ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
     nei  giudizi  riuniti  di legittimita' costituzionale dell'art.  13
 della legge 12 agosto 1962 n. 1338 (disposizioni per  il  miglioramento
 dei   trattamenti   di  pensione  dell'assicurazione  obbligatoria  per
 l'invalidita', la vecchiaia e i superstiti) promossi  con  le  seguenti
 ordinanze:
     1)  ordinanza  emessa  il 31 gennaio 1978 dal Pretore di Arezzo nel
 procedimento civile vertente tra Narizzano Umberto e  l'INPS,  iscritta
 al  n.  149  del  registro  ordinanze  1978 e pubblicata nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 154 dell'anno 1978;
     2) ordinanza emessa il 18 ottobre 1979 dal Pretore  di  Padova  nel
 procedimento  civile vertente tra Vettore Iolanda e l'INPS, iscritta al
 n.  989  del  registro  ordinanze  1979  e  pubblicata  nella  Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 64 dell'anno 1980;
     3)  ordinanza emessa il 22 ottobre 1980 dal Tribunale di Torino nel
 procedimento civile vertente tra INPS  e  Baudo  Maddalena  Giuseppina,
 iscritta  al  n.  827  del  registro  ordinanze 1980 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 56 dell'anno 1981;
     4) ordinanza emessa il 27 maggio 1981 dal  Pretore  di  Torino  nel
 procedimento  civile  vertente  tra  Lamarca  Salvatore e clinica Pinna
 Pintor ed altro, iscritta al n.  599  del  registro  ordinanze  1981  e
 pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale della Repubblica n. 12 dell'anno
 1982.
     Visti gli atti di costituzione dell'INPS  e  di  Narizzano  Umberto
 nonche'  gli  atti  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
     udito nell'udienza pubblica del 26 aprile 1983 il Giudice  relatore
 Prof. Giuseppe Ferrari;
     uditi  l'avv.  Gerardo  Piciche'  per  l'INPS e l'Avvocato generale
 dello Stato Vito Cavalli, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
                           Ritenuto in fatto:
     1. - In un giudizio promosso da tale Narizzano Umberto,  che  aveva
 convenuto  in  giudizio l'INPS per sentir affermare il suo diritto alla
 costituzione della rendita di cui all'art. 13  della  legge  12  agosto
 1962, n.  1338, per il periodo dall'1 settembre 1945 al 31 maggio 1948,
 con  la  conseguente  condanna  dell'Istituto  all'accreditamento della
 relativa riserva matematica, il Pretore  di  Arezzo,  rilevato  che  il
 ricorrente  non  aveva  prodotto alcun documento di data certa circa la
 durata del rapporto di lavoro  e  l'ammontare  della  retribuzione,  ha
 sollevato,  in  riferimento  agli  artt.  3  e  24  Cost., questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 13, quinto comma, della legge  n.
 1338  del  1962, nella parte in cui non prevede che il lavoratore possa
 dimostrare in giudizio con qualsiasi  mezzo  di  prova  la  durata  del
 rapporto  di  lavoro  di cui sia certa l'esistenza, nonche' l'ammontare
 della retribuzione.
     L'equiparazione, in ordine alla prova  da  fornire  ai  fini  della
 costituzione  della  rendita  vitalizia,  del  datore  di  lavoro e del
 lavoratore violerebbe il principio di cui all'art. 3 Cost. poiche'  non
 terrebbe  conto  della diversita' della situazione di fatto nella quale
 versa il lavoratore, che non dispone - in quanto per legge  tenuti  dal
 solo  datore  di  lavoro  -  del  libro  paga  e  del  libro  matricola
 debitamente vidimati, unici documenti di data  certa  utili  a  provare
 l'esistenza  e  la  durata  del  rapporto,  nonche'  l'ammontare  delle
 retribuzioni. Il lavoratore, invece, se con il libretto di lavoro o con
 attestato dell'ufficio di collocamento (comunque per epoche  successive
 all'entrata  in  vigore  della  norma  sul collocamento dei lavoratori)
 potrebbe dimostrare l'effettiva sussistenza e la durata  del  rapporto,
 non sarebbe tuttavia mai in grado di provare con documento di data cena
 la misura della retribuzione.
     La  maggiore gravosita' dell'onere probatorio di fatto addossato al
 lavoratore si  risolverebbe  altresi'  nella  violazione  dell'art.  24
 Cost.,  frapponendo ostacoli pressoche' insormontabili all'esercizio da
 parte di quest'ultimo  del  diritto  alla  costituzione  della  rendita
 vitalizia.
     2.  -  Analoga  questione  di  legittimita' costituzionale e' stata
 sollevata con ordinanza del 18 ottobre 1979 dal Pretore di Padova  che,
 nel  procedimento  vertente tra Vettore Jolanda e l'INPS, ha denunciato
 il quarto e il quinto comma dell'art. 13, legge n. 1338  del  1962,  in
 riferimento  agli artt. 24 e 38 Cost., laddove escludono il diritto del
 lavoratore o del datore di lavoro di provare con mezzi diversi da prove
 documentali di data certa il rapporto di lavoro e la retribuzione.
     Premesso che, secondo il costante indirizzo della giurisprudenza di
 legittimita' (Cass., sez. lav., 17 ottobre 1978,  n.  4658;  Cass.,  27
 giugno  1973,  n.  1858)  e  di  merito, ne' il datore di lavoro ne' il
 lavoratore possono esercitare la facolta' di cui all'art. 13 legge cit.
 se non adducendo prove documentali di data  certa,  il  giudice  a  quo
 prospetta anzitutto il contrasto di siffatta limitazione probatoria con
 l'art.  38  (secondo  comma)  Cost.,  giacche' essa potrebbe comportare
 l'esclusione del riconoscimento del diritto alla pensione di  vecchiaia
 -  migliorativa  di  quella sociale - benche' in realta' obiettivamente
 sussistano le condizioni sostanziali  per  la  prosecuzione  volontaria
 dell'assicurazione   obbligatoria.   Ne',   continua   l'ordinanza,  la
 limitazione probatoria posta dalla norma  puo'  ritenersi  giustificata
 dall'esigenza  di  evitare  facili  collusioni  tra  datore di lavoro e
 lavoratore, che ben  potrebbero  precostituire  fraudolentemente  anche
 dichiarazioni documentali di data certa, come per esempio la busta paga
 (ma  si  v. l'art. 2704 c.c.). Neppure potrebbe la limitazione in esame
 giustificarsi in considerazione del fatto che l'art. 13 cit. estende  i
 limiti  della  tutela previdenziale al caso di "contributi prescritti",
 giacche' all'impossibilita' per l'INPS di procedere al  recupero  viene
 posto rimedio proprio col versamento della c.d. riserva matematica.
     L'esclusione  di mezzi di prova diversi da quelli previsti porrebbe
 poi  un   ingiustificato   limite   alla   possibilita'   di   ottenere
 l'accertamento  giudiziale  del  pregresso  rapporto  di  lavoro, cosi'
 ponendosi in contrasto con l'art. 24 Cost.
     3. - La disposizione  di  cui  al  quinto  comma  dell'art.  13  in
 relazione al quarto comma dello stesso articolo, viene anche denunziata
 -  con  particolare dovizia di argomentazioni - dal Tribunale di Torino
 in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, 24, primo e secondo
 comma, 38, secondo e quarto comma, e 3, primo comma, Cost. "nella parte
 in cui  stabilisce  che,  ai  fini  della  costituzione  della  rendita
 vitalizia  reversibile,  e'  necessario  che l'effettiva esistenza e la
 durata  del  rapporto  di  lavoro  e  la  misura   della   retribuzione
 corrisposta siano provate mediante documenti di data certa anche quando
 la  costituzione  di  tale  rendita  e'  chiesta dal lavoratore in sede
 giudiziaria e in contraddittorio, oltre che col datore di  lavoro,  con
 l'INPS,  anziche'  consentire  che,  in  tale  caso  l'accertamento dei
 suddetti  fatti  possa   essere   effettuato   dal   giudice   mediante
 l'utilizzazione di ogni mezzo di prova ammissibile per diritto comune e
 specie ai sensi dell'art. 421, secondo comma, c.p.c.".
     Decidendo  sull'appello  proposto  dall'INPS  avverso  la  sentenza
 pretorile che aveva dichiarato l'obbligo dell'Istituto di costituire la
 rendita  vitalizia  ex  art.  13  legge  n.  1338  del  1962  a  favore
 dell'appellata  Baudo,  il  giudice  a  quo,  dopo aver rilevato che il
 pretore aveva fondato l'accertamento dell'esistenza e della durata  del
 rapporto  su  prove testimoniali e che la misura della retribuzione era
 stata calcolata dallo stesso Istituto - su ordine del  pretore  -  alla
 stregua   delle   previsioni   dei   contratti  collettivi  dell'epoca,
 preliminarmente  evidenzia  come  costituisca  costante  e  consolidato
 orientamento  giurisprudenziale  che  la  prova di cui all'art. 13 cit.
 possa essere data esclusivamente mediante documentazione di data  certa
 anche  quando  la costituzione della rendita sia chiesta dal lavoratore
 in sede giudiziaria con avvenuta integrazione del  contraddittorio  nei
 confronti  dell'INPS.    Rileva  quindi  che se la controversia dovesse
 decidersi  alla  stregua   della   norma   cosi'   come   costantemente
 interpretata, l'appello andrebbe senz'altro accolto.
     Quanto  all'addotta violazione dell'art. 3 Cost., osserva dunque il
 Tribunale di Torino che, oltre  all'irragionevole  equiparazione  delle
 posizioni  del  datore  di lavoro e del lavoratore, la norma disciplina
 anche  ingiustificatamente  in  modo  uguale  situazioni  profondamente
 diverse,  quali,  da  un  lato,  l'accertamento  dell'esistenza e delle
 caratteristiche del rapporto di lavoro in sede amministrativa da  parte
 dello  stesso  INPS (che non dispone di particolari strumenti tecnici e
 giuridici d'accertamento, talche' puo' non apparire  irragionevole  che
 in  tale  sede  la  prova possa essere solo quella documentale con data
 certa) e, dall'altro, quello effettuato in sede giudiziale dal  giudice
 che,  a  parte la adeguata competenza ed esperienza professionale, puo'
 avvalersi di tutti i necessari mezzi  di  prova  ammessi  dalla  legge;
 segnatamente  dall'art. 421, secondo comma, cod. proc.  civ., nel testo
 novellato.
