ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
     nel giudizio di legittimita' costituzionale della  legge  27  marzo
 1980,  n.  112  (Interpretazione  autentica  delle norme concernenti la
 personalita' giuridica e il finanziamento degli istituti  di  patronato
 di  cui al D.L.C.P.S. 29 luglio 1947, n. 804, nonche' integrazioni allo
 stesso decreto), promosso con ordinanza emessa l'11  dicembre 1980  dal
 Giudice  istruttore  del  Tribunale  di Roma, nel procedimento penale a
 carico di Rizzo Giuseppe ed altri, iscritta al  n.    38  del  registro
 ordinanze  1981  e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 83 del 24 marzo 1981.
     Visti l'atto di costituzione di Rizzo Giuseppe ed altri e l'atto di
 intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
     udito nell'udienza pubblica del 15 giugno 1982 il Giudice  relatore
 Giovanni Conso;
     uditi l'avv. Aldo Sandulli per Rizzo Giuseppe ed altri e l'avvocato
 dello  Stato  Piergiorgio  Ferri,  per  il Presidente del Consiglio dei
 ministri.
                           Ritenuto in fatto:
     1.  - L'Ufficio istruzione del Tribunale di Roma procedeva a carico
 di Rizzo Giuseppe, Piazzi Ugo, Feroci Ercole,  Drago  Giuseppe,  Correr
 Ruggero  (ed  altri),  imputati  del  delitto  di  peculato  continuato
 pluriaggravato, perche' " agendo in  concorso  tra  loro  e  con  altre
 persone, ciascuna nella sua qualita' di amministratore dell'Istituto di
 Patronato  per l'Assistenza Sociale (IPAS), Ente pubblico, ai sensi del
 D.L.C.P.S. 29 luglio 1947, n. 804 ...,  con  piu'  atti  esecutivi  del
 medesimo  disegno  criminoso,  distraevano, a profitto proprio e altrui
 vantaggio,  ingenti  somme   di   danaro   di   pertinenza   dell'IPAS,
 disponendone per finalita' estranee ai fini dell'ente".
     Nel  corso  della  istruzione  entrava  in vigore la legge 27 marzo
 1980, n. 112 (" Interpretazione autentica delle  norme  concernenti  la
 personalita'  giuridica  e il finanziamento degli istituti di patronato
 di cui al D.L.C.P.S. 29 luglio 1947, n. 804, nonche' integrazioni  allo
 stesso  decreto")  che,  all'art.  1,  espressamente  stabilisce: " Gli
 istituti di patronato e di  assistenza  sociale,  costituiti  ai  sensi
 dell'art.  2  D.L.C.P.S.  29  luglio  1947,  n. 804, hanno personalita'
 giuridica di diritto privato".
     A  seguito  dell'intervento  di  tale   disciplina,   il   Pubblico
 Ministero,  cui  gli atti del procedimento erano stati trasmessi per la
 requisitoria,  chiedeva  al  Giudice  istruttore  che,  essendo   stata
 disconosciuta,  in  conseguenza della legge interpretativa, la qualita'
 di pubblico ufficiale degli organi (e  dipendenti)  degli  Istituti  di
 patronato,  l'ipotesi  di  reato  originariamente  contestata venisse "
 degradata" nella  imputazione  di  appropriazione  indebita  continuata
 pluriaggravata.
     Il  Giudice  istruttore,  prima  di  procedere  ad  ogni  ulteriore
 attivita', ha sollevato questione di legittimita' costituzionale  della
 citata  legge  27  marzo  1980,  n.    112,  per  "  eccesso  di potere
 legislativo"  e  contrasto  con  l'art.   104,   primo   comma,   della
 Costituzione.
     In ordine al primo vizio denunciato, il giudice a quo rileva che le
 Sezioni  Unite  della  Corte  di  cassazione, sin dal 1958 (sentenza 22
 marzo  1958,  n.  960),  riconobbero  agli  Istituti  di  patronato  la
 specifica   funzione   di   integrare  e  di  rendere  piu'  funzionale
 l'attivita' di enti pubblici, come l'INPS, l'INAIL, l'INAM, etc., nella
 fase  della  concreta  realizzazione  della  previdenza  ed  assistenza
 sociale  obbligatoria.  Tale indirizzo fu mantenuto fermo dalle Sezioni
 Unite con la sentenza 4 aprile 1964, n.  734,  nella  quale,  anzi,  si
 evidenziava   esplicitamente   che  gli  Istituti  di  patronato  hanno
 carattere pubblico, in quanto, " come risulta dall'art.  1  del  citato
 decreto, istituzionalmente perseguono uno scopo di carattere pubblico":
 quello  di provvedere in via esclusiva all'assistenza e alla tutela dei
 lavoratori e dei loro  aventi  causa,  per  il  conseguimento  in  sede
 amministrativa delle prestazioni di qualsiasi genere previste da leggi,
 statuti  e  contratti  regolanti la previdenza e la quiescenza, nonche'
 alla rappresentanza dei lavoratori davanti agli organi di  liquidazione
 di  dette prestazioni o a collegi di conciliazione, prestazioni, tutte,
 dovute in base agli statuti e ai contratti, che si  limitano  sempre  a
 sostituire  o  ad  integrare quelle dovute a norma di legge, alle quali
 non possono essere mai quantitativamente inferiori. Ne consegue che  lo
 scopo  istituzionale  degli  Istituti  di patronato ha, nella sua parte
 principale ed  assistenziale,  carattere  complementare  e  integrativo
 delle  finalita'  di  previdenza e di assistenza sociale, la cui natura
 pubblica e' universalmente ritenuta per avere lo Stato, in  adempimento
 del  precetto  contenuto  nell'art.  38  Cost.,  reso  obbligatorio  il
 conseguimento di esse mediante l'imposizione di determinati  contributi
 e la creazione di appositi enti pubblici (INAIL, INPS e INAM) destinati
 a realizzarle.
