ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 324 del codice
 penale, in  relazione  all'art.  357,  n.  1,  dello  stesso  codice,
 promosso  con  ordinanza emessa il 6 marzo 1987 dalla Corte d'Appello
 di Torino nel procedimento penale a carico di Chesta Mario ed  altri,
 iscritta  al  n.  308  del registro ordinanze 1987 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  32,  prima  serie  speciale,
 dell'anno 1987;
    Udito  nella  Camera  di  Consiglio del 27 gennaio 1988 il Giudice
 relatore Ettore Gallo;
                           Ritenuto in fatto
    Con  ordinanza 6 marzo 1987 la Corte d'Appello di Torino sollevava
 questione di legittimita' costituzionale dell'art. 324  cod.pen.,  in
 relazione  all'art.  357 n. 1 stesso codice, con riferimento all'art.
 3, primo co. Cost.
    Nell'ordinanza   la   Corte  piemontese  ricordava  che  la  Corte
 Costituzionale con sent. 1› luglio  1983,  n.  205,  pur  dichiarando
 inammissibile  analoga  ordinanza  del  Tribunale di Torino in questo
 stesso  processo,  a  causa  di  difetto  di  motivazione  in   punto
 rilevanza,  aveva pero' esaminato questioni affini sollevate da altri
 giudici di merito. A proposito di queste ultime  questa  Corte  aveva
 osservato  che  il problema andava posto globalmente, in relazione al
 complesso delle norme penali applicabili agli  istituti  di  credito,
 concludendo   che   "spetta  alla  discrezionalita'  del  legislatore
 stabilire in quali termini il diritto  penale  dell'impresa  bancaria
 debba  inquadrarsi  e  risolversi  in  un  piu'  ampio diritto penale
 dell'impresa" determinandone le fattispecie piu' adeguate.
    Dopo  tale  decisione, pero', si erano verificati eventi normativi
 di eccezionale rilievo, quali la legge delega 5 marzo 1985 n. 74 e il
 Decreto presidenziale delegato 27 giugno 1985 n. 350 che avevano dato
 attuazione alla  Direttiva  12  dicembre  1977  del  Consiglio  della
 Comunita' europea. Nel primo articolo del Decreto si disponeva: "...c
 he l'attivita' di raccolta  del  risparmio  fra  il  pubblico,  sotto
 qualsiasi  forma, e di esercizio del credito, ha carattere d'impresa,
 indipendentemente dalla natura pubblica o privata degli enti  che  la
 esercitano". Il che rappresentava sicuramente un'innovazione rispetto
 all'art. 1 della vecchia legge bancaria 7 marzo 1938 n. 141,  che  le
 stesse attivita' definiva "funzioni d'interesse pubblico".
    L'ordinanza da' atto che, sulla base della nuova normativa, taluni
 giudici di merito hanno senz'altro ritenuto non piu' applicabili agli
 operatori  bancari,  dipendenti  da enti pubblici economici, le norme
 che  incriminano  gli  illeciti  dei  pubblici  ufficiali  (o   degli
 incaricati  di pubblico servizio) contro la pubblica amministrazione,
 ma  bensi'  eventualmente  quelle  relative  ai  delitti  contro   il
 patrimonio,  gia'  applicabili  ai  dipendenti  delle banche private.
 Ciononostante, e anche in presenza di qualche pronunzia contraria  di
 talune Sezioni della Corte di Cassazione, ritiene la Corte piemontese
 che sia di ostacolo a quella favorevole interpetrazione il  permanere
 nell'ordinamento  della  nozione  di  pubblico  ufficiale  cosi' come
 configurata nell'art. 357 cod. pen. E cio' perche'  la  norma  penale
 non distingue, all'interno della categoria degli impiegati degli enti
 pubblici che esercitano funzioni amministrative, gli  impiegati  alle
 dipendenze   di   istituti  bancari  appartenenti  ad  enti  pubblici
 economici.
    Per  tal  modo,  pero', secondo l'ordinanza di rimessione, viene a
 determinarsi una ingiustificata disparita' di trattamento rispetto al
 regime  penale  che  disciplina  le  attivita'  dei  dipendenti delle
 aziende private di credito, e un conseguente dubbio  di  legittimita'
 costituzionale  nei  confronti  della  norma  impugnata  rispetto  al
 parametro di cui all'art. 3 primo co., Cost.