     In ordine al prospettato contrasto con l'art. 24, primo  e  secondo
 comma,  Cost.,  premesso  che  il  fatto  sostanziale  da cui deriva il
 diritto del lavoratore alla costituzione  della  rendita  vitalizia  e'
 evidentemente  l'intervenuta prestazione di opera di lavoro subordinato
 senza che  il  datore  di  lavoro  versasse  i  prescritti  contributi,
 costituendo i richiesti documenti di data certa meri mezzi di prova, il
 giudice  a  quo  pone  in  rilievo  come  il  lavoratore  si  trovi  in
 grandissima difficolta' nell'offrire tali mezzi di  prova  considerato:
 a)  che  la legge civile non richiede la forma scritta per il contratto
 di lavoro subordinato neppure ad  probationem;  b)  che  la  legge  non
 prescrive  (cfr. all. A, parte II, n. 10 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n.
 634) e non ha mai prescritto (cfr. all. D, n. 47 del R.D.  30  dicembre
 1923,  n. 3269 e success. modificaz.)  la registrazione a termine fisso
 del contratto di lavoro redatto in forma scritta (tranne che  nel  caso
 "di  uso  " dello stesso) o la denuncia di quello verbale, onde difetta
 l'obbligo di quell'adempimento fiscale da cui origina il primo, il piu'
 importante e il piu' diffuso  modo  per  conferire  data  certa  ad  un
 documento;  c)  che  gli altri eventi previsti dall'art. 2704 cod. civ.
 come  idonei  a  conferire  data  certa  ad  un  documento   (morte   e
 impossibilita'   fisica   di   sottoscrivere  il  documento  attestante
 l'esistenza, la durata, etc. di un  rapporto  di  lavoro)  non  possono
 certo  venire  presi in considerazione se riferiti al lavoratore, posto
 che dopo il loro accadimento il rapporto di lavoro sarebbe  naturaliter
 interrotto,  mentre  se riferiti al datore di lavoro, varrebbero solo a
 rendere possibile la prova del lavoro prestato in epoca successiva;  d)
 che  di  quelli  contemplati  dall'ultima  parte  del primo comma dello
 stesso articolo gli unici che si attaglierebbero ad una fattispecie  di
 rapporto  di  lavoro  subordinato  sono  "l'avvenuta  registrazione del
 lavoratore sui libri del datore  di  lavoro  che  siano  obbligatori  e
 debbano  essere  e  siano stati effettivamente sottoposti a vidimazione
 annuale",  ovvero  "l'avvenuta  denuncia  del  lavoratore   agli   enti
 previdenziali,  in  quanto  dagli  stessi registrata o vidimata". Ma e'
 evidente - continua  l'ordinanza  -  quanto  sia  puramente  scolastica
 l'ipotesi che, in tali casi, il datore di lavoro non abbia effettuato i
 versamenti  previdenziali  e che gli Istituti interessati siano rimasti
 inattivi per oltre dieci anni (che e' il termine  di  prescrizione)  di
 fronte  ad  omissioni  di  versamenti ad essi in re ipsa noti. Ne' puo'
 omettersi di considerare che il lavoratore non e'  mai  stato  titolare
 del  diritto  di  controllare i libri e i registri aziendali al fine di
 accertare se il datore di lavoro abbia provveduto a  registrarlo  ed  a
 regolarizzare la sua posizione previdenziale; che il libretto di lavoro
 -  peraltro  non  obbligatorio  ai  fini  della valida costituzione del
 rapporto, ne' idoneo a conferire data certa alle annotazioni  appostevi
 dal  datore di lavoro - rimane depositato per legge presso il datore di
 lavoro nel corso del rapporto (art. 6, legge 10 gennaio 1935, n.  112);
 che, infine, solo con legge 30 aprile 1969, n. 153 (art. 38)  e'  stato
 previsto  che  il  datore  di  lavoro consegni ai dipendenti, una volta
 all'anno,  un  estratto  conto  con  l'indicazione  della  retribuzione
 corrisposta   nel   corso   dell'anno   precedente   e  dei  versamenti
 contributivi effettuati; che, comunque, tale estratto non solo e' privo
 dell'efficacia probatoria di cui all'art. 2704 cod. civ., ma neppure di
 per se' consente al lavoratore di verificare se i  contributi  annotati
 come versati lo siano stati effettivamente.
     Alla  luce  delle  osservazioni  che  precedono  non  par dubbio al
 Tribunale di Torino che il richiedere che il lavoratore offra la  prova
 scritta con data certa del rapporto di lavoro, della sua durata e della
 relativa  retribuzione  per  poter  far  valere  con  successo  in sede
 giudiziaria  il  proprio  diritto  alla  costituzione   della   rendita
 vitalizia  al fine di rimediare ad omissioni contributive del datore di
 lavoro di oltre dieci anni  antecedenti  (che'  proprio  questa  e'  la
 funzione  della  norma)  costituisca  un  onere  probatorio  in pratica
 insoddisfabile. Da qui la violazione  dell'art.  24,  primo  e  secondo
 comma,  Cost.  e,  di  riflesso, anche dell'art. 3, primo comma, Cost.,
 sotto il profilo  della  irragionevole  diversita'  di  trattamento  in
 ordine   alle  modalita'  stabilite  dalla  norma  in  esame  e  quelle
 normalmente prescritte perche' il lavoratore possa far valere i  propri
 diritti anche nei confronti degli istituti previdenziali.
     Non solo: la pratica impossibilita' di far valere il diritto di cui
 all'art.  13 legge cit. nei confronti dell'unico istituto previdenziale
 (l'INPS) veramente  in  grado  di  rimediare  in  toto  alle  omissioni
 contributive  del  datore  di  lavoro comporta - continua l'ordinanza -
 specifica violazione dell'art. 38, secondo e quarto comma,  Cost.,  che
 specificamente  dispone  che  alle  esigenze  del lavoratore per la sua
 vecchiaia, invalidita', etc., si provveda mediante organi  ed  istituti
 "predisposti o integrati dallo Stato ". E cio', evidentemente, in danno
 proprio  dei  lavoratori  piu'  deboli  che, o per aver lavorato presso
 imprese di piccole dimensioni o di scarsa consistenza economica  ovvero
 per  essere  stati indotti dal proprio stato di bisogno ad accettare il
 lavoro  "nero",  si  trovano   sovente   addirittura   nella   assoluta
 impossibilita'  di offrire una prova del tipo di quella richiesta dalla
 norma impugnata - con ulteriore violazione dell'art. 3, primo e secondo
 comma,  Cost.  -  e  vengono  quindi  esclusi  dalla  tutela  garantita
 dall'art. 38 Cost.
     Infine sembra al giudice a quo che la norma di cui all'art. 13 cit.
 contrasti  anche  con l'art. 36, primo comma, Cost. (in forza del quale
 le  retribuzioni  minime  previste  dai   contratti   collettivi   sono
 applicabili  ai  rapporti  di  lavoro  le  cui  parti non aderiscono ai
 sindacati stipulanti)  laddove  la  documentazione  di  data  certa  e'
 richiesta in ordine alla prova della retribuzione percepita anche se il
 lavoratore  non assunta che essa sia stata superiore al minimo previsto
 dalla contrattazione collettiva,  o  adduca  di  non  averne  percepita
 alcuna:   in   tali  ipotesi,  in  conformita'  alle  previsioni  della
 legislazione previdenziale in materia di  base  retributiva  imponibile
 per  i contributi assicurativi, occorrerebbe fare riferimento, anche ai
 fini  di  cui  alla  norma  impugnata,  non  gia'  alla  misura   della
 retribuzione  effettivamente  corrisposta bensi' a quella minima che il
 lavoratore avrebbe avuto diritto di percepire.
     4. - L'art. 13  cit.,  con  motivazione  analoga  -  sia  pur  piu'
 sintetica  -  a  quella del Tribunale di Torino, viene denunciato anche
 dal Pretore di Torino,  con  ordinanza  in  data  27  maggio  1981,  in
 riferimento  agli art. 3, 24 e 38 Cost., "in quanto limita gli ordinari
 mezzi probatori o per lo meno in quanto esclude l'ammissione  d'ufficio
 di  prove  ai  sensi  dell'art. 421" c.p.c. Il pretore, premesso che la
 domanda del ricorrente Lamarca Salvatore andrebbe respinta anche se, in
 base alle norme ordinarie, i documenti  prodotti  si  sarebbero  quanto
 meno  idonei ad integrare la presunzione di cui all'art. 2729 cod. civ.
 e per altro verso piu' che sufficienti ai fini dell'ammissione di prove
 (che parte attrice ha dedotto) per testi ai sensi dell'art. 2724, n. 1,
 cod. civ.", rileva in particolare che la limitazione dei mezzi di prova
 disposta dalla norma in esame sia del tutto eccezionale  rispetto  alle
 norme  che regolano il giudizio civile ordinario e soprattutto a quiete
 applicabili al giudizio previdenziale "retto,  per  il  rinvio  operato
 dall'art.  442  c.p.c., dagli artt. 409 e ss. (nel testo novellato) ivi
 compreso quindi l'art. 421, secondo  comma,  c.p.c."  che,  secondo  la
 giurisprudenza della Corte di Cassazione, non ha prodotto l'abrogazione
 tacita delle limitazioni poste alla prova dall'art. 13 cit. Afferma poi
 che  lo  scopo,  perseguito  dalla  norma, di evitare collusioni tra ex
 datore di lavoro ed ex dipendente, ha prodotto l'ultroneo risultato  di
 privare  di  "effettivita'"  il diritto pur in astratto riconosciuto al
 lavoratore. Il Pretore di Torino afferma inoltre  di  non  ignorare  la
 giurisprudenza costituzionale secondo la quale l'esclusione di un mezzo
 probatorio  non e' illegittima quando sia giustificata dall'esigenza di
 salvaguardia di altri diritti o  interessi  giudicati  dal  legislatore
 degni  di  protezione sulla base di criteri di reciproco coordinamento;
 ma - aggiunge - "nel caso  di  specie  lo  stesso  legislatore,  in  un
 momento  storico  successivo,  ha  modificato i principi che reggono il
 giudizio previdenziale,  dando  il  massimo  risalto  all'attivita'  di
 ricerca  ufficiosa delle prove fatta dal giudice, come emerge dal nuovo
 testo dell'art. 421 c.p.c.", mentre con la norma in esame "si nega o si
 limita alla parte il potere processuale di rappresentare al giudice  la
 realta' dei fatti ad essa favorevoli se le si nega o le si restringe il
 diritto  di  esibire  i  mezzi rappresentativi di quella realta'" (cfr.
 sent. nn. 53 del 1966, 188 del 1970 e 248 del 1974).
