti,
 nell'ordinamento  dello  Stato una efficacia diretta e immediata, senza
 che  percio'  sia  previsto  alcun  controllo  giurisdizionale,  ne' la
 necessita' di interventi e accertamenti da parte del giudice  italiano.
 Le  sentenze  ecclesiastiche  di  nullita'  del  matrimonio sono invece
 soggette  allo  speciale  procedimento  di  delibazione,  di  carattere
 contenzioso, affidato alla Corte d'appello. E senza la dichiarazione di
 esecutivita',  da  parte  della Corte d'appello - dichiarazione che non
 puo'   pronunciarsi   (come   la   giurisprudenza   ha    costantemente
 riconosciuto)  se  fra  le  parti  interessate non si sia instaurato un
 legittimo contraddittorio - non hanno  nel  nostro  ordinamento  alcuna
 efficacia.
     Ad  ogni  modo,  secondo  la difesa del Gospodinoff, da un esame da
 essa portato fino ai piu' particolari aspetti del processo matrimoniale
 canonico, nessuna delle censure mosse alle varie norme in cui  esso  si
 articola  e  ai  principi  di  cui  sono  espressione (sia per cio' che
 riguarda l'indipendenza  del  giudice,  sia  per  quanto  attiene  alla
 capacita'  a  stare  in  giudizio,  al  contraddittorio e al diritto di
 difesa), si dimostrerebbe fondata. Fermo il punto, naturalmente, che in
 tale esame non possono assumersi a parametro di raffronto ne' i singoli
 precetti della Costituzione, ne', tanto meno, le disposizioni di  leggi
 ordinarie  sul  processo e l'ordinamento giudiziario dello Stato (altro
 errore, questo, nel quale sarebbe largamente incorso il giudice a  quo)
 ma,   di   fronte   alla   "copertura"   assicurata  alla  "riserva  di
 giurisdizione matrimoniale dei tribunali  ecclesiastici"  dall'art.  34
 del Concordato e quindi dall'art. 7, comma secondo, della Costituzione,
 solo   i  "principi  supremi  dell'ordinamento  costituzionale".  Fermo
 altresi' il punto che, come numerose sentenze  di  questa  Corte  anche
 confermano,  il  principio  della  tutela  giurisdizionale  (certamente
 accolto dalla nostra Costituzione) e le  modalita'  del  suo  esercizio
 (che  possono  essere  diverse  da  ordinamento  a  ordinamento purche'
 rimanga salvo il principio  di  quella  tutela)  si  pongono  su  piani
 diversi,  che non tollerano commissioni, e che comunque nulla c'e', nel
 sistema processuale canonico, di effettivamente  incompatibile  con  le
 esigenze  (le  sole  sicuramente  fondamentali)  della  "terzieta'  del
 giudice" e della "sostanziale possibilita' di  contraddittorio  fra  le
 parti".
     Nell'ordinanza  di  rinvio,  inoltre,  non  si sarebbe tenuto alcun
 conto dell'influenza che anche nel  processo  matrimoniale  canonico  e
 nella  giurisprudenza  ecclesiastica  hanno  avuto,  e non potevano non
 avere, i nuovi principi proclamati dalle costituzioni e dai decreti del
 Concilio Vaticano II, entrati in vigore nel 1965.
     Dovrebbe  anche  tenersi  presente,  infine,  che  nella  normativa
 concordataria  la  riserva  di  giurisdizione  a  favore  dei tribunali
 ecclesiastici  e'  inscindibile  dalla   disciplina   sostanziale   del
 matrimonio.   Non   potrebbe   quindi   ammettersi   che,  riconosciuta
 illegittima, e conseguentemente abolita, radicalmente,  la  riserva  di
 giurisdizione  in  questione,  siano  i giudici dello Stato a giudicare
 della validita' del matrimonio-sacramento, e a dichiarare  la  nullita'
 canonica  del matrimonio. Cio' sarebbe in contrasto con l'art. 7, comma
 primo, della Costituzione. Nella normativa concordataria,  infatti,  il
 matrimonio-sacramento  e'  il  presupposto  degli  effetti  civili  del
 matrimonio, ma sotto il profilo della disciplina formale e  sostanziale
 e' estraneo al diritto statale. Il sistema ha quindi una sua logica che
 non  consente  di  toccare una parte senza che il tutto venga ad essere
 svuotato di contenuto.
     Secondo  la  memoria  della  difesa  del  Gospodinoff,  anche nella
 questione concernente i poteri della Corte d'appello nel  giudizio  per
 l'esecutivita'  delle sentenze ecclesiastiche di nullita' matrimoniale,
 a parametro di raffronto vengono,  dall'ordinanza  di  rinvio,  assunte
 disposizioni  di  legge - quelle degli artt. 797 cod. proc. civ. (sulle
 condizioni della delibazione) e 31 preleggi (sul principio  dell'ordine
 pubblico)  -  che,  a parte le deroghe che il primo di essi trova nelle
 convenzioni internazionali, certamente non esprimono "principi  supremi
 dell'ordinamento  costituzionale", ne' di questi possono sostanziare il
 contenuto.
     Riguardo  all'ulteriore  profilo  della  questione,  inerente  alla
 esecutivita'  di  sentenze  di  nullita'  fondate su cause diversamente
 disciplinate nell'ordinamento della  Chiesa  e  nell'ordinamento  dello
 Stato, nella memoria si obietta, in via pregiudiziale, che la rilevanza
 della  questione stessa nel giudizio a quo sarebbe solo apoditticamente
 affermata e che l'ordinanza di rinvio  non  conterrebbe  alcun  accenno
 alla  fattispecie sostanziale e processuale oggetto della controversia.
 Nel merito, comunque, anche sotto questo profilo, le tesi  accolte  nel
 provvedimento  di  rimessione  troverebbero  ampia  confutazione  nella
 precedente giurisprudenza di questa Corte. La  difesa  del  Gospodinoff
 nega  inoltre  che  gli articoli del codice civile sulla disciplina del
 matrimonio, richiamati in proposito nell'ordinanza di  rinvio,  possano
 farsi   assurgere   al  rango  di  "principi  supremi  dell'ordinamento
 costituzionale". Ne' sarebbe riferibile alla questione l'art. 29  della
 Costituzione,  il  quale,  riconoscendo  i  diritti della famiglia come
 societa' naturale fondata sul  matrimonio,  col  presupporre  un  saldo
 fondamento,  costituito per l'appunto dal matrimonio, in quanto valido,
 attiene al rapporto (validamente costituito), non all'atto costitutivo,
 che mantiene quindi le sue peculiari caratteristiche.  In  conclusione,
 si  afferma  che  il  vigente  sistema  altro  in  fondo  non e' se non
 l'attuazione del  pluralismo  garantito  dalla  Costituzione  e  che  i
 principi  essenziali  della Costituzione non possono non comprendere la
 liberta' religiosa e quindi la liberta' di scelta tra i diversi tipi di
 matrimonio e di  opzione  anche  per  il  matrimonio  canonico  con  le
 conseguenze  che ne derivano, anche in ordine alla giurisdizione e alle
 controversie in materia di nullita'.
     3. - Sotto tutti i profili sopra delineati, in alcuni casi, e sotto
 alcuni di essi, in altri, le stesse questioni sollevate  dalle  Sezioni
 unite  civili  della  Corte  di  cassazione  riguardo alla riserva alla
 giurisdizione  ecclesiastica  delle  controversie  sulla  nullita'  dei
 matrimoni  canonici  trascritti  agli  effetti civili, ed ai poteri del
 giudice italiano nello speciale  procedimento  di  delibazione  per  il
 conferimento    dell'esecutivita'    alle    sentenze    ecclesiastiche
 dichiarative della nullita' medesima, vengono sottoposte al giudizio di
 questa Corte, con tredici ordinanze, anche dalla Corte  di  appello  di
 Milano.  Queste  ordinanze,  emesse  su  istanza di parte, o d'ufficio,
 rispettivamente, il 15 aprile, il 3 giugno (due) e il 14 ottobre  1977;
 il 30 giugno (tre) e il 13 ottobre 1978; il 23 marzo, il 27 aprile e il
 18  maggio  1979,  e,  infine,  il  25  gennaio  e il 15 febbraio 1980,
 provengono da altrettanti procedimenti promossi per la declaratoria  di
 esecutivita'  di sentenze di tribunali ecclesiastici dichiarative della
 nullita' dei matrimoni di Rodi Renato e Del Bono Maria Luisa,  Galeazzi
 Bruno  e  Cornali  Silvia,  Vignetta  Silvio  e Darosi Iolanda, Marazzi
 Giacomo e Ricchi Faustina, Mazza Ermanno e Di Cintio Carmela,  Califano
 Prisco  e  Califano  Carmela,  Cola  Romano  e Guerriero Paola, Bertoli
 Silvano e Biffi Piera, Gallinoni  Vincenzo  e  Pagani  Paola,  Ruggiero
 Vincenzo  e  Crotti  Emiliana,  Cugnasca  Enrico  e Levy Nella, Sabelli
 Fioretti Claudio e Oldrini Francesca, Bosoni Achille e Marchese Bruna.
     Quanto ai motivi della rimessione delle questioni, essi  presentano
 un contenuto testuale pressocche' identico.  Inoltre, come appare anche
 dai  richiami  fatti  all'ordinanza  pronunciata dalle Sezioni unite, i
 motivi stessi (pur se la Corte d'appello di  Milano,  nell'indicare  le
 "norme della Costituzione che si assumono violate" fa riferimento anche
 all'art.  102,  non  richiamato  dalle  Sezioni unite), sostanzialmente
 coincidono con quelli accolti dalla Corte di cassazione.  In  tutte  le
 ordinanze  non  si  manca  peraltro  di  esprimere  (con riferimento ai
 rilievi formulati in proposito, rispetto al precedente giudizio,  dalla
 sentenza  n. 1 del 1977 di questa Corte) circa la questione concernente
 i  poteri  del  giudice  italiano  nello  "speciale   procedimento   di
 delibazione"  delle  sentenze dei tribunali ecclesiastici, l'intento di
 sollevarla come "autonoma questione".
     Inoltre, a differenza dalle Sezioni unite  civili  della  Corte  di
 cassazione,  la  Corte  d'appello  di  Milano  non prospetta in termini
 dubitativi,  ma  recisamente  afferma  che  il  diritto   alla   tutela
 giurisdizionale  si  colloca  fra  i  principi supremi dell'ordinamento
 costituzionale.
     4. - Alle norme dell'art. 1 della legge  27  maggio  1929,  n.  810
 (nella  parte  in  cui  inserisce  nell'ordinamento dello Stato i commi
 quarto, quinto e sesto dell'art. 34 del Concordato) e  del  correlativo
 art.   17  della  legge  matrimoniale,  muovono  censura  anche  cinque
 ordinanze  della  Corte  d'appello  di  Roma,  emesse,  nel  corso   di
 altrettanti  procedimenti  per la esecutivita' di sentenze di tribunali
 ecclesiastici, rispettivamente il 15 e il 31 marzo, il 3 maggio e il  6
 maggio (due) 1977.
     Di  tali  ordinanze,  quelle  in  data 15 e 31 marzo 1977 risultano
 pronunciate nel corso di alcuni dei  procedimenti  in  cui  sorsero  le
 questioni  che,  cosi'  come  allora  proposte,  questa Corte dichiaro'
 inammissibili  con  la  sentenza  n.  1  del  1977.  In  una  di  esse,
 pronunciata  in  relazione  alla dichiarata nullita' del matrimonio fra
 Filippucci Lorenzo e Donati  Paola,  premessi  ampi  riferimenti  sullo
 svolgimento  della procedura per la esecutivita' della sentenza e sulle
 istanze e deduzioni  in  essa  avanzate,  le  norme  impugnate  vengono
 contestate,  in  riferimento  agli artt. 2, 3, 7, 24, 25, 29, 101 e 102
 della Costituzione, solo sul punto relativo alla carenza di poteri  del
 giudice   italiano   in  sede  di  giudizio  per  la  esecutivita'  dei
 provvedimenti delle autorita' ecclesiastiche.