     La   tendenza  della  Cassazione  a  qualificare  gli  Istituti  di
 patronato enti pubblici (non economici), prosegue il giudice a quo,  e'
 stata  confermata,  senza  interruzioni,  "per  ultimo" con la sentenza
 delle Sezioni Unite 15 marzo 1979, n.  3113.  Le  Sezioni  Unite  hanno
 utilizzato, per la qualificazione degli Istituti in esame, gli elementi
 sintomatici  propri  di  ogni  qualificazione  della  natura  giuridica
 (pubblica o privata) delle persone  giuridiche:  "  la  costituzione  o
 soppressione  dell'ente  per  diretta  iniziativa  dello  Stato, la sua
 soggezione a piu' o meno intensi controlli pubblici, la  partecipazione
 dello  Stato  alle  spese di gestione, l'assenza di finalita' di lucro,
 l'attribuzione all'ente di funzioni o poteri pubblici, la sua struttura
 organizzativa; elementi dei quali possono ricorrere alcuni soltanto  di
 quelli  esemplificati,  altri  ancora  di volta in volta valorizzabili,
 purche' consentano,  considerati  nel  loro  insieme,  e  per  la  loro
 qualita', ancor piu' che per il loro numero, di ritenere esistente quel
 tipo di rapporto e quelle finalita'".
     Ora,  prosegue  la  decisione  riportata  dal  giudice a quo, dalla
 disciplina legislativa emergono una  serie  di  inequivoci  elementi  i
 quali,  sia  singolarmente  considerati che nel loro insieme, sono piu'
 che sufficienti a  far  inquadrare  gli  Istituti  di  patronato  nella
 categoria  degli  enti  pubblici  non economici, secondo, del resto, il
 costante indirizzo della Corte di cassazione.
     Infatti, gli Istituti di patronato di cui al D.L.C.P.S.  29  luglio
 1947,  n.  804,  pur  se  non  creati  ad opera dello Stato (ma da esso
 tuttavia   sopprimibili),   possono   essere   costituiti    solo    da
 organizzazioni   che   rientrino   fra   quelle  indicate  dalla  legge
 (associazioni nazionali di lavoratori che annoverino nei propri statuti
 finalita' assistenziali: art. 2, primo comma), previa sottoposizione  a
 penetrante  controllo,  non  circoscritto  ad  un  normale riscontro di
 legittimita', ma esteso al merito (approvazione da parte del  Ministero
 per il lavoro e la previdenza sociale: art. 2, secondo comma).
     Inoltre,  poiche'  il  compito  di provvedere all'assistenza e alla
 tutela dei lavoratori e dei loro aventi causa per il conseguimento,  in
 sede   amministrativa,   di   ogni   prestazione,  previdenziale  e  di
 quiescenza, prevista  da  leggi,  statuti  e  contratti,  nonche'  alla
 rappresentanza,  a  tali  fini, dei lavoratori in sede amministrativa e
 arbitrale o conciliativa (chiaramente da inquadrare nell'area dell'art.
 38 della Costituzione), viene dalla legge  (art.  1)  affidato  a  tali
 Istituti  in  via  esclusiva,  con  divieto  per ogni altro soggetto di
 esplicare  qualsiasi  opera  di   mediazione   per   l'assistenza   dei
 lavoratori,  e'  evidente  - dal punto di vista del fine - che lo Stato
 delega agli enti in questione un  compito  che,  per  la  sua  funzione
 generale e per la sua delicatezza, ritiene di pubblico interesse.
     Ulteriore  elemento  sintomatico  emergente  dalla disciplina degli
 Istituti di patronato e' l'assenza di fini di  lucro  (art.  3,  ultimo
 comma),  dovendo  l'attivita' dell'Istituto essere svolta gratuitamente
 nei confronti di tutti i lavoratori, senza alcuna limitazione.
     Non  minore  importanza ha il carattere esclusivamente pubblico del
 finanziamento di tali enti, cui si provvede  mediante  il  prelievo  di
 un'aliquota  percentuale  sul  gettito  dei  contributi incassati dagli
 istituti previdenziali determinata dal Ministro  per  il  lavoro  e  la
 previdenza  sociale  di  concerto  con  il  Ministro del tesoro; questi
 stessi Ministeri provvedono, poi, alla ripartizione fra i vari istituti
 delle somme cosi' affluite alla Tesoreria centrale dello Stato (artt. 4
 e 5); al contempo, gli Istituti  di  patronato  sono  parificati,  agli
 effetti  di  qualsiasi  tributo, alle amministrazioni dello Stato (art.
 8).
     Vari e penetranti, oltre a quello iniziale - concludono le  Sezioni
 Unite  della  Cassazione  -  sono  inoltre  i  controlli  da  parte del
 Ministero del lavoro, cui e' affidata la vigilanza  sugli  Istituti  di
 patronato, all'uopo tenuti a vari obblighi strumentali, e che, nei casi
 piu'  gravi,  possono  essere  sottoposti  a  regime  commissariale,  o
 addirittura sciolti (art. 6).
     La silloge giurisprudenziale ora riportata non costituisce il  solo
 elemento  che fa ritenere gli Istituti in esame enti pubblici: una tale
 qualificazione risulta, infatti, secondo il giudice a quo, anche  dalla
 interpretazione dei competenti organi collegiali dell'ente (a titolo di
 esempio   il   Giudice   istruttore  cita  l'esame  della  proposta  di
 transazione delle cause fra l'IPAS e certi Coluccia e Mangeli, respinta
 dal Comitato esecutivo proprio per il carattere pubblico  dell'ente,  e
 la  seduta  del  Consiglio di amministrazione del 28 luglio 1976, nella
 quale, trattandosi di adottare norme di comportamento  in  presenza  di
 aumento  del  canone  di  locazione  delle  sedi occupate dall'ente nel
 territorio nazionale, l'IPAS e' definita " Pubblica amministrazione").