     5.  -  In tutti i giudizi si e' costituito l'INPS ed e' intervenuto
 il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura
 generale dello Stato.
     Nel giudizio promosso con ordinanza  del  Pretore  di  Arezzo  s'e'
 anche  costituito  Narizzano Umberto che ha in particolare rilevato che
 l'art. 13 della legge n. 1338 del 1962 rappresenti, in  attuazione  dei
 principi  costituzionali, la via attraverso la quale lo Stato ha inteso
 garantire che i diritti pensionistici dei  lavoratori  subordinati  non
 subiscano  in alcun caso lesioni per fatti illeciti posti in essere dai
 datori di lavoro. Ora - continua la difesa del Narizzano - se  l'uguale
 gravosita'  dell'onere  probatorio  posto a carico del lavoratore e del
 datore  di  lavoro  "poteva  considerarsi  accettabile  in  una  logica
 assicurativa  in  cui  i  principi  costituzionali  non  avevano ancora
 trovato giusta attuazione e che basava la tutela  pensionistica  su  di
 una  solidarieta'  ristretta ai datori e ai prestatori, manteneva fermo
 un certo rapporto sinallagmatico tra contributi versati e misura  della
 pensione e sanciva la prescrizione dei contributi dovuti col decorso di
 cinque  anni  dal  giorno  in  cui  quest'ultimi  si  sarebbero  dovuti
 versare", cosi' non e' piu'  nell'attuale  contesto  normativo  che  e'
 sintomatico  del  riconoscimento della tutela pensionistica come di una
 esigenza politica fondamentale che lo Stato ha l'obbligo di  realizzare
 nel  superiore  e generale interesse della collettivita' organizzata in
 Repubblica fondata sul lavoro.   Costituiscono  inequivoci  sintomi  di
 tale  nuovo  assetto  l'istituzione del fondo sociale a completo carico
 dello  Stato,  l'introduzione  del  principio  di  automaticita'  delle
 prestazioni  nel  limite del termine di prescrizione dei contributi, il
 nuovo sistema di calcolo delle pensioni, "non piu' fondato sull'entita'
 dei contributi versati, bensi' sulla retribuzione pensionabile" ex art.
 5, commi primo e sesto, D.P.R. 24 aprile 1968, n. 488, d.m. 5  febbraio
 1969  e  artt. 26 e 27, comma terzo, legge 3 giugno 1975, n.  160, onde
 "la certezza che il lavoratore abbia ricevuto a titolo di  retribuzione
 una  data  smonta di danaro giuoca solo ai fini del calcolo dei periodi
 contributivi da riscattare, per cui a questi scopi  puo'  anche  essere
 sufficiente far ricorso, in assenza di una precisa determinazione della
 retribuzione  percepita,  ai  trattamenti  medi  corrisposti, all'epoca
 dell'omissione contributiva, ai lavoratori  della  stessa  categoria  e
 qualifica  del  prestatore  interessato  al  riscatto  dei  periodi non
 coperti dalla contribuzione previdenziale ".
     Viene infine prospettata anche la violazione dell'art.  38, secondo
 comma,  Cost.,  impedendo  la  norma  denunziata  la  realizzazione  di
 un'"adeguata" tutela pensionistica.
     6.  -  Nei  vari  atti  di  costituzione l'INPS, sulla scorta della
 premessa che "il legislatore, quando emana una qualche disposizione, si
 pone in una posizione teorica che presuppone  una  posizione  giuridica
 pregressa di normalita'", nega che sussista alcuna violazione dell'art.
 3  Cost.,  sostenendo  che  datore  di  lavoro  e lavoratore versano in
 situazioni di perfetta parita'. Se, invero, il primo dovrebbe  disporre
 dei  libri  paga e matricola regolarmente vidimati, il secondo dovrebbe
 aver conservato le corrispondenti buste o fogli - paga, o ricevute  del
 datore  di  lavoro,  o  note  di rimborso, o altri validi equipollenti;
 talche', se il lavoratore, per sua negligenza, non  abbia  mai  preteso
 siffatta  documentazione,  ovvero  l'abbia  smarrita  o  distrutta,  la
 disparita' di trattamento dipenderebbe da  circostanze  contingenti  di
 carattere soggettivo e non gia' da una previsione normativa.
     In  ordine  all'addotta  violazione  dell'art.  24 Cost., in alcune
 memorie si assume che  le  limitazioni  probatorie  poste  dalla  norma
 denunciata  concernono solo il procedimento in sede amministrativa, non
 applicandosi la  disposizione  -  che  fa  parte  di  una  legislazione
 speciale  -  oltre  i casi e i tempi da essa considerati (art. 14 disp.
 sulla  legge  in  generale);  talche'  in  sede  giudiziaria   -   come
 riconosciuto,  si  afferma,  anche  da  talune, sporadiche decisioni di
 merito (fra le quali Trib. Trieste, 22 gennaio 1977, Cossutta c.  INPS)
 -  non  vi  sarebbe  alcuna  eccezione al normale sistema di assunzione
 delle prove che il  nuovo  rito  del  lavoro  (cfr.  art.  421  c.p.c.)
 contempla.  In altre memorie, invece, si sostiene che se la facolta' di
 superare una preclusione derivante dalla maturazione di un  termine  di
 decadenza  non  fosse  vincolata  ad  un  dato probatorio documentale e
 inconfutabile, sarebbe possibile costituire fraudolentemente  posizioni
 assicurative indebite connesse a rapporti risalenti a decenni addietro;
 e  cio' "sarebbe in contrasto col vigente sistema di sicurezza sociale,
 nel quale l'art. 13 in questione trova razionale giustificazione, ed il
 quale si fonda sulla prevedibilita' e la raccolta preventiva dei  mezzi
 finanziari  necessari,  giusta  disposizione  dell'art.  38  Cost., per
 assicurare  risorse  adeguate  alle  future  esigenze   di   vita   dei
 lavoratori".
     Tali  considerazioni  verrebbero  anche,  a  parere  dell'INPS,  ad
 escludere il contrasto della norma denunciata con l'art. 38  Cost.  che
 attiene  "  all'adeguamento  dei  mezzi di carattere previdenziale alle
 esigenze  di  vita  del  lavoratore,  piuttosto  che   alle   modalita'
 necessarie  a  conseguirli; sicche' la Corte costituzionale in numerose
 decisioni ha ritenuto legittime le regole  con  cui,  nel  rispetto  di
 altri  precetti costituzionali, viene condizionata l'insorgenza di dati
 diritti oppure di questi viene disciplinato l'esercizio (sent.  nn.  10
 del 1970, 80 del 1971, 33 del 1974)".
     Quanto  all'addotta violazione dell'art. 36 Cost., sotto il profilo
 prospettato dal Tribunale di Torino, si afferma  che  mentre  ben  puo'
 farsi  ricorso al contratto collettivo ai fini della determinazione del
 parametro retributivo sul quale  calcolare  l'ammontare  della  riserva
 matematica,  quando  invece il rapporto di lavoro non sia riferibile ad
 alcun contratto collettivo di categoria, appare inevitabile e,  quindi,
 costituzionalmente    legittimo,    l'onere   della   richiesta   prova
 documentale.
     7. - L'Avvocatura  generale  dello  Stato  ha  svolto  in  alti  di
 intervento,   argomentazioni   analoghe  a  quelle  addotte  dall'INPS,
 ribadendo in particolare, quanto all'addotta  violazione  dell'art.  3,
 che "dati analoghi a quelli contenuti nelle buste e nei prospetti paga,
 sia  pure  piu'  sintetici, almeno per quanto concerne la retribuzione,
 devono essere iscritti nel  libretto  di  lavoro,  la  cui  istituzione
 risale  alla legge 10 gennaio 1935, n. 112 e la cui funzione e' appunto
 quella di costituire un documento probante del curriculum lavorativo di
 ciascun prestatore di lavoro"; sicche' imputet sibi chi  non  e'  stato
 tanto  diligente  da  chiedere e conservare la documentazione del caso;
 quanto al prospettato contrasto della norma  impugnata  con  l'art.  24
 Cost.  che  la  disposizione  di  cui  all'art.  131.   cit., lungi dal
 frapporre  ostacoli   all'esercizio   del   diritto   riconosciuto   al
 lavoratore,  prevede solo un modesto onere probatorio che si giustifica
 in funzione della  esigenza  di  evitare  la  creazione  di  situazioni
 fittizie  a  tutela  degli  oneri rilevantissimi assunti dallo Stato in
 materia  di  previdenza;  quanto  all'asserita  violazione dell'art. 38
 Cost. che proprio per la piu' efficiente tutela del  diritto  garantito
 dalla  norma  costituzionale  "il  legislatore  si  e'  preoccupato  di
 ricorrere ad alcune cautele usando della sua  discrezionalita'  in  una
 maniera  che  appare del tutto razionale e percio' non tale da meritare
 censure"; quanto all'addotto contrasto con  l'art.  36  Cost.,  che  il
 richiamo  non e' pertinente, giacche' la norma concerne la retribuzione
 in costanza di rapporto di lavoro e non determina alcun riflesso  circa
 i  criteri  stabiliti dal legislatore per provare un rapporto di lavoro
 pregresso.