     Abbandonata la tesi - gia' sostenuta nella precedente ordinanza  di
 rinvio  - secondo la quale la legittimita' costituzionale della riserva
 alla giurisdizione ecclesiastica delle controversie sulla nullita'  dei
 matrimoni   canonici   trascritti   agli   effetti   civili,   potrebbe
 contestarsi, con riguardo all'intero complesso delle norme  dettate  in
 materia  dall'ordinamento canonico, sia processuali che sostanziali, in
 re matrimoniali, la Corte d'appello  osserva  che  ci  si  deve  invece
 limitare   ad  esaminare,  di  volta  in  volta,  "se  i  provvedimenti
 ecclesiastici di cui si chiede l'esecutivita' abbiano violato  i  sommi
 principi   della   Costituzione  italiana".  All'effettuazione  di  una
 indagine in tal senso - prosegue l'ordinanza - ostano tuttavia, secondo
 la costante  interpretazione  datane  dalla  giurisprudenza,  le  norme
 impugnate.   Riguardo   alle  quali  (escluso  che  possa  farsi  utile
 riferimento agli artt. 797 e seguenti del codice di  procedura  civile,
 giacche'  lo  schema  che  essi  delineano  non e' il solo previsto dal
 nostro  ordinamento  in  materia   di   riconoscimento   di   procedure
 giurisdizionali  straniere, ma trova numerose deroghe nelle convenzioni
 internazionali) il giudice a quo si domanda se, sotto  questo  profilo,
 esse  non  siano  in  contrasto con i principi supremi dell'ordinamento
 costituzionale. L'individuazione e la enunciazione di tali  principi  -
 afferma  il  giudice  a  quo  -  spetta  in  via  esclusiva  alla Corte
 costituzionale. Non potrebbe tuttavia tacersi che le norme in questione
 (come e' dato arguire dal progetto di riforma del Concordato  elaborato
 dall'apposita  Commissione e presentato alle Camere) dimostrano di aver
 fatto il loro tempo.
     In un'altra  ordinanza,  pronunciata  riguardo  al  matrimonio  fra
 Papaleo  Saverio  e  Medugno  Liliana,  dichiarato  nullo dal tribunale
 ecclesiastico "ex capite simulationis totalis consensus ex parte viri",
 nel censurare, anche in questa occasione, in riferimento agli artt.  1,
 2, 3, 7, 10, 11, 24, 29, 101 e 102 della Costituzione, la inaccettabile
 angustia  dei  poteri  che  le  disposizioni  concordatarie lasciano in
 materia al  giudice  italiano,  il  giudice  a  quo,  fra  l'altro,  fa
 insistente   richiamo  al  principio  dell'ordine  pubblico.  Affermato
 nell'art. 797, n. 7 del codice di procedura civile, e prima di esso, in
 termini amplissimi, nell'art. 31 delle preleggi, il limite inderogabile
 dell'ordine pubblico (in contrasto con il quale ne' le leggi o gli atti
 di uno Stato estero, ne'  gli  ordinamenti  o  gli  atti  di  qualsiasi
 istituzione  od  ente,  "possono  avere  effetto  nel  territorio dello
 Stato") costituirebbe, infatti, una espressione primaria del  principio
 di  sovranita',  e  non  potrebbe  quindi  avere,  rispetto  al diritto
 canonico, una consistenza minore di quella che ha rispetto  al  diritto
 straniero.  Tanto piu', poi, quando il diritto canonico viene applicato
 - come nei casi in questione - ai "cives fideles", come  tali  soggetti
 anche a tutte le leggi dello Stato.
     Fermo  il punto che ogni indagine relativa ai principi fondamentali
 dell'ordinamento  costituzionale  "e'  riservata  per  eccellenza  alla
 cognizione" di questa Corte, la Corte d'appello osserva che tuttavia, a
 suo  avviso,  la  mancata  opposizione,  nella  normativa in esame, del
 limite costituito dal rispetto dell'ordine pubblico, non contrasta  con
 un singolo precetto, ma con lo spirito informatore di una pluralita' di
 assunti  costituzionali:  tutti  quelli, cioe', a cui, nel formulare la
 questione, ha creduto di dover fare riferimento.
     Quanto alla "pregiudizialita' della decisione  sulla  questione  di
 costituzionalita'  rispetto  al provvedimento che la Corte d'appello e'
 chiamata ad  emettere",  secondo  l'ordinanza  essa  sarebbe  nel  caso
 evidente. Ed invero, essendo stato il matrimonio dichiarato nullo (come
 appare dalla sentenza trasmessa dal tribunale della Segnatura) dopo una
 convivenza  protrattasi  per  dodici  anni  e  la nascita di un figlio,
 "perche' al tempo  della  sua  celebrazione  uno  dei  nubendi  si  era
 determinato  a  contrarlo  per  mere finalita' di interesse economico",
 sicuramente il limite dell'ordine pubblico, se applicabile, non avrebbe
 consentito di dare esecutivita' alla sentenza.
     Con la terza e la quarta delle suindicate ordinanze, in riferimento
 agli artt. 2, 3, 7, 24, primo e secondo comma,  25,  101  e  102  della
 Costituzione,  in un caso, e in riferimento ai soli artt. 24, 25, 101 e
 102 della Costituzione,  nell'altro,  la  Corte  di  appello  di  Roma,
 sospendendo   i   procedimenti   per  la  esecutivita'  delle  sentenze
 dichiarativi della nullita' dei matrimoni concordatari  rispettivamente
 di  Cioci  Nazareno e Oliva Lidia, e di Paolini Lorenzo e Berlen Elena,
 sottopone al giudizio di questa Corte sia la questione  attinente  alla
 carenza   di   adeguate   garanzie   nel  sistema  della  giurisdizione
 ecclesiastica, sia quella concernente i limiti dei poteri  del  giudice
 italiano all'atto della declaratoria di esecutivita' di sua competenza.
 Anche  se  si  dovesse ritenere - si afferma in proposito in entrambi i
 provvedimenti - che  il  suddetto  sistema  processuale  sia,  nel  suo
 complesso, atto a salvaguardare il principio costituzionale della piena
 tutela    giurisdizionale,    permarrebbe   comunque   il   dubbio   di
 illegittimita' costituzionale sotto il profilo  dell'impossibilita'  di
 verifica,  nei  singoli  casi,  dell'avvenuta  osservanza del principio
 stesso.
     Con la quinta ordinanza  (anch'essa  emanata,  come  la  prima,  in
 seguito  ad altra promotrice di uno dei giudizi risolti da questa Corte
 con la sentenza di inammissibilita' n.   1  del  1977)  vengono  infine
 sollevate  (in  relazione al matrimonio, dichiarato nullo dal tribunale
 ecclesiastico, fra Mimmi  Augusto  e  Olivieri  Claudia)  le  questioni
 attinenti  al sistema della giurisdizione ecclesiastica e ai poteri del
 giudice italiano (formulate in riferimento agli  artt.  2,  3,  7,  24,
 primo  e  secondo  comma,  25,  101, 102 e seguenti della Costituzione)
 prospettando anche (in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 29 e  31  Cost.)
 il  profilo  concernente  le  divergenze fra gli ordinamenti canonico e
 civile in materia di nullita' del matrimonio.
     Affermata, con motivazioni pressocche' identiche, la rilevanza, nei
 giudizi a quibus, delle questioni  sollevate,  la  Corte  d'appello  di
 Roma,  a  sostegno  della  non  manifesta  infondatezza delle questioni
 stesse,  adduce,  in  queste  tre  ultime  ordinanze,   argomenti   che
 sostanzialmente  riproducono  quelli posti a base delle ordinanze delle
 Sezioni unite civili della Corte di cassazione e della Corte  d'appello
 di Milano.
     5.  - Delle parti dei giudizi pendenti innanzi alle Corti d'appello
 di Milano e di Roma, si sono costituiti innanzi a  questa  Corte,  Rodi
 Renato,   Mazza   Ermanno,  Filippucci  Lorenzo,  Donati  Paola,  Cioci
 Nazareno, Oliva Lidia, Medugno  Liliana,  Papaleo  Saverio  e  Olivieri
 Claudia.  Le  difese  della  Donati, della Oliva, della Medugno e della
 Olivieri chiedono che le norme  impugnate  "e  ogni  altra  coinvolta",
 siano  dichiarate  costituzionalmente illegittime.  Le difese del Rodi,
 del Mazza, del Filippucci, del Cioci e del  Papaleo  chiedono,  invece,
 che  le questioni sollevate siano dichiarate, a seconda, inammissibili,
 non fondate, o addirittura manifestamente infondate.
     Gli atti di deduzioni,  a  sostegno  della  inammissibilita'  della
 questione  relativa  alla pretesa carenza di garanzie nel sistema della
 giurisdizione  ecclesiastica,  si  rifanno  anzitutto  all'affermazione
 della  sentenza  di  questa  Corte  n.  1  del  1977 circa la "speciale
 garanzia"  e  la  "copertura  costituzionale",   di   cui   godono   le
 disposizioni  dell'art. 34 del Concordato. Un secondo argomento (che si
 riannoda  alle  affermazioni  dell'ordinanza  di  rinvio  della   Corte
 d'appello  di  Roma  nel  giudizio che vede parte il Filippucci, ma che
 viene ripreso anche dalle difese del Cioci e del Rodi) si  fonda  sulla
 pretesa "assoluta erroneita' e irrilevanza" di una condanna globale del
 sistema  processuale canonico e sulla necessita', che ne seguirebbe, di
 constatare,  caso  per  caso,  dove e come, nei processi svoltisi inter
 partes,  quelle  norme   dell'ordinamento   canonico,   sostanziali   e
 processuali,  di cui si assume il contrasto con i principi fondamentali
 dell'ordinamento costituzionale, abbiano trovato concreta applicazione.
 Tesi, questa, che alle parti  avverse  (Oliva  e  Medugno)  non  sembra
 concludente e sostenibile, giacche' - si obietta - la mera possibilita'
 di violazione di diritti di una parte gia' comporta la violazione certa
 delle  norme  costituzionali  poste  a  garanzia  e  tutela dei diritti
 stessi.   D'altronde, il  segreto,  che  caratterizza  il  procedimento
 ecclesiastico,  e  le esigenze, di ordine totalmente diverso, cui i due
 ordinamenti,  canonico  e  civile,   sono   ispirati   e   finalizzati,
 costituirebbero degli ostacoli insuperabili ad una effettiva verifica.
     Anche nel merito, a sostegno della infondatezza della questione, si
 fa  anzitutto  richiamo  (difese  di Filippucci, Rodi, Cioci e Papaleo)
 alla "copertura costituzionale"  apprestata  alle  norme  concordatarie
 dall'art.   7,  comma  secondo,  della  Costituzione.  I  principi  del
 contraddittorio, del diritto di  difesa,  della  tutela  processuale  e
 sostanziale  delle  parti  vengono  nel diritto canonico e nella prassi
 giudiziaria - come si esemplifica (difese di Papaleo, Cioci, Rodi)  con
 particolari   riferimenti   all'andamento   dei  processi  di  nullita'
 matrimoniale nei casi in questione - strettamente osservati. Si afferma
 altresi' (difesa di Filippucci, Rodi, Cioci)  che  nelle  ordinanze  di
 rinvio   la   Corte  di  cassazione  e  le  Corti  d'appello  avrebbero
 interpretato erroneamente alcuni istituti canonici, senza  tener  conto
 del  "novus  ordo"  scaturito  dal Concilio Ecumenico Vaticano II.   In
 contrario, pero', la difesa della Olivieri si  sofferma  su  molteplici
 aspetti  del processo matrimoniale canonico:  giudice non precostituito
 (presenza, accanto all'officiale, di altri due giudici  che  lo  stesso
 officiale  "designare  potest");  amovibilita'  (sufficienza, per poter
 rimuovere un giudice, di  un  semplice  accordo  tra  i  vescovi  della
 Conferenza  regionale episcopale, in base, bensi', ad una gravis causa,
 che  peraltro  potra'  essere  rappresentata  anche  da  una   opinione
 teologica,  e  senza neppure un procedimento disciplinare); trattamento
 deteriore per le parti,  se  si  tratti  di  acattolici;  facolta'  del
 vescovo,  nei  casi  c.d.  "excepti", di dichiarare nullo un matrimonio
 senza previo processo, ne' possibilita' di appello successivo;  mancata
 assicurazione  di  un  effettivo  contraddittorio; mancanza di efficaci
 sanzioni a carico dei testimoni falsi o  reticenti,  inadeguatezza  del
 sistema  a  garantire  l'oggettivo  interesse  della  legge di fronte a
 eventuali collusioni delle parti dirette a vanificare la stabilita' del
 matrimonio  (cosa,  questa,  tanto  piu'  grave,   in   quanto   quella
 iurisdictio  e'  chiamata  a  risolvere  questioni  vertenti  su tipici
 diritti  indisponibili,  come  quelli  relativi  a  status  personali);
 esclusione  del  principio  del  giudicato, con la conseguenza che - in
 contrasto non solo con la certezza del diritto, ma anche  con  l'ordine
 della  famiglia  -  puo' persino accadere che la nuova famiglia formata
 dal coniuge che aveva ottenuto la nullita', sia distrutta da una  nuova
 sentenza  che  a  distanza  di anni ritenga invece valido il precedente
 matrimonio. Tutte norme che nel loro ordine  trovano  fondamento  nella
 "ratio  sacramenti"  e nel fine supremo della "salus aeterna animarum",
 ma che, nella loro incidenza sull'ordinamento dello Stato,  si  pongono
 in netta antitesi con i principi della Costituzione.