    Concorda   peraltro   l'ordinanza   con  il  rilievo  della  Corte
 Costituzionale, secondo cui la questione investe un  ben  piu'  vasto
 problema,  ma  cio'  non  puo'  essere  di  ostacolo alla risoluzione
 frattanto della questione proposta, anche perche' la Corte  ben  puo'
 avvalersi  dei  poteri estensivi di cui all'art. 27 della l. 11 marzo
 1953 n. 87.
                         Considerato in diritto
    1.  -  L'impostazione  data al problema dall'ordinanza della Corte
 piemontese e' suggestiva ma non ha fondamento.
    Va  subito  escluso  innanzitutto  che la questione proposta possa
 investire l'art. 324 cod.pen. , che si limita a  punire  il  pubblico
 ufficiale  che  prende  interesse  privato  in un atto della pubblica
 amministrazione  presso  la  quale  presta  servizio.  Vero  e'   che
 l'ordinanza  lo  impugna  per  la  sua  relazione con l'art. 357 n. 1
 cod.pen. , ma cio' dimostra appunto che, in  ipotesi,  e'  proprio  a
 quest'ultima  norma, e soltanto a questa, cui la censura - cosi' come
 proposta - andrebbe rivolta, dato che l'art. 324, lungi  dall'offrire
 alcuna  nozione  del  pubblico  ufficiale,  presuppone  integralmente
 quella dettata dall'art. 357 n. 1 cod. pen.
    Senonche',  poi,  non  si  vede  nemmeno  perche' mai quest'ultima
 disposizione dovrebbe essere incompatibile con quella di cui all'art.
 3, primo co. Cost.
    Il  legislatore, infatti, si limita ad avvertire che, agli effetti
 della  legge   penale,   intende   considerare   pubblici   ufficiali
 innanzitutto  gli  impiegati dello Stato o di altro ente pubblico che
 esercitano, permanentemente o temporaneamente,  una  delle  tre  note
 funzioni  puubliche, che evidentemente - nel pensiero del legislatore
 del '30 - erano intese come espressione dei poteri fondamentali dello
 Stato, secondo i principi della dottrina formale-sostanziale. Oggi e'
 ben noto che, in  realta',  la  separazione  dei  poteri,  in  quanto
 strumento  garentista,  puo'  ben  coesistere  con  una  sistemazione
 concettuale delle funzioni  anche  diversa,  nel  senso  che  ciascun
 potere  puo'  essere  attributario di taluna delle dette funzioni. Ma
 cio' non sposta, comunque, il carattere  astratto  e  generale  della
 nozione  cosi'  come e' delineata dalla norma impugnata, la quale non
 puo' e non deve portare alcuna distinzione  nell'ampio  ambito  della
 categoria.
    Spetta  all'interpetre,  infatti,  e non al legislatore, stabilire
 poi quali sieno i pubblici impiegati che in concreto  esercitino  una
 delle  funzioni  elencate  dalla norma o addirittura, come accade nel
 caso di specie,quali sieno le  funzioni,  fra  quelle  esercitate  da
 pubblici  impiegati,  che  ricadano sotto la disciplina dell'articolo
 impugnato.
    2.  - Cio' chiarito, sul piano delle premesse, deve dirsi che oggi
 la  giurisprudenza  delle  Sezioni  Unite  penali  ha  superato  ogni
 precedente  perplessita',  e  anche  qualche incertezza delle Sezioni
 singole. Se la Corte d'Appello  di  Torino  avesse  potuto  conoscere
 l'esauriente  motivazione  dell'ultima  sentenza delle Sezioni Unite,
 depositata poco piu' di due  mesi  dopo,  probabilmente  non  avrebbe
 proposto  la  questione giacche', proprio sulle mutazioni intervenute
 nel sistema normativo dopo la  contraria  decisione  del  10  ottobre
 1981,  la  recente  sentenza  23 maggio 1987 n. 5 ha fondato la nuova
 giurisprudenza.
    Intanto,  correttamente  hanno  rilevato  le  Sezioni Unite che la
 sostituzione della espressione della vecchia legge bancaria "funzioni
 di interesse pubblico" con il termine "impresa" del decreto delegato,
 sta ad  indicare  una  scelta  del  legislatore  per  una  disciplina
 privatistica:  specie  ove  si  consideri  che dai lavori preparatori
 risulta respinto un emendamento soppressivo di quest'ultima locuzione
 che  mirava  proprio  ad  evitare di dare "una qualifica privatistica
 all'attivita'  bancaria",  condizionando  ulteriori  scelte  per   le
 prospettive di una disciplina penalistica dell'esercizio del credito.