     8. - Narizzano Umberto  ha  infine  ulteriormente  illustrato,  con
 memoria,   le   argomentazioni  gia'  svolte  in  atto  di  intervento,
 contestando in particolare le deduzioni dell'Avvocatura dello  Stato  e
 dell'INPS.
                         Considerato in diritto:
     1)  La  questione  sottoposta al giudizio di questa Corte e' se sia
 conforme a Costituzione l'art. 13, quinto comma, della legge 12  agosto
 1962,  n.  1338,  nella parte in cui preclude al lavoratore, secondo la
 prevalente interpretazione  giurisprudenziale,  di  provare  con  mezzi
 diversi  da documenti di data certa il pregresso rapporto di lavoro, la
 sua durata e retribuzione, al fine di ottenere la costituzione  di  una
 rendita vitalizia.
     I dubbi sulla legittimita' costituzionale dell'indicata norma, gia'
 espressi  in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.  dal Pretore di Arezzo
 (r.o. n. 149/1978), che per primo ha sollevato la  questione,  e  fatti
 propri,  sia  dal  Pretore di Padova (r.o. 989/1979), che per suo conto
 invoca gli artt.   38 e 24 Cost.,  sia  dal  Pretore  di  Torino  (r.o.
 599/1981),  il  quale  si  richiama  anche  all'art. 38 Cost., sono con
 particolare ampiezza argomentati  dal  Tribunale  di  Torino  in  grado
 d'appello  (r.o.  827/1980), che agli indicati parametri aggiunge anche
 l'art. 36,  primo  comma,  specificando  che  l'art.  3  Cost.  sarebbe
 violato, non solo nella prima parte, ma anche nel capoverso, l'art. 24,
 sia  nel  primo, che nel secondo comma, e l'art. 38, tanto nel secondo,
 quanto nel quarto comma. Risultando pero' sostanzialmente identiche,  e
 la  questione  sollevata,  e la disciplina denunciata, i giudizi di cui
 alle ordinanze in epigrafe vanno riuniti e decisi congiuntamente.
     2) La legge in cui e' contenuta la norma impugnala ha per  oggetto,
 come   testualmente  risulta  dal  suo  titolo,  "disposizioni  per  il
 miglioramento   dei   trattamenti   di   pensione    dell'assicurazione
 obbligatoria  per  l'invalidita',  la  vecchiaia  e i superstiti". Essa
 concorre, quindi, a comporre il vigente sistema previdenziale,  di  cui
 giova delineare, sia pur sinteticamente, oltre che i tratti essenziali,
 quegli  aspetti  e  relativi  svolgimenti,  che  appaiono utili ai fini
 dell'inquadramento della questione nella sua propria cornice  normativa
 e, quindi, ai fini del decidere.
     Nel  nostro  ordinamento,  la  tutela  previdenziale del prestatore
 d'opera si realizza mediante  il  versamento,  a  cura  del  datore  di
 lavoro, ad apposito ente - Istituto nazionale per la previdenza sociale
 (INPS)  -  di  contributi  di  assicurazione obbligatoria, da cui nasce
 l'obbligazione, a  carico  dell'INPS,  di  erogare  al  lavoratore  una
 pensione.    Per  quanto  concerne  i  contributi,  l'art. 55 del regio
 decreto legge 4 ottobre 1935, n. 1827 (convertito nella legge 6  aprile
 1936,  n.  1155),  come  modificato con l'art.   41, primo comma, della
 legge 30 aprile 1969, n. 153, stabilisce che essi "si  prescrivono  col
 decorso  di dieci anni" e che, ove tale prescrizione si sia verificata,
 "non  e'  ammessa  la   possibilita'   di   effettuare   versamenti   a
 regolarizzazione di contributi arretrati". Consapevole, tuttavia, delle
 conseguenze che deriverebbero al lavoratore nell'ipotesi del "datore di
 lavoro  che  abbia  omesso  di  versare  contributi per l'assicurazione
 obbligaloria invalidita', vecchiaia e superstiti e che non  possa  piu'
 versarli  per  sopravvenuta prescrizione" (art.  13, primo comma, l. n.
 1338 del  1962),  il  legislatore  ha  determinato  di  porvi  rimedio,
 disponendo che il datore di lavoro puo' chiedere all'INPS di costituire
 a  favore  del  lavoratore  una rendita vitalizia riversibile pari alla
 pensione o quota di pensione spettante (art. 13 cit., quarto comma),  e
 che  il "lavoratore, quando non possa ottenere dal datore di lavoro" la
 costituzione della suddetta rendita, "puo' egli stesso  sostituirsi  al
 datore  di lavoro, salvo il diritto al risarcimento del danno" (art. 13
 cit., quinto comma). Senonche', le due summenzionate norme prescrivono,
 rispettivamente, che al suddetto scopo il datore di lavoro e' tenuto ad
 esibire all'INPS "documenti di data certa", ed il lavoratore e'  tenuto
 a  fornire  "le prove" del rapporto di lavoro, della sua durata e della
 corrispondente  retribuzione  (oltre   che   a   versare   la   riserva
 matematica).  E  poiche' il quinto comma fa rinvio al quarto, ritengono
 anche i giudici a quibus che "le prove"  richieste  al  lavoratore  non
 possono  non  consistere  nei  "documenti  di  data certa" richiesti al
 datore di lavoro.
     3) Nasce cosi' il problema della documentazione, in ordine al quale
 occorre distinguere - servendo  tale  distinzione  a  circoscrivere  il
 thema decidendum - quattro stagioni normative:
     a)  la  prima  e'  quella  anteriore  al  1935: il regio decreto 30
 dicembre 1923, n. 3184 ed il relativo  regolamento  (regio  decreto  28
 agosto 1924, n. 1422) avevano istituito per il lavoratore una "tessera"
 personale  su cui si apponevano le prescritte marche, ma era pur sempre
 operante l'art. 129 del testo unico delle leggi di  pubblica  sicurezza
 (R.D.  1931,  n.  773),  che  prevedeva  il rilascio, agli operai ed ai
 domestici, di un libretto da parte dell'autorita'  locale  di  pubblica
 sicurezza;
     b)  la  seconda,  instaurata  con la legge 10 gennaio 1935, n. 112,
 disponeva: che ogni lavoratore doveva essere fornito di un "libretto di
 lavoro" (art. 1,  primo  comma),  conforme  al  modello  approvato  dal
 Ministero  "delle  corporazioni" (art. 2, primo comma), su cui andavano
 indicati, oltre che i dati relativi alla ditta ed al lavoratore,  anche
 la  qualifica  professionale  di  questo, i suoi passaggi di categoria,
 l'ammontare della retribuzione, il numero della tessera d'assicurazione
 contro l'invalidita' e la vecchiaia, etc. (art. 3); che tale  libretto,
 del quale il lavoratore aveva "diritto di prendere visione in qualunque
 momento"  (art.  7, primo comma), e sul quale l'ufficio di collocamento
 era tenuto ad apporre il suo timbro al  -  l'atto  dell'iscrizione  nei
 relativi  elenchi  (art.  8, cpv.), rimaneva, si', depositato presso il
 datore di lavoro,  ma  doveva  essere  consegnato  al  lavoratore  alla
 cessazione  del  rapporto (art. 6, primo e ultimo comma); che, nel caso
 in cui il libretto si fosse smarrito, deteriorato  o  esaurito,  veniva
 rilasciato  un  duplicato  o  nuovo  libretto,  contenente  le "notizie
 fornite dagli uffici di collocamento, in base agli  elementi  esistenti
 in  atti  o  comunicati dall'ispettorato corporativo, in relazione agli
 accertamenti da questo eseguiti" (art. 9);
     c)   alla  sopra  descritta  disciplina  ha  fatto  seguito  quella
 introdotta con la legge  30  aprile  1969,  n.  153  ("revisione  degli
 ordinamenti  pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale"). A
 norma dell'art. 38 di tale legge - e precisamente, dei commi secondo  e
 terzo,  poi  espressamente  abrogati  dall'art.  4,  ultimo  comma, del
 decreto legge 6 luglio 1978, n. 352, convertito nella  legge  4  agosto
 1978, n. 467 - il datore di lavoro era "obbligato, entro il 31 marzo di
 ogni  anno"  e,  "comunque..."  alla  fine  del rapporto di lavoro", "a
 consegnare al lavoratore un estratto - conto  contenente  l'indicazione
 della retribuzione corrisposta e dei relativi importi versati nell'anno
 precedente  all'INPS",  ed  a  norma  dell'art.  42, primo comma, aveva
 "l'obbligo di conservare i libri di paga ed i libri di matricola per la
 durata di dieci anni...";
     d) infine, col gia' menzionato decreto legge n.  352  del  1978  e'
 stato  introdotto  il  regime  normativo attualmente in vigore: a sensi
 dell'art. 4, primo, secondo e quarto comma, il  datore  di  lavoro  "e'
 obbligato  a presentare, entro il 31 marzo di ciascun anno, all'INPS la
 denuncia nominativa dei lavoratori occupati nell'anno precedente" ed "a
 consegnare al lavoratore, entro il 31  marzo  di  ciascun  anno,  copia
 delle  denunce",  mentre  a  sua  volta l'INPS e' tenuto " ad inviare a
 ciascun lavoratore" un estratto - conto contenente l'indicazione  della
 retribuzione denuciata dal datore di lavoro".
     4)  La  Corte  di  Cassazione  pronunciandosi  sull'istituto  della
 costituzione della rendita vitalizia ex art. 13 legge n. 1338 del 1962,
 ha ripetutamente statuito che, ove venga  richiesta  l'applicazione  di
 tale  norma  -  non importa se dal datore di lavoro o dal lavoratore -,
 non e' ammissibile in giudizio prova diversa da quella  documentale  di
 data  certa,  giacche'  solo  questa garantisce l'effettiva esistenza e
 durata del rapporto di lavoro, per cui non  e'  surrogabile  con  altre
 fonti  probatorie. Ha ulteriormente affermato che, conseguentemente, e'
 precluso al giudice di ammettere prove generiche, chiarendo che  l'art.