     Sul punto relativo ai poteri del giudice dell'esecutivita', si nega
 (difesa  Papaleo)  che  il  principio  dell'ordine pubblico possa farsi
 rientrare fra i "principi supremi dell'ordinamento costituzionale".  Le
 disposizioni  degli  artt.    796  e  seguenti  cod.  proc. civ., sulla
 delibazione delle sentenze di autorita' giudiziarie  di  Stati  esteri,
 non  hanno  una portata generale, giacche' ammettono deroghe, in virtu'
 di  normative  speciali,  frutto  di  intese  o  accordi  di  carattere
 internazionale, anche se (a differenza dalle norme concordatarie) privi
 di  una  specifica  "copertura  costituzionale". Non e' utile, percio',
 farvi riferimento. Si replica (difesa della Olivieri)  che  l'interdire
 alla Corte d'appello non soltanto di procedere ad un riesame del merito
 e   della   legittimita'   delle  pronunce  ecclesiastiche  in  materia
 matrimoniale, ma financo di esperire i controlli di cui all'art.    797
 cod.  proc.  civ.,  compreso  quello  della  contrarieta'  all' "ordine
 pubblico", comporta, a danno dei  nostri  organi  giurisdizionali,  una
 vera e propria deminutio.
     Riguardo,  infine,  al  profilo  attinente  al diverso regime delle
 cause di nullita' del matrimonio, si obietta (difesa  Papaleo)  che  il
 vizio  di  consenso  funziona da causa di nullita' del matrimonio tanto
 nel diritto canonico quanto nel diritto  civile;  che  anche  a  questo
 proposito la normativa differenziata trova giustificazione nell'art. 7,
 comma secondo, della Costituzione; e che le stesse sentenze di nullita'
 del  matrimonio  per  simulazione, alla luce delle modifiche apportate,
 con la riforma del diritto di famiglia, all'art. 123 del codice civile,
 non puo' dirsi che ledano i principi  dell'ordinamento  costituzionale.
 Fra  l'altro, poi, i giudici a quibus (secondo le difese di Filippucci,
 Rodi,  Cioci)  non  avrebbero   considerato   adeguatamente   l'attuale
 concezione   della   legge   italiana   in   tema  di  indissolubilita'
 matrimoniale.  In  contrario  si  afferma  (difesa  Oliva)   che   solo
 escludendo  la  legittimita'  costituzionale  delle norme impugnate, in
 ordine, quanto meno, alla  esecutivita'  di  determinate  categorie  di
 sentenze  di  nullita', potrebbe, almeno in parte, ovviarsi all'attuale
 anacronismo. Si afferma, altresi' (difesa Olivieri), che  il  contrasto
 fra  l'art.  29  della  Costituzione  e  il principio canonistico della
 nullita' del matrimonio per simulazione di  una  sola  delle  parti,  o
 perche' una sola delle parti ha negato in scrinio pectoris uno dei beni
 del matrimonio canonico, ha un fondamento ancora piu' forte di quel che
 potrebbe  apparire  dalle  motivazioni dei provvedimenti di rimessione.
 Conclusione che anch'essa trova conferma nelle profonde  trasformazioni
 registratesi,  negli ultimi decenni, sotto i piu' vari aspetti, in seno
 alla societa'  civile,  e  che  si  riflettono  nelle  tante,  e  note,
 innovazioni legislative riguardo a matrimonio e famiglia.
     In  quasi  tutti i giudizi promossi con le suddette ordinanze delle
 Corti d'appello di Milano e di Roma e' intervenuta, per  il  Presidente
 del  Consiglio  dei  ministri,  l'Avvocatura  dello Stato. Le richieste
 espresse circa la dichiarazione di  infondatezza  e  le  argomentazioni
 esposte  negli  atti  di  intervento  ripetono pressocche' alla lettera
 quelli dell'intervento nel giudizio promosso dalle Sezioni unite  della
 Corte di cassazione.
     In  una  successiva  memoria  la  difesa del Filippucci ricorda che
 nell'ordinanza di rinvio, pronunciata nel giudizio in cui il Filippucci
 e' parte, la  Corte  d'appello  di  Roma  (dopo  aver  constatato,  fra
 l'altro,  che  con l'esibizione degli atti della causa trattata innanzi
 ai tribunali ecclesiastici si era dimostrato che il procedimento si era
 svolto nel pieno ossequio dei  principi  del  contraddittorio  e  della
 difesa)  aveva  respinto  la  tesi  del  contrasto  con la Costituzione
 dell'intero complesso dell'ordinamento canonico in re  matrimoniali,  e
 riconosciuta  invece  la  necessita'  che  il giudice dell'esecutivita'
 esamini, di volta in volta, la conformita'  dei  singoli  provvedimenti
 ecclesiastici,  sottoposti  al  suo  esame,  ai  sommi  principi  della
 Costituzione italiana. Con cio' - si sottolinea -  la  Corte  d'appello
 anticipava  quello  che  sarebbe  stato  l'indirizzo  poi seguito (e in
 proposito si citano numerose sentenze) nel riconoscere  irrilevante  la
 suddetta questione, dalla Corte di cassazione.
     Secondo   la   memoria,   peraltro,   l'altra   questione  che,  di
 conseguenza, il giudice a quo si  limita  a  proporre  -  quella  cioe'
 attinente  all'asserita preclusione di ogni potere del giudice italiano
 nel procedimento di esecutivita'  -  sarebbe  infondata.  Essa  infatti
 risulta   sollevata  sul  presupposto  che  in  base  all'art.  34  del
 Concordato e all'art. 17 della legge matrimoniale, le  uniche  indagini
 consentite  alla  Corte d'appello fossero quelle attinenti al controllo
 della propria competenza territoriale, della natura  concordataria  del
 matrimonio  de  quo,  e  della  autenticita'  del decreto trasmesso dal
 tribunale della Segnatura apostolica. Se e' vero - si aggiunge - che in
 questo  senso  si  e'  ripetutamente  espressa  la  giurisprudenza,  di
 legittimita'  e  di  merito,  al  punto che in proposito si e' giunti a
 parlare di "diritto vivente", e' anche  vero  che  tale  giurisprudenza
 potrebbe  mutare,  cedendo di fronte ad una diversa interpretazione che
 si riveli maggiormente fondata. Alcune affermazioni della sentenza n. 1
 e  dell'ordinanza  n.  2   del   1977   della   Corte   costituzionale,
 sembrerebbero aprire la via ad un nuovo e piu' aperto indirizzo.
     In un'altra memoria, presentata dalla difesa del Rodi, si oppone la
 irrilevanza  della  prima  questione.  In  proposito, ricordati i nuovi
 orientamenti delineatisi nell'attuale  giurisprudenza  della  Corte  di
 cassazione, con richiamo alle norme dell'art. 797 cod. proc. civ. sulle
 condizioni  per  il riconoscimento delle sentenze straniere, si osserva
 come non si possa rifiutare la esecutivita' di una  sentenza  straniera
 soltanto   perche'   alcune   norme  di  quell'ordinamento  giudiziario
 straniero e anche del suo  ordinamento  giuridico  in  genere,  possano
 essere  in  contrasto  con l'ordine pubblico italiano, se in concreto -
 nel  caso  specifico  -  l'ordine  pubblico  italiano,  processuale   o
 sostanziale, non risulti essere stato violato. Nel merito, comunque, un
 esame,  ampiamente  svolto  nella  memoria,  delle  diverse  norme  del
 processo matrimoniale canonico, rispetto alle quali  nell'ordinanza  di
 rinvio   si  e'  denunciata  l'assenza  delle  garanzie  richieste  dai
 "principi  supremi"  del   nostro   ordinamento   costituzionale,   non
 lascerebbe  dubbi  circa  l'infondatezza della questione. La questione,
 anzi non sarebbe stata neppure proposta se la Corte milanese,  anziche'
 limitarsi  a  considerare le fonti anteriori, avesse tenuto conto delle
 nuove norme  introdotte  nell'ordinamento  canonico  dopo  il  Concilio
 Vaticano    II.   Sulla   seconda   questione   (poteri   del   giudice
 dell'esecutivita') nella memoria si ripropongono le tesi gia' sostenute
 dalla difesa del Filippucci. In particolare, per il profilo concernente
 le pretese insuperabili  divergenze  fra  gli  ordinamenti  canonico  e
 civile  riguardo  al  regime delle nullita' del matrimonio, soprattutto
 per cio' che riguarda il "simulato consenso", si osserva anzitutto  che
 i  cittadini  italiani,  i  quali, potendo contrarre matrimonio civile,
 hanno scelto liberamente la forma del matrimonio  concordatario,  hanno
 voluto  contrarre  matrimonio  secondo  la  legge canonica e deliberato
 cosi'  essi stessi di assoggettarsi a questa legge. Peraltro, sostenere
 che il concetto del matrimonio accolto dalla  Carta  fondamentale,  sia
 ispirato  all'esigenza  di  tutelare  la famiglia valorizzando "il dato
 oggettivo  della  dichiarazione  fonte  di  autoresponsabilita'  e  del
 consenso che si rinnova nella comunanza di vita", sembra oggi piuttosto
 avventato,  dal  momento che e' in vigore una legge ritenuta conforme a
 Costituzione dalla Corte costituzionale, e  confermata  dal  referendum
 per   la   quale   il   matrimonio,  anche  se  celebrato  nella  forma
 concordataria, e' solubile con il divorzio. Tanto piu',  poi,  che,  in
 base alla legge del 1970 sui casi di scioglimento del matrimonio e alla
 legge  del  1975 per la riforma del diritto di famiglia, la separazione
 personale tra i coniugi, presupposto  del  divorzio,  puo'  essere  ora
 chiesta  e  ottenuta (a differenza da quanto in precedenza stabiliva il
 codice civile) dallo stesso coniuge che con il suo comportamento  abbia
 reso  intollerabile  la prosecuzione della convivenza. Anche per questo
 il richiamo dell'ordinanza di rinvio  all'art.  29  della  Costituzione
 sarebbe del tutto ininfluente.
     6.  -  L'art.  1  della  legge n. 810 del 1929, che rende esecutivo
 l'art. 34 del Concordato, e l'art. 17 della legge n.  847 del 1929 sono
 stati impugnati innanzi a questa Corte, con ordinanza 14  aprile  1977,
 dalla  Corte  d'appello di Palermo, in quanto, in ordine alla efficacia
 delle dispense ecclesiastiche dal  matrimonio  rato  e  non  consumato,
 apprestando   lo  strumento  formale  della  relativa  declaratoria  di
 esecutivita', escludono la garanzia  della  tutela  giurisdizionale  di
 diritti  soggettivi  e  l'esercizio  della  difesa  secondo  i principi
 dell'ordinamento statale.
     La questione, formulata in riferimento agli artt. 2, 24 e 102 della
 Costituzione,  e'  sorta  nel  corso  dello  stesso  procedimento  (per
 l'esecutivita'  di  un  rescritto pontificio di concessione di dispensa
 super matrimonio rato et non consummato, di Amodeo  Francesco  e  Gioia
 Maria  Aurora)  nel  quale con altra precedente ordinanza (emessa il 23
 aprile 1976) la  stessa  Corte  d'appello  aveva  gia'  sollevato,  nei
 confronti  delle  medesime  norme,  analoga  eccezione.   Avendo questa
 Corte, nel giudizio allora cosi' promosso, con  l'ordinanza  n.  2  del
 1977,  rilevato  che  "in  ordine alla pregiudizialita' della sollevata
 questione rispetto al provvedimento da emettere",  si  era  omesso  "di
 prendere  in considerazione il caso definito col rescritto pontificio e
 le forme e le modalita' del relativo procedimento e  di  esaminare,  in
 particolare, se la pronunciata dispensa corrisponda ad una richiesta di
 entrambe  le  parti  o  di  una  sola  di  esse", e ordinato percio' la
 restituzione degli atti al giudice a  quo  affinche',  con  particolare
 riguardo  a  tali profili, "motivi sulla rilevanza", la questione viene
 riproposta in termini piu' ampi, e con piu' dettagliati riferimenti  al
 caso di specie.