     Pur non essendosi mai dubitato della natura di  ente  pubblico  non
 economico  degli  Istituti di patronato (il giudice a quo cita anche il
 parere dell'8 ottobre 1953, n. 623, emesso dalla  seconda  sezione  del
 Consiglio  di  Stato),  e'  intervenuta la legge n. 112 del 1980, che "
 qualificandosi di "interpretazione autentica" ha  stabilito  che  detti
 istituti  hanno personalita' giuridica di diritto privato. Consegue che
 la legge interpretativa enunciando un apprezzamento  interpretativo  di
 un  precetto  anteriore  (di  cui,  per  definizione,  "fa intendere il
 senso") non puo' avere che efficacia retroattiva".
     In particolare, con riguardo al procedimento  penale  in  corso  la
 conseguenza  e'  che,  essendosi  attribuita agli Istituti di patronato
 personalita' giuridica di diritto privato, i soggetti che ne  hanno  la
 rappresentanza  o  l'amministrazione  non rivestono piu' la qualita' di
 pubblici ufficiali o  di  incaricati  di  pubblico  servizio,  qualita'
 soggettiva " indispensabile per l'integrazione del fatto reato previsto
 nell'art.  314 c.p. (la cui sanzione e' stabilita nella reclusione da 3
 a 10 anni e nella multa non inferiore a L.40.000), ricorrendo,  invece,
 ove   si   siano  verificate  appropriazioni  o  distrazioni  di  somme
 appartenenti all'ente da parte di chi, per ragione del  suo  ufficio  o
 servizio, aveva il possesso di tali somme, eventualmente, la meno grave
 fattispecie  criminosa  dell'appropriazione  indebita (la cui sanzione,
 all'art. 646 c.p., e' stabilita nella reclusione fino a 3 anni e  nella
 multa fino a L.  400.000)".
     Poste  queste  premesse,  il  giudice  a  quo  ritiene  la  legge "
 interpretativa" n. 112 del 1980 contrastante  "  sia  con  le  esigenze
 razionali del diritto, sia con i principi costituzionali ".
     Una  prima  critica il Giudice istruttore muove alla qualificazione
 attribuita dal legislatore al testo  normativo  in  esame:  presupposto
 dell'interpretazione   autentica   e',   infatti,  una  incertezza  sul
 significato del precetto che,  rendendo  possibile  una  pluralita'  di
 interpretazioni  divergenti,  " ostacola il comportamento a cui debbono
 uniformarsi i destinatari del precetto medesimo". Nulla di cio'  si  e'
 verificato  nel  caso  in  esame  stante  l'assoluta  uniformita' della
 giurisprudenza in  ordine  alla  natura  giuridica  degli  Istituti  di
 patronato, sempre considerati enti pubblici (non economici).
     Peraltro,  il  fatto  stesso  che il " legislatore abbia sentito la
 necessita' di fissare l'apprezzamento interpretativo" del D.L.C.P.S. n.
 804 del 1947 ad oltre trent'anni dalla sua  entrata  in  vigore  e'  il
 chiaro   sintomo   (puntualmente   emergente  dai  lavori  preparatori)
 dell'assurdita' della qualificazione di natura interpretativa conferita
 alla legge n. 112 del 1980, natura  che  appare  peraltro  puntualmente
 contraddetta  dall'art.  5 della stessa legge che fa salve le posizioni
 giuridiche ed  economiche  acquisite  dal  personale  dipendente  degli
 Istituti  di  patronato  e  di  assistenza  sociale  in  riferimento ai
 benefici maturati in base alle norme vigenti  per  il  personale  degli
 enti pubblici.
     Alla  stregua  di  tali  rilievi, prosegue il giudice a quo, sembra
 fondato il sospetto che il legislatore " si sia reso  inosservante  dei
 precetti  legislativi  rivoltigli dalla Costituzione, ovvero desumibili
 dai principi generali, la cui violazione configura l'eccesso di  potere
 legislativo.  Eccesso  di  potere che,... in diritto amministrativo, e'
 quel  vizio  di  legittimita'  incidente  nella   parte   discrezionale
 dell'attivita', ravvisabile, come autorevolmente sostenuto in dottrina,
 anche  sul  piano  legislativo  allorche' sussista l'illegittimita' del
 fine della  legge,  in  quanto  diverso  da  quello  costituzionalmente
 previsto.  L'esistenza  di  un tale vizio puo' desumersi dall'esame dei
 comportamenti seguiti per la formazione della volonta' legislativa" e "
 dall'eventuale divergenza delle  sue  disposizioni  in  relazione  alla
 situazione  di  fatto cui si intendeva provvedere, e cio' allo scopo di
 poter rilevare indizi  o  presunzioni  sufficienti  a  far  ritenere  e
 fondatamente  sospettare la non congruenza del fatto stesso rispetto al
 fine".
     Con riferimento alla fattispecie in esame, se, in sede di sindacato
 costituzionale, si desumesse dalle contraddizioni  fra  parte  e  parte
 dello   stesso   testo   normativo,  ovvero  dalle  contraddizioni  tra
 quest'ultimo e le circostanze  di  pubblico  interesse  ("asseritamente
 ritenute  esistenti")  che  hanno  determinato  il  legislatore  alla "
 interpretazione autentica" della norma, l'elusione del fine  prescritto
 (e  cioe', il far venir meno l'incertezza del significato normativo del
 precetto), si evidenzierebbe l'irragionevolezza della  "  statuizione",
 sotto  il  profilo  della  presunzione  del contrasto con tale pubblico
 interesse (e cioe', sotto la specie, appunto, dell'eccesso di potere).
     In proposito, conclude sul punto il giudice a quo, va  sottolineato
 che,  se, in sede di sindacato di legittimita' costituzionale, la Corte
 non puo' " rifare" la legge esaminando il merito di  essa,  puo'  pero'
 certamente   controllare  -  ab  externo  -  "  la  regolarita'"  della
 formazione dell'atto; e tale controllo non puo' che  avere  ad  oggetto
 l'esame  della  "  logicita'"  della  "  legge",  mediante  l'eventuale
 individuazione di vizi logici nell'iter formativo della  legge  stessa.