 421,  secondo  comma,  c.p.c.  -  secondo cui il giudice "puo' altresi'
 disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni  mezzo  di
 prova"  -,  in quanto vale esclusivamente a superare i limiti stabiliti
 dal  codice  civile  in  via  generale,  non  e'  applicabile  a   casi
 determinati  e  specifici,  qual e' appunto quello di cui al denunciato
 art. 13. Nello  stesso  senso  risultano  prevalentemente  orientati  i
 giudici  di  merito.  E  per  quanto riguarda la ragione giustificativa
 dell'inammissibilita'  della   prova   testimoniale,   del   giuramento
 suppletorio,  di altri mezzi equipollenti in luogo della documentazione
 di  data  certa,  essa  viene  individuata   nella   preoccupazione   e
 nell'intendimento   del   legislatore  di  impedire  eventuali  manovre
 fraudolente anche da parte del datore di lavoro e collusioni fra questo
 ed il lavoratore.
     Nonostante   la   netta   prevalenza   del    rigoroso    indirizzo
 interpretativo sopra ricordato, non si puo' tuttavia parlare di diritto
 vivente,  benche'  proprio  di  "norma  vivente"  parli il Tribunale di
 Torino.  A  parte,  infatti,  una,  peraltro   esigua,   giurisprudenza
 pretorile  che  ha ammesso la prova testimoniale - tra cui la pronuncia
 sub judice dinanzi al Tribunale di Torino e  di  cui  all'ordinanza  in
 epigrafe  (r.o.  827/1980) -, vi osta una recente sentenza della stessa
 Corte di Cassazione (sez. lavoro, 7 marzo 1980,  n.  1537),  la  quale,
 reputando  che  l'onere  della  prova con documento di data certa debba
 intendersi  riferito  al  procedimento  amministrativo,  ritiene   che,
 viceversa,  in  sede  giudiziale  non  "si ravvisa la ragione che abbia
 potuto  determinare  il  legislatore a porre dei limiti alla formazione
 del convincimento del giudice". Trattasi senza dubbio di una  pronuncia
 isolata  -  e  contraddetta  dalle  altre successive -, che tuttavia ha
 interrotto il corso della giurisprudenza  della  Cassazione,  mostrando
 come   in   definitiva   la  denunciata  norma  non  sia  assolutamente
 insuscettibile di una interpretazione  piu'  duttile.  E  non  si  puo'
 ignorare  che, anteriormente a tale sentenza della Corte di Cassazione,
 in una decisione del Consiglio di Stato (IV, 19 novembre 1974, n. 858),
 si affermava, sia pure nei confronti di una  pubblica  amministrazione,
 essere  "naturale",  in  caso di mancato versamento di contributi, "che
 l'accertamento di  questo  fatto  -  ove  colui  che  assume  di  voler
 esercitare  il  diritto previsto dall'art.  13 della legge del 1962 non
 riesca ad ottenere altrimenti quella prova -  possa  scaturire  da  una
 pronuncia giudiziale".
     5)  Cio' premesso, la questione sollevata dal Pretore di Padova con
 l'ordinanza emessa il 18 ottobre  1979  (r.o.    989/1979),  dev'essere
 dichiarata inammissibile per assoluto difetto di rilevanza.
     Si  apprende  dalla  stessa  ordinanza  che  la ricorrente, Vettore
 Jolanda, aveva "presentato domanda volta  a  ottenere  la  pensione  di
 vecchiaia"  e  che,  al  fine dell'accoglimento della suddetta domanda,
 chiedeva, ai sensi dell'art. 13,  l'autorizzazione  al  versamento  dei
 contributi  obbligatori, che asseriva essere stato omesso dal datore di
 lavoro, presso il quale essa aveva prestato la sua opera di  sarta  nel
 periodo  3  maggio  1929 - 31 ottobre 1931. Si apprende altresi' che il
 giudice a quo, dopo avere dato atto che "la Vettore  non  puo'  essere,
 allo  stato,  ritenuta  titolare della pensione di vecchiaia neppure se
 viene computato  il  periodo"  di  omissione  contributiva  denunciato,
 afferma tuttavia che il versamento " potrebbe conferire il diritto - se
 il  rapporto  di  lavoro  fosse risultato accertato - alla prosecuzione
 dell'assicurazione  obbligatoria,  ai  sensi  dell'art.  2  D.P.R.   31
 dicembre  1971,  n.  1432". Di conseguenza, la limitazione dei mezzi di
 prova del pregresso rapporto di lavoro, introdotta dal menzionato  art.
 13,   "finisce   col   ledere   ingiustificatamente"  il  diritto  alla
 prosecuzione volontaria e, quindi, al conseguimento della  pensione  di
 vecchiaia - cioe', ancora, ad "una delle prestazioni migliorativa della
 pensione  sociale"  -,  nonostante che, in base all'art. 38 Cost., tale
 diritto spetti anche ad un cittadino che abbia gia' quello di  ottenere
 la pensione sociale.
     Ora  -  a  parte  la  non  pertinenza alla suddescritta fattispecie
 dell'ipotesi di cui al quarto  comma  dell'art.  13,  che  riguarda  il
 datore   di   lavoro   e  che  viene  egualmente  denunciato  nel  solo
 dispositivo, senza trovare alcun riscontro nella motivazione - si  deve
 constatare l'inapplicabilita' alla prosecuzione volontaria dell'art. 13
 legge n. 1338 del 1962, il quale prevede esclusivamente la costituzione
 di  una rendita vitalizia mediante versamento della riserva matematica.
 La questione risulta pertanto priva di rilevanza.
     6) In conseguenza della teste'  dichiarata  inammissibilita'  della
 questione  sollevata  dal  Pretore  di Padova, la questione sulla quale
 questa Corte deve pronunciarsi risulta  interessata  esclusivamente  ai
 regimi  nominativi di cui alle lettere b) e c) del precedente paragrafo
 3). Le  lamentate  omissioni  contributive  che  hanno  occasionato  la
 questione  in  esame  si  sarebbero,  infatti,  verificate  in  periodi
 corrispondenti ai due suddetti regimi normativi: dal 1  settembre  1945
 al  31  maggio  1948 (ordinanza del Pretore di Arezzo), dal 6 settembre
 1949  al  16  settembre 1974 (ordinanza del Tribunale di Torino), dal 1
 gennaio 1961 al 30 giugno 1970 (ordinanza del  Pretore  di  Torino).  I
 sistemi  previdenziali da tener presenti sono, quindi, quelli governati
 dalla legge n. 112 del 1935 e dalla legge n. 153 del 1969  durati  sino
 all'entrata  in  vigore  del  decreto  legge  n.  352 del 1978, i quali
 prescrivevano, rispettivamente. il libretto di lavoro  e  l'estratto  -
 conto.
     7) In tutte le ordinanze in epigrafe, che pure si richiamano ad una
 varieta'   di   parametri   costituzionali,  e'  l'art.  24  che  viene
 unanimemente invocato. Non senza ragione  il  riferimento  al  relativo
 principio  risulta  concorde  ed  univoco.  Sarebbe  la  violazione del
 diritto  di  difesa,  infatti,  a  comportare  di  riflesso  le   altre
 illegittimita'.  Cio' emerge dalla prospettazione dei motivi a sostegno
 delle censure, che per lo piu' s'intrecciano tutte attorno all'art.  24
 Cost.  -  sovente in stretta combinazione con l'art. 3 Cost. - tra loro
 in un continuo ritorno tematico, e viene  espressamente  affermato  dal
 Tribunale  di  Torino,  quando  dall'asserita  violazione  del suddetto
 principio  costituzionale  fa  discendere  "una  ulteriore   violazione
 dell'art.  3,  primo comma, Cost. ". Ne consegue che, in ordine logico,
 l'esame della questione in riferimento all'art. 24 Cost. e' preliminare
 rispetto a quello delle  censure  formulate  in  riferimento  ad  altri
 principi.
     8)  L'art. 13, quinto comma, legge n. 1338 del 1962 contrasterebbe,
 nella parte impugnata, con l'art. 24, primo  e  secondo  comma,  Cost.,
 perche'  la  gravosita' dell'onere probatorio che accolla al lavoratore
 renderebbe  impossibile  l'esercizio  in  giudizio  del  diritto   alla
 costituzione  della  rendita  vitalizia  e,  quindi,  vanificherebbe il
 diritto del lavoratore. E questa l'affermazione di carattere  generale,
 in  cui  concordano  tutti  i  giudici  a quibus: secondo il Pretore di
 Arezzo, infatti, la norma "frappone ostacoli pressoche'  insormontabili
 all'esercizio   del  diritto";  il  Tribunale  di  Torino  parla  di  "
 grandissime  difficolta'";  per  il  Pretore  di  Torino,  infine,   il
 risultato  della limitazione dei mezzi di prova e' stato quello di aver
 "privato  nella  pratica   di   effettivita'   il   diritto".   Ma   e'
 un'affermazione, che richiede piu' di una precisazione chiarificatrice.
     Nell'ordinanza del Tribunale di Torino e' ripetutamente evidenziata
 "la  pratica  impossibilita'  per  il  lavoratore di far valere in sede
 giudiziaria" il diritto in parola, soggiungendosi  che  le  "condizioni
 probatorie  (sono)  talmente  onerose  da rendere l'applicazione stessa
 praticamente   impossibile   se    non    addirittura    giuridicamente
 impossibile",  giacche'  "  la  norma  in  questione  richiede  che  in
 precedenza (10 anni prima e oltre) lo stesso lavoratore  abbia  assolto
 ad  oneri  di  diligenza  che  appaiono  eccessivamente  gravosi si' da
 risultare praticamente irrealizzabili".