     Prospettati  rispetto  alle  norme  procedurali per la dispensa dal
 matrimonio  rato  e  non  consumato,  i  motivi  della  non   manifesta
 infondatezza  delle  questioni  (carenza  di  garanzie nel procedimento
 ecclesiastico e carenza di poteri del giudice italiano nel procedimento
 di esecutivita') ricalcano,  nelle  linee  essenziali,  quelli  esposti
 dalla Corte di cassazione e dalle Corti di appello di Milano e Roma (in
 riferimento   alla  giurisdizione  dei  tribunali  ecclesiastici  sulle
 controversie in materia di nullita'), negli altri giudizi  surriferiti.
 Dopo  avere ricordato le fonti (canone 1973 del codex ed Instructio "Ad
 unam sacram"del 7 maggio 1923 della Congregazione per la disciplina dei
 Sacramenti,   integrata   e   parzialmente   emendata   con  successive
 Instructiones del 27 marzo 1929 e del 7 marzo  1972,  in  coordinazione
 con  il  canone  1963  e con l'art. 206 dell'altra Instructio, "Provida
 Mater", del 15 maggio 1936) delle norme del procedimento che secondo il
 diritto canonico puo' dar luogo alla dispensa in questione, il  giudice
 a quo osserva che in una delle suddette Instructiones, quella del 1972,
 tale  procedimento  e'  espressamente  qualificato "non iudicialis, sed
 administrativus", e che il provvedimento di dispensa che  eventualmente
 lo  conclude  e' incontroversamente un provvedimento di grazia sovrana,
 discrezionale  e  inoppugnabile,  mentre,  per  converso,  in  caso  di
 avvenuta  consumazione, e' suscettibile di caducazione. In coerenza con
 tali caratteri del procedimento, in esso  le  parti  intervengono  come
 titolari,  non  di diritti, ma di mere aspettative (allo scioglimento o
 al  mantenimento  del  vincolo);  non  possono  essere   assistite   da
 difensori;  non  hanno  la  disponibilita'  delle  prove  (potendo solo
 ricorrere al vescovo contro i provvedimenti da cui si ritengono  lese);
 non  prendono  neppure cognizione degli atti, tutti coperti da segreto,
 se non, eventualmente, nei limiti di eccezionali concessioni.
     Anche per quel che attiene alla dispensa super matrimonio  rato  et
 non   consummato,  dunque,  la  disciplina  del  procedimento  canonico
 differisce  radicalmente  da  quella  corrispondente   dell'ordinamento
 giuridico  italiano  e  da  quella,  in  genere,  di ogni altro moderno
 ordinamento statale.  E tuttavia - si aggiunge - in forza  delle  norme
 di  cui  si  e'  chiesta  la verifica di legittimita' costituzionale, i
 provvedimenti delle autorita' ecclesiastiche,  emanati  secondo  quella
 disciplina,  acquistano  esecutivita'  nel  nostro Stato, attraverso un
 procedimento che li sottrae agli stessi  ordinari  controlli  stabiliti
 (artt.  797 e segg. cod. proc. civ.)  per la dichiarazione di efficacia
 delle sentenze straniere.  Cio' potrebbe ammettersi, secondo il giudice
 a quo, dato il carattere sacramentale che per la Chiesa e i  fedeli  ha
 il  matrimonio,  se  il  matrimonio  concordatario  fosse un matrimonio
 meramente canonico, ma per le forme con cui si celebra, oltre  che  per
 gli  effetti,  esso  e', invece, anche un matrimonio civile. Il rilievo
 attribuito dall'art. 7 della  Costituzione  alle  norme  concordatarie,
 d'altronde,  non basta ad escludere che taluna di esse, se in contrasto
 con i principi supremi della stessa Costituzione, possa essere ritenuta
 incompatibile con l'ordinamento giuridico italiano.
     Riguardo alla "rilevanza", nell'ordinanza di rinvio  si  sottolinea
 che  il giudizio deferito alla Corte costituzionale investe le norme in
 forza delle quali i rescritti pontifici di dispensa super rato  possono
 acquistare  per  l'ordinamento  dello  Stato  efficacia  esecutiva.  Il
 rapporto di pregiudizialita', rispetto alla decisione che il giudice  a
 quo  e'  chiamato ad emettere nel caso in esame, e' dunque evidente. La
 dichiarazione di esecutivita' della dispensa pronunciata dall'autorita'
 ecclesiastica nei confronti dell'Amodeo e della Gioia non potrebbe aver
 luogo se non nel presupposto della vigenza  delle  norme  suddette:  in
 caso contrario, dovrebbe essere rifiutata.
     Quanto  poi alle concrete modalita' di svolgimento del procedimento
 innanzi alle autorita' ecclesiastiche che nel caso ha dato  luogo  alla
 dispensa,  la  Corte  palermitana  riferisce  che, a quanto risulta dal
 rescritto trasmesso dal tribunale della Segnatura, la Congregazione per
 la  disciplina  dei  sacramenti  fu  investita  della   procedura   non
 direttamente,  ma  (come  l'ordinamento canonico espressamente prevede)
 attraverso un provvedimento del tribunale ecclesiastico  regionale,  il
 quale,  adito  in  un  primo tempo per la dichiarazione di nullita' del
 matrimonio "ex capite impotentiae utriusque partis", avendo  constatato
 come  cio'  "non  plene constaret", aveva deciso di rimettere gli atti,
 per la eventuale dispensa, alla Congregazione, la quale aveva  espresso
 parere favorevole alla dispensa, concessa con rescritto del Pontefice.
     Riguardo  all'eventualita'  -  su  cui l'ordinanza n. 2 del 1977 di
 questa Corte aveva richiamato l'attenzione del giudice a quo  -  di  un
 accordo  delle  parti  per  ottenere  la  dispensa,  la Corte d'appello
 riconosce che un accordo siffatto, se accertato, avrebbe potuto  essere
 considerato  un  utile  termine  di riferimento nella valutazione della
 congruita' della  tutela  giurisdizionale  e  delle  difese  svolte  in
 concreto nel processo canonico. Nel caso, pero', dai documenti prodotti
 si  ricava  che  l'istanza  di  parte,  necessaria  per la pronuncia di
 dispensa, formulata dall'Amodeo, "non ebbe mai l'adesione della Gioia".
 Osserva altresi' che dagli atti parrebbe che  gli  assunti  dell'Amodeo
 circa   la   doppia   impotenza   relativa  e  la  conseguente  mancata
 consumazione del matrimonio siano stati contestati dalla  Gioia  e  che
 questa  si  sia  doluta  di  non essere stata messa in grado di provare
 dinanzi  all'autorita'  ecclesiastica  che  il  matrimonio  era   stato
 consumato.  Si tratta pero' di risultanze soltanto generiche, mentre la
 possibilita'  di  attingere  piu'  complete  informazioni   sia   sullo
 svolgimento  dei  suddetti  procedimenti canonici, sia sul merito delle
 questioni in essi dibattute, attraverso un esame diretto degli atti, e'
 esclusa - sottolinea il giudice a quo - oltre che dalla mancanza tra  i
 due  ordinamenti  di  qualsiasi tramite di collegamento (al di fuori di
 quello stabilito, per la trasmissione dei  provvedimenti  ecclesiastici
 destinati  ad  avere effetti civili, dal tribunale della Segnatura alla
 Corte d'appello) dal ricordato vincolo del  segreto.  Sarebbe  pertanto
 vano,  oltre  che inammissibile, conclude l'ordinanza, far ricorso, per
 acquisire gli atti del procedimento canonico al giudizio civile, ad una
 richiesta al tribunale della Segnatura.
     Questione sostanzialmente analoga, nel corso del  procedimento  per
 l'esecutivita'  della dispensa super rato accordata dalla Congregazione
 per la disciplina dei sacramenti riguardo  al  matrimonio  fra  Bisello
 Giorgio  Alberto e Tuccio Adriana Maria, e' stata sollevata, su istanza
 di parte, in riferimento agli artt. 2, 3, 7, 24, 25, 101  e  102  della
 Costituzione,  nei confronti dei commi quarto, quinto e sesto dell'art.
 34 del Concordato,  immessi  nell'ordinamento  giuridico  italiano  con
 l'art.  1 della legge n.  810 del 1929, con ordinanza in data 24 aprile
 1977 della Corte d'appello di Milano.
     Nelle  premesse  di  fatto,  l'ordinanza  indica  i   provvedimenti
 trasmessi  dal  tribunale  della  Segnatura, e fa cenno delle fasi gia'
 svoltesi del procedimento di esecutivita',  e  delle  istanze  in  esso
 avanzate.  Ai fini della non manifesta infondatezza, la Corte d'appello
 di Milano, pur facendo specificamente richiamo alla prima  (emessa  nel
 1976)  delle  due  surricordate  ordinanze  della  Corte  d'appello  di
 Palermo, riproduce, anche in questa occasione, con  identico  contenuto
 testuale,  la  motivazione  degli  altri provvedimenti di rimessione da
 essa emanati a proposito della riserva alla giurisdizione dei tribunali
 ecclesiastici delle controversie in materia di nullita'.
     7. - Nel giudizio promosso dalla Corte d'appello di Palermo  si  e'
 costituito   innanzi  a  questa  Corte  l'Amodeo,  sostenendo,  in  via
 pregiudiziale, l'inammissibilita', e, nel merito, l'infondatezza  delle
 eccezioni di incostituzionalita'.
     Secondo  la  difesa  dell'Amodeo,  infatti,  le questioni sollevate
 sarebbero irrilevanti ai fini del decidere:
     a) perche' il giudice a quo, anzitutto, non  avrebbe  tenuto  nella
 dovuta  considerazione  (in relazione anche ai principi enunciati nella
 sentenza n. 175 del 1973)  i  rilievi  mossi  da  questa  Corte,  nella
 sentenza  n.  1 del 1977, alle ordinanze di rinvio, circa i modi in cui
 le questioni sottoposte  al  suo  giudizio  riguardo  alla  riserva  di
 giurisdizione  sulle  controversie  in materia di nullita', erano state
 allora formulate, e mancando quindi di riproporre, come  sarebbe  stato
 necessario, un contrasto dell'art. 1 della legge n. 810 del 1929 (nella
 parte  in  cui immette nel nostro ordinamento il quarto comma dell'art.
 34 del Concordato in relazione alla "riserva" in favore  dei  dicasteri
 ecclesiastici  per la dispensa dal matrimonio rato e non consumato) con
 supremi principi costituzionali);
     b) in secondo luogo perche'  il  giudice  a  quo,  tralasciando  di
 esaminare  - come nell'ordinanza di questa Corte, di restituzione degli
 atti, n. 2 del 1977, gli era stato richiesto - "il  caso  definito  col
 rescritto   pontificio   e   le  forme  e  le  modalita'  del  relativo
 procedimento", non avrebbe tenuto conto che tale  procedimento  si  era
 svolto  in modo ineccepibile sia sotto il profilo sostanziale che sotto
 quello processuale; che in tutte le fasi di esso il diritto  di  difesa
 della  convenuta  Gioia era stato pienamente rispettato, ed inoltre, in
 particolare, che all'atto della contestazione della  lite  il  "dubbio"
 era  stato  concordato sui due punti dell'esistenza dell'impedimento di
 impotenza relativa e della inconsumazione del matrimonio, senza che ne'
 la convenuta ne' il suo patrono nulla  obiettassero,  e  che  la  Gioia
 aveva  chiesto e ottenuto un supplemento di istruttoria per l'audizione
 di un ginecologo, poi regolarmente escusso.