 Anche a tal fine, infatti, sono attribuiti alla Corte poteri istruttori
 in  grado  di  ricostruire  i presupposti di fatto sui quali si basa il
 provvedimento legislativo (art. 13 legge 11 marzo 1953, n. 87).
     "Dai  motivi  posti  a  base   della   prospettata   illegittimita'
 costituzionale della legge 27 marzo 1980, n. 112, per eccesso di potere
 legislativo  discendono",  poi,  secondo  il giudice a quo, " ulteriori
 perplessita' sulla compatibilita' tra tale norma e  l'art.  104,  primo
 comma, Cost.".
     E, infatti, la trentennale uniformita' delle magistrature superiori
 nel  riconoscere  agli Istituti di patronato la natura di enti pubblici
 non economici (senza che il legislatore sentisse, per l'intero arco  di
 tempo  corrente  dal  1947  al  1980, la necessita' o l'opportunita' di
 chiarire, con atto di interpretazione autentica, il significato  del  "
 precetto",    ed    avallando,    anzi,   con   la   propria   inerzia,
 l'interpretazione  giurisprudenziale)  fa  ritenere  che  la  specifica
 destinazione  della  "  disposizione  legislativa"  impugnata sia stata
 essenzialmente quella di  neutralizzare  gli  effetti  delle  decisioni
 giudiziarie  nel  procedimento in corso, con conseguente violazione del
 fondamentale principio della divisione e  coordinamento  tra  i  poteri
 dello Stato.
     Nella  vigente  Costituzione repubblicana non puo' trovare ingresso
 il postulato della " onnipotenza" del legislatore: quest'ultimo non  si
 confonde  ed  identifica  con lo Stato, posto che il potere statuale si
 ripartisce tra gli organi legislativo, giudiziario ed amministrativo, e
 tale ripartizione comporta dei limiti nell'esercizio  delle  rispettive
 funzioni,  sul  cui  corretto  esercizio si fonda sia l'autorita' dello
 Stato che la liberta' dei cittadini.
     "Da quanto sopra rilevato" - conclude il Giudice istruttore - "  si
 evidenzia il sospetto di incostituzionalita' della l. 27 marzo 1980, n.
 112":   "   per   eccesso   di   potere  legislativo,  in  quanto,  pur
 qualificandosi la legge  de  qua  di  interpretazione  autentica,  tale
 disposizione  appare in contrasto con quella che dovrebbe essere la sua
 destinazione e cio' sia perche' non ricorre il presupposto  consistente
 nell'incertezza  della  legge antecedente e sia perche' sotto specie di
 interpretazione si sono introdotte norme  in  realta'  innovative,  per
 rendere  meno  appariscente  l'innovazione  stessa";  "  in riferimento
 all'art. 104, primo comma, Cost. poiche' per mezzo della retroattivita'
 propria della interpretazione autentica, appare esercitata  dal  potere
 legislativo  una indebita ingerenza nel procedimento in corso,... cosi'
 da minacciare l'indipendenza dell'organo giurisdizionale".
     2. - Si sono  costituiti  nel  giudizio  avanti  alla  Corte  Rizzo
 Giuseppe, D'Erme Mario, Urso Giuseppe, Palombi Gino, Sgobbino Luciano e
 Feroci  Ercole,  tutti  rappresentati  dall'avv.  prof.  Aldo Sandulli,
 chiedendo che la questione venga dichiarata non fondata.
     Secondo la difesa  degli  imputati  esisterebbero  univoci  sintomi
 rivelatori  del  carattere " privato" degli Istituti di patronato anche
 prima della legge n. 112 del 1980;  e  cio'  nonostante  l'interesse  "
 sociale"  delle  finalita'  perseguite  che  aveva  "  sollecitato"  la
 previsione della  gratuita'  (a  base,  peraltro,  mutualistica)  delle
 prestazioni,  la  vigilanza  governativa,  la  sovraintendenza,  sempre
 governativa, sulla ripartizione dei fondi, sulla  gestione  di  essi  e
 sull'attivita'  esplicata:  una  vigilanza  che  si  inseriva in quello
 stesso ordine  di  idee  di  salvaguardia  degli  assistiti  che  aveva
 suggerito  il  divieto  (penalmente sanzionato) delle agenzie private e
 dei procaccianti.
     Proprio  nella  direzione  della  natura  privata degli istituti in
 esame si mosse immediatamente la dottrina, manifestando  con  chiarezza
 il  proprio  dissenso  nei  confronti  di  quella  giurisprudenza della
 Cassazione che - preceduta da un vecchio (e quasi non motivato)  parere
 del  Consiglio di Stato (sezione II, 8 luglio 1953, n. 623), fondata su
 schemi ormai superati e fuorviata anche dall'erroneo convincimento (poi
 smentito dalla decisione della Corte costituzionale n.   17  del  1970)
 che  le  attribuzioni  loro  proprie fossero riservate agli Istituti di
 patronato in via esclusiva - si discosto' dalla motivata sentenza della
 VI sezione, 16 ottobre 1952, n. 725, classificandoli come enti pubblici
 e rimanendo, poi, praticamente ancorata a tale orientamento.
     Tutti gli argomenti sui quali e' basata la costruzione della natura
 pubblica degli istituti di patronato  si  rivelerebbero  insufficienti:
 cosi'  quello del fine pubblico dell'assistenza (smentito dall'art. 38,
 ultimo comma, Cost.,  secondo  cui  l'assistenza  privata  e'  libera),
 quello  della  vigilanza  statale  (comune  a  molti  soggetti privati:
 banche,  compagnie  di  assicurazione,  cooperative,  case   di   cura,
 esercenti  professioni  e  servizi  di  interesse  pubblico  e sociale,
 istituti di istruzione riconosciuti, etc.), del finanziamento  pubblico
 (che  nella  specie non puo' qualificarsi tale e che, in ogni caso, non
 e' - in via generale  -sufficiente  a  far  considerare  un  ente  come
 pubblico),  della  parificazione  tributaria alle amministrazioni dello
 Stato (elemento assolutamente  marginale  e  proprio  anche  di  alcuni
 soggetti privati).