     La prospettazione e' piuttosto ambigua sul punto,  sembrando  voler
 dare  autonomo rilievo all'impossibilita' "pratica". Ma allora non puo'
 non  osservarsi  al  riguardo  che,  poiche'  i  regimi  normativi  cui
 corrispondono le assente omissioni contributive conoscevano, come si e'
 piu'  sopra  visto,  il rilascio, quanto meno, del libretto di lavoro e
 dell'estratto  -  conto,  l'insistito  richiamo   alla   impossibilita'
 "pratica"  -  riecheggiato  dal  Pretore  di  Torino  - ed all'ostacolo
 insormontabile per il  lavoratore  di  sostenere  in  giudizio  le  sue
 ragioni  si  risolve  in  una  doglianza,  che,  a ben guardare, appare
 rivolta, non tanto contro la norma impugnata, quanto, e  prima  ancora,
 contro  l'ordinamento  che  non  soccorre  chi  non sia stato vigilante
 nell'assicurare la tutela dei propri diritti. E'  cosi'  che  si  offre
 alle difese dell'INPS e dello Stato l'opportunita' di obiettare che chi
 abbia  omesso di chiedere, o abbia smarrito, la documentazione del caso
 deve addebitare l'impossibilita' "pratica" successivamente verificatasi
 alla propria negligenza, cioe' a circostanze  di  carattere  personale,
 non  gia'  ad  una  previsione normativa, la quale soltanto puo' essere
 presa in considerazione da questa Corte.
     9) Senonche', a sostegno  del  loro  assunto,  sia  il  Pretore  di
 Arezzo,   sia   il   Tribunale  di  Torino,  si  riportano  ai  sistemi
 previdenziali all'epoca vigenti - rispetto a cui,  quindi,  la  dedotta
 impossibilita'  "pratica"  sarebbe conseguenziale -, ponendo in risalto
 gli inconvenienti che essi presentavano. Asseriscono  entrambi  che  in
 materia  documenti  di  data  certa  sarebbero solo i libri - paga ed i
 libri - matricola, purche' obbligatori e vidimati annualmente, i quali,
 pero', sono tenuti dal datore di lavoro, presso il quale - aggiunge  il
 Tribunale di Torino - va depositato, in costanza di rapporto, lo stesso
 libretto   di   lavoro.   Ma  non  puo'  non  rilevarsi  che  appaiono,
 contraddittoria l'asserzione dell'uno, dubitativa quella dell'altro. Il
 Pretore di  Arezzo,  infatti,  subito  dopo  afferma,  invece,  che  il
 libretto   di   lavoro   (al   pari   dell'attestato   dell'ufficio  di
 collocamento) e' idoneo  a  dimostrare  l'esistenza  e  la  durata  del
 rapporto,  ma  non anche la misura della retribuzione; per il Tribunale
 di Torino, trattandosi pur sempre di datori di lavoro privati,  neppure
 i  suddetti  libri  sarebbero  documenti di data certa.  E quest'ultimo
 giudice lamenta ancora: che il lavoratore non ha mai avuto  il  diritto
 di controllare nei suddetti libri l'effettivo versamento dei contributi
 e  la  loro  esattezza; che tale verifica non gli e' consentita neppure
 sulla base degli estratti -  conto;  che  il  libretto  di  lavoro  non
 sarebbe obbligatorio.
     A  parte  le  considerazioni  di carattere generale che appresso si
 faranno sull'asserita impossibilita', e' intanto agevole avvedersi  che
 non  tutte  le  affermazioni sopra riassunte trovano convalida nei dati
 normativi disciplinanti la materia e che  alcune  appaiono  addirittura
 ininfluenti.  A tacer d'altro, l'obbligatorieta' del libretto di lavoro
 e  dell'estratto  -   conto,   dell'indicazione,   in   questo,   della
 retribuzione,  nonche'  dei  relativi  importi  versati  all'INPS e, in
 quello,   della   qualifica   professionale,    dell'ammontare    della
 retribuzione,  delle  date di assunzione e cessazione dal lavoro, etc.,
 come il diritto del lavoratore di prendere visione del libretto in ogni
 momento, risultano, contrariamente a quanto sostenuto nell'ordinanza de
 qua, lestualmente disposti nei regimi normativi, di cui  al  precedente
 paragrafo  3,  lettere  b)  e  c).    E, una volta negato - ma dal solo
 Tribunale   di   Torino,   giacche'   il   Pretore   di   Arezzo,   pur
 contraddicendosi,  come  si e' gia' rilevato, riconosce, invece, che il
 lavoratore "con il libretto  di  lavoro  o  attestato  dell'ufficio  di
 collocamento  puo'  dimostrare  l'esistenza e la durata del rapporto" -
 qualsiasi valore probatorio a  qualsiasi  documento  previsto  in  quei
 sistemi previdenziali, e' ininfluente che il libretto di lavoro dovesse
 rimanere  depositato  presso  il  datore  di lavoro o che il lavoratore
 potesse, o meno,  controllare  libri  -  paga,  libri  -  matricola  ed
 estratto  -  conto.  Il  vero e' che il ragionamento e' costruito tutto
 sulla rilevata impossibilita' ed  a  questa  costantemente  ricondotto,
 tenendo  presente  l'art.  2704 c.c. ed il modello di scrittura privata
 che  collimi  con  qualcuna delle ipotesi descritte nel primo comma del
 citato articolo. A ben guardare, le varie censure  ed  i  vari  profili
 sono   finalizzati   alla  dimostrazione  dell'impossibilita',  per  il
 lavoratore, di fornire un documento che corrisponda a quel  modello  e,
 quindi,  della  non  ragionevolezza  che all'istituto deriverebbe dalla
 limitazione del diritto di  difesa,  conseguente  al  divieto  di  dare
 ingresso a prove generiche.
     10)   Nel   giudizio   previdenziale  ordinario  il  giudice  puo',
 d'ufficio, ammettere qualsiasi mezzo di prova, " anche fuori dei limiti
 stabiliti dal codice civile, ad eccezione  del  giuramento  decisorio".
 Cosi'  dispone  l'art.   421, secondo comma, c.p.c. nel testo novellato
 con la legge 11 agosto 1973, n.  533,  che  percio'  e'  lex  posterior
 rispetto  all'opposta  statuizione  contenuta  nell'impugnata norma del
 1962.
     La Corte di Cassazione, ravvisando nella disciplina del  codice  di
 rito  la regola generale, ed in quella dell'istituto della costituzione
 di una rendita vitalizia  un'eccezione,  ha  affermato  che  questa  e'
 fondata  su  una  precisa  ratio  -  l'intervento  di  impedire manovre
 fraudolente - e che percio', benche' anteriore, non e'  stata  travolta
 dalla regola generale, benche' successiva. Ma - osserva in contrario il
 Pretore  di  Torino  -  tale deroga ai principi generali vigenti per il
 processo previdenziale risulta non  ragionevole,  quando  si  consideri
 che,  in  conseguenza  della  "  volonta'  di evitare collusioni Ira ex
 datore ed ex dipendente", "il diritto che pure  in  astratto  la  legge
 riconosce al lavoratore" rimane praticamente privo di "effettivita'". E
 nel  caso  di  specie  - soggiunge lo stesso giudice, appellandosi alla
 giurisprudenza di questa Corte - se si preclude alla parte  di  esibire
 mezzi  di  prova,  le  si  nega  o  limita  il  potere  processuale  di
 rappresentare al giudice la realta' dei fatti ad essa favorevoli. Tanto
 vero che lo stesso legislatore "in un  momento  storico  successivo  ha
 modificato   i   principi   che  reggono  il  giudizio  previdenziale",
 facoltizzando il giudice, col menzionato art. 421 c.p.c., ad  ammettere
 d'ufficio qualsiasi mezzo di prova.
     Al  fondo  del  problema sollevato dall'ordinanza de qua - se possa
 ritenersi ragionevole il divieto per il giudice  di  ammettere,  in  un
 giudizio   avente   per   oggetto  omissioni  contributive  prescritte,
 qualsiasi mezzo di prova - e' pur sempre  ravvisabile  l'impossibilita'
 gia'   riscontrata   nelle  altre  ordinanze,  non  altro  significando
 l'affermazione che, conseguentemente,  la  norma  risulta  priva  di  "
 effettivita'".  E  dalla  soluzione  in  senso  positivo o negativo del
 quesito dipende la esattezza, o meno, della giurisprudenza della  Corte
 di  Cassazione,  che  ha  negato  l'efficacia abrogativa dell'art. 421,
 secondo comma, c.p.c., come novellato nel 1973, nei confronti dell'art.
 13, quinto comma, legge n. 1338 del 1962.
     11) Al principio di ragionevolezza, chiamato in causa  dal  Pretore
 di Torino a riguardo dell'asserita violazione dell'art. 24 Cost., fanno
 riferimento anche gli altri due giudici a quibus, i quali denunciano la
 congiunta  violazione  degli  artt.  24 e 3 Cost., al quale ultimo, del
 resto, si richiama pure il Pretore di Torino, con implicito rinvio agli
 argomenti svolti in ordine all'art. 24 Cost.
     "L'equiparazione del datore di lavoro e del dipendente" - si  legge
 nell'ordinanza  del  Pretore di Arezzo - "non e' ragionevole, in quanto
 obbliga il secondo ad un onere probatorio di  intensita'  ben  maggiore
 rispetto  al  primo".    A  sua  volta, il Tribunale di Torino denunzia
 l'irrazionalita'  dell'impugnata  norma,  non  solo  perche'  "equipara
 irrazionalmente e disciplina in  modo  eguale  situazioni  radicalmente
 diverse",  quali  sarebbero  l'accertamento  in  sede  amministrativa e
 quello  in  sede  giudiziaria,  ma   anche   perche'   stabilisce   una
 "irrazionale  diversita'  di trattamento tra i modi in cui i lavoratori
 possono in genere far valere i loro diritti... ed  il  modo  in  cui...