     Nel  merito,  la  difesa  dell'Amodeo,  dopo  aver  ricordato   che
 attraverso  il  procedimento di delibazione previsto dall'art. 801 cod.
 proc. civ. (per l'attribuzione di efficacia ai provvedimenti  stranieri
 di    volontaria    giurisdizione)    e'   ammissibile   l'introduzione
 nell'ordinamento   interno   di   provvedimenti   che,    seppur    non
 giurisdizionali, sono a volte esercizio di attribuzioni sovrane piu' di
 quel  che  non accada per la normale attivita' giudiziaria, osserva che
 la  pretesa  violazione  del  supremo  principio  costituzionale  della
 garanzia   dei   diritti   del  cittadino,  non  puo'  farsi  dipendere
 esclusivamente dalla  natura  (giurisdizionale  o  amministrativa)  del
 provvedimento,  ma  se  mai  andrebbe attribuita al procedimento che lo
 precede,  in   quanto   esso   non   sia   sufficientemente   garantito
 dall'arbitrio  dell'autorita'  decidente.  Nel caso, pero' - afferma la
 difesa dell'Amodeo - cio' deve senz'altro escludersi, posto  che  tutto
 il procedimento canonico per la concessione del rescritto pontificio e'
 strettamente previsto e codificato in norme scritte (dalle modalita' di
 difesa  delle  parti  all'autorita' che lo emette), e che il "potere di
 grazia",  che  nel  rescritto  si  esercita,  non  e'  certo   fondato,
 nell'accertamento  della  "iusta  causa  dispensationis",  su  un'ampia
 discrezionalita'. Anche il giudice  italiano,  del  resto,  secondo  le
 norme  (di  cui  mai  sotto  questo  aspetto  si  e' messa in dubbio la
 legittimita') della legge n. 898 del 1970 sui casi di scioglimento  del
 matrimonio, nel concedere lo scioglimento del vincolo (in tutti i casi,
 compreso  quello  della  inconsumazione),  pur  di  fronte  alla  prova
 dell'assunto, e' tenuto sempre ad accertare - questa volta si' con ampi
 poteri  discrezionali  -  che  sia  cessata  tra i coniugi la comunione
 spirituale e materiale.   Inoltre, se  e'  vero  che  nel  procedimento
 canonico  per  la  concessione  della  dispensa non e' prevista, per la
 parte contraria, una vera e propria possibilita'  di  impugnazione,  e'
 anche  vero  che  la  norma  generale  del  non passaggio in giudicato,
 applicabile anche in questa materia, consente pur sempre  la  revisione
 del rescritto. In definitiva, percio', secondo la difesa dell'Amodeo, i
 motivi  posti a base dell'ordinanza di rinvio non reggono alla critica,
 al punto da indurre a concludere che nell'emanarla, di  fatto,  si  sia
 andati  al  di la' dei poteri che, anche nell'iniziativa dell'incidente
 di legittimita' costituzionale, spettano all'autorita' giudiziaria.
     Sia nel giudizio promosso dalla Corte d'appello di Palermo  sia  in
 quello  promosso dalla Corte d'appello di Milano e' intervenuta, per il
 Presidente del Consiglio dei ministri,  l'Avvocatura  dello  Stato.  Le
 deduzioni  e  conclusioni  degli  atti  di  intervento sono identiche a
 quelle  svolte  e  precisate,  riguardo  alle  questioni  sorte   sulla
 giurisdizione  matrimoniale  dei  tribunali ecclesiastici in materia di
 nullita', nei giudizi promossi dalla Corte di cassazione e dalle  Corti
 d'appello di Milano e Roma.
     8. - Alla pubblica udienza del 9 dicembre 1981, dopo che il giudice
 Antonino  De Stefano ha svolto la relazione, gli avvocati Mauro Mellini
 (per Oliva Lidia, Medugno Liliana e Di Filippo Gigliola) e Paolo Barile
 (per Di Filippo Gigliola) hanno ribadito i motivi  dedotti  a  sostegno
 della fondatezza delle questioni sollevate nei relativi giudizi; mentre
 gli   avvocati  Cesare  Mirabelli  (per  Filippucci  Lorenzo),  Corrado
 Bernardini (per Cioci Nazareno, Filippucci Lorenzo, Rodi Renato e Mazza
 Ermanno), Leo Leli (per Papaleo Saverio),  Pietro  Gismondi  e  Filippo
 Satta  (per  Gospodinoff  Aldomir)  e  l'avvocato  dello  Stato Giorgio
 Azzariti  hanno  insistito  per  la  inammissibilita'  delle  questioni
 medesime, e in subordine per la loro infondatezza.
                         Considerato in diritto:
     1.  -  La  Corte e' chiamata, dalle ventuno ordinanze dei giudici a
 quibus, i cui termini e le cui motivazioni sono esposti in narrativa, a
 pronunciarsi sulle seguenti questioni:
     A)  Se la riserva alla giurisdizione  dei  tribunali  ecclesiastici
 delle  controversie  in  materia  di  nullita'  dei  matrimoni canonici
 trascritti agli effetti civili, operata  dall'art.  1  della  legge  27
 maggio  1929,  n.  810  (Esecuzione  del Trattato, dei quattro allegati
 annessi, e del Concordato, sottoscritti in Roma, fra la  Santa  Sede  e
 l'Italia,  l'11  febbraio 1929), nella parte in cui da' piena ed intera
 esecuzione ai commi quarto, quinto e sesto dell'art. 34 del Concordato,
 nonche' dall'art. 17 della  legge  27  maggio  1929,  n.  847  (recante
 disposizioni per l'applicazione del Concordato, nella parte relativa al
 matrimonio:  c.d.  legge  matrimoniale),  contrasti  con  il "principio
 supremo dell'ordinamento costituzionale dello Stato" posto  a  garanzia
 del diritto alla tutela giurisdizionale, e desumibile dagli articoli 2,
 3,  7,  24,  25,  101  e  102 della Costituzione, in considerazione dei
 peculiari ed essenziali aspetti - evidenziati nelle  motivazioni  delle
 ordinanze  di  rinvio  -  che,  riguardo alla posizione dei giudici, ai
 diritti e alle facolta' delle parti,  al  regime  delle  testimonianze,
 allo svolgimento del procedimento, alla insuscettibilita' di passare in
 giudicato   delle  sentenze  pronunciate  in  materia,  caratterizzano,
 secondo  le  norme  vigenti,  il  sistema  del  processo   matrimoniale
 canonico.
     B)  Se, ove ritenuta non fondata la questione, come dianzi esposta,
 inerente alla riserva alla giurisdizione  dei  tribunali  ecclesiastici
 delle  controversie  in  materia  di  nullita'  dei  matrimoni canonici
 trascritti agli effetti civili, le stesse norme  sopra  indicate  -  in
 quanto  consentono  al  giudice  dello  Stato,  una volta verificata la
 regolarita' formale della  documentazione  trasmessagli  dal  tribunale
 della   Segnatura,   soltanto   di  prendere  atto  dell'esistenza  del
 provvedimento emesso nell'ordinamento  canonico,  rendendolo  esecutivo
 agli   effetti  civili,  precludendogli  cosi'  di  accertare:  se  nel
 procedimento canonico, in cui e' stata resa la  sentenza  di  nullita',
 sia  stato  assicurato  l'effettivo  rispetto del contraddittorio e del
 diritto di difesa,  se  la  sentenza  sia  o  meno  definitiva,  se  il
 tribunale  della Segnatura abbia effettivamente esperito i controlli ad
 esso demandati, se, infine, le disposizioni  contenute  nella  sentenza
 non  siano contrarie all'ordine pubblico italiano - non contrastino con
 i "principi supremi" desumibili dagli artt. 1, 2, 3, 7, 10, 11, 24, 25,
 101 e 102 della Costituzione, con particolare riguardo  al  diritto  di
 agire  e  difendersi  in  giudizio, principi garantiti anche in tema di
 riconoscimento di sentenze rese in altri ordinamenti; e se, nell'ambito
 della medesima questione,  le  denunciate  norme  non  contrastino  con
 principi  supremi del sistema costituzionale, desumibili dagli artt. 2,
 3, 7, 24, 25, 29, 31, 101 e 102  della  Costituzione,  anche  sotto  un
 ulteriore profilo, e cioe' in quanto - imponendo al giudice dello Stato
 di  rendere  esecutive  le  sentenze ecclesiastiche fondate su cause di
 nullita' non previste dalla legge dello Stato,  senza  possibilita'  di
 rilevarne il conflitto con l'ordine pubblico italiano - introdurrebbero
 nell'ordinamento  dello  Stato  un  tipo di matrimonio contrastante con
 quello previsto dalla Costituzione, in violazione dei  canoni  relativi
 all'uguaglianza  dei  cittadini  senza  distinzione di religione, ed al
 concetto medesimo di matrimonio accolto dalla Costituzione.
     C) Se la riserva alla competenza dei dicasteri ecclesiastici  della
 concessione  della  dispensa "super rato et non consummato" in ordine a
 matrimonio canonico trascritto agli effetti civili, operata dalle norme
 sopra   indicate,   non   contrasti   con   "il    principio    supremo
 dell'ordinamento  costituzionale  dello  Stato",  posto  a garanzia del
 diritto alla tutela giurisdizionale, e desumibile dagli artt. 2, 3,  7,
 24,  25,  101  e 102 della Costituzione, in quanto la dispensa medesima
 costituisce esercizio di un sovrano  potere  di  grazia  e  si  esplica
 attraverso  un provvedimento di natura amministrativa, discrezionale ed
 insindacabile, adottato in esito ad un procedimento istruttorio di tipo
 inquisitorio - espressamente definito dalle stesse disposizioni che  lo
 regolano  "non  iudicialis  sed  administrativus"-  in cui le autorita'
 competenti esercitano a loro volta ampi poteri discrezionali, mentre le
 parti sono prive dei diritti, in senso proprio, di azione e di  difesa,
 giacche'  la  concessione  e  il diniego della dispensa sono oggetto di
 mere aspettative, e nella relativa  procedura  mancano  alle  parti  la
 disponibilita'  delle  prove,  la  possibilita'  di  impugnazione  e la
 pubblicita' degli atti,  ed  e'  vietata  l'assistenza  di  avvocati  e
 procuratori.
     D)   Se, ove ritenuta non fondata la questione come dianzi esposta,
 le  norme  sopra  indicate  non  contrastino  con  gl'invocati  supremi
 principi  anche  in  ragione dei particolari limiti che, nello speciale
 procedimento da esse disciplinato per il conferimento al provvedimento,
 con cui viene accordata la dispensa super rato et non consummato, della
 esecutivita' agli effetti civili, vengono posti ai poteri di cognizione
 del  giudice  dello  Stato,  cui  e'  inibito qualsiasi controllo sullo
 svolgimento del procedimento canonico e qualsiasi  sindacato  volto  ad
 accertare  che il provvedimento ecclesiastico non contenga disposizioni
 contrarie all'ordine pubblico italiano.
     2. - Le ordinanze di rimessione sottopongono alla  Corte  questioni
 identiche  o  connesse; pertanto i relativi giudizi vengono riuniti per
 esser decisi con unica sentenza.
     3.  -  Da  alcune   parti   costituite   in   giudizio   e'   stata
 preliminarmente    eccepita,    come    riferito   in   narrativa,   la
 inammissibilita', per difetto di  rilevanza,  della  questione  innanzi
 enunciata sub A) obiettandosi che essa e' stata sollevata sulla base di
 un'astratta   comparazione  dei  sistemi  processuali  di  due  diversi
 ordinamenti giuridici, dello Stato e della Chiesa, senza  accertare  se
 le  norme  canoniche,  la  cui  presenza  nell'attuale  ordinamento del
 processo matrimoniale canonico renderebbe, secondo i giudici a  quibus,
 costituzionalmente illegittima la contestata riserva alla giurisdizione
 dei  tribunali  ecclesiastici,  avessero trovato effettiva applicazione
 nelle specifiche vicende processuali relative alle sentenze di nullita'
 matrimoniale, delle quali si chiede l'esecutivita'.