     Per   superare   "  una  situazione  anomala  (determinata  da  una
 giurisprudenza, poco  attendibile  e  disarmonica  rispetto  al  quadro
 generale,   la  quale  aveva  manifestamente  deviato  dalla  direttiva
 legislativa)" sarebbe intervenuta la legge n. 112  del  1980,  fornendo
 una  parola  chiarificatrice  sulla natura degli Istituti di patronato,
 con riguardo ai quali l'anomalia e l'incertezza continuavano ad  essere
 favorite  dall'atteggiamento  della  Cassazione  che,  col suo dissenso
 rispetto alla interpretazione individuata dalla dottrina, aveva  finito
 per  alimentare  un  prolungato  contenzioso.  Al  contempo,  l'"enorme
 pullulare,  negli  ultimi  tempi,   di   Istituti   di   patronato,   e
 conseguentemente,  di  un  contenzioso  in  buona  parte  artificioso e
 strumentalizzato a fini di  proselitismo,  rendeva  indispensabile  una
 corretta  individuazione  della  natura giuridica di tali enti da parte
 dello stesso legislatore, soprattutto con riguardo ad istituti  nati  e
 concepiti  come  soggetti  privati,  in  un  momento  nel quale vengono
 restituiti alla condizione privata molti enti (a base corporativa e no)
 nati e vissuti come enti pubblici (artt. 114, 115  D.P.R.  n.  616  del
 1977)".
     La  natura interpretativa della legge n. 112 del 1980 risulterebbe,
 sempre secondo la difesa delle parti private, dai  lavori  preparatori,
 nei   quali   puntualmente  emergerebbe  il  "  carattere  rilevante  e
 normativo"  dello  stesso  titolo   della   legge,   dal   quale   puo'
 conseguentemente   desumersi   che   il  legislatore  volle  attribuire
 carattere  retroattivo  a  quella  parte   del   contenuto   precettivo
 (soprattutto:   l'art.  1)  che  veniva  a  precisare  la  sostanza  di
 disposizioni gia' presenti nel D.L.C.P.S.  del  1947:  si  spiegherebbe
 cosi'  perche'  la  Commissione lavoro della Camera dei deputati, nella
 seduta del 18 marzo 1980, ebbe a  respingere  un  emendamento  proposto
 dall'on.  Galli,  col  quale  si  intendeva  aggiungere (subito dopo le
 parole " hanno personalita' giuridica di diritto privato") le ulteriori
 parole " con decorrenza dalla presente legge".
     Ne'  varrebbe opporre che il titolo della legge non e' decisivo (si
 cita la sentenza n. 5330 del 1980 delle Sezioni Unite della  Cassazione
 che  ha attribuito carattere " innovativo" e non " interpretativo" alla
 normativa impugnata), giacche'  la  volonta'  del  legislatore  risulta
 puntualmente  dai  lavori  preparatori,  essendo stata ribadita durante
 tutto l'iter parlamentare, fino al punto che fu respinto, con votazione
 ad hoc, un emendamento aggiuntivo che tendeva a riconoscere alla  legge
 efficacia solo per l'avvenire.
     Non  vi  e'  dubbio,  pertanto, prosegue la difesa, che entrambe le
 Camere  si  espressero   esplicitamente   nel   senso   del   carattere
 interpretativo   e,   quindi,  retroattivo  della  natura  privatistica
 riconosciuta agli Istituti di patronato. Ad ogni  modo,  l'affermazione
 che  il titolo della legge " non ha valore giuridicamente obbligatorio"
 non comporta di dover negare addirittura ogni valore interpretativo  al
 titolo   dato   al   testo   legislativo  nell'atto  stesso  della  sua
 presentazione al Parlamento, ed,  ancor  piu',  al  titolo  discusso  e
 approvato   dallo  stesso  Parlamento;  specialmente,  poi,  quando  il
 significato di esso non si  presenti  "  in  contrasto"  col  testo  (e
 percio'  "  escluso"  da  questo),  ma  anzi risulti conforme agli atti
 parlamentari.
     Ne', peraltro, per negare il carattere di legge di  interpretazione
 autentica  all'art.  1  -  letto  alla  luce  del  titolo della legge e
 dell'intenzione del legislatore - potrebbero soccorrere gli  aspetti  "
 integrativi  " espressi negli altri articoli e negli stessi artt. 4 e 5
 (che gia' esistevano nella originaria proposta di  legge).  Ancor  meno
 sarebbe   sufficiente   per  far  negare  il  carattere  interpretativo
 dell'art.  1   l'enunciazione   contenuta   in   alcune   dichiarazioni
 dell'opposizione  parlamentare  (ed  enfatizzati  dalla  Cassazione) in
 merito all'assurdita' di un'interpretazione  autentica  che  interviene
 dopo  trent'anni  dall'entrata  in vigore della legge: la legge - ancor
 piu' del giudicato - puo' fare infatti de  albo  nigrum  e  configurare
 come  interpretative  (ma non e' comunque questo il caso della legge n.
 112 del 1980)  disposizioni  in  netta  dissonanza  dalla  legge  da  "
 interpretare",  al  fine  di  imprimere  ad  esse efficacia retroattiva
 (fuori della materia penale, si aggiunge, la Costituzione  non  esclude
 affatto la possibilita' che le leggi abbiano una tale efficacia).