 "possono  far  valere..."  il  diritto  alla  rendita vitalizia sancito
 dall'art. 13 legge cit.". E la conseguenza  che  ne  trae  il  suddetto
 giudice  e'  ancora  e sempre la stessa:  l'impossibilita' che la norma
 impugnata possa " trovare applicazione a cura del lavoratore ed in sede
 giudiziaria", in quanto richiede ai lavoratori "una  prova  documentale
 di  data certa" che essi, a causa di condizioni soggettive ed oggettive
 non certo loro imputabili, non sono assolutamente (e, si potrebbe dire,
 per definizione) in grado di fornire".
     12) Ora, rinviando  al  seguito  ogni  considerazione  in  tema  di
 documenti di data certa, non sembra a questa Corte che l'istituto della
 costituzione  di  rendita  vitalizia,  quale disciplinato dall'art. 13,
 quinto  comma,  legge  n.    1338  del  1962,  possa  dirsi  privo   di
 ragionevolezza,  se  esaminato  alla  stregua  del  sistema  nella  sua
 complessa realta', e non solo  in  riferimento  alle  richiamate  norme
 costituzionali,  sia  pure  valutandole,  come  auspica l'ordinanza del
 Tribunale  di  Torino,  nella  loro  "reciproca   integrazione"   e   "
 coordinamento".
     La  norma  impugnata  rappresenta il superamento della prescrizione
 dei contributi assicurativi, stabilita  in  cinque  anni  dall'art.  55
 della  legge n. 112 del 1935 ed elevata a dieci anni dall'art. 41 della
 legge n. 153 del 1969.   Trattasi, dunque,  di  una  norma  di  favore,
 equipollente in sostanza ad una rimessione in termini - e non rileva il
 quesito se per caso non si configuri piu' propriamente una decadenza -,
 che  pertanto costituisce un istituto a se', il quale perderebbe la sua
 specificita'  e  verrebbe  ricondotto   nel   sistema   generale,   ove
 l'interprete facesse applicazione a suo riguardo delle regole comuni di
 questo,  anziche'  delle  regole  eccezionali  proprie  di  quello.  Il
 legislatore  ha  inteso  favorire  i  lavoratori  aventi   diritto   di
 accensione della rendita, presumendone piuttosto limitato il numero, ed
 impedire, nello stesso tempo, che del beneficio potesse avvalersi anche
 la  ben piu' ampia categoria dei non aventi diritto. In vista di questo
 scopo, che e' quello di evitare che germoglino  posizioni  assicurative
 fittizie,  non potrebbe seriamente dirsi che sia priva di fondamento e,
 quindi, arbitraria la diffidenza del legislatore  nei  confronti  delle
 prove   testimoniali,   degli   atti  di  notorieta',  etc.,  cui,  ne'
 infondatamente,  ne'  arbitrariamente,  stante  la  natura  eccezionale
 dell'istituto,  dispone  non  doversi  riconoscere efficacia probatoria
 autonoma  dell'effettiva  esistenza  del  rapporto  di  lavoro.      La
 considerazione  e'  ancor  piu'  valida  nei  casi  in cui le omissioni
 contributive vengono fatte risalire a periodi assai lontani nel  tempo,
 che,  secondo  la  comune esperienza giudiziaria, possono attingere, ed
 anche oltrepassare, mezzo secolo, e vengono denunciate  a  distanza  di
 molti  anni  nei  confronti  di  datori  di  lavoro deceduti o di ditte
 scomparse. E  non  occorre  dire  che  la  limitazione  in  materia  di
 disponibilita'   dei   mezzi  di  prova,  la  quale  deriva  dalla  non
 ingiustificata diffidenza di cui sopra,  contenendo  l'onere  a  carico
 dell'ente  previdenziale,  in definitiva tutela un patrimonio pubblico.
 Da ultimo, ancor meno potrebbe la norma impugnata essere ritenuta priva
 di  ragionevolezza  nel sistema attuale, nel quale, a sensi dell'art. 1
 della legge n.   153 del 1969, lo Stato  ha  assunto  "a  suo  completo
 carico l'onere della pensione sociale".
     13)  L'impossibilita'  di  applicazione dell'art. 13, quinto comma,
 della legge n. 1338 del 1962 - indipendentemente da quanto si e'  detto
 sul  denunciato vizio di non ragionevolezza che inficierebbe il sistema
 - risulta, in fondo, il motivo conduttore di tutto il ragionamento, che
 sorregge e lega tra loro le varie censure. E', infatti, ancora e sempre
 la "pratica impossibilita' per il lavoratore di far valere in giudizio"
 l'istituto della rendita vitalizia" - afferma il Tribunale di Torino  -
 che  "  comporta  inoltre  specifica violazione dell'art. 38, secondo e
 quarto comma, Cost.", e percio' non solo degli artt. 24 e 3 Cost.
     Una norma  assolutamente  inapplicabile  e',  tuttavia,  congettura
 implausibile,  giacche'  una  proposizione vuota di contenuto normativo
 sara', semmai, una norma  apparente,  se  fosse  immaginabile  che  per
 disavvertenza  del  legislatore  sia  stata  approvata e per negligenza
 degli interessati, diretti ed indiretti, riesca a  durare  incontestata
 da  oltre  un  ventennio.  Senonche',  il  giudizio  di  ragionevolezza
 presuppone  l'applicabilita'  delle  norme,  e  conseguentemente,   non
 essendo pensabile nella specie che il legislatore abbia riconosciuto al
 lavoratore in astratto il diritto di accensione della rendita vitalizia
 e  -  addirittura  contestualmente  -  glielo  abbia  disconosciuto  in
 concreto, non puo' chiedersi  al  giudice  delle  leggi  una  pronuncia
 caducatoria  per  l'asserita  non operativita' della relativa norma. Il
 giudice del merito non  puo'  sottrarsi  al  compito,  ineludibile  nel
 nostro ordinamento, di applicare la norma secondo quell'interpretazione
 che   le  consenta  di  concretamente  e  meglio  realizzare  lo  scopo
 perseguito dal legislatore.
     14) Il problema, dunque, va risolto in via ermeneutica, e pertanto,
 non gia' eliminando dal mondo dei valori giuridici  la  norma  che  non
 irragionevolmente  ha  disposto,  per  un  istituto  speciale, speciali
 limiti probatori, bensi' interpretandola. Se cosi' e', non  puo'  dirsi
 che  giovi alla soluzione limitarsi ad addurre gli inconvenienti che la
 disciplina delle prove rivela, quando il  lavoratore  abbia  interesse,
 come  nei  casi sub judice, all'accertamento delle date relative al suo
 rapporto di lavoro. E proprio inconvenienti si  limita  ad  addurre  il
 Tribunale   di   Torino,  quando,  non  solo  afferma  esattamente  che
 l'avvenuta prestazione del lavoro e' un fatto  non  negoziale,  che  la
 legge  civile  non richiede per il contratto di lavoro la forma scritta
 neppure ad probationem,  e  che  la  legge  fiscale  non  prescrive  la
 registrazione  a  termine fisso del contratto di lavoro scritto, ne' la
 denuncia del contratto di lavoro verbale, ma aggiunge altresi' che  non
 si  addicono alla fattispecie non negoziale in parola quelle previsioni
 (morte  sopravvenuta,  impossibilita'  di  sottoscrivere  un  eventuale
 documento che rechi i dati richiesti, etc.), alle quali soltanto l'art.
 2704  c.c.  riconosce idoneita' a conferire data certa ad una scrittura
 privata non autenticata.
     Si deve tuttavia osservare al riguardo che il richiamo al  predetto
 art.   2704   c.c.,  in  se'  corretto,  appare  tuttavia  circoscritto
 esclusivamente al primo comma. L'art.  2704 c.c., invece, si ripartisce
 in tre distinti commi, riguardanti tre distinte ipotesi: che si  tratti
 di scrittura privata consistente nelle dichiarazioni delle parti (primo
 comma);   che  si  tratti  di  scrittura  privata  consistente  in  una
 dichiarazione  unilaterale non destinata a persona determinata (secondo
 comma); che si tratti di  una  scrittura  privata  consistente  in  una
 "quietanza"  (terzo  comma).  Prescindendo  dal secondo comma, il quale
 attiene alle dichiarazioni rivolte alla generalita', appare evidente la
 netta contrapposizione, meglio che distinzione,  fra  il  primo  ed  il
 terzo  comma,  di  cui  quello disciplina l'ipotesi di dichiarazioni di
 volonta'  delle  parti,   mentre   questo   disciplina   l'ipotesi   di
 dichiarazioni  di  scienza,  alla cui categoria appartengono appunto le
 "quietanze". Dalla precisazione di cui sopra si deduce anzitutto  -  in
 coerenza  del resto col riconoscimento, da parte dello stesso giudice a
 quo, della natura di fatto non negoziale dell'avvenuta prestazione  del
 lavoro  -  che,  per  dare  operativita' alla norma impugnata, non puo'
 chiedersi sussidio al primo comma dell'art. 2704 c.c. Ma  e'  possibile
 dedurne    altresi',    in    relazione   all'esigenza   di   logicita'
 dell'ordinamento giuridico, che nei giudizi ex art. 13,  quinto  comma,
 della  legge  n. 1338 del 1962, purche' sia incontestata l'autenticita'
 del documento e si tratti solo di accertare la sua data,  "il  giudice,
 tenuto  conto  delle  circostanze,  puo'  ammettere  qualsiasi mezzo di
 prova", come previsto dal terzo comma del menzionato art. 2704 c.c.  E,
 stante  l'imprescindibilita'  del  documento  e  della sua incontestata
 genuinita', non puo' non ritenersi  escluso,  contrariamente  a  quanto
 opina  il  Pretore  di  Torino,  il  ricorso, sia all'art. 2729 c.c., e
 percio' alla  presunzione,  sia  all'art.  2724,  n.  1,  che  riguarda
 l'ipotesi  di  "un  principio  di prova per iscritto", il quale "faccia
 apparire verosimile il fatto allegato".  L'esistenza  del  rapporto  di
 lavoro,  insomma,  non  deve  solo  apparire  verosimile,  ma risultare
 documentalmente certa.