     L'eccezione   va   disattesa.   Come   esattamente    si    afferma
 nell'ordinanza  emessa  dalle  Sezioni unite della Corte di cassazione,
 "la prospettata violazione del diritto alla tutela  giurisdizionale  e'
 ricollegabile non ad una lesione verificatasi nella singola fattispecie
 concreta,  sibbene  alla strutturazione generale del sistema che, nella
 sua istituzionalita', sembra insuscettibile di  garantire  congruamente
 quella  tutela";  per  cui "non interessa stabilire se nel procedimento
 svoltosi dinanzi i tribunali ecclesiastici,  che  ha  dato  luogo  alla
 presente  controversia,  abbiano  o  meno trovato puntuale applicazione
 tutte le norme canoniche dianzi ricordate". In realta',  le  norme  che
 vengono  sottoposte  alla  pronuncia  di  questa  Corte  non  sono  ne'
 potrebbero essere - le norme canoniche, ma quelle (art. 1  della  legge
 n.  810  del  1929  e  art.  17 della legge n. 847 del 1929) che, dando
 esecuzione ed attuazione alle norme concordatarie (commi quarto, quinto
 e sesto  dell'art.  34),  precludono  alla  giurisdizione  statuale  la
 cognizione  delle  controversie  in  materia  di nullita' dei matrimoni
 canonici trascritti agli effetti civili e disciplinano il  procedimento
 inteso  a  conferire  esecutivita'  nell'ordinamento  dello  Stato alle
 sentenze ecclesiastiche di nullita' di  tali  matrimoni.    Palese  e',
 pertanto,  l'incidenza delle denunciate norme nei giudizi a quibus, che
 non potrebbero  piu'  proseguire,  e  raggiungere  lo  scopo  cui  sono
 preordinati,  qualora  la  questione,  sollevata  nel corso dei giudizi
 medesimi,  fosse  dichiarata  fondata.   Il   prospettato   dubbio   di
 legittimita'  costituzionale  investe  direttamente le norme in parola,
 assumendosi un loro contrasto con i principi supremi  scaturenti  dalla
 Costituzione  a  presidio  del  diritto  alla tutela giurisdizionale in
 tutte le sue possibili estrinsecazioni, per il fatto  stesso  che  esse
 sostituiscono,  in  subiecta  materia, alla giurisdizione statuale - il
 cui sistema, secondo quanto  la  Costituzione  vuole  assicurato,  deve
 ispirarsi    ai    criteri   fondamentali   dell'imparzialita',   della
 indipendenza e della precostituzione del giudice, nonche' del potere di
 ciascuno di agire in giudizio e di esercitare in ogni stato e grado del
 procedimento il  diritto  inviolabile  di  difesa  -  la  giurisdizione
 ecclesiastica,  le  cui  singole caratteristiche cospirerebbero tutte a
 delineare un sistema non soltanto profondamente diverso, ma soprattutto
 non  riconducibile  ai  menzionati  criteri.  Ed  e' solo a sostegno di
 quest'ultimo assunto che le norme canoniche indicate nelle ordinanze di
 rimessione vengono appunto evocate dai giudici a quibus, quali  sintomi
 rivelatori   dell'addotta  inconciliabilita'  del  sistema  processuale
 canonico, che esse stesse concorrono a caratterizzare, con  il  sistema
 processuale  statuale,  dominato  dalla preminente garanzia del diritto
 alla tutela giurisdizionale: onde non si pone il  problema  della  loro
 concreta specifica incidenza nei giudizi da cui muove la questione.
     4.  - Nel merito, la questione puntualizzata sub A) non e' fondata.
 Va preliminarmente ricordato  che  questa  Corte  ha  gia'  piu'  volte
 affermato,  a  partire  dalle sentenze nn. 30, 31 e 32 del 1971, che le
 norme del Concordato, immesse nell'ordinamento italiano dalla legge  n.
 810  del  1929,  pur  fruendo  della "copertura costituzionale" fornita
 dall'art. 7 della Costituzione, non  si  sottraggono  al  sindacato  di
 legittimita'  costituzionale, che in tal caso, peraltro, resta limitato
 e circoscritto al solo accertamento della loro conformita'  o  meno  ai
 "principi  supremi  dell'ordinamento costituzionale"; accertamento, cui
 la Corte procede mantenendosi sempre nell'ambito della questione  cosi'
 come  le  e'  stata  deferita  e  in  riferimento  a principi che siano
 desumibili dai parametri costituzionali indicati dal giudice a quo.
     In siffatta prospettiva e nei cennati limiti, la Corte, appunto con
 la sentenza n. 30 del 1971, dichiarava  non  fondata  la  questione  di
 legittimita'  costituzionale  avente  ad oggetto, sempre per il tramite
 dell'art. 1 della legge n. 810  del  1929,  gli  stessi  commi  quarto,
 quinto  e  sesto  dell'art.  34  del  Concordato,  del cui esame e' ora
 investita, denunciati  allora  "con  riferimento  all'art.  102,  comma
 secondo,  della Costituzione, in quanto cioe' i tribunali ecclesiastici
 competenti a pronunziarsi sulla  nullita'  dei  matrimoni  concordatari
 sarebbero  giudici speciali non previsti dalla Costituzione stessa". La
 Corte ritenne, invece, che non fosse violato il principio della  unita'
 della   giurisdizione  dello  Stato,  cui  appare  ispirato  l'indicato
 precetto costituzionale,  in  quanto  il  "rapporto  fra  organi  della
 giurisdizione  ordinaria  e  organi  della  giurisdizione speciale deve
 ricercarsi nel quadro dell'ordinamento giuridico interno,  al  quale  i
 tribunali ecclesiastici sono del tutto estranei".
     Successivamente, la riserva alla cognizione esclusiva dei tribunali
 ecclesiastici  delle  controversie in materia di nullita' dei matrimoni
 canonici trascritti agli effetti civili,  operata  dai  ripetuti  commi
 quarto,  quinto  e  sesto  dell'art.  34 del Concordato, era nuovamente
 sottoposta all'esame di questa Corte,  in  riferimento  agli  artt.  1,
 comma secondo, 3, comma primo, 11, 24, commi primo e secondo, 25, comma
 primo,   101,   comma   primo,   102,  commi  primo  e  secondo,  della
 Costituzione. Anche questa volta la  questione  veniva  dichiarata  non
 fondata,   con   la   sentenza  n.  175  del  1973.    Circa  l'addotta
 incompatibilita' della giurisdizione  dei  tribunali  ecclesiastici  in
 subiecta   materia  con  il  principio  della  sovranita'  dello  Stato
 italiano, veniva affermato  che  "una  inderogabilita'  assoluta  della
 giurisdizione statale non risulta da espresse norme della Costituzione,
 ne'  e'  deducibile,  con particolare riguardo alla materia civile, dai
 principi generali del nostro ordinamento, nel quale ipotesi  di  deroga
 sono  stabilite  da  leggi  ordinarie".  Considerava  poi  la Corte che
 "riconosciuta la compatibilita' con il nuovo ordinamento costituzionale
 di una deroga alla giurisdizione che sia razionalmente e  politicamente
 giustificabile",  la  deroga  introdotta dalle denunciate norme trovava
 appunto  giustificazione  "nel  complesso  sistema  che,   riconoscendo
 effetti  civili  al  matrimonio  cosi'  come  disciplinato  dal diritto
 canonico, non irrazionalmente devolve  ai  tribunali  ecclesiastici  la
 cognizione  delle cause di nullita' del matrimonio". Nella pronuncia di
 non fondatezza cosi' motivata  restavano  assorbiti,  ad  avviso  della
 Corte,   anche  i  diversi  profili  dedotti  dal  giudice  a  quo  con
 riferimento agli artt. 24, 25 e 102, comma secondo, della Costituzione.
 Soggiungeva in proposito la Corte, in relazione all'addotta  violazione
 del  principio  del  giudice  naturale,  di  cui  all'art.    25  della
 Costituzione,  che  dovendosi  considerare  "giudice  naturale"  quello
 "precostituito  per  legge",  tale  espressamente  risultava  essere il
 tribunale  ecclesiastico  proprio  in  quanto  designato  dalle   norme
 impugnate.
     Nella  coeva  sentenza n. 176 del 1973 la Corte poi, nel dichiarare
 non fondata la questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  2
 della  legge  1  dicembre 1970, n.  898, recante disciplina dei casi di
 scioglimento del matrimonio, sollevata in riferimento agli  artt.  7  e
 138 della Costituzione, in relazione appunto all'art. 34 del Concordato
 ed  alla legge di esecuzione n. 810 del 1929, nonche' agli artt. 5 e 17
 della legge n. 847 del 1929, affermava che la riserva di  giurisdizione
 ai  tribunali  ecclesiastici  delle  cause  di  nullita'  dei matrimoni
 canonici trascritti agli effetti civili, ed il connesso  riconoscimento
 di  effetti  civili  alle sentenze dichiarative di tale nullita', "sono
 coerenti con l'impegno assunto di considerare  l'atto  del  matrimonio,
 validamente   sorto   nell'ambito   dell'ordinamento   canonico,  quale
 presupposto cui attribuire -  dopo  l'intervenuta  trascrizione  -  gli
 effetti civili".
     La legittimita' costituzionale della riserva disposta dall'articolo
 34  del Concordato a favore della giurisdizione ecclesiastica e' stata,
 dunque, gia' riconosciuta da questa Corte - come vien  ricordato  anche
 nella sentenza n. 1 del 1977 - in relazione a principi supremi che sono
 stati desunti da parametri costituzionali in gran parte coincidenti con
 gli stessi parametri invocati nella presente controversia. Ai parametri
 suddetti  i  giudici a quibus fanno invero riferimento per assumere che
 la  riserva  de  qua  agitur  concreti,  in  relazione  alle  peculiari
 caratteristiche  che  diversificano  il sistema processuale canonico da
 quello   statuale,   una   violazione   del   diritto    alla    tutela
 giurisdizionale.  Diritto, questo, che la Corte ha gia' annoverato "fra
 quelli  inviolabili  dell'uomo, che la Costituzione garantisce all'art.
 2" (sent. n. 98 del 1965), e che non  esita  ora  ad  ascrivere  tra  i
 principi  supremi  del  nostro  ordinamento  costituzionale,  in cui e'
 intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia l'assicurare
 a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio.
 Non puo' dunque rifiutarsi ingresso alla proposta  questione  intesa  a
 verificare  se  con  tale  principio  supremo contrastino le denunciate
 norme concordatarie, pur assistite da  copertura  costituzionale.  Come
 gia'  messo in luce dalla richiamata giurisprudenza di questa Corte, le
 suddette  disposizioni  hanno  sostituito,  in  subiecta  materia,   la
 giurisdizione  ecclesiastica  alla  giurisdizione  statuale. Ma non per
 questo ne risulta vulnerato  il  principio  supremo  del  diritto  alla
 tutela  giurisdizionale,  atteso  che, nelle controversie relative alla
 nullita' di matrimoni  canonici  trascritti  agli  effetti  civili,  un
 giudice  e un giudizio sono pur sempre garantiti: e si tratta di organi
 e  di  procedimenti, la cui natura giurisdizionale e' suffragata da una
 tradizione plurisecolare.  Certo, non puo' negarsi che l'organizzazione
 e l'esercizio  della  funzione  giurisdizionale,  in  re  matrimoniali,
 nell'ordinamento  della Chiesa appaiono, sotto taluni aspetti, ispirati
 a  criteri  non   sempre   conformi   a   quelli   che   caratterizzano
 l'organizzazione   e   l'esercizio   della   funzione   giurisdizionale
 nell'ordinamento dello Stato; anche se il divario si attenua alla  luce
 dei  principi  proclamati dalle costituzioni e dai decreti del Concilio
 Vaticano II. Ma va, da un canto, ricordato che le difformita'  traggono
 per  lo  piu' la loro ragion d'essere dalle stesse finalita' spirituali
 cui e' preordinato l'ordinamento della Chiesa,  il  quale,  pur  con  i
 connotati esplicitamente riconosciuti dal primo comma dell'art. 7 della
 Costituzione,  si  modella  nondimeno  siccome  un  ordinamento per sua
 stessa natura dissimile  da  quello  dello  Stato.  D'altro  canto,  il
 diritto alla tutela giurisdizionale si colloca al dichiarato livello di
 principio supremo solo nel suo nucleo piu' ristretto ed essenziale, cui
 si e' innanzi accennato; ma tale qualifica non puo' certo estendersi ai
 vari  istituti  in  cui  esso  concretamente si estrinseca e secondo le
 mutevoli esigenze storicamente si atteggia, pur  se  taluni  di  questi
 istituti siano garantiti da precetti costituzionali. Con i quali ultimi
 una volta riconosciuto indenne il principio supremo - non e' consentito
 accertare  se  specificamente  contrastino,  in  ragione  della diversa
 disciplina  dei  corrispondenti  istituti  del  processo   matrimoniale
 canonico,  le denunciate norme concordatarie, atteso che a questo minor
 livello opera, come piu' volte affermato da questa Corte, la  copertura
 costituzionale dalla quale esse sono assistite.