     Passando  poi  all'esame del vizio di eccesso di potere legislativo
 denunciato dal giudice a quo, la  difesa  degli  imputati  rileva  che,
 mentre  da  un  lato  non e' affatto contraddittoria (e ancor meno, per
 cio'  solo,  illegittima)  una  legge   la   quale,   nell'interpretare
 retroattivamente  la legge precedente, accompagni al regime in tal modo
 instaurato disposizioni, di  adattamento  e  integrative,  a  carattere
 sicuramente   innovativo   nei  riguardi  dell'assetto  prodotto  dalla
 giurisprudenza affermatasi, dall'altro nessun  precetto  costituzionale
 prescrive  che  le  leggi  retroattive (e cosi' pure quelle qualificate
 come interpretative) non possano perseguire altro fine se non quello di
 dissipare le incertezze esistenti nella  giurisprudenza  delle  supreme
 magistrature  giacche'  le  leggi  interpretative  "  possono e debbono
 essere emanate al fine di ricondurre la giurisprudenza entro  i  binari
 della  volonta'  legislativa, se e' vero che nello Stato democratico la
 legge si colloca al di  sopra  della  funzione  giustiziale  (art.  101
 Cost.)".
     "Del  tutto  gratuita  (e  per  di  piu' incomprensibile, oltreche'
 contraddittoria e percio' inammissibile)"  sarebbe,  poi,  stando  alla
 difesa  degli  imputati,  l'affermazione  secondo  cui, sotto specie di
 interpretazione, si sarebbero introdotte nella legge  denunciata  norme
 in  realta'  innovative,  per  rendere  meno appariscente l'innovazione
 stessa.
     A proposito, infine, della pretesa violazione dell'art.  104, primo
 comma,  della  Costituzione,   la   difesa   rileva   come   la   Corte
 costituzionale  ha  avuto occasione di affermare, nella sentenza n. 118
 del 1957, che non e' esatto che l'emanazione  di  leggi  interpretative
 incida  necessariamente  sul principio della divisione dei poteri e che
 interferisca nella sfera del  potere  giudiziario.    L'interpretazione
 autentica  obbliga  tutti  i  giudici  ad  applicare  ex tunc una legge
 anteriore nel senso indicato dalla  nuova  legge  ed  ogni  giudice  e'
 obbligato,  dalla stessa Costituzione, a conformarsi ad essa. In simili
 casi non si realizza,  percio',  una  violazione  dell'art.  104  della
 Costituzione,  "  essendo  il  giudice sottoposto, per regola generale,
 alla legge".  Solo  quando  il  legislatore  pretendesse  di  riformare
 direttamente un singolo giudicato o di dettare norme retroattive per un
 singolo processo in corso (e non anche per tutti i possibili processi),
 conclude la difesa, potrebbe configurarsi una invasione della sfera del
 potere giudiziario.
     In  data 2 giugno 1982 la difesa degli imputati ha depositato delle
 note aggiuntive con le quali  contesta  la  rilevanza  delle  questioni
 sollevate dal Giudice istruttore del Tribunale di Roma.
     Si  deduce al riguardo: "nel richiamare il principio costituzionale
 di legalita' (art. 25 Cost.),  nonche'  specialmente  le  regole  sulla
 successione  delle  leggi penali nel tempo, contenute nell'art. 2 c.p.,
 ispirate, ognuna  e  tutte,  al  principio  del  favor  rei...  ci  sia
 consentito  richiamare... l'acuto rilievo" - contenuto in una nota alla
 sentenza della Corte costituzionale n. 62 del 1979 - " secondo il quale
 l'estensione, agli effetti delle pronuncie di accoglimento della  Corte
 riflettenti  norme  incriminatrici,  dei  precetti espressi nell'art. 2
 c.p.,   a   proposito   degli   effetti   dell'abrogazione   di   norme
 incriminatrici,  e'  argomentabile  anche  dal fatto che l'ultimo comma
 dell'art.  2  -formulato  in  un  tempo  in  cui   non   era   prevista
 l'invalidazione  e  caducazione  delle leggi per invalidita' - equipara
 alla successione delle fonti talune forme di  caducazione  della  fonte
 (ipotesi  del decreto legge non convertito), cui si potrebbe assimilare
 la dichiarazione di  illegittimita'  costituzionale".  E  -aggiunge  la
 difesa  -  l'equiparazione  opera  non solo con riguardo al primo comma
 dell'art.  2  (norma  di  favore  anteriore  al  fatto)  ma  anche  con
 riferimento  ai  commi  successivi  (norme  di  favore  sopravvenute al
 fatto).
     Proprio appellandosi all'art. 25 della Costituzione ed  all'art.  2
 c.p.,  la Corte costituzionale ha costantemente affermato - conclude la
 difesa - la necessaria irrilevanza delle questioni di costituzionalita'
 sollevate nei confronti  delle  disposizioni  penalmente  meno  severe,
 dichiarando  " in assoluto" (vengono citate le sentenze n. 62 del 1969,
 n. 26 del 1975, n. 85 del 1976, nn. 42 e 122 del 1977, n. 91 del  1979,
 nn. 73 e 108 del 1981) inammissibili le questioni stesse.
     3.  -  E pure intervenuta la Presidenza del Consiglio dei ministri,
 rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato,  chiedendo
 che la questione sia dichiarata non fondata.
     Secondo  l'Avvocatura,  "  i  pur  comprensibili  appunti mossi dal
 giudice a  quo  all'opportunita'  e  necessita'  di  emanare  la  legge
 interpretativa" non sembra siano in grado di inficiarne la validita' e,
 tanto  meno, la rispondenza al dettato costituzionale. Se ne deduce che
 l'adozione di siffatte disposizioni  normative  "  rientra  pur  sempre
 nell'ambito  pienamente  discrezionale  e  insindacabile  dei poteri di
 competenza del legislatore".   D'altro  canto,  conclude  l'Avvocatura,
 l'effetto   retroattivo,   proprio  delle  leggi  qualificate  come  di
 interpretazione autentica, non puo' che discendere automaticamente, per
 la stessa preminente natura di tali tipi di atti  normativi  ad  essere
 produttori  di  mutamenti  nei  procedimenti  in  corso, senza che cio'
 comporti violazione  del  principio  riguardante  l'indipendenza  della
 Magistratura.