    Attraverso  una  penetrante  analisi  della nuova legge, la citata
 sentenza ha messo  in  luce  quanto  sieno  mutati  i  termini  e  le
 condizioni gia' per accedere all'attivita' creditizia, anche mediante
 la riduzione dell'intervento  della  Banca  d'Italia  ad  un  compito
 meramente  ricognitivo  della  esistenza  delle condizioni richieste,
 senza alcun riguardo alle esigenze economiche di  mercato:  in  guisa
 che  da atto ampiamente discrezionale esso diventa atto dovuto. Ma la
 sentenza cita anche altri provvedimenti legislativi e  amministrativi
 che  hanno  progressivamente  realizzato  la liberalizzazione da ogni
 condizionamento nell'attivita' creditizia, da una parte  limitando  i
 controlli  dell'Organo  di  vigilanza  sull'efficienza  aziendale  e,
 dall'altra, abolendo vincoli e limiti  all'espansione  di  sportelli,
 anche a favore di banche estere.
    Ne  deriva  un  quadro  complessivo  che  colloca - come affermano
 testualmente le Sezioni Unite - "con  assoluta  certezza  l'ordinaria
 attivita'  bancaria,  indipendentemente dalla natura dell'ente che la
 esercita, nella sfera del privato".
    Ne'  deve  fuorviare  la  sopravvivenza  di direttive, controlli e
 obblighi  che  tuttora  permangono  nei  confronti   di   ogni   ente
 creditizio,  perche' essi non sono diversi da quelli previsti - anche
 in forme piu' penetranti - per altre  attivita'  economiche,  la  cui
 natura  privatistica  e'  universalmente  riconosciuta. E la sentenza
 cita, in proposito, il settore  assicurativo  privato  (ivi  compreso
 quello  delle  assicurazioni obbligatorie), il settore delle societa'
 di capitali, i fondi comuni di  investimento.  Questa  ingerenza  dei
 pubblici  poteri nelle attivita' economiche di imprese private trova,
 infatti, legittimazione nell'art. 41 Cost., senza che  cio'  tuttavia
 ne adulteri la natura.
    Cio'  non  esclude che rimangano sottoposte al diritto pubblico le
 attivita' degli enti creditizi pubblici che  esulano  dalla  gestione
 economica,  come  quella  che concerne la costituzione e l'estinzione
 dell'ente,  il  funzionamento  dei  suoi  organi  statutari   e,   in
 particolare   per  quanto  si  riferisce  alle  Casse  di  Risparmio,
 l'amministrazione e  la  destinazione  degli  utili  a  finalita'  di
 beneficenza, assistenza e pubblica utilita'.
    Qui  effettivamente  si  rivela  l'attivita'  amministrativa  come
 "funzione", nel suo originario significato di deputatio ad  finem,  e
 qui  riaffiora,  percio',  a  causa  dell'esercizio  di  un'attivita'
 tendente alla realizzazione dei  fini  pubblicistici  della  pubblica
 amministrazione,  la  qualita'  di  "pubblico  ufficiale"  di  chi la
 esercita; quella che lo fa soggiacere, ex  art.  357  cod.pen.  ,  al
 trattamento  giuridico-penale  riservato  agli  illeciti commessi dai
 pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.
    E  altrettanto dicasi per altre attivita' collaterali svolte dagli
 enti creditizi in campo monetario, valutario, fiscale e  finanziario,
 come  banche  agenti  o delegate in sostituzione di enti pubblici non
 economici: oppure per le attivita' connesse con i cosidetti  "crediti
 di scopo legale", almeno fino all'attuale momento normativo.
    Da  tutto  cio'  deriva  che  il  commercio  del  denaro, sia esso
 esercitato da Istituti bancari di  diritto  pubblico  o  privato,  e'
 attivita'  concorrenziale  d'impresa  privata  e,  come tale, esclude
 l'applicabilita' delle norme penali previste dal Capo  I  del  Titolo
 Secondo del codice penale, perche' gli impiegati degli enti creditizi
 pubblici, quando esercitano la detta attivita',  non  esercitano  una
 pubblica funzione amministrativa.
    Questa   Corte,  percio',  condivide  completamente  le  accennate
 considerazioni e conclusioni delle Sezioni Unite penali  della  Corte
 di Cassazione.