     Pertanto  la Corte, nel confermare la sua precedente giurisprudenza
 in materia, ritiene che anche sotto  il  profilo  esaminato  in  questa
 occasione  la  riserva  alla giurisdizione ecclesiastica delle cause di
 nullita' dei matrimoni canonici trascritti agli effetti civili, pur con
 le  innegabili  diversita'  che  nei  vari  istituti  processuali  tale
 giurisdizione  presenta  rispetto  alla  giurisdizione statuale, non e'
 incompatibile con l'ordinamento costituzionale.  Detta  riserva  appare
 poi  funzionalmente  connessa  alla disciplina del negozio matrimoniale
 canonico, cui il medesimo art. 34 del Concordato riconosce, mediante la
 trascrizione del relativo atto, efficacia civile. Se il negozio cui  si
 attribuiscono  effetti  civili,  nasce  nell'ordinamento  canonico e da
 questo  e'  regolato  nei  suoi  requisiti  di  validita',  e'   logico
 corollario che le controversie sulla sua validita' siano riservate alla
 cognizione  degli  organi  giurisdizionali  dello  stesso  ordinamento,
 conseguendo poi le relative pronunce  dichiarative  della  nullita'  la
 efficacia  civile  attraverso  lo speciale procedimento di delibazione,
 anch'esso strutturato dall'art. 34 del Concordato. In cio' va ravvisata
 appunto quella giustificazione razionale e politica della  deroga  alla
 giurisdizione  statuale, cui questa Corte, come dianzi ricordato, si e'
 riferita  nella  sentenza  n.  175  del  1973.  La  riserva  in  parola
 costituisce  percio'  uno dei cardini del vigente sistema concordatario
 matrimoniale, e di cio' era ben consapevole  il  Costituente  allorche'
 nel  secondo  comma  dell'art.  7 della Costituzione ha fatto esplicita
 menzione dei Patti Lateranensi.
     Ne' a diversa conclusione potrebbero indurre gli  argomenti  svolti
 nelle  ordinanze  di  rimessione, secondo cui ogni rinunzia dello Stato
 alla  propria  giurisdizione  postula   necessariamente   -   ai   fini
 dell'accertamento  della  sua  compatibilita'  con  i  principi supremi
 dell'ordinamento  costituzionale  -  la  puntuale verifica del grado di
 tutela assicurato dal sistema giurisdizionale che viene a sostituirsi a
 quello statuale. In proposito i giudici  a  quibus  si  appellano  alla
 verifica   circa   l'ampiezza  della  tutela  giurisdizionale  che  gli
 ordinamenti delle Comunita' europee assicurano contro gli atti dei loro
 organi eventualmente lesivi di  diritti  dei  singoli  soggetti,  sulla
 quale ha fatto leva la sentenza n. 98 del 1965, con cui questa Corte ha
 dichiarato  non  fondata  la  questione  di legittimita' costituzionale
 sollevata in riferimento agli artt. 102 e 103 della  Costituzione,  con
 riguardo  alla  pretesa  specialita'  della  Corte  di  giustizia delle
 Comunita' come organo di giurisdizione, e  al  contenuto  della  tutela
 giurisdizionale  dalla  medesima garantita. Ma come giustamente obietta
 la difesa di una parte costituita in giudizio (Gospodinoff),  non  puo'
 instaurarsi  sotto il dedotto profilo un parallelismo di situazioni tra
 Corte di giustizia delle Comunita' europee e  tribunali  ecclesiastici,
 in  quanto  l'elemento  discriminatore  che  a  tal proposito si rivela
 decisivo,  e  che  giustifica  nel  richiamato  precedente  la  operata
 verifica   del   "grado  di  efficienza"  del  sistema  giurisdizionale
 comunitario,  e'  appunto  -  in  relazione  alle  caratteristiche  del
 processo    di    integrazione   europea   -   la   diretta   efficacia
 nell'ordinamento dello Stato (in forza degli artt. 44 e 92 del Trattato
 che istituisce la Comunita' europea del carbone  e  dell'acciaio,  reso
 esecutivo  con  legge 25 giugno 1952, n. 766, nonche' degli artt. 187 e
 192 del Trattato che istituisce la Comunita' economica europea, e 159 e
 164 del Trattato  che  istituisce  la  Comunita'  europea  dell'energia
 atomica,  entrambi  resi  esecutivi con legge 14 ottobre 1957, n. 1203)
 delle sentenze che promanano dalla Corte di giustizia,  senza  che  sia
 previsto alcun controllo giurisdizionale ad opera del giudice italiano.
 Le  sentenze  ecclesiastiche  di  nullita' del matrimonio sono, invece,
 soggette ad uno "speciale procedimento  di  delibazione  affidato  alla
 Corte d'appello", nel quale "l'intervento del giudice italiano in certa
 misura  si  realizza,  sia  pure  con  cognizione limitata"(sentenza di
 questa Corte n. 175 del 1973). L'affinita', da  species  a  genus,  che
 tale  procedimento  rivela  rispetto al normale giudizio di delibazione
 delle sentenze straniere, quale disciplinato dall'art. 797  cod.  proc.
 civ.,  conferma  che,  ai  fini  della presente pronuncia sull'asserito
 contrasto della riserva alla giurisdizione ecclesiastica delle cause di
 nullita' dei matrimoni canonici trascritti agli effetti civili, con  il
 supremo  principio  del  diritto  alla  tutela giurisdizionale, sarebbe
 ininfluente ed esorbitante la proposta verifica dell'adeguatezza  della
 tutela  medesima,  quale  in  concreto  assicurata  dalla giurisdizione
 ecclesiastica. Se poi i limiti posti ai  poteri  del  giudice  italiano
 chiamato  a rendere esecutiva la sentenza ecclesiastica di nullita' del
 matrimonio, incidano, come ipotizza la sentenza di questa  Corte  n.  1
 del  1977, sull'adeguatezza della tutela giurisdizionale, e' dubbio che
 ricade nell'ambito della questione puntualizzata sub B), sulla quale la
 Corte passa  a  pronunciarsi,  una  volta  dichiarata  non  fondata  la
 questione sub A).
     5. - La seconda questione di legittimita' costituzionale, enunciata
 sub  B),  "da'  per scontata - come leggesi nell'ordinanza emessa dalle
 Sezioni  unite  della  Corte  di  cassazione  -  la  conformita'   alla
 Costituzione  della  riserva  di  giurisdizione in favore dei tribunali
 ecclesiastici e considera  invece  i  limiti  dei  poteri  del  giudice
 dell'esecutivita',  quali  risultano  dalla consolidata interpretazione
 data dalla giurisprudenza alle norme in esame".
     Nella interpretazione delle denunciate norme, accolta dai giudici a
 quibus, la pronuncia di esecutivita'  sarebbe  contraddistinta  da  una
 sorta   di   "automaticita'".   Infatti  la  Corte  d'appello  potrebbe
 verificare soltanto la mera regolarita'  formale  della  documentazione
 proveniente  dal  tribunale della Segnatura, mentre le sarebbe precluso
 qualsiasi  sindacato  sul  procedimento  svoltosi  innanzi  al  giudice
 ecclesiastico.   In   particolare  il  giudice  italiano  non  potrebbe
 accertare: a) l'effettivo rispetto del contraddittorio e del diritto di
 difesa nel procedimento in cui e' stata resa la sentenza  di  nullita';
 b)  la  definitivita'  di  tale sentenza; c) la reale effettuazione, da
 parte del tribunale della Segnatura, dei controlli, previsti dal quinto
 comma dell'art.  34  del  Concordato,  sulla  osservanza  nel  processo
 matrimoniale canonico delle norme relative alla competenza del giudice,
 alla  citazione  ed  alla  legittima  rappresentanza o contumacia delle
 parti; d) se la sentenza di nullita'  contenga  disposizioni  contrarie
 all'ordine  pubblico  italiano,  in contrasto con il disposto dell'art.
 797, n. 7, del codice di procedura civile.
     La  Corte   preliminarmente   rileva   che,   ancor   prima   della
 Costituzione,  autorevole  dottrina  contestava  la  tesi,  seguita  in
 giurisprudenza, della "automaticita'" della pronuncia, interpretando le
 norme regolatrici del procedimento per la esecutivita'  delle  sentenze
 ecclesiastiche  di  nullita'  di  matrimoni  canonici  trascritti  agli
 effetti civili (quinto e sesto comma dell'art. 34 del Concordato e art.
 17 della legge matrimoniale), nel senso che la Corte di  appello  fosse
 tenuta  ad accertare la conformita' delle sentenze medesime ai principi
 dell'ordine pubblico. Entrata in vigore la Costituzione, si sottolineo'
 in dottrina l'esigenza che l'applicazione della normativa concordataria
 si  adeguasse  ai  principi  dell'ordinamento  costituzionale,  e   che
 pertanto,  in  siffatta  prospettiva,  il procedimento ex art. 17 della
 legge  matrimoniale  dovesse  garantire   il   contraddittorio   e   la
 conformita'  delle  sentenze  ecclesiastiche  ai  principi  dell'ordine
 pubblico. Ne' sono mancate negli  ultimi  anni  sentenze,  anche  della
 Corte  di  cassazione, ispirate ad una interpretazione delle denunciate
 norme diversa da quella che  costituisce  la  base  di  partenza  delle
 ordinanze  di  rimessione.   Cosi', nel riflesso che il procedimento in
 parola configuri un adattamento dell'ordinario giudizio di  delibazione
 delle  sentenze  straniere  alla  speciale  materia oggetto delle norme
 pattizie, e' stato ritenuto che alla  Corte  d'appello  sono  devoluti,
 oltre  che  i  controlli  formali, anche il riscontro degli adempimenti
 corrispondenti alle prime quattro condizioni previste dall'art. 797 del
 codice di procedura civile,  nonche'  l'accertamento  che  la  sentenza
 ecclesiastica  non contrasti con l'ordine pubblico italiano, nei limiti
 consentiti dalla copertura costituzionale  delle  norme  concordatarie.
 Peraltro,  poiche'  tale  "giurisprudenza  innovatrice", cui si rifanno
 alcune parti costituite in giudizio per concludere a favore  della  non
 fondatezza  della  questione,  non  puo'  allo  stato dirsi decisamente
 prevalente su quella, mantenutasi costante nell'arco di  piu'  decenni,
 dalla quale muovono le ordinanze di rimessione, la Corte si attiene, ai
 fini  della  pronuncia sulle denunciate norme, alla interpretazione che
 di queste viene  addotta  dai  giudici  a  quibus,  e  tra  questi,  in
 particolare, delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione.
     In  siffatti  termini la questione e' fondata. Le norme denunciate,
 interpretate come dianzi esposto, incidono profondamente e radicalmente
 sui  poteri  che  in  via  generale  sono  attribuiti  al  giudice,  in
 correlazione  con  i  prescritti accertamenti, allorche' sia chiamato a
 dichiarare  l'efficacia  nell'ordinamento  dello  Stato   italiano   di
 sentenze  emesse  in  ordinamenti  a  questo estranei. Ed invero, nello
 speciale  procedimento  da  esse  disciplinato,  la  mutilazione  e  la
 vanificazione  dei  cennati poteri del giudice italiano, la preclusione
 di qualsiasi sindacato che  esorbiti  dall'accertamento  della  propria
 competenza  e  dalla semplice constatazione che la sentenza di nullita'
 sia anche  accompagnata  dal  decreto  del  tribunale  della  Segnatura
 apostolica e sia stata pronunciata nei confronti di matrimonio canonico
 trascritto  agli effetti civili, degradano la funzione del procedimento
 stesso ad un controllo meramente formale. Cosi' strutturato, nella  sua
 concreta applicazione lo speciale procedimento di delibazione elude due
 fondamentali  esigenze, che il giudice italiano nell'ordinario giudizio
 di delibazione e' tenuto a soddisfare, prima  di  dischiudere  ingresso
 nel  nostro ordinamento a sentenze emanate da organi giurisdizionali ad
 esso estranei:  l'effettivo controllo che nel procedimento,  dal  quale
 e'   scaturita   la  sentenza,  siano  stati  rispettati  gli  elementi
 essenziali del diritto  di  agire  e  resistere  a  difesa  dei  propri
 diritti,  e  la  tutela  dell'ordine  pubblico  italiano  onde impedire
 l'attuazione nel nostro ordinamento delle disposizioni contenute  nella
 sentenza medesima, che siano ad esso contrarie.