                         Considerato in diritto:
     1.  -  Il  Giudice  istruttore  del  Tribunale  di Roma sottopone a
 giudizio di legittimita' costituzionale la legge 27 marzo 1980, n. 112,
 prospettando, in primo luogo,  l'esistenza  di  un  eccesso  di  potere
 legislativo  per " illegittimita' del fine, in quanto diverso da quello
 costituzionalmente previsto", e, in secondo luogo,  l'esistenza  di  un
 contrasto  con  l'art. 104, primo comma, Cost.. Quest'ultimo profilo si
 sostanzia in  un  sospetto  di  "  indebita  ingerenza"  da  parte  del
 legislatore  "  nel  procedimento  in  corso" davanti al giudice a quo,
 ingerenza  diretta  a  "  neutralizzare  gli  effetti  delle  decisioni
 pronunziate dall'autorita' giudiziaria" in tale procedimento (emissione
 di  mandati  di  cattura  per  peculato  continuato  pluriaggravato nei
 confronti di  cinque  amministratori  dell'Istituto  di  Patronato  per
 l'Assistenza  Sociale,  costituito  ai  sensi  dell'art.  2 del decreto
 legislativo del Capo Provvisorio dello Stato 29 luglio 1947, n. 804,  e
 a  tale stregua ritenuto di diritto pubblico). Trattasi, invero, di una
 legge sopraggiunta all'instaurazione del procedimento in  questione  e,
 piu'  esattamente,  alla  contestazione  dell'addebito  di  concorso in
 peculato continuato pluriaggravato tramite i mandati di cattura  dianzi
 ricordati.  Per  maggior  puntualita',  e' sufficiente sottolineare che
 l'iter parlamentare della legge n. 112 del 1980 - il cui titolo reca  "
 Interpretazione  autentica  delle  norme  concernenti  la  personalita'
 giuridica  e  il  finanziamento  degli  istituti  di  patronato  e   di
 assistenza  sociale  di cui al decreto legislativo del Capo provvisorio
 dello Stato 29 luglio 1947, n. 804, nonche'  integrazioni  allo  stesso
 decreto"  e  nella quale, tra l'altro, si stabilisce che " gli istituti
 di patronato e di assistenza sociale costituiti ai sensi" del  predetto
 decreto  "  hanno personalita' giuridica di diritto privato" (art. 1) -
 aveva preso l'avvio da un disegno presentato alla Presidenza del Senato
 il 5 dicembre 1979, a  meno  di  un  mese  dall'esecuzione  dei  cinque
 mandati  di  cattura  (8 e 9 novembre 1979). Essendo stata concessa nel
 frattempo la liberta' provvisoria, il primo a darsi carico della  nuova
 legge era il P.M.  all'atto della requisitoria depositata nella fase di
 chiusura   dell'istruzione   formale,  cosi'  da  chiedere  al  Giudice
 istruttore il rinvio a giudizio degli  imputati  previa  derubricazione
 dell'imputazione  da  concorso  in peculato continuato pluriaggravato a
 concorso  in  appropriazione  indebita  continuata  pluriaggravata.  Di
 fronte  a  tale  richiesta,  i dubbi di legittimita' sopra sintetizzati
 inducevano il Giudice istruttore a pronunciare l'ordinanza in epigrafe.
     2.  -  La difesa delle parti private, vale a dire di alcuni fra gli
 imputati nel procedimento principale, eccepisce, con le  note  aggiunte
 alle  deduzioni  contenute  nell'atto  di  costituzione,  la  manifesta
 irrilevanza della questione sollevata dal giudice a quo, e cio' perche'
 ne  risulterebbe  coinvolta  una  normativa  penale  che,  per   essere
 sopravvenuta  al  fatto  in  termini  maggiormente  favorevoli  al reo,
 sarebbe sempre e comunque da applicare, in  forza  dell'art.  2,  terzo
 comma,  c.p.,  nei procedimenti penali non ancora definiti con sentenza
 irrevocabile.
     Nonostante  i  richiami  alla  giurisprudenza  di   questa   Corte,
 giurisprudenza  qualificata " costante" nel dichiarare inammissibili le
 questioni  di  costituzionalita'  "  sollevate  nei   confronti   delle
 disposizioni penalmente meno severe", il problema presenta nella specie
 connotati  tali  da  non  permettere  automatiche  deduzioni  in ordine
 all'applicabilita' dell'art. 2, terzo comma, c.p. Infatti - poiche'  la
 legge   n.  112  del  1980  non  contiene  disposizioni  incriminatrici
 strettamente intese, cosi' da non potersi in nessuna  delle  sue  parti
 definire  propriamente come legge penale - ogni sua eventuale incidenza
 nella strutturazione di una determinata figura criminosa,  sotto  forma
 di  supporto  ad  un elemento normativo della relativa fattispecie (nel
 caso concreto, appropriazione indebita anziche'  peculato),  impone  di
 verificare  se  la  normativa  in  questione  sia  o  no  riconducibile
 nell'ambito di applicazione dell'art. 2  c.p.:    un'indagine,  questa,
 riservata al giudice penale.
     Si  potrebbe,  se  mai, osservare che il giudice a quo, evitando di
 prendere esplicita posizione sui rapporti tra la  norma  incriminatrice
 del  peculato (o, all'inverso, dell'appropriazione indebita) e la norma
 sulla natura giuridica dell'IPAS, non avrebbe assolto  l'onere  di  far
 emergere  l'utilita'  della  decisione  da  lui  chiesta alla Corte. Ma
 l'ordinanza, con le sue incertezze  ed  oscillazioni,  sulle  quali  si
 tornera'  fra poco, non consente di affermare che il Giudice istruttore
 del Tribunale di Roma abbia  escluso  la  soluzione  piu'  restrittiva,
 contraria  cioe'  a ricomprendere nella sfera dell'art. 2 c.p. la norma
 sulla natura giuridica dell'ente.
     3. - La questione e', comunque,  da  dichiarare  inammissibile  per
 altra  ragione,  emergente  dai  modi  stessi della sua prospettazione.