     Un'attenta lettura delle "istruzioni di servizio n. 11 ", impartite
 in materia dallo stesso istituto previdenziale nel  1968  -  e  tuttora
 applicate -, mostra che la conclusione di cui sopra non trova smentita,
 bensi  implicita  conferma, nelle dette istruzioni. Frammiste, infatti,
 ivi alle ineccepibili  affermazioni  che  non  deve  darsi  ingresso  a
 documenti  "costituiti  allo specifico fine di usufruire della facolta'
 concessa  dall'art.  13"  e  che  "in  nessun  caso  puo'  considerarsi
 documentazione  idonea  degli  elementi del rapporto di lavoro la prova
 testimoniale (atti di notorieta' ed altre dichiarazioni equipollenti)",
 si  rinvengono  le  affermazioni  che   sono   ammissibili   non   solo
 "dichiarazioni,  attestazioni, ecc. redatte" anche in epoca successiva"
 e "le lettere di assunzione e di licenziamento,  i  benserviti",  bensi
 pure  "le buste paga, i libretti di lavoro, gli estratti dei libri paga
 e matricola" e  persino  "tutti  i  documenti  che,  comunque,  abbiano
 attinenza con il rapporto di lavoro dichiarato".
     15) L'onere probatorio, che il lavoratore, a sensi del quinto comma
 dell'art.  13 legge n. 1338 del 1962, - ma anche il datore di lavoro, a
 sensi del quarto comma  -  e'  tenuto  ad  assolvere  per  ottenere  la
 costituzione  della rendita vitalizia, puo' riguardare: a) la effettiva
 esistenza del rapporto  di  lavoro;  b)  la  durata  dello  stesso;  c)
 l'ammontare  della retribuzione percepita. Trattasi di "fatti" tra loro
 intimamente legati, eppure giuridicamente distinguibili,  anche  se  la
 norma  di  cui  al comma quarto sembri prescrivere i "documenti di data
 certa" per tutti i "fatti"  in  parola,  mentre  il  comma  quinto  non
 accenna  alla  durata.  Il  "fatto"  sub a) attiene fuor di ogni dubbio
 all'an - e percio'  e'  il  presupposto  legittimante  l'esercizio  del
 diritto  di  accensione della rendita - mentre il "fatto" sub c), a sua
 volta,  attiene  fuor  di  ogni  dubbio al quantum, ed e' rapportato al
 "fatto" sub b). La rilevanza di  tale  distinzione  appare  innegabile,
 potendosi  sulla sua base affermare che, se i "fatti" di cui sopra sono
 giuridicamente distinguibili e distinti, non v'e' motivo  di  applicare
 ad  essi  la medesima disciplina probatoria. In altre parole, una volta
 provata documentatamente l'effettiva esistenza del rapporto di  lavoro,
 ben puo' il giudice ammettere mezzi diversi dai documenti di data certa
 per  raggiungere  la  prova della durata di esso e dell'ammontare della
 retribuzione.
     In questo senso - almeno limitatamente  al  "fatto"  sub  c)  -  si
 rivela  orientato  anche  l'INPS.  Nelle  gia menzionate "istruzioni di
 servizio", infatti, e' dato leggere  che,  ove  "sia  stata  dimostrata
 l'esistenza  e  la durata del rapporto di lavoro dichiarato, nonche' la
 qualifica rivestita", ma manchi la  "prova  documentale  dell'ammontare
 della  retribuzione, le domande ex art. 13 possono essere accolte sulla
 base di altri elementi, ugualmente idonei a dimostrare l'importo, come,
 ad esempio, le risultanze degli appositi contratti collettivi all'epoca
 vigenti, le tabelle degli stipendi fissate  nell'ambito  aziendale,  il
 taglio  delle  marche applicate per periodi immediatamente precedenti o
 successivi a quelli oggetto della costituzione di  rendita,  il  taglio
 delle marche applicate a favore di lavoratori che, all'epoca prestavano
 servizio nella stessa azienda e con la qualifica rivestita da colui che
 ha  subito  l'omissione  contributiva e, in ultimo, le dichiarazioni di
 responsabilita' rese dagli interessati ai sensi dell'art. 4 della legge
 4 gennaio 1968, n. 5".
     Alla luce  delle  suesposte  considerazioni  deve  dirsi  priva  di
 fondamento  la  specifica  censura,  che  il  Pretore  di  Arezzo ed il
 Tribunale di Torino formulano anche in ordine alla prova dell'ammontare
 della retribuzione, lamentando l'uno che il lavoratore  "non  puo'  mai
 provare  documentatamente  la  misura della retribuzione", e sostenendo
 piu' diffusamente l'altro: che "il lavoratore si trova  in  grandissima
 difficolta'  di  provare  con  documenti  scritti di data certa, sia il
 fatto non negoziale dell'avvenuta prestazione  del  lavoro,  della  sua
 durata  e  tanto  piu'  della misura della retribuzione"; che "la prova
 (anche) della misura della retribuzione puo' essere data esclusivamente
 mediante documenti di data certa"; che e' "praticamente impossibile, se
 non addirittura impossibile" offrire la prova della  retribuzione;  che
 "la  prova  scritta  con  data  certa  e' richiesta per la misura della
 retribuzione".
     16) Come si e' anteriormente  rilevato,  le  censure  di  cui  alle
 ordinanze in oggetto sono un intreccio, nel quale gli argomenti dedotti
 in riferimento ad un parametro non si lasciano agevolmente sceverare da
 quelli  dedotti  in riferimento ad altri parametri, costituendo gli uni
 il reciproco supporto degli altri. Cio'  vale  soprattutto  per  quanto
 riguarda   l'asserita   violazione   dell'art.  3  Cost.,  che  risulta
 denunciata prevalentemente in connessione con l'art. 24 Cost., e di cui
 percio' i principali profili sono stati  gia'  oggetto  di  esame.  Ne'
 occorre  indugiare  su  quelli  residui,  che  rivelano una ben fragile
 consistenza. Quando si lamenta, infatti, - come fanno, tanto il Pretore
 di Arezzo, quanto il Tribunale di Torino  -  che  datore  di  lavoro  e
 lavoratore  debbano  fornire  le  stesse prove (onde la "irrazionalita'
 dell'eguaglianza di trattamento per le due posizioni diverse"),  sembra
 sfuggire  ai due giudici a quibus che nella specie non e' configurabile
 disparita' di trattamento dal punto di  vista  sostanziale,  nel  senso
 che,  provengano  le  prove  dal  datore  di  lavoro  o dal lavoratore,
 beneficiario e' pur sempre e soltanto quest'ultimo. Ed in  quanto  alla
 pretesa  disparita'  tra  dipendenti  di piccole imprese, da un lato, e
 quelli pubblici o di grosse imprese, dall'altro, - cui conseguirebbe la
 violazione anche  del  capoverso  dell'art.  3  Cost.,  in  quanto  non
 verrebbero   rimosse   le  condizioni  oggettive,  che  indurrebbero  i
 "lavoratori piu' deboli" ad accettare il  lavoro  "nero"  -,  non  puo'
 dirsi corretta la comparazione tra termini non omogenei. Ne' ha maggior
 pregio,  da  ultimo,  l'ulteriore  denuncia  di  violazione dell'art. 3
 Cost., cioe' di irrazionalita' dell'equiparazione tra  accertamento  in
 sede  amministrativa  ed  accertamento  in sede giudiziaria, risultando
 pienamente giustificata anche in sede giudiziaria la preoccupazione del
 legislatore di non far dipendere dalle prove  generiche  l'accertamento
 dell'effettiva  esistenza  di  rapporti  di  lavoro  che  possono anche
 risalire a periodi piuttosto remoti.
     17) L'art. 38 Cost. e' invocato dal Pretore di Torino senza  alcuna
 motivazione,  e  dal  Tribunale  della  stessa  citta'  con motivazione
 assolutamente  identica  a  quella  offerta  a  sostegno  dell'asserita
 violazione  del  diritto  di  difesa. In sostanza, dopo avere ricordato
 quanto dispone l'art. 38, secondo e quarto comma, Cost., - cioe', che i
 lavoratori hanno diritto che siano  preveduti  ed  assicurati  i  mezzi
 adeguati  alle  loro esigenze per vecchiaia, invalidita', superstiti, e
 che  a  tali  compiti  si  deve  provvedere  con  organi  ed   istituti
 predisposti o "integrati" dallo Stato - si afferma che l'impugnato art.
 13  della  legge n. 1338 del 1962, pur mirando ad attuare il menzionato
 precetto costituzionale, in realta' pone condizioni tanto  onerose,  da
 rendere impossibile l'applicazione dell'istituto. Valgono pertanto, nei
 confronti  di questo motivo, gli stessi argomenti in precedenza esposti
 a riguardo della censura formulata in riferimento all'art. 24 Cost.
     18)  La  norma  impugnata  contrasterebbe  altresi',   secondo   il
 Tribunale di Torino, con l'art. 36, primo comma, Cost., "nella parte in
 cui  la  prova  scritta con data certa e' richiesta per la misura della
 retribuzione percepita anche quando il lavoratore non assuma  di  avere
 percepito   una   retribuzione   superiore  al  minimo  previsto  dalla
 contrattazione collettiva" o assuma addirittura di averne percepito una
 "inferiore  o  nessuna  retribuzione".    La  censura,   cosi'   com'e'
 formulata,  non e' di facile intelligenza. Si afferma anzitutto che "in
 forza dell'art.    36,  primo  comma,  Cost.,  le  retribuzioni  minime
 previste dai contratti collettivi sono applicabili anche ai rapporti di
 lavoro  le  cui  parti  non  aderiscano  ai  sindacati stipulanti" e si
 conclude nel senso che, comunque, "occorre fare riferimento,  anche  ai
 fini  dell'istituto  di  cui  all'art.  131. cit., non gia' alla misura
 della retribuzione effettivamente percepita dal lavoratore ma a  quella
 minima  di  contrattazione  collettiva che egli avrebbe avuto diritto a
 percepire". Ora, venendo in questione l'ammontare  della  retribuzione,
 valgono  anche  qui  le  considerazioni  gia'  fatte  in  proposito  al
 paragrafo 15.