     Sia  l'una  che  l'altra  esigenza  si  ricollegano  e  muovono  da
 principi, ai quali si ispirano i parametri costituzionali invocati  dai
 giudici  a quibus. Il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa
 dei propri diritti - strettamente connesso ed in parte coincidente  con
 il   diritto  alla  tutela  giurisdizionale  cui  si  e'  fatto  dianzi
 riferimento  -  trova  la  sua  base  soprattutto  nell'art.  24  della
 Costituzione.  La  inderogabile  tutela  dell'ordine  pubblico, e cioe'
 delle regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base
 degli istituti giuridici in cui si articola l'ordinamento positivo  nel
 suo   perenne  adeguarsi  all'evoluzione  della  societa',  e'  imposta
 soprattutto a presidio della sovranita' dello  Stato,  quale  affermata
 nel  comma  secondo dell'art. 1, e ribadita nel comma primo dell'art. 7
 della Costituzione. Entrambi questi principi vanno ascritti nel  novero
 dei  "principi  supremi dell'ordinamento costituzionale", e pertanto ad
 essi non possono opporre resistenza le denunciate norme, pur  assistite
 dalla  menzionata  copertura  costituzionale,  nella  parte  in  cui si
 pongono in contrasto con i principi medesimi:  nella parte,  cioe',  in
 cui non dispongono che il giudice italiano, nello speciale procedimento
 da  esse disciplinato, sia tenuto a quegli accertamenti, e sia all'uopo
 munito dei relativi poteri,  volti  ad  assicurare  il  rispetto  delle
 fondamentali esigenze dianzi indicate.
     Va  pertanto dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1
 della legge n. 810 del 1929, limitatamente all'esecuzione data al sesto
 comma dell'art. 34 del Concordato, nonche' del secondo comma  dell'art.
 17  della  legge  n.  847  del  1929, nella parte in cui tali norme non
 prevedono che alla Corte d'appello, all'atto di  rendere  esecutiva  la
 sentenza   ecclesiastica  dichiarativa  della  nullita'  di  matrimonio
 canonico trascritto agli  effetti  civili,  spetta  accertare  che  nel
 procedimento  innanzi  ai  tribunali ecclesiastici sia stato assicurato
 alle parti il diritto di agire e resistere in  giudizio  a  difesa  dei
 propri  diritti,  e  che la sentenza medesima non contenga disposizioni
 contrarie all'ordine pubblico italiano.
     Resta  in  conseguenza  assorbito,  per  effetto  della  dichiarata
 illegittimita' costituzionale delle  denunciate  norme  in  parte  qua,
 l'ulteriore  profilo,  dedotto  nell'ambito  della  medesima questione,
 circa la incompatibilita' con i principi supremi desumibili dagli artt.
 2, 3, 7, 24, 25, 29, 31, 101,  102  della  Costituzione,  delle  stesse
 norme,  in  quanto,  precludendo  al  giudice  dello Stato di accertare
 l'eventuale contrasto con l'ordine pubblico italiano,  gl'impongono  di
 rendere  esecutive  le  sentenze  ecclesiastiche  fondate  su  cause di
 nullita' non previste  dalla  legge  dello  Stato,  introducendo  cosi'
 nell'ordinamento  dello  Stato  un  tipo di matrimonio contrastante con
 quello previsto dalla Costituzione.
     6. - La Corte passa quindi ad esaminare la questione concernente la
 riserva alla competenza dei dicasteri ecclesiastici  della  concessione
 della  dispensa  super  rato  et non consummato, in ordine a matrimonio
 canonico trascritto agli effetti civili, sollevata,  come  riferito  in
 narrativa,   dalle   Corti   d'appello   di  Palermo  e  di  Milano,  e
 puntualizzata sub C). Dalle ordinanze di rimessione  si  assume  che  i
 commi  quarto, quinto e sesto dell'art. 34 del Concordato (cui l'art. 1
 della legge n. 810 del 1929 ha dato esecuzione) e l'art. 17 della legge
 n. 847 del 1929, nel  disporre  la  cennata  riserva,  violerebbero  il
 diritto  alla  tutela  giurisdizionale, desumibile dagli artt. 2, 3, 7,
 24, 25, 101, 102 della Costituzione, in  quanto  la  dispensa  medesima
 viene  concessa  discrezionalmente, a conclusione di un procedimento di
 natura amministrativa.
     La difesa di una parte costituita in giudizio (Amodeo) ha  eccepito
 la   inammissibilita',   per   difetto  di  rilevanza,  della  proposta
 questione, non avendo il giudice a quo (Corte di  appello  di  Palermo)
 tenuto  conto  che, nella specie, il procedimento canonico concluso con
 la dispensa, della quale si chiede la esecutivita', si  era  svolto,  a
 suo  dire,  in  modo  ineccepibile sia sotto il profilo sostanziale che
 sotto quello processuale, e che in tutte le  fasi  di  esso  era  stato
 pienamente   rispettato   il   diritto  delle  parti  alla  difesa.  Ma
 nell'ordinanza di rinvio si denuncia il contrasto tra la struttura  del
 procedimento   canonico  e  i  principi  che  nell'ordinamento  statale
 presiedono alla tutela  giurisdizionale  dei  diritti  e  all'esercizio
 della  difesa,  a  prescindere dalle peculiarita' dello svolgimento del
 procedimento medesimo nella  fattispecie  in  esame.    L'eccezione  va
 pertanto  disattesa  per le stesse ragioni, in base alle quali la Corte
 ha respinto l'analoga eccezione  mossa  in  punto  di  rilevanza  della
 questione enunciata sub A).
     Nel merito la questione e' fondata.
     Rileva  la  Corte,  che nell'ordinamento canonico, a norma del can.
 1119 del Codex,  "matrimonium  non  consummatum...  dissolvitur...  per
 dispensationem  a  Sede  Apostolica  ex  iusta causa concessam, utraque
 parte rogante vel alterutra, etsi altera sit invita". Il  provvedimento
 di dispensa incide sul rapporto e non sull'atto, in quanto scioglie con
 effetto  ex  nunc  un rapporto matrimoniale instaurato sulla base di un
 matrimonio  validamente  contratto.  La  richiesta  della  dispensa  e'
 direttamente  rivolta  al  Sommo  Pontefice:  "per supplicem petitionem
 imploratur gratia ex benigna Summi  Pontificis  concessione  obtinenda"
 (cfr. Instructio del 7 marzo 1972 della Congregazione per la disciplina
 dei   sacramenti).   Il   relativo   procedimento   e'   di  competenza
 dell'anzidetta Congregazione, ma l'istruttoria  di  norma  e  demandata
 agli Episcopi dioccesani, i quali provvedono ad instruere processum e a
 trasmettere  quindi  il  proprio  voto  pro  rei  veritate  alla stessa
 Congregazione per la decisione finale, che viene adottata con rescritto
 pontificio.  La gia' citata Instructio  avverte  che  "processus  super
 matrimonio   rato   et   non   consummato   non   est   iudicialis  sed
 administrativus, ac proinde differt a  processu  iudiciali  pro  causis
 nullitatis matrimonii".
     Pertanto,  pur  dando  atto  che  il  procedimento  per ottenere la
 dispensa super rato e' minuziosamente disciplinato da  apposite  norme,
 che   l'istruttoria  viene  dall'Ordinario  diocesano  affidata  ad  un
 tribunale, con l'intervento del Defensor vinculi e con la  possibilita'
 per ambo le parti di farsi assistere da consulenti, che il "voto" viene
 espresso sulla base delle risultanze istruttorie, non puo' certo, sulla
 scorta  anche  delle  testuali  precisazioni  fornite  dalla richiamata
 normativa, riconoscersi carattere giurisdizionale, ne' al  procedimento
 ne' al provvedimento concessivo che lo conclude.
     Ora   le   denunciate  norme  -  con  il  riservare  ai  "dicasteri
 ecclesiastici" la competenza a pronunciarsi in via amministrativa sulla
 risoluzione del rapporto matrimoniale validamente instaurato,  mediante
 un  provvedimento  amministrativo  che,  attraverso  il procedimento di
 esecutivita' disciplinato  dalle  norme  medesime,  acquista  efficacia
 anche  nell'ordinamento dello Stato, facendo cessare gli effetti civili
 del matrimonio canonico  regolarmente  trascritto  ed  incidendo  cosi'
 sulla  condizione  giuridica  dei  coniugi - configurano un'alternativa
 alla giurisdizione statuale. Allo  Stato,  invero,  appartiene  -  come
 ribadito  da  questa  Corte  con  la  sentenza  n.  169  del  1971 - la
 disciplina del vincolo matrimoniale, derivi esso da matrimonio civile o
 da matrimonio canonico trascritto agli effetti civili; ed ai  tribunali
 dello Stato la legge 1 dicembre 1970, n. 898, ha demandato di giudicare
 con  carattere  di  generalita',  tanto  nei  casi di "scioglimento del
 matrimonio contratto a norma del codice civile" (art.  1),  quanto  nei
 casi  di "cessazione degli effetti civili" di matrimonio "celebrato con
 rito religioso e regolarmente trascritto" (art. 2). E tra  i  casi  per
 cui  puo' chiedersi a questi tribunali "lo scioglimento o la cessazione
 degli effetti civili del matrimonio" figura  anche  l'ipotesi  che  "il
 matrimonio  non e' stato consumato" (art. 3, n. 2, lett. f della citata
 legge).
     Ben vero che - secondo quanto affermato  da  questa  Corte  con  la
 sentenza  n.  176  del 1973, nella quale, peraltro, come gia' detto, la
 questione verteva sulla legittimita' costituzionale della legge n.  898
 del  1970 e non della normativa concordataria con la quale quest'ultima
 veniva messa a raffronto - la introduzione, nella legge  medesima,  "di
 una  serie  di  cause di cessazione degli effetti civili del matrimonio
 concordatario lascia intatte le riserve dell'art. 34  del  Concordato",
 tra  le  quali figura appunto la riserva per la dispensa dal matrimonio
 rato e non consumato. Ma tale riserva, concretando un'alternativa  alla
 giurisdizione  dei  tribunali  dello Stato, non puo' sottrarsi, benche'
 disposta  con  norma  concordataria,  fornita   quindi   di   copertura
 costituzionale,   alla   richiesta  verifica  se  nel  suo  ambito  sia
 ugualmente assicurato quel diritto  alla  tutela  giurisdizionale,  cui
 questa  Corte,  come  dianzi  affermato,  riconosce dignita' di supremo
 principio dell'ordinamento costituzionale. E la risposta al quesito non
 puo'  non  essere  negativa,  essendo  incontestabile  che  la   tutela
 giurisdizionale  dei  diritti,  pur  considerata  nel  suo  nucleo piu'
 ristretto   ed   essenziale,   non   possa   certo  realizzarsi  in  un
 procedimento,  il  cui  svolgimento  e  la  cui   conclusione   trovano
 dichiaratamente   collocazione   nell'ambito   della   discrezionalita'
 amministrativa, e nel quale non vengono quindi garantiti alle parti  un
 giudice  e  un giudizio in senso proprio. A differenza di quanto si e',
 invece, constatato, nelle pagine che  precedono,  per  le  controversie
 relative  alla  nullita' dei matrimoni canonici trascritti agli effetti
 civili, per le quali la riserva, ugualmente disposta dall'art.  34  del
 Concordato,  opera  in favore di organi e di procedimenti aventi natura
 giurisdizionale. Riserva, quest'ultima, a sostegno della quale, per  di
 piu', militano le giustificazioni, dianzi ricordate, d'ordine razionale
 e  politico,  sulle  quali  poggia  il  vigente  sistema  concordatario
 matrimoniale, e che non possono, invece, essere ugualmente addotte  per
 la  riserva  alla competenza dei dicasteri ecclesiastici, ai fini della
 successiva loro efficacia civile, dei provvedimenti di  dispensa  super
 rato. Infatti la dispensa non concerne - come gia' si e' detto - l'atto
 del  matrimonio, bensi' il rapporto matrimoniale, nel presupposto della
 validita' dell'atto.
     La constatata violazione del supremo  principio  del  diritto  alla
 tutela  giurisdizionale,  desunto dai parametri costituzionali invocati
 dai giudici a quibus, che  vuole  siano  in  ogni  caso  assicurati,  a
 chiunque e per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio - tanto
 piu' allorche' si tratti, come nella specie, di mutamento giuridico non
 realizzabile  nel  nostro  ordinamento  se non attraverso una pronuncia
 costitutiva del giudice (sentenza  n.  176  del  1973)  -  comporta  la
 dichiarazione  della  illegittimita'  costituzionale  delle  denunciate
 norme, nella parte in cui le  stesse  prevedono  che  la  dispensa  dal
 matrimonio   rato  e  non  consumato,  ottenuta  attraverso  l'apposito
 procedimento amministrativo canonico,  possa  produrre  effetti  civili
 nell'ordinamento dello Stato.
     Resta  in  conseguenza assorbita la questione puntualizzata sub D),
 in ordine alla legittimita' costituzionale dei limiti posti  ai  poteri
 di  cognizione  del giudice dello Stato nello speciale procedimento per
 conferire esecutivita' agli effetti civili al provvedimento di dispensa
 super rato, procedimento che per effetto della presente  pronuncia  non
 ha piu' ragion d'essere.