 Essa, infatti, non risulta debitamente posta sotto il profilo  formale,
 per l'insufficiente specificazione del thema decidendi.
     A   rivelarsi  insufficiente  non  e'  tanto  l'individuazione  dei
 parametri costituzionali, anche se - sotto il profilo, prioritariamente
 invocato, dell'eccesso di potere  legislativo  -  nessuna  norma  della
 Costituzione   risulta   indicata   in   modo   particolare,  essendosi
 l'ordinanza di rimessione limitata a denunciare un  generico  contrasto
 "sia  con  le  esigenze  razionali  del  diritto,  sia  con  i principi
 costituzionali", ed  anche  se  sotto  il  profilo,  conseguenzialmente
 dedotto, dell'ingerenza nell'attivita' della magistratura - l'art. 104,
 primo  comma, Cost. sembra richiamato in funzione dei soli rapporti tra
 la legge denunciata ed il procedimento in corso davanti  al  giudice  a
 quo. Bastera' ricordare, al primo proposito, che, in piu' occasioni, di
 fronte  ad  una  generica  censura di contrasto con i principi generali
 dell'ordinamento giuridico e con  quelli  del  sistema  costituzionale,
 questa Corte ha ritenuto possibile ricercare ed eventualmente ritrovare
 nel  contesto  dell'ordinanza  il concreto significato della censura in
 tal modo proposta (v., ad esempio, le sentenze n. 87 del  1963,  n.  40
 del  1964,  n.  12  del 1965), e, al secondo proposito, che non si puo'
 escludere  a  priori  l'esistenza di altri analoghi procedimenti e che,
 comunque, un'eventuale declaratoria di illegittimita',  con  l'incidere
 negativamente  sulla  legge denunciata, sarebbe pur sempre suscettibile
 di piu' larghi coinvolgimenti.
     Insufficiente  e',   invece,   l'individuazione   della   normativa
 ordinaria  sottoposta  al vaglio di costituzionalita', ma cio' non gia'
 perche' l'ordinanza fa riferimento ad una legge indicata globalmente (i
 precedenti  nel  senso  della  ritenuta  ammissibilita'  di   questioni
 sollevate  in  ordine  ad  un  intero testo legislativo non fanno certo
 difetto nella giurisprudenza  della  Corte:  in  aggiunta  ai  richiami
 operati, sia pure ex adverso, dalla recente sentenza n. 30 del 1982, si
 vedano  le sentenze n. 118 del 1957, n. 77 del 1964, n.  175 del 1974 e
 n. 152 del 1982, particolarmente significative  in  quanto  concernenti
 leggi qualificate di interpretazione autentica e, come tali, sottoposte
 ciascuna  a  giudizio  di legittimita' nel suo insieme), bensi' perche'
 l'ordinanza,  oscillando  continuamente  tra  il  piano   della   legge
 considerata per intero e il piano della " disposizione" della " norma",
 impedisce di cogliere gli esatti termini della questione.
     Anche  a  voler  sottointendere  che,  seppure  mai indicata con la
 relativa numerazione, la " disposizione" o  la  "norma"  specificamente
 enucleabile  dal  complesso dei cinque articoli costituenti la legge n.
 112 del 1980 non potrebbe che essere l'art. 1, imperniato, com'esso e',
 sulla personalita' giuridica  di  diritto  privato  degli  istituti  di
 patronato  e  di assistenza sociale, resta insuperabile l'ambiguita' di
 fondo per cui la questione pare coinvolgere ora la intera " legge"  ora
 la " disposizione" o " norma" singolarmente considerata.
     D'altro  canto,  l'ordinanza  non  contesta  la  legittimita' della
 privatizzazione ex nunc degli istituti contemplati nell'art. 1 donde la
 conseguenza che persino questa "  disposizione"  o  "  norma"  potrebbe
 sfuggire  al  vaglio di costituzionalita', salvo che per la parte della
 sua ritenuta efficacia retroattiva.
     A complicare ulteriormente il  quadro  normativo  che,  cosi'  come
 l'ordinanza   si   presenta   formulata,   e'  di  ostacolo  all'esatta
 individuazione dell'oggetto della presente questione,  si  aggiunge  la
 circostanza che la ritenuta efficacia retroattiva, integrante l'eccesso
 di potere legislativo e l'invasione della sfera riservata all'autorita'
 giudiziaria,  non  emerge  in  alcun  modo ne' dall'art. 1 ne' da altri
 articoli della legge n. 112 del 1980, ma viene ricavata dal  titolo  di
 essa, la' dove esplicitamente si parla di " interpretazione autentica".
 Il  che, a prescindere dal problema dei rapporti tra titolo e contenuto
 delle leggi,  significa  reiterare  sotto  altra  prospettiva  i  dubbi
 sull'estensione  dell'oggetto della questione, restando da chiarire, in
 mancanza  di  un  'univoca  presa  di   posizione   dell'ordinanza   di
 rimessione,  se  l'interpretazione autentica del titolo investirebbe la
 legge in tutto o solamente in parte e, nella  seconda  piu'  verosimile
 eventualita'  (il  titolo  parla  anche di " integrazioni" al decreto e
 l'ordinanza di " norme in realta' innovative"), in quali parti.
     Ne' a dissipare le incertezze vale l'insistito,  cruciale,  ricorso
 all'ipotesi   dell'eccesso   di  potere  dell'atto  legislativo:    non
 necessariamente questo  tipo  di  vizio  comporta  l'11    legittimita'
 dell'intero  atto,  ben  potendosi riscontrare, nei casi di atti le cui
 prescrizioni siano scindibili, una sua incidenza soltanto parziale.
     Conclusivamente,  compete  al  giudice  che  solleva  la  questione
 individuare con precisione l'oggetto della censura. Come compete a  lui
 puntualizzare il concreto profilarsi dei rapporti tra due o piu' leggi,
 oppure  tra  due  o  piu'  disposizioni, sulla base delle regole che ne
 governano la successione, ivi compreso, eventualmente, l'art. 2 c